Al decreto del Ministero dell'interno del 31 gennaio 2019, così come a quello del 23 dicembre 2015 da esso modificato, la legge assegnava la limitata funzione di definire le caratteristiche tecniche, le modalità di produzione, di emissione e di rilascio della carta d'identità elettronica. In nessun modo l'attribuzione di una tale limitata funzione può però legittimare l'imposizione di modalità di elaborazione del software dedicato all'emissione delle carte di identità, tali da incidere - mediante l'escamotage di una istruzione apparentemente tecnica - su aspetti coperti da norme di grado costituzionale primario, quali il diritto al rispetto della vita privata e familiare e il diritto alla dignità umana. (Nella specie, il Tribunale imponeva al Ministero dell'Interno e per esso al Sindaco di Roma, quale Ufficiale di governo, di indicare - apportando al software e/o all'hardware predisposto per la richiesta, la compilazione, l'emissione e la stampa delle carte di identità elettroniche le modifiche che si rendessero all'uopo necessarie - le qualifiche "neutre" di "genitore" in corrispondenza dei nomi delle due ricorrenti, sulla C.I.E. della figlia minore.)
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Carta d’identità dei minori: via libera alla dicitura "genitore" anche per coppie omogenitoriali
La Corte di
Cassazione, con la sentenza n. 9216 dell’8 aprile 2025, ha ribadito
l’illegittimità del decreto ministeriale del 31 gennaio 2019 che obbligava
l’utilizzo esclusivo delle diciture “madre” e “padre” sulla carta d’identità
dei minori. Il caso riguarda una coppia di donne, una madre biologica e una
madre adottiva, che si sono viste negare la corretta rappresentazione della
propria genitorialità sul documento del figlio.
La Suprema Corte ha confermato le decisioni del Tribunale e della Corte d’appello di Roma, ordinando l’utilizzo del termine “genitore” o di un’espressione equivalente che rispecchi lo stato civile del minore.
Si è ritenuto che il decreto contrastasse
con l’art. 3, comma 5, del T.U.L.P.S. e producesse effetti discriminatori. È
stato inoltre ricordato che, secondo la Corte Costituzionale, l’adozione in
casi particolari crea legami familiari pienamente validi. La Cassazione ha
quindi sottolineato che l’identità dei genitori va rappresentata in modo
rispettoso della realtà giuridica e della dignità personale, senza forzature
linguistiche.
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Divorzio parallelo alla separazione: sì alla revoca dell’assegno di mantenimento in via provvisoria e urgente se mancano i presupposti per l’assegno divorzile
Corte di Appello di Firenze, Sez. I, Ord., 17.04.2025
“Il giudice del divorzio, nel momento
in cui assume i provvedimenti temporanei e urgenti che ritiene opportuni
nell’interesse delle Parti, ben può compiere un giudizio prognostico – salva
l’istruttoria del merito – sui presupposti (per an e quantum) dell’assegno
divorzile ed eventualmente sulla decorrenza della pronuncia sul punto che può
essere indicata secondo regola generale al momento della domanda oppure fissata
al successivo momento della pronuncia dell’ordinanza medesima, così incidendo,
nella sostanza, sulle sorti dell’assegno separativo di mantenimento”.
La Corte d’Appello di Firenze ha avuto modo di affrontare
un’interessante questione procedurale in materia di rapporti tra giudizio di
separazione e di divorzio.
Nel caso di specie, separazione e divorzio erano entrambi
pendenti in fase istruttoria. La prima secondo il rito pre-Cartabia, il secondo
in base all’attuale rito della famiglia.
Nel giudizio di scioglimento del matrimonio, con
provvedimento provvisorio e urgente ex art. 473 bis 22 cpc, il giudice revocava
l’assegno di mantenimento disposto in sede di separazione in favore della
moglie, sulla base però dei criteri per il riconoscimento dell’assegno
divorzile.
Infatti, il Tribunale riteneva –
tra le altre cose - che la parte non avesse allegato, se non in via del tutto
generica, di avere concretamente sacrificato proprie aspettative professionali
ovvero rinunciato a realistiche occasioni professionali e reddituali.
Inoltre, per il giudice risultavano essere già maturati i presupposti per la
pronuncia di divorzio, oltre al fatto che nel giudizio di separazione era stata
dispiegata domanda di revoca dell’assegno di mantenimento.
La donna presentava reclamo ex
art. 473 bis 24 cpc alla Corte d’Appello di Firenze, lamentando in primo luogo
che, in assenza di una pronuncia sullo status di scioglimento, “appariva
erroneo che il Tribunale, anziché valutare i presupposti per la permanenza o
meno del contributo al mantenimento, avesse invece orientato la propria
attenzione sui presupposti dell’assegno divorzile, che sono evidentemente
diversi, come diversa è la natura dei due assegni.”
In secondo luogo, la signora denunciava diversi errori nella ricostruzione dei
fatti e nella interpretazione delle prove documentali disponibili nella fase
sommaria del divorzio.
La Corte d’Appello, nel rigettare
la domanda, ha prima di tutto ricordato che – ugualmente alla abrogata
impugnazione ex art. 708 c. 4 cpc – il reclamo avverso i provvedimenti
provvisori e urgenti non può riguardare fatti o documenti successivi o non
sottoposti al giudice di primo grado e potrà
essere promosso solo in casi estremi di palese incongruità o erronea
motivazione del provvedimento, per consentire alle parti di opportunamente
modulare la propria condotta nel tempo immediato e nell’attesa di ulteriori
opportuni provvedimenti istruttori.
Nel merito, il Corte ritiene
infondata l’eccezione processuale.
Riportandosi alla giurisprudenza di legittimità più recente (Cass. n 1889/2025.,
n. 3852/2021) il Collegio ritiene che, in caso di separazione e divorzio
paralleli, il giudice del divorzio possa già in fase sommaria ex art. 473 bis
22 cpc modificare i provvedimenti separativi sulla base di un giudizio
prognostico riguardo la debenza del diverso assegno di divorzio.
Ciò non comporta una sovrapposizione di competenze, dal momento che permarrà
intatta al giudice della separazione la valutazione finale circa i ratei (e
gli eventuali arretrati) di assegno separativo di mantenimento, sulla base dei
presupposti che gli sono propri, fino alla indicata decorrenza della pronuncia
sull’assegno divorzile.
Chiarito quindi che del tutto
legittimamente il Tribunale ha applicato i criteri per l’assegno divorzile, la
Corte non ravvisa alcun errore macroscopico nella ricostruzione dei fatti o
nella valutazione del materiale probatorio, considerato peraltro che per
entrambi i giudizi deve ancora tenersi l’istruttoria.
Corte di Appello di Firenze, Sez. I, ord. 17.04.2025 (provvedimento completo)
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La famiglia che cambia e il diritto che unisce
La famiglia contemporanea non è più un modello unico,
definito e immutabile, ma un insieme fluido di relazioni, identità e percorsi
affettivi in costante trasformazione. Negli ultimi cinquant’anni abbiamo
assistito alla crisi della famiglia patriarcale e mononucleare, alla crescita
delle famiglie ricomposte, unipersonali, omogenitoriali, e di convivenze
affettive che non rientrano nei modelli tradizionali.
In questo scenario, il diritto di famiglia non ha
perso di senso, anzi: si è rafforzato nel suo ruolo di strumento di tutela e
riconoscimento. La grande riforma del 1975 ha segnato un passaggio decisivo da
un’impostazione autoritaria, incentrata sulla figura del marito come capo, a
una visione paritaria, in cui i coniugi sono soggetti autonomi, uguali e responsabili.
Il diritto non impone più dall’alto un modello
precostituito, ma si fa carico di proteggere le relazioni, accompagnare i
cambiamenti e garantire diritti e doveri equilibrati. Obblighi come la fedeltà,
l’assistenza morale e materiale, la collaborazione e la coabitazione non sono
più meri doveri formali, ma espressione concreta del patto d’amore e del
progetto condiviso.
Allo stesso modo, il rapporto con i figli è stato
profondamente ripensato, riconoscendo il diritto di ogni bambino a essere educato,
amato e ascoltato, indipendentemente dallo stato civile dei genitori. La
famiglia, pur nella sua molteplicità, resta un nucleo fondamentale per la
coesione sociale, la solidarietà e la crescita delle persone.
In un’epoca segnata dalla frammentazione e
dall’individualismo, il diritto di famiglia si conferma come un ponte tra
individuo e comunità, tra libertà personale e responsabilità collettiva. Non
più gabbia, ma struttura che accoglie, orienta e valorizza i legami. Perché,
come scriveva Dworkin, il diritto è anche un atto di fratellanza, un modo per
vivere insieme le nostre differenze.
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Coniugi narcisisti: niente delibazione dopo tre anni di matrimonio se la nullità ecclesiastica è solo per fragilità caratteriali
Con la Sentenza n. 2352 pubblicata
il 13.04.2025, la Corte di Appello di Roma ribadisce il principio che la sentenza
di nullità ecclesiastica del matrimonio durato più di 3 anni può essere
riconosciuta nell’ordinamento civile italiano solo in caso di esatta
corrispondenza a uno dei motivi di invalidità matrimoniale previsti
dall’ordinamento civile.
Non basta che il Tribunale
Ecclesiastico abbia annullato il matrimonio ex can 1095 nn 2 e 3 CIC a causa
del grave assetto personologico delle parti (narcisista l’uno e dipendente con
tratti narcisisti l’altra) per integrare anche il vizio civilistico della
incapacità di intendere e di volere ex art. 120 cc.
Per tale causa di invalidità,
infatti, sebbene non occorra la totale privazione delle facoltà intellettive o
volitive, sono tuttavia necessarie condizioni psichiche grandemente menomate o
scemate, al punto da impedire in ogni caso la formazione di una volontà
cosciente.
La Corte capitolina ripercorre la giurisprudenza di legittimità sull’art. 120
cc, stilando un vero e proprio catalogo:
“demenza senile, il deterioramento
cognitivo e una sindrome involutiva", una "patologia psicotica con
marcata disabilità neurologica e relazionale necessitante un trattamento
farmacologico e psicoterapeutico da parte di uno staff specializzato"
(Cass. 21 gennaio 2016, n. 1070), la "sindrome ansioso-depressiva",
ma soltanto se sia di "tale gravità da far venire meno la capacità di
autodeterminazione del soggetto e da seriamente inibire la sua capacità di
valutazione dell'atto" (Cass. 28 ottobre 2014, n. 22836, in tema di
dimissioni), "un grave deterioramento mentale con frequenti episodi di
disorientamento temporo-spaziale, amnesie... tanto da dover essere coadiuvato
dal figlio per eseguire le varie manovre semeiologiche in quanto non
comprendeva il significato di ciò che gli veniva detto" (Cass. 3 gennaio
2014, n. 59, sulla donazione), la "demenza arteriosclerotica
ingravescente" (Cass. 9 agosto 2011, n. 17130, nonché Cass. 2 dicembre
2022, n. 35466), la "oligofrenia di grado medio-lieve, insorto fin da bambina,
con chiaro deficit delle capacità critiche e di giudizio" (Cass. 13
ottobre 2022, n. 29962), l'essere il soggetto "afasico, incapace di
provvedere ad atti elementari, inclusa le incombenze della vita domestica e
quotidiana e la gestione del denaro, nonché mancante di orientamento
spazio-temporale" (Cass. 17 giugno 2021, n. 17381, nella vendita), il
"disturbo delirante paranoideo in fase di scompenso" della
lavoratrice al momento delle dimissioni (Cass. 13 febbraio 2019, n. 4232), lo
"stato soporoso e marasmatico" (Cass. 12 giugno 2020, n. 11272, in
tema di procura ad operare sul conto corrente>] (così in motivazione Cass
ord. n. 28307/2023)”.
Nel caso di specie, al contrario,
la Corte ravvisa solo delle insicurezze associate a vulnerabilità emotiva dei
soggetti in questione, ossia quelle "fragilità" che potevano
consentire agli interessati di rappresentarsi cognitivamente gli effetti
dell’atto, pur sperimentando una mera minorata condizione di autodeterminazione
che non è ancora un'incapacità d'intendere e volere.
Infatti, seppur il perito ecclesiastico
ha definito grave l’incidenza dello stato psicologico sugli aspetti relazionali
ed affettivi, nel valutarne l’incidenza sulla capacità di autodeterminarsi si è
invece limitato a sostenere che le parti “non erano sufficientemente libere”
per prestare il proprio consenso; e infatti il Tribunale Interdiocesano ha
concluso per la nullità per “mancanza di amore autentico” e “incapacità
di mettersi in discussione”.
La Corte D’Appello chiarisce inoltre
che la delibazione su istanza di una sola parte va introdotta con citazione
secondo il rito di primo grado post-riforma Cartabia, mentre segue il rito
camerale con ricorso solo in caso di domanda congiunta delle parti.
Ancora, ricorda che non è possibile richiedere una CTU nel giudizio di
delibazione e che la sospensione ex art. 295 cpc non opera in caso di parallela
pendenza di un giudizio di divorzio.
Corte Appello Roma, sez. famiglia, 13.04.2025, n. 2352 (download provvedimento)
Indietro<!--#4DTEXT ad_dataCreazioneL{al_IDArticolo}--> : Undefined
Tutela delle minori tra comunità e rientro in famiglia: la scelta del Tribunale di Matera
Accolta la proposta del Curatore Speciale: permanenza temporanea in struttura e progressivo ritorno alla vita familiare, con responsabilità genitoriale limitata e vigilanza dei Servizi Sociali
In una recente
decisione del Tribunale di Matera, datata 14 gennaio 2025, è stata confermata
la necessità di garantire la tutela di due minori coinvolte in un grave
contesto di conflittualità familiare, segnato da inadeguatezza educativa e da
ripetute triangolazioni emotive operate dai genitori. Il giudice ha disposto la
prosecuzione dell’affidamento delle ragazze ai Servizi Sociali, con permanenza
in regime residenziale presso la comunità che già le ospita, ma con l’obiettivo
esplicito di una permanenza solo temporanea.
La stanchezza
manifestata dalle minori verso l’istituzionalizzazione ha spinto il Tribunale a
indicare come termine il completamento dell’anno scolastico, aprendo così a un
percorso di reinserimento graduale nel contesto familiare. L’obiettivo è
accompagnare le giovani verso una maggiore stabilità emotiva e maturazione
personale, mantenendo nel frattempo un sostegno educativo strutturato.
Disattese
alcune conclusioni della Consulenza Tecnica d’Ufficio, è stata confermata la
linea del Curatore Speciale, la cui nomina è stata prorogata fino alla
cessazione della permanenza in comunità. In seguito, è previsto un regime
semiresidenziale, con collocamento paritario presso entrambi i genitori, i quali,
a causa delle condotte scorrette precedenti, sono stati ammoniti ai sensi
dell’art. 473-bis.39 c.p.c.
I genitori
dovranno garantire direttamente il mantenimento delle figlie nei periodi di
loro competenza, senza assegnazione della casa coniugale. Il Servizio Sociale
continuerà a monitorare la situazione, favorendo un ritorno graduale e
consapevole alla vita familiare.
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RECUPERO SPESE STRAORDINARIE: IL PARERE DEL PROCURATORE GENERALE
In materia di recupero delle spese straordinarie sostenute
per i figli, i genitori non sono obbligati a ottenere un nuovo accertamento
giudiziale per la loro esistenza e quantificazione, purché tali spese siano
preventivabili e anticipate da uno dei genitori nell'interesse dei figli.
In questi casi, è possibile procedere direttamente con l'atto
di precetto, allegando il titolo originario, la documentazione di spesa e, se
necessario, la prova del consenso dell’altro genitore, quando previsto dal
titolo stesso.
Tuttavia, per le spese imprevedibili e imponderabili, non è
possibile richiedere il rimborso sulla base del titolo originario. Per tali
spese, è indispensabile avviare un nuovo procedimento legale, con la formazione
di un autonomo titolo esecutivo. Questo principio sottolinea la distinzione tra
spese straordinarie preventivabili e quelle che, invece, richiedono una
valutazione giudiziale separata.
02/04/25
Affidamento SuperEsclusivo alla Madre - Protezione del Minore in Caso di Violenza Domestica
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Affidamento SuperEsclusivo alla Madre - Protezione del Minore in Caso di Violenza Domestica
La Corte di
Cassazione ha confermato l'affidamento superesclusivo
dei figli alla madre, dopo aver accertato comportamenti violenti e
aggressivi del padre, che avevano costretto i minori ad assistere a episodi di
violenza. In questo contesto, il giudice ha tutelato il diritto del bambino a
vivere in un ambiente sano, come stabilito dalla Convenzione di Istanbul,
ratificata dall'Italia e vincolante per gli Stati membri dell'UE.
La Convenzione
obbliga gli Stati a garantire che la violenza domestica e i suoi effetti sui
figli siano presi in considerazione nei procedimenti di affidamento, evitando
che il contatto con un genitore violento comprometta la sicurezza e il
benessere del minore.
Nel caso
specifico, nonostante l'archiviazione della denuncia penale, i fatti accertati
in sede civile, come danneggiamenti e aggressioni, sono stati sufficienti per
giustificare l'affidamento esclusivo alla madre, che ha svolto un ruolo
accudente, mentre il padre ha mostrato comportamenti inadeguati, come
l'ostacolo alla relazione tra i figli e la madre e atteggiamenti denigratori
verso quest'ultima.
La Corte ha
sottolineato che la decisione in materia di affidamento deve sempre tenere
conto dell'interesse superiore del minore, evitando che la
conflittualità tra i genitori comprometta il suo sviluppo equilibrato e sereno.
In tal senso, il giudice ha escluso il padre dalla custodia, ritenendo che non
fosse in grado di garantire un ambiente emotivamente stabile per i figli.
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Cumulo di separazione e divorzio: rimessa al Collegio l'intera causa senza celebrare la prima udienza di scioglimento
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Nuove Regole per i passaporti e documenti d’identità validi per l’espatrio
Indietro<!--#4DTEXT ad_dataCreazioneL{al_IDArticolo}--> : Undefined
Affidamento esclusivo e violenza assistita: la tutela del minore come priorità
La Cassazione conferma l'affidamento esclusivo al
genitore vittima di violenza domestica a protezione del benessere dei figli
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Adozione Internazionale: legittima l'adozione dei single
Secondo i Giudici, la disciplina dichiarata illegittima limitava eccessivamente l'interesse dell'aspirante genitore a intraprendere l'adozione, quale istituto fondato sul principio di solidarietà sociale a tutela del minore.
L'interesse a diventare
genitori, pur non attribuendo una pretesa a adottare, rientra nella sfera
di autodeterminazione individuale e deve essere valutato, insieme agli
interessi primari del minore, «nel giudizio sulla non irragionevolezza e non
sproporzione delle scelte operate dal legislatore».
La Corte ha quindi ritenuto
che le persone singole sono, in astratto, idonee ad assicurare «un
ambiente stabile e armonioso» a un minore in stato di abbandono, fermo
restando che spetta poi al giudice accertare in concreto l'idoneità affettiva
dell'aspirante genitore e la sua capacità di educare, istruire e mantenere il
minore, nonché della rete familiare di supporto dell'aspirante genitore. Nonostante
le garanzie offerte per la protezione del minore, la Corte ha sottolineato che
il divieto assoluto per le persone singole di adottare potrebbe «riflettersi
negativamente sulla stessa effettività del diritto del minore a essere accolto
in un ambiente familiare stabile e armonioso», specialmente nell'attuale
contesto giuridico-sociale caratterizzato da una sensibile riduzione delle
domande di adozione.
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Separazione e Addebito: Inutilizzabilità delle Chat Acquisite Illegittimamente
In un recente pronunciamento della Cassazione civile, la Prima Sezione ha chiarito un importante aspetto riguardante l'ammissibilità delle prove in un procedimento di separazione giudiziale.
Nello specifico, la Corte ha sottolineato che, ai fini
dell'addebito della separazione, non è possibile considerare come prova le chat
acquisite in modo illegittimo da uno dei coniugi, nemmeno se le credenziali per
accedere ai dispositivi erano state volontariamente condivise.
Il caso in
questione riguarda una separazione tra un marito (A.) e la moglie (O.).
Quest'ultima aveva accusato il marito di infedeltà coniugale, supportando la
sua richiesta con conversazioni estratte dai dispositivi del marito, senza il
suo consenso. Nonostante la difesa di O. che sosteneva la legittimità
dell'acquisizione, poiché entrambi i coniugi si scambiavano regolarmente le
password, la Cassazione ha ritenuto che tale testimonianza, basata sulle
dichiarazioni della testimone amica di O., non fosse sufficientemente valida
per legittimare l'acquisizione delle chat.
La Corte ha precisato che la testimonianza de relato actoris, cioè quella riferita da una parte attraverso un terzo che racconta ciò che è stato detto dalla parte stessa, non ha valore probatorio diretto.
In questo caso, la testimonianza della testimone che affermava di sapere delle password condivise tra i coniugi non poteva essere utilizzata come prova per giustificare l'accesso ai dispositivi del marito. Pertanto, le chat non potevano essere considerate come prova valida di infedeltà.
In sintesi,
la Cassazione ha ritenuto illegittima l'uso delle chat acquisite senza il
consenso dell'altra parte, confermando che solo prove legittime e comprovate possono
essere utilizzate per determinare l'addebito della separazione.
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Revoca della Donazione per Ingratitudine: La Condotta Irriguardosa del Convivente
La
Cassazione conferma la revoca della donazione a favore di un'ex convivente,
ritenendo che il comportamento offensivo nei confronti del donante giustifichi
la decisione.
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Esclusa la possibilità di disporre la decadenza dalla responsabilità genitoriale, poiché una tale misura è considerata estrema e va adottata solo in presenza di un danno grave e irreversibile per il minore
Indietro11/03/25
Mantenimento del figlio maggiorenne e onere della prova: le recenti disposizioni giuridiche
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Mantenimento del figlio maggiorenne e onere della prova: le recenti disposizioni giuridiche
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Assegno Divorzile: Nessuna Revoca per la Moglie Malata con Lavoro Part-Time
Indietro<!--#4DTEXT ad_dataCreazioneL{al_IDArticolo}--> : Undefined
Conto corrente cointestato: la Cassazione stabilisce che il denaro non è automaticamente di entrambi i titolari
Indietro<!--#4DTEXT ad_dataCreazioneL{al_IDArticolo}--> : Undefined
Il Non Ascolto del Minore è Legittimo!
Indietro<!--#4DTEXT ad_dataCreazioneL{al_IDArticolo}--> : Undefined
Il Principio di Autoresponsabilità nell'Assegno Divorzile: un Approccio Evolutivo
La
recente sentenza del Tribunale di Vicenza ha tracciato una linea evolutiva
fondamentale nel riconoscimento dell'assegno divorzile, confermando
l'importanza del principio di autoresponsabilità.
Secondo i giudici, il criterio del tenore di vita durante il matrimonio,
tradizionalmente utilizzato per determinare l'importo dell'assegno, è stato
superato a favore di una visione che pone l'accento sulla responsabilità
individuale e sulle scelte personali degli ex-coniugi.
In
questa ottica, i giudici hanno aderito all'orientamento espresso dalla Suprema
Corte, che valorizza l'autodeterminazione dell'individuo all'interno delle sue
relazioni sociali, sottolineando come queste scelte siano strettamente legate
allo sviluppo della personalità di ciascun soggetto. L'idea centrale è che
l'assegno divorzile non debba servire a "livellare" le differenze
economiche che esistono tra i coniugi, se tali differenze sarebbero comunque
esistite anche in assenza del matrimonio. Se si seguisse un approccio contrario,
infatti, si finirebbe per attribuire al matrimonio una funzione che contrasta
con la sua stessa natura, incentivando scelte basate esclusivamente su
motivazioni economiche e rischiando di giustificare una "locupletazione
ingiustificata", già condannata dalla Corte di Cassazione.
Nel caso specifico trattato, il Tribunale ha riconosciuto l'assegno divorzile con una finalità esclusivamente assistenziale. La ricorrente, sessantaduenne, priva di qualifiche professionali e lontana dal mercato del lavoro da anni, non aveva possibilità concrete di trovare un'occupazione stabile che le permettesse di raggiungere un reddito sufficiente per la propria autosufficienza. Tuttavia, la quantificazione dell'assegno è stata contenuta, considerando che la stessa, separatasi dal marito a 48 anni, non aveva adottato misure concrete per inserirsi nel mondo del lavoro né si era attivata per recuperare un immobile di sua proprietà, ceduto al figlio, al fine di metterlo a reddito o venderlo.
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Nulla la clausola costitutiva del diritto reale di abitazione invalida in caso di separazione consensuale o divorzio congiunto
È Nulla la clausola contenuta nell’accordo di separazione consensuale
o di divorzio congiunto che costituisce un diritto reale di abitazione, qualora
siano assenti le dichiarazioni catastali ed urbanistiche previste dall’art. 29,
comma 1-bis, della l. n. 52 del 1985, modificato dall’art. 19, comma 14, del
d.l. n. 78 del 2010, convertito con modifiche dalla l. n. 122 del 2010.
Infatti, l’accordo, redatto nel verbale di udienza da un ausiliario del giudice
e destinato a costituire prova di quanto in esso dichiarato, acquisisce la
forma di atto pubblico ai sensi dell’art. 2699 c.c. e, implicando la
costituzione di un diritto reale su bene immobile, ricade nell’ambito di
applicazione del citato comma 1-bis.
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Ascolto minore: volontà e interesse
La
Cassazione civile, sez. 1 ordinanza 6
febbraio 2025, n. 2947, accogliendo il ricorso, ha sottolineato che
l'interesse del minore deve essere valutato in modo complessivo, tenendo conto di
tutti gli aspetti della situazione familiare, inclusi i comportamenti
manipolatori da parte di uno dei genitori. La Corte ha quindi precisato che,
pur dando valore al desiderio della minore, la decisione deve sempre
considerare anche le implicazioni sul diritto alla bigenitorialità, garantendo
un ambiente che favorisca il mantenimento di solidi legami con entrambi i
genitori.
Famiglia, minori
e successioni: il principio della bigenitorialità
In
un quadro di rapporti familiari altamente conflittuali, l’interesse del minore non sempre coincide con la sua volontà.
Sebbene le dichiarazioni
del minore possano sembrare mature e consapevoli, non sono l’unico criterio per
determinare il suo superiore interesse.
In situazioni in cui un
genitore adotta comportamenti manipolatori, che ostacolano il diritto
dell'altro genitore alla bigenitorialità, le decisioni devono essere prese con
attenzione.
In una recente causa, la
Cassazione ha affrontato una controversia riguardante la collocazione di una
minore, G., dopo la separazione dei genitori.
Il
Tribunale aveva inizialmente deciso di collocare la minore presso la madre, con
il padre che avrebbe avuto un diritto di visita. Tuttavia, la madre ha
manifestato comportamenti che ostacolavano questo diritto, portando il padre a
chiedere una modifica.
Il Tribunale ha poi disposto il trasferimento
della minore presso il padre, riconoscendo che la conflittualità tra i genitori
aveva compromesso la sua capacità di agire nell’interesse della figlia. La
decisione è stata confermata dal Tribunale, ma la Corte di Appello, ascoltato
il desiderio della minore di vivere a Napoli, ha ordinato il suo ritorno presso
la madre. In seguito, T. ha presentato ricorso.
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Va estinto il pignoramento presso terzi se l’avviso di iscrizione a ruolo è depositato oltre la data in citazione, anche se notificato in termini
Con provvedimento del 07.02.2025 la Sezione III del Tribunale di Roma ha estinto un pignoramento presso terzi subito dopo l’udienza di dichiarazione del terzo, tenuta in via cartolare.
Il Giudice dell’Esecuzione, prima di vagliare l’opposizione del debitore, ha
preliminarmente rilevato che l’avviso di iscrizione a ruolo era stato
notificato entro la data in citazione del 15.07.2024 (ai sensi dell’art. 543 c.
5 cpc) ma era stato depositato il 18.07.2024, dunque tre giorni dopo.
D’altronde, argomenta il Tribunale, l’individuazione dell’udienza di comparizione è rimessa ad una scelta del creditore procedente. Dunque è suo onere scegliere una data che gli consenta di attivarsi con solerzia e portare a compimento l’attività processuale richiesta, in modo da non incorrere in decadenza.
Se è
vero che il rischio della declaratoria di inefficacia costringe (nei fatti) il
creditore a indicare in citazione una data ben più lontana dei 10 giorni minimi
previsti dall’art. 501 cpc, è anche vero che tale dilatazione dei tempi è giustificata
dal fatto che per debitore e terzi il vincolo pignoratizio sorge per il solo
fatto della notifica del pignoramento. D’altro canto, il prolungamento è trascurabile
sotto il profilo della ragionevole durata del processo, poiché non idoneo a determinare
a carico del creditore un sacrificio del proprio interesse alla tempestiva
riscossione coattiva del credito.
Il
Tribunale di Roma sposa dunque la linea più dura sull’interpretazione dell’obbligo
ex art. 543 c. 5 cpc, escludendo che il deposito tardivo dell’atto ritualmente
notificato possa evitare l’estinzione perché consentirebbe comunque al Giudice
di verificare per tempo che i terzi siano stati messi a conoscenza dell’iscrizione
a ruolo.
Tribunale di Roma, sez. III, 07.02.2025 (testo completo)
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Il giudice della famiglia è competente sul rinnovo della carta di identità dei minori
La Prima Sezione Civile del Tribunale
di Roma, in seno a un procedimento per la modifica dell’affido di minori nati
fuori dal matrimonio, con provvedimento del 23.01.2025 ha deciso su una domanda
di autorizzazione al rinnovo delle carte di identità dei figli proposta dalla
ricorrente inaudita altera parte.
Infatti, la madre aveva
rappresentato che il padre era ormai sparito da molteplici anni, nel corso dei
quali lo stesso si era sempre disinteressato dei figli determinando
l’impossibilità per i minori di rinnovare i documenti, necessari tra l’altro
per partecipare a una gita scolastica.
Si tratta di un esempio del
potere di assunzione di provvedimenti indifferibili senza il contraddittorio,
attribuito al giudice della famiglia dalla riforma Cartabia.
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Accordo tra ex conviventi: validità e forza vincolante in base alle norme sull'interpretazione contrattuale
Il
caso in esame
Il
Tribunale di Milano ha emesso un decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo,
ordinando ad una donna di pagare oltre €380.000,00 al suo ex convivente, sulla
base di una clausola contenuta in un accordo privato sottoscritto dalle parti.
Tale accordo, definito come una "transazione", riguardava sia gli
aspetti economici che quelli relativi alla responsabilità genitoriale sul
figlio minore. In seguito alla contestazione dell’importo da parte della donna,
il Tribunale ha dato ragione a quest'ultima, evidenziando che l'accordo in
questione fosse di natura transattiva, volto a regolamentare le questioni
relative all'affidamento e al mantenimento del figlio. Il Tribunale ha dunque
dichiarato la risoluzione dell'accordo per grave inadempimento da parte
dell’uomo, che non aveva fornito prove sufficienti per dimostrare l’adempimento
dei suoi obblighi di mantenimento.
In
conclusione, il caso evidenzia come l'interpretazione di accordi tra ex
conviventi debba rispettare i principi generali sull'interpretazione dei
contratti, applicabili anche agli accordi che non sono direttamente connessi
con la separazione o il divorzio ma che comunque incidono sugli aspetti
economici e familiari.
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SMS E WHATSAPP: QUANDO LA MOLESTIA INTEGRA IL DIRITTO AL RISARCIMENTO DEL DANNO
Cassazione penale, Sez.
I, sentenza 4 dicembre 2024, n. 44477
Pronunciandosi su un
ricorso proposto avverso la sentenza con cui il tribunale aveva assolto una
donna per il reato di molestia telefonica, ritenendo applicabile la speciale
causa di non punibilità di cui all'art. 131-bis, c.p., condannandola al
risarcimento del danno in favore della parte civile, liquidato in via
equitativa, la Corte di Cassazione
penale, Sez. I, con la sentenza 4 dicembre 2024 n. 44477 - accogliendo il
ricorso del pubblico ministero e nel contempo, disattendendo la prospettazione
difensiva che contestava la configurabilità del reato mediante l'invio di
messaggi e si doleva della condanna al risarcimento del danno - ha ribadito
che ciò che rileva è il carattere invasivo del mezzo impiegato per raggiungere
il destinatario, e non la possibilità per quest'ultimo di interrompere o
prevenire l'azione perturbatrice, escludendo o bloccando il contatto o
l'utenza non gradita, conseguendone che costituisce molestia anche l'invio
di messaggi telematici, siano essi di testo (SMS) o messaggi Whatsapp, aggiungendo,
quanto al risarcimento del danno, che il danno conseguente alla indebita
invasione della propria sfera di libertà è notorio e insito nella struttura
stessa del reato, per cui la sua sussistenza deve ritenersi sufficientemente
provata dalla descrizione della condotta molesta.
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DOPO DICIOTTO ANNI SCOPRE CHE LA MOGLIE È NATA UOMO: RESPINTA LA RICHIESTA DI ANNULLAMENTO DEL MATRIMONIO.
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L’ordine di protezione può vietare anche gli incontri fortuiti e le comunicazioni virtuali
Avv. Lorenzo Mariani
Con decreto ex artt. 473 bis 14 e
69 cpc pronunciato il 25.11.2024 e pubblicato il 29.11.2024, decidendo su una
domanda di ordini di protezione preliminare a un giudizio di regolamentazione
dei minori, la Prima Sezione Civile del Tribunale di Roma ha prima di tutto
confermato un precedente ordine di protezione emesso inaudita altera parte, il
quale prevedeva l’allontanamento del padre dalla casa familiare e il divieto di
avvicinamento ai luoghi frequentati dalla ricorrente e dai figli.
Contestualmente, valutata una istruttoria piuttosto corposa (per un
procedimento sommario) il provvedimento ha anche modificato e inasprito il
precedente decreto, imponendo l’obbligo di “immediato allontanamento in caso
di incontri fortuiti con estensione del divieto anche a comunicazioni virtuali,
ad eccezioni di comunicazioni via mail relative ai figli minori”.
Si tratta di una disposizione
molto dura, quasi assimilabile agli ordini di allontanamento che può disporre
il giudice penale.
Inoltre, il decreto ha disposto che gli incontri padre-figli dovranno avvenire
col supporto dei Servizi Sociali e ha fissato l’udienza per la prima
comparizione nel giudizio di merito con gli adempimenti preliminari del caso.
Si tratta di una pronuncia
interessante soprattutto in relazione alla riscrittura del rito di famiglia da
parte della riforma Cartabia.
Infatti, sia l’ordine inaudita
altera parte che quello successivo sono stati concessi nonostante l’avvenuto
allontanamento spontaneo del resistente: circostanza che, fino alla riforma
Cartabia, alcuna giurisprudenza considerava motivo di inammissibilità
dell’ordine di protezione.
È degno di nota anche il fatto
che il giudice assegnatario non abbia disposto un mantenimento per i minori sul
presupposto che, quando disposto ex art. 473 bis 71 cpc in un procedimento di
ordini di protezione, tale assegno deve basarsi sulla insussistenza di mezzi
adeguati in capo alle persone conviventi per effetto dei provvedimenti
interdittivi.
Dato che la ricorrente aveva
chiesto al giudice di pronunciarsi anche ai sensi dell’art. 473 bis 15 cpc, che
consente di anticipare in via cautelare i provvedimenti provvisori su affido,
assegnazione della casa e mantenimento, è agevole pensare che il magistrato
abbia emesso solo l’ordine di protezione e fissato una ordinaria udienza di
merito per ragioni di opportunità temporale, ossia per evitare di dover
rimettere l’intera decisione al collegio.
Infatti, solo col recentissimo “correttivo Cartabia” del 26.11.2024 il giudice
monocratico è ora competente sulla conferma o modifica del provvedimento ex
art. 473 bis 15 cpc, mentre il provvedimento in esame è stato pronunciato il
25.11.2024. Peraltro è dubbio che il
primo provvedimento inaudita altera parte potesse qualificarsi come ex art. 473
bis 15 cpc.
Tribunale di Roma, Sez. I, 29.11.2024 (testo completo)
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L’ASPETTO EDUCATIVO E L’IMPORTANZA DEL RUGBY: IL NUOVO ULTIMO COMMA DELL’ART. 33 DELLA COSTITUZIONE
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Estinzione del PPT per mancata notifica dell'iscrizione a ruolo: è reclamabile al Collegio ex art. 630 c.3 cpc
Avv. Lorenzo Mariani
"Nella fattispecie concreta, l’inefficacia del pignoramento per mancata notifica dell’avviso di iscrizione a ruolo alla debitrice, in ragione della notificazione dello stesso avviso eseguita in Cancelleria, è stata rilevata d’ufficio dal giudice dell’esecuzione tardivamente, con l’ordinanza adottata in data 31.07.2024 a scioglimento della riserva assunta nella seconda udienza, tenuta in data 11.01.2024, anziché nella prima udienza tenuta in data 16.10.2023 o, comunque, con l’ordinanza emessa a scioglimento della stessa prima udienza. Per quanto sopra, dunque, il reclamo è da accogliere e l’ordinanza reclamata è da revocare."
La pronuncia contribuisce a fare chiarezza sulle varie fattispecie di "chiusura anticipata" del processo esecutivo e sulla loro riconducibilità all'estinzione per inattività ex artt. 630 cpc o a cause diverse. Non è problema da poco, considerando che nel primo caso l'impugnazione deve avvenire tramite reclamo al Collegio ex art. 630 c. 3 cpc mentre in tutti gli altri casi dovrà esperirsi opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 cpc come rimedio generale.
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Identità non binarie - la Corte Costituzionale apre il diritto
In un caso posto di fronte alla Corte Costituzionale la ricorrente, registrata come femmina alla nascita, nel corso della pubertà, realizza di non appartenere al genere femminile e afferma di riconoscersi in un genere non-binario con prevalenza della componente maschile. Chiede, dunque, al tribunale la rettificazione dell'attribuzione di sesso in un genere non-binario. Il tribunale solleva una questione di legittimità costituzionale: se la rettificazione possa avvenire rispetto a un genere di elezione diverso da quelli maschile e femminile. Da un lato, vi è, dunque, il diritto all'identità di genere, ossia il diritto a vedersi riconosciuto un genere di elezione diverso da quello corrispondente al sesso attribuito alla nascita. Secondo la giurisprudenza costituzionale, questo diritto fa parte del diritto all'identità personale, rientrante a pieno titolo nell'ambito dei diritti fondamentali della persona. Inoltre, il diritto all'identità di genere solleva la questione della possibile esistenza di un genere terzo rispetto al binarismo sessuale. Dall'altro lato, vi è il diritto fondamentale alla salute: ogni persona ha il diritto di realizzare, nella vita di relazione, la propria identità sessuale, considerata come aspetto e fattore di svolgimento della personalità, che gli altri membri della collettività sono tenuti a riconoscere, per dovere di solidarietà sociale. La Corte costituzionale, con sentenza del 23 luglio 2024, n. 143, ha dichiarato la questione della possibilità di rettifica verso un genere terzo inammissibile, poiché la materia appartiene alla discrezionalità del legislatore, quale primo interprete della sensibilità sociale. Per la Corte, le implicazioni del superamento del binarismo dei sessi nella nostra legislazione sono tanto articolate e complesse da richiedere l'intervento del Vi è però un aspetto innovativo: la Corte ha chiarito che la percezione dell'individuo di non appartenere né al sesso femminile, né a quello maschile - da cui nasce l'esigenza di essere riconosciuto in una identità altra - genera una situazione di disagio significativa rispetto al principio personalistico cui l'ordinamento costituzionale riconosce centralità (art. 2 Cost.). Inoltre, nella misura in cui può indurre disparità di trattamento o compromettere il benessere psicofisico della persona, questa condizione può sollevare un tema di rispetto della dignità sociale e di tutela della salute, alla luce degli artt. 3 e 32 Cost. L'autonomia conferita dalla Corte all'art. 2, affermato come norma di rilevanza generale, rispetto agli artt. 3 e 32, che sembrano attivabili in caso di disparità di trattamento e di limitazione del diritto alla salute, sembra, quindi, sganciare il discorso sul genere non binario dal racconto medicalizzante che ha caratterizzato, finora, la nostra legislazione e prassi giudiziaria. (cfr. Corte Cost, sent. 23 luglio 2024, n. 143).
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Va sanzionata la madre ostativa ai rapporti tra padre e figlio, ma niente decadenza della responsabilità genitoriale
Lorenzo Mariani
Per la Cassazione, è corretta La decisione della Corte
d'Appello di revocare la decadenza della responsabilità genitoriale materna
disposta dal Tribunale: va infatti considerato l'impatto di una misura così
drastica sul benessere del minore, ragazzo adolescente che aveva sempre vissuto
con la madre fin dai tre anni.
Corretto anche aver disposto in appello l'ascolto del
bambino (invece escluso in primo grado) e aver considerato la sua totale
opposizione a ogni incontro col padre, confermata anche dall'ultima CTU che
aveva escluso l'efficacia di qualunque imposizione o invito a percorsi di
recupero del rapporto col padre, al quale ormai non sarebbe rimasto che sperare
in un riavvicinamento spontaneo col passare degli anni.
Ha invece errato la Corte di merito nel rigettare anche la
domanda di sanzionare la madre ex artt. 709 ter e 614 bis cpc (nel testo
pre-riforma Cartabia) per aver da sempre
ostacolato ogni rapporto tra figlio e padre.
Si tratta di misure quali l'ammonimento, il risarcimento del
danno in favore del minore o dell'altro genitore, sanzioni amministrative o
somme periodiche da versarsi per ogni giorni di ritardo.
Peraltro il rigetto era dovuto alla presunta assenza di
"prescrizioni" a cui la madre dovesse attualmente attenersi.
Al contrario della corte d'Appello, gli ermellini
ritengono "comprovato, ed anzi
coperto da un giudicato interno, un atteggiamento ostruzionistico della madre
ed il condizionamento al corretto svolgimento delle modalità di vista del
padre, nonché il disagio, le sofferenze ed i conflitti derivati al minore da
tale atteggiamento".
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Coppie Omogenitoriali: Spettabilità del diritto alla corresponsione della pensione di reversibilità al coniuge ed al figlio di coppia dello stesso sesso
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Rapporto di lavoro subordinato e convivenza more uxorio
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Riequilibrio dello spostamento patrimoniale tra i coniugi
La Prima Sezione della Cassazione con ordinanza n. 18506,
depositata l’8 luglio 2024, ha stabilito che in materia di determinazione
dell'assegno di divorzio, il principio secondo cui ciascun ex coniuge è tenuto
a provvedere al proprio mantenimento può essere derogato nel caso in cui il
matrimonio abbia determinato uno spostamento patrimoniale tra i coniugi. Tale
squilibrio deve essere rettificato mediante l'attribuzione di un assegno con
funzione compensativa e perequativa (Ordinanza del 8 luglio 2024, n. 18506, Cass. Civ.,
sez. I,).
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Permessi e congedi anche ai genitori dello stesso sesso
Il sistema informatico di ricezione delle domande amministrative predisposto dall'Inps per alcune delle attività ex D. Lgs. n. 151/2001 comporta un’ingiustificata discriminazione a danno dei genitori dello stesso sesso, indicati come tali nei registri di stato civile, nella misura in cui non consente agli stessi di inserire i loro dati e di completare così l’iter informatico per l’accesso alle prestazioni (Ordinanza del 25 gennaio 2024 Trib. Bergamo, sez. Lavoro).
Indietro02/08/24
Locazioni e condomini Annullato il sequestro probatorio di un impianto di videosorveglianza
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Locazioni e condomini Annullato il sequestro probatorio di un impianto di videosorveglianza
La Cassazione penale, nella sentenza del 27 marzo 2024, n.
12744, ha annullato il sequestro probatorio di un impianto di videosorveglianza
installato su una porta di casa, che riprendeva anche la porta del vicino. La
sola presenza della telecamera non è sufficiente a configurare il reato di
stalking condominiale. Per giustificare una misura cautelare, è necessario non
solo sospettare la commissione del delitto ma anche fornire prove concrete che
delineino una specifica ipotesi di reato, in linea con gli obiettivi della
restrizione imposta.
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Locazione e condomini Chi è responsabile per le immissioni sonore provenienti da un’immobile condotto in locazione?
Il Tribunale di Messina, con sentenza dell’11 aprile 2024,
n. 917, è da ritenersi esclusa la responsabilità del proprietario-locatore
dell'immobile per i rumori intollerabili del conduttore ad eccezione dei casi
in cui sussista un apporto causale del primo alla realizzazione del fatto
dannoso o dei casi in cui il proprietario avrebbe potuto prefigurarsi che il
conduttore avrebbe con ragionevole certezza recato danni a terzi, provocando
immissioni intollerabili.
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Istanza cautelare nel rito di famiglia: no alla sospensione del titolo esecutivo, sì all'udienza di merito ravvicinata
Avv. Lorenzo Mariani
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Rilevanza degli accordi “a latere”
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È competente il giudice del divorzio sull'ordine di pagamento del terzo in forza del provvedimento di separazione
Avv. Lorenzo Mariani
E infatti, nel caso di un inadempimento prolungato, per legittimare la richiesta a un terzo debitore di corrispondere il mantenimento per il futuro occorre solo un titolo esecutivo e una una semplice diffida nei suoi confronti.
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Sì alla dichiarazione di adottabilità in caso di inidoneità genitoriale
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Neutralizzazione del riscatto degli anni universitari non applicabile per il passaggio da un sistema ad un altro
Con la sentenza del 27 giugno 2024, n. 112, la Corte costituzionale ha dichiarato infondate le questioni di legittimità costituzionale riguardanti l'art. 3 della Costituzione, in riferimento agli artt. 1, comma 13, della L. n. 335/1995 e 1, comma 707, della L. n. 190/2014. Queste disposizioni non prevedono il diritto del pensionato alla neutralizzazione del periodo di riscatto del corso di studi universitari, quando i 18 anni di contribuzione al 31 dicembre 1995, necessari per la liquidazione del trattamento pensionistico con il sistema retributivo, sono stati raggiunti solo grazie al suddetto riscatto. Inoltre, l'applicazione del sistema retributivo, anziché del sistema misto, che sarebbe stato applicato in assenza del riscatto, non comporta un depauperamento del trattamento pensionistico. La richiesta di neutralizzazione non può riguardare la contribuzione derivante dal riscatto, che è stata versata all'inizio dell'anzianità lavorativa e si colloca quindi fuori dal periodo di riferimento della retribuzione pensionabile secondo il sistema retributivo applicabile. Tale richiesta non può essere invocata per ottenere il passaggio da un sistema di calcolo ad un altro.
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Fallimento del Socio illimitatamente responsabile in società di persone che detiene una partecipazione in società di capitali
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Un matrimonio breve porta a un mantenimento basso, anche se il Tribunale ha sottostimato la differenza di redditi tra coniugi
Avv. Lorenzo Mariani
Corte Appello Roma, Sez. Famiglia, 10.06.2024
Inutile reclamare il provvedimento di separazione: la durata del matrimonio (inferiore a cinque anni) incide fortemente sulla quantificazione dell’assegno, sì da dover essere determinata in una misura contenuta, proporzionata al tempo di consolidamento delle aspettative di sostegno economico maturate in costanza di convivenza coniugale.
La riforma Cartabia non ha modificato le regole sulla rivedibilità dei provvedimenti temporanei emessi “in limine litis” solo in ipotesi di manifesta erroneità della decisione adottata dal Giudice monocratico,
dandosi prevalenza alla cognizione piena e agli approfondimenti istruttori propri del giudizio di merito.
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La madre ha diritto al rimborso dell’università privata non prevista nell’assegno
Il diritto al rimborso dell'università privata decisa unilateralmente dalla madre potrebbe dipendere da diversi fattori, tra cui la natura dell'assegno e la legge vigente nella giurisdizione pertinente. Se l'assegno era destinato a coprire specifiche spese educative e l'università privata non era stata contemplata, potrebbe sorgere una disputa sulla natura discrezionale della decisione. Tuttavia, se la madre può dimostrare che la scelta era nel migliore interesse del figlio e non violava eventuali accordi o disposizioni legali preesistenti, potrebbe essere legittimata.
Indietro<!--#4DTEXT ad_dataCreazioneL{al_IDArticolo}--> : Undefined
Niente ordine di protezione se c'è già il braccialetto elettronico
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I nonni sono obbligati a mantenere i nipoti se non possono i genitori
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Inammissibile il reclamo della modifica delle condizioni di separazione se nel frattempo si è pronunciato il giudice del divorzio sulle stesse domande
Avv. Lorenzo Mariani
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Incontri protetti: ammonimento per la madre che condiziona la figlia contro il padre e incarico al curatore speciale di cercare una collocazione extra-familiare
Avv. Lorenzo Mariani
Con provvedimento del 27.03.2024, il Tribunale di Roma, nel decidere su incontri protetti, affido e collocazione di una minore, rilevato che per i Servizi Sociali la madre ha un atteggiamento caratterizzato da chiusura e diffidenza che condiziona negativamente il rapporto padre-figlia, ha ammonito la donna a tenere un comportamento collaborativo volto a favorire gli incontri protetti.
Trib. Roma, 27.03.2024 (testo)
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I nonni sono obbligati a mantenere i nipoti se non possono i genitori
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Versamento diretto di parte del mantenimento al figlio maggiorenne, anche se non l'ha chiesto
Avv. Lorenzo Mariani
Con la Sentenza n. 9486 depositata il 19.03.2023, la Prima Sezione del Tribunale di Roma ha deciso riguardo un giudizio di divorzio stabilendo - tra le altre cose - un mantenimento per i figli della coppia, una maggiorenne e uno minorenne.
Il contributo complessivo è stato determinato in € 1.000,00 (€ 500,00 per
ciascun figlio) da corrispondersi per una parte (€ 300,00) direttamente alla
figlia maggiorenne e per i restanti € 700,00 alla madre.
Degna di nota la decisione di corrispondere personalmente
alla figlia maggiorenne una porzione del suo mantenimento, in parziale accoglimento
della domanda del padre.
Infatti, per la giurisprudenza largamente prevalente è
necessario che sia il figlio maggiorenne a chiedere il versamento diretto, intervenendo
nel procedimento con una vera e propria domanda giudiziale (Cass. 34100/2021).
In questo caso, la figlia non era intervenuta, né dalla
sentenza risulta che abbia chiesto in altro modo l’assegno diretto, ad esempio venendo
ascoltata in giudizio.
Trib. Roma, Sez. I, Sent. 19.03.2024 n. 4986 (testo completo)
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Se la minore esprime disagio è illegittimo imporle le visite al padre
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La Cassazione ammette anche nei procedimenti su domanda congiunta il cumulo di domande di separazione e di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio
A dirimere il conflitto di posizioni creatosi nella giurisprudenza di merito, a seguito dell’entrata in vigore della Riforma Cartabia, circa la possibilità di proporre cumulativamente i procedimenti di separazione e di divorzio, è intervenuta la Suprema Corte, la quale ha stabilito il principio di diritto secondo cui le parti possono proporre cumulativamente, non soltanto il procedimento di separazione giudiziale e quello di divorzio contenzioso, ma grazie ad un’interpretazione estensiva e sicuramente più liberale, dell’art. 473-bis.49 c.p.c., che i coniugi possano adesso proporre cumulativamente anche sia la domanda di separazione consensuale che quella congiunta di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio
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Niente ordine di protezione se la vittima e l’unico testimone delle violenze non sono credibili per via dei loro comportamenti
Avv. Lorenzo Mariani
Con provvedimento del 27.02.2024,
in un giudizio sulla regolamentazione dell’affido di una bambina, il Tribunale
di Roma ha rigettato una domanda di ordine di protezione formulata dalla madre contro
l’ex compagno, ritenendola non sostenuta da sufficienti riscontri
probatori.
A parere del Giudice, non
sarebbero attendibili le sommarie informazioni testimoniali rilasciate da una
amica della donna, durante le indagini nei confronti del resistente per il
reato di maltrattamenti in famiglia. L’informatrice non ha assistito personalmente
ai fatti, ma li ha appresi dalla vittima stessa.
Inoltre, le parole dell’amica parrebbero
comunque incoerenti per via del suo comportamento. Infatti, dopo aver
dichiarato di aver soccorso la donna, l’informatrice si è resa a lei
irreperibile bloccando il suo contatto telefonico, per ragioni che la
ricorrente stessa ha dichiarato di ignorare al curatore speciale della figlia.
Non appaiono credibili nemmeno le
allegazioni della ricorrente stessa di essere stata aggredita con calci e pugni
dal resistente in plurime occasioni, fin dall’inizio della loro relazione.
Sono infatti in radicale contrasto con il tenore delle lettere che la stessa ha
indirizzato all’ex compagno all’indomani della nascita della bambina, quando la
relazione si protraeva già da oltre un anno, in cui il resistente viene
definito dalla ricorrente con aggettivi quali “gnagnoso” e “coccolone”
che appaiono poco compatibili con la riferita condizione di soggezione
psicologica e paura dettata da protratti maltrattamenti, percosse, ingiurie.
Rigettato l’ordine di protezione,
il Giudice ha affidato la minore ai Servizi Sociali e assegnato la casa
familiare alla madre (che nel frattempo era ospite con la figlia in una casa
rifugio) disponendo incontri protetti tra la bambina e il padre.
Inoltre, ha disposto una CTU sulla
idoneità genitoriale delle parti.
Trib. Roma, Sez. I, 27.02.2024
(testo completo)
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Decade dalla responsabilità genitoriale il padre imputato per tortura verso la sua nuova compagna
Avv. Lorenzo Mariani
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E' reato non corrispondere l'assegno di mantenimento mensile al coniuge separato
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Responsabilità genitoriale sospesa al padre che svolge attività criminale in ambiente domestico
Ai fini della sospensione della responsabilità genitoriale ex art. 333 c.c. non occorre che la condotta del genitore abbia causato danno al figlio, poiché la norma mira ad evitare ogni possibile pregiudizio derivante dalla condotta (anche involontaria) del genitore, rilevando l'obiettiva attitudine di quest'ultima ad arrecare nocumento anche solo eventuale al minore, in presenza di una situazione di mero pericolo di danno.
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Separazione senza figli: la moglie nuda proprietaria va allontanata da casa, che resta al marito usufruttuario. Ma non è un'assegnazione
Avv. Lorenzo Mariani
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Pignora il conto corrente dove bonifica l’assegno per l’ex moglie: lei non può chiedere il versamento diretto al datore di lavoro dell’ex marito
Va invece revocato
retroattivamente il mantenimento al figlio maggiorenne fuori corso che lavora e
guadagna bene, anche se ha smesso di studiare per aiutare la madre. Ma ora dovrà rimborsare il padre?
Avv. Lorenzo Mariani
Trib. Roma, Sez. I, 16.12.2023
In un giudizio incidentale di
modifica delle condizioni di divorzio, l’ex marito (difeso dal nostro Studio) chiedeva
la revoca dell’assegno di mantenimento per il figlio maggiorenne sul
presupposto della intervenuta autosufficienza economica dello stesso, specificando
che la revoca fosse disposta retroattivamente dal 2017 o dal 2020, con
esplicita condanna dell’ex moglie a restituire quanto percepito indebitamente
per il figlio.
A tal fine, depositava una
comunicazione dell’Agenzia delle Entrate sui redditi del ragazzo dal 2020 al
2022.
Nello stesso procedimento, l’ex
moglie rappresentava che l’uomo stava sottoponendo a pignoramento il conto
corrente in cui bonificava il mantenimento per lei; pertanto, avanzava una
domanda ex art. 156 c. 6 cc di versamento diretto dell’assegno divorzile da
parte del datore di lavoro dell’ex marito.
Il giudice riteneva acquisibile e utilizzabile la comunicazione dell'Agenzia delle Entrate, nell’esercizio dei suoi poteri d’ufficio e procedeva ad ascoltare il figlio della coppia.
In tal modo il Tribunale apprendeva che il giovane, lavorando nel mondo dello spettacolo, negli ultimi anni aveva
guadagnato un salario di € 700,00 settimanali, poi divenuti 800, oltre ad aver
percepito la Naspi nei momenti di disoccupazione per € 1.200,00. Inoltre, aveva
guadagnato 30.000 euro nell’anno 2022, a conferma di quanto comunicato
dall’Agenzia delle Entrate.
Ancora, il giovane confermava di
essere fuori corso all’Accademia delle Belle Arti (pagata interamente dal
padre) e che aveva deciso di lavorare per aiutare economicamente la madre e
mettere da parte il danaro necessario per terminare gli studi.
Il giudice ha così revocato il
mantenimento per il figlio a far data dalla domanda di modifica dei
provvedimenti presidenziali (novembre 2022), ritenuto che egli sia ormai
definitivamente inserito nel mondo del lavoro ed economicamente
autosufficiente, non potendo attribuirsi rilievo alcuno all’assunto che la
decisione di svolgere un’attività lavorativa - del tutto confacente ai suoi
aspirazioni e studi - sia stata motivata
dall’intento di supportare economicamente la madre e di continuare gli studi
che, invero, avrebbe già dovuto terminare anni fa.
Allo stesso tempo, il giudicante
ha però rigettato la domanda di condanna della madre a restituire quanto
percepito a titolo di mantenimento per il figlio, “rilevata, in via
preliminare, la inammissibilità nel presente giudizio di domande di natura
restitutoria, siccome esulanti dal thema decidendum del divorzio, in cui è
escluso il simultaneus processus tra domande soggette a riti diversi quali
quelle restitutorie e/o di condanna al pagamento di somme di danaro, non
rientranti tra le ipotesi di connessione qualificata di cui all’art. 40 cpc”.
Ancora, il giudicante ha
rigettato la richiesta dell’ex moglie di versamento diretto dell’assegno di
mantenimento da parte del datore di lavoro dell’uomo.
Non è invero contestata la corresponsione da parte dell’obbligato della somma
dovuta, ma soltanto la mancata possibilità di utilizzo di tale somma da parte
della beneficiaria, in ragione del pignoramento anche degli importi
corrispostile a titolo di mantenimento, questione esulante dal procedimento di
divorzio e da far valere innanzi al diverso Giudice competente.
E infatti il pagamento diretto ex
art. 156 c. 6 cc, nella formulazione anteriore alla riforma Cartabia,
presuppone il rischio di futuri inadempimenti dell’onerato sulla base del suo
attuale comportamento. Rendere indisponibile il mantenimento corrisposto –
mediante un pignoramento del conto corrente – non equivale a non versare
l’assegno in sé.
Ma ora il figlio (o la madre per
lui) dovrà restituire il mantenimento al padre? L’esonero retroattivo dalla
prestazione pecuniaria lascia intendere di sì: perché, altrimenti, riconoscere
che il mantenimento non era più dovuto da una data passata se non è possibile
riottenere le somme versate?
La domanda di esplicita condanna alla restituzione, d’altronde, è stata
rigettata solo per motivi di incompatibilità processuale col rito di famiglia.
Dunque, nulla esclude il diritto
di introdurre un nuovo giudizio per veder riconoscere l’indebito oggettivo o l’ingiustificato
arricchimento, come da giurisprudenza di Cassazione anche recente.
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Morte per emotrasfusione infetta: il danno parentale è presunto e si applicano le tabelle di Roma
Avv. Lorenzo Mariani
Con sentenza n. 18098
dell’11.12.2023, la II Sezione del Tribunale di Roma ha riconosciuto un
risarcimento di € 485.000,00, oltre interessi dal 2018, per il danno da perdita
del rapporto parentale sofferto dai due ricorrenti difesi dal nostro Studio, figli
di una donna deceduta nel 2006 a causa delle complicanze dell’epatite contratta
anni prima dopo una emotrasfusione infetta.
Rigettate completamente le doglianze del Ministero della Salute convenuto.
E infatti, l’azione dei ricorrenti non è prescritta stanti le diffide inviate nel 2009, 2012 e 2015.
Ancora, il nesso causale tra malattia e morte della donna è sufficientemente provato dalla CTU svolta in un precedente giudizio che, quand'era ancora in vita, le aveva riconosciuto un risarcimento per danno da emotrasfusione con sentenza passata in giudicato.
Il danno-conseguenza, invece, sussiste anche in assenza di specifiche prove degli attori, in quanto deve ritenersi presunto dalla semplice circostanza della perdita della madre, mentre era onere del convenuto fornire specifici elementi contrari.
In ultimo, per la quantificazione del risarcimento
non si applicano le tabelle di Milano ma quelle di Roma, in quanto basate su un
sistema “a punti” richiesto dalla giurisprudenza di Cassazione più recente per il
danno da perdita del rapporto parentale.
Trib. Roma, Sez. II, Sent. , 11.12.2023 n. 18098 (testo integrale)
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Decadenza della responsabilità genitoriale
La Corte di Appello di Milano, in merito all'impugnazione contro il Decreto del Tribunale per i Minorenni, ha accolto il ricorso della madre, vittima di violenza, decretando la decadenza del padre dalla responsabilità genitoriale. Si dispone l'affido del minore all'Ente competente e il collocamento presso la madre, con l'onere di presa in carico da parte della N.P.I. e del Centro antiviolenza. Si conferma la sospensione dei rapporti tra il padre e il minore, considerando il grave deficit della sua capacità genitoriale. Inoltre, viene imposto all'ex coniuge l'obbligo di contribuire al mantenimento del figlio, nonostante lo stato di disoccupazione, a meno che non dimostri una capacità lavorativa idonea. La Corte mantiene e amplia l'incarico ai Servizi Sociali, confermando la sospensione dei rapporti padre-figlio, considerando le condotte violente accertate e il manifestato deficit genitoriale.
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I criteri per il riconoscimento dell’assegno divorzile tra il primo e il secondo grado
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NO all’assegnazione della casa familiare a figli indipendenti economicamente
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Il minore vittima di abusi sessuali non è soggetto a vincoli metodologici
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Il valore della testimonianza del minore abusato
In tema di violenza sessuale nei confronti dei minori, il mancato espletamento della perizia in ordine alla capacità a testimoniare non determina l'inattendibilità della testimonianza della persona offesa non essendo tale accertamento indispensabile ove non emergano elementi patologici che possano far dubitare della predetta capacità. In tema di reati sessuali, la sola età adolescenziale del minore abusato non costituisce in re ipsa circostanza tale da escludere la capacità a deporre in assenza di patologie incidenti su tale capacità.
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Adozione - sviluppi evolutivi grazie al mediatore culturale
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Inammissibile l'intervento del figlio indipendente economicamente nel giudizio di divorzio
Il provvedimento de quo viene emesso dal Tribunale di Pisa nell'ambito di un sub - procedimento aperto in un giudizio di divorzio nel quale, già pronunciata la sentenza sullo status, il padre chiede la revoca del contributo al mantenimento della figlia, maggiorenne, economicamente indipendente e residente in un'altra citta insieme al compagno. A fronte dell'istanza presentata dal ricorrente nei confronti della figlia, intestataria dell'assegno di mantenimento, il Giudice oppone la carenza di legittimazione della stessa all'intervento autonomo o ad adiuvandum.
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Test DNA rifiuto - comportamento indiziario
Con ordinanza n. 128444 la Cassazione civile del 12 ottobre 2023 in tema di accertamento giudiziale di paternità, decidendo sul ricorso proposto dal padre di una minorenne avverso la sentenza emessa dalla Corte d'appello di Perugia, che aveva ritenuto accertata la presunta paternità in ragione del rifiuto reiterato opposto alla consulenza genetica disposta in via istruttoria dai giudici di merito, motivato dalla parte opponente per la necessità di acquisire in via preventiva la prova storica dell'esistenza di un rapporto sessuale o di una relazione con la madre del minore, ha dichiarato inammissibile il gravame proposto.
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Doveri morali e sociali - Unioni di fatto
Le unioni di fatto, quali formazioni sociali che presentano significative analogie con la famiglia formatasi nell'ambito di un legame matrimoniale e assumono rilievo ai sensi dell'art 2 Cost., sono caratterizzate da doveri di natura morale e sociale di ciascun convivente nei confronti dell'altro, doveri che si esprimono anche nei rapporti di natura patrimoniale, sicché le attribuzioni finanziarie a favore del convivente "more uxsorio", effettuate nel corso del rapporto per far fronte alle esigenze della famiglia ( nella specie, versamenti di denaro sul conto corrente del convivente con quindici bonifici per un importo complessivo di euro 74.000), configurano l'adempimento di una obbligazione naturale ex art. 2034 c.c., a condizionare che siano rispettati i principi di proporzionalità e di adeguatezza, per la cui valutazione occorre tener conto di tutte le circostanze fattuali, oltre che dell'entità del patrimonio e delle condizioni sociali del "solvens".
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Nullità ecclesiastica delibazione
Dopo 10 anni dalla sentenza delle sezioni unite la direzione è la medesima per la delibazione, la convivenza come coniugi, ove protrattasi per almeno tre anni dalla celebrazione del matrimonio concordatario, integra una situazione giuridica di ''ordine pubblico italiano '', che osta alla dichiarazione di efficacia della sentenza di nullità pronunciata dal Tribunale Ecclesiastico per vizio genetico del ''matrimonio-atto''.
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Figlio all'estero NON esclude l'affidamento condiviso
All'affidamento condiviso può derogarsi solo ove la sua applicazione risulti pregiudizievoli per l'interesse del minore, con la duplice conseguenza che l'eventuale pronuncia di affidamento esclusivo dovrà essere sorretta da una motivazione non solo in positivo sulla idoneità del genitore, ma anche in negativo nulla inidoneità educativa, ovvero manifesta carenza dell'altro genitore.
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Delibazione riserva mentale
Con il provvedimento n. 15142 depositata il 30 maggio 2023
, la Cassazione ha stabilito che in caso di delibazione di sentenza di nullità del matrimonio concordatario, il convincimento, espresso dal giudice di merito, sulla conoscenza o conoscibilità da parte del coniuge della riserva mentale unilaterale dell’altro costituisce apprezzamento di fatto, che si sottrae al sindacato di legittimità.
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STOP MANTENIMENTO FIGLI MAGGIORENNI !!!
Con l’ordinanza n. 16327 depositata l’8 giugno 2023
, la Cassazione mantiene fermo il suo orientamento secondo cui il figlio maggiorenne “non può ostinarsi e indugiare nell’attesa di trovare il lavoro reputato consono alle sue aspettative, non essendogli consentito di fare abusivo affidamento sul supposto obbligo dei suoi genitori di adattarsi a svolgere qualsiasi attività pur di sostentarlo ad oltranza nella realizzazione (talvolta realistico) di desideri ed ambizioni personali”.
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Godimento esclusivo, da parte del coniuge legalmente separato, della casa coniugale acquistata in regime di comunione legale
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Assegno divorzile: funzione assistenziale e compensativa
Il riconoscimento dell'assegno di divorzio, cui la più recente giurisprudenza di legittimità attribuisce una funzione assistenziale e in pari misura compensativa e perequativa, in virtù dell'articolo 5, comma 6, della legge n. 898/1970, postula l'accertamento dell'inadeguatezza dei mezzi dell'ex coniuge richiedente nonché dell'impossibilità di procurarseli per ragioni di natura oggettiva. Lo stabilisce la Cassazione civile, sez. I, ordinanza 19 giugno 2023, n. 17505.
Dopo la dichiarazione ufficiale di cessazione degli effetti civili del matrimonio tra i due coniugi, i giudici di merito riconobbero alla donna, sia in primo che in secondo grado, il diritto a percepire l’assegno divorzile. I giudici hanno rilevato che dal raffronto fra le due posizioni emergeva un significativo squilibrio economico sottolineando che la donna in ragione dell'età, del livello professionale e della condizione del mercato del lavoro non era in condizione di migliorare la propria condizione reddituale trovandosi poco al di sopra della soglia di povertà.
Ritenevano quindi, alla
luce del fatto che il matrimonio aveva avuto una durata ventennale, allietato
dalla nascita di un figlio, dovevano ritenersi sussistenti le condizioni per il
riconoscimento di un assegno divorzile. L'uomo ha quindi proposto ricorso per
cassazione, che tuttavia è stato rigettato.
In merito all'assegno
divorzile, il collegio ha evidenziato che si impone una valutazione comparativa
delle condizioni economico patrimoniali delle parti, in considerazione del
contributo fornito dall'istante l'assegno divorzile alla conduzione della vita
familiare e alla formazione del patrimonio comune, come pure di quello
personale di ognuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e
all'età dell'avente diritto. Il Collegio ha osservato che, nella specie, la
corte distrettuale aveva analizzato le situazioni patrimoniali di ambedue gli
ex coniugi, riscontrando un evidente squilibrio reddituale a vantaggio
dell'uomo, rilevando l'incapacità dell'ex moglie di provvedere, in ragione
dell'età e del suo livello di professionalità come pure delle attuali
condizioni di mercato del lavoro, a migliorare la propria posizione reddituale.
Quindi aveva escluso che
gli elementi raccolti in sede istruttoria consentissero di ritenere provato lo
svolgimento di una attività lavorativa sommersa spiegando le ragioni poste a
base del suo convincimento.
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Responsabilità genitoriale revocabile sulla base delle intercettazioni ambientali
La Corte di cassazione, con sentenza n. 23247 in data 31.07.2023 ha statuito la revocabilità della responsabilità genitoriale per condotte inadeguate dei genitori anche sulla base delle sole intercettazioni ambientali disposte nell'ambito del procedimento a carico degli stessi, aggiungendo che l'ascolto del minore non va disposto quando corre il rischio di una ulteriore vittimizzazione.
Il Pubblico Ministero
aveva dichiarato la decadenza dalla responsabilità genitoriale di entrambi i
genitori e la Corte di appello, in sede di reclamo, aveva confermato quanto
statuito in precedenza a fronte delle svariate condotte lesive degli interessi dei
figli (offese ed aggressioni continuative nei loro confronti; bestemmie, clima
violento in cui i minori hanno vissuto).
Proposto ricorso in
Cassazione, la Prima sezione civile l'ha respinto rimarcando per prima cosa che
il provvedimento impugnato è stato emesso a tutela dell'incolumità dei minori
per soddisfare l'impellente interesse di sottrarli alle gravi condotte violente
ed aggressive dei ricorrenti. Ed aggiungendo che l'accertamento delle
"suddette continuative condotte violente, aggressive e altamente
diseducative, e dei relativi maltrattamenti nei confronti dei minori, seppure
attraverso le intercettazioni ambientali effettuate nella fase delle indagini
preliminari nel procedimento penale, nel quale sono state anche emesse misure
cautelari nei confronti dei genitori, rende necessario, a tutela degli stessi
minori, escludere il loro ascolto nel grado d'appello, che potrebbe costituire
un pericolo di ulteriori traumi perché li potrebbe costringere a rivivere i
gravi episodi vissuti (cd. "vittimizzazione secondaria")".
In definitiva per la
Suprema corte vanno affermati due principi di diritto: in riferimento al primo,
relativo alla decadenza dalla responsabilità genitoriale, la Cassazione ha
sancito: "In tema di responsabilità genitoriale, continuative condotte
violente, fisiche e verbali, e i relativi maltrattamenti nei confronti dei
minori, legittimano la pronuncia di decadenza dalla responsabilità genitoriale,
anche sulla base di accertamenti giudiziali e verifiche svolte sulla base del
solo mezzo istruttorio delle intercettazioni ambientali, effettuate nell'ambito
della fase delle indagini preliminari, nell'ambito del procedimento penale
promosso nei confronti dei genitori indagati per le suddette condotte".
Con riguardo al secondo: "In tema di ascolto del minore maltrattato, il
giudice deve sempre operare un bilanciamento tra l'esigenza di ricostruzione
del volere e del sentimento del minore, quale principio fondamentale
applicabile anche nel procedimento relativo alla decadenza dalla responsabilità
genitoriale, e quella della tutela del minore maltrattato, come persona
fragile, nel caso in cui l'ascolto possa costituire pericolo di vittimizzazione
secondaria per gli ulteriori traumi che il fanciullo che li abbia già vissuto
possa essere costretto a riviverli".
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Assegno divorzile: presupposti che ne giustificano l'attribuzione
È ormai consolidato il
principio secondo il quale “Al fine di accertare se sussistano i presupposti
per il riconoscimento dell'assegno divorzile in funzione
compensativo-perequativa del sacrificio sopportato per aver rinunciato a realistiche
occasioni professionali o reddituali, ferma l'irrilevanza del pregresso tenore
di vita familiare, il giudice deve verificare: a) se tra gli ex coniugi, a
seguito del divorzio, si sia determinato o aggravato uno squilibrio
economico-patrimoniale prima inesistente (ovvero di minori proporzioni); b) se,
in costanza di matrimonio, gli ex coniugi abbiano convenuto che uno di essi
sacrificasse le proprie prospettive professionali per dedicarsi al
soddisfacimento delle incombenze familiari; c) se, con onere probatorio a
carico del richiedente, tali scelte abbiano inciso sulla formazione del
patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi determinando
uno spostamento patrimoniale da riequilibrare; d) quale sia lo spostamento
patrimoniale, e la conseguente esigenza di riequilibrio, causalmente
rapportabile alle determinazioni comuni ed ai ruoli endofmiliari.” (Cass. ord.
n. 22738/2021- Rv. 662350-01). Si è quindi avuto modo di osservare che il
riconoscimento dell'assegno divorzile in funzione perequativo-compensativa non
si fonda sul fatto, in sé, che uno degli ex coniugi si sia dedicato
prevalentemente alle cure della casa e dei figli, né sull'esistenza in sé di
uno squilibrio reddituale tra gli ex coniugi, essendo invece necessaria
un'indagine sulle ragioni e sulle conseguenze della scelta, seppure condivisa,
di colui che chiede l'assegno, di dedicarsi prevalentemente all'attività
familiare, la quale assume rilievo nei limiti in cui comporti sacrifici di
aspettative professionali e reddituali, la cui prova spetta al richiedente (Sez.
6 - 1, Ordinanza n. 29920 del 13/10/2022, Rv. 666043 - 01). L’insieme di tali
principi porta ad escludere che ricorrano i presupposti per attribuire alla
moglie un assegno divorzile, ogniqualvolta questo vada ad avere la sola
funzione di realizzare una tendenziale equiparazione del livello di vita dei
due coniugi.Assegno divorzile: presupposti che ne giustificano l'attribuzione
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Cassazione: carcere per chi stalkera la ex su WhatsApp
Una
recente pronuncia della Cassazione ha statuito che integra il reato di atti
persecutori ex art. 612-bis c.p. il soggetto che, a mezzo WhatsApp, invia
messaggi alla ex contenenti insulti e minacce.
Questo
quanto emerge dalla sentenza della Cassazione n. 7821/2023.
Più
specificatamente, in sede di appello vedeva confermata la responsabilità
dell'imputato per il reato di atti persecutori aggravato dall'uso dei mezzi
informatici e per il reato di diffamazione, in danno della ex e lo stesso viene
condannato alla pena di 1 anno e 6 mesi di reclusione e al pagamento delle
spese del processo.
Nonostante
l'imputato abbia tentato di impugnare la decisione il ricorso è stato ritenuto inammissibile
dalla Cassazione in virtù dei numerosi messaggi, molti dei quali contenenti
insulti, della condotta della persona offesa, delle dichiarazioni dei testimoni
e delle ammissioni dello stesso imputato.
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ascolto del minore, per collocamento in struttura
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diritto ex coniuge a ricevere quota di incentivo alle dimissioni anticipate
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I NONNI DEVONO MANTENERE I NIPOTI ?
Una recente pronuncia della Corte di Cassazione torna ad affrontare la questione del mantenimento dei nipoti da parte dei nonni.
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PRESUPPOSTI PER RINNOVARE CTU
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L'ASSENZA DI CONSUMAZIONE DEL AMTRIMONIO, NON PRECLUDE IL RICONOSCIMENTO DELL'ASSEGNO DI MANTENIMENTO
L’assenza di consumazione del matrimonio, pur essendone causa di scioglimento, non preclude il riconoscimento dell’assegno di mantenimento. La Corte di Cassazione con la sentenza 3645/2023 ha evidenziato che, nonostante l’assenza di rapporti sessuali in costanza di matrimonio, il marito dovrà versare all’ex moglie l’assegno divorzile.
Nel corso dell’istruttoria era emersa l’assenza di rapporti sessuali tra i coniugi e l’inizio di una nuova relazione da parte della moglie.
In relazione alle doglianze del marito, la Corte non ritiene fondate le censure. Non era stato dimostrato infatti, che la moglie e il terzo avessero un comune progetto di vita, ma solo che la prima provvedeva all’acquisto di beni alimentari per il mantenimento della nuova "famiglia".
Il nuovo legame, infatti, deve essere accertato in modo rigoroso, così come indicato dall’art. 2729 del Codice Civile che richiede di procedere ad una complessiva valutazione degli elementi come la presenza di un conto corrente cointestato, lo stesso domicilio, l’esistenza di figli o la contribuzione economica in famiglia. L’onere probatorio relativo a questo aspetto, ricade su chi contesta il diritto all’assegno di mantenimento.
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DIRITTO PENSIONE REVERSIBILITA'
Cassazione civile, sez. I, ordinanza 18 aprile 2023, n.10291
L'intreccio di interessi patrimoniali eterogenei riconducibili al titolare dell'assegno pensionistico, al titolare dell'assegno divorzile, agli istituti o alle casse previdenziali, e anche all'eventuale altro coniuge superstite, consiglia il necessario accertamento giudiziale della titolarità o meno in capo all'ex coniuge dell'assegno divorzile, come requisito imprescindibile per la liquidazione dell'assegno pensionistico di reversibilità, senza che siano sufficienti meri accordi o intese tra le parti non sottoposte al vaglio giurisdizionale.
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AUTONOMIA SOSTANZIALE E PROCESSUALE TRA SEPARAZIONE E DIVORZIO
CASSAZIONE CIVILE, SEZ. I, ordinanza 5 aprile 2023, n. 9345
In tema di regolamentazione dei rapporti economici tra i coniugi separati nella pendenza del giudizio divorzile, poiché l'assegno di divorzio traendo la sua fonte nel nuovo "status" delle parti ha efficacia costitutiva decorrente dal passaggio in giudicato della pronuncia di risoluzione del vincolo coniugale, i provvedimenti emessi nel giudizio di separazione continuano a regolare i rapporti economici tra i coniugi fino al passaggio in giudicato della sentenza di divorzio, salvo che, pronunciata sullo scioglimento del vincolo sentenza non definitiva, il giudice ritenga con adeguata motivazione ed in relazione alle circostanze del caso concreto di anticipare la decorrenza dell'assegno alla data della domanda, ai sensi dell'art. 4, comma 13, della L. n. 898 del 1970L. 01/12/1970, n. 898, oppure che nella fase presidenziale o istruttoria del giudizio siano emessi provvedimenti provvisori temporanei ed urgenti, che si sostituiscano a quelli adottati nel giudizio di separazione. Il tutto in ragione dell'autonomia, sul piano sostanziale e processuale, dei procedimenti di separazione e di divorzio ma anche della necessità di assicurare sempre continuità all'erogazione del contributo in favore del coniuge economicamente più debole.
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EFFETTI DELLA SEPARAZIONE
CASSAZIONE CIVILE, SEZ. I, ORDINANZA 13 APRILE 2023, N. 9839
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LA CORTE COSTITUZIONALE SUGLI EFFETTI DELLA SENTENZA DI RETTIFICAZIONE DI ATTRIBUZIONE DI SESSO SULL’UNIONE CIVILE PREESISTENTE
La L. n. 76/2016 all’art. 1, comma 27, ha previsto che alla rettificazione di sesso di uno dei coniugi, ove gli stessi abbiano manifestato volontà di mantenere in vita il vincolo di coppia, consegue automaticamente l’instaurazione dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, nel pieno rispetto dell’orientamento della Corte costituzionale, di cui alla decisione 11 giugno 2014, n. 170, con la quale erano stati ritenuti incostituzionali gli artt. 2 e 4, L. 14 aprile 1982, n. 164, nella parte in cui non prevedevano che la sentenza di rettificazione di sesso di uno dei coniugi, avesse consentito, comunque, di mantenere in vita un rapporto di coppia su richiesta dei coniugi stessi. Al contrario, il comma 26 della stessa legge, dispone che nel caso di unione civile, la rettificazione di sesso di una delle parti determina lo scioglimento dell’unione civile, senza alcuna possibilità di una scelta diversa.
Ebbene nella vicenda in esame, sono
state sollevate plurime questioni di legittimità costituzionale con riferimento
a disposizioni centrali in ordine all’impossibilità di convertire l’unione
civile in matrimonio in conseguenza della rettificazione di sesso di uno dei
due componenti della coppia.
Nel giudizio principale l’attore, che
necessitava di “adeguamento dell’identità
fisica a quella psichica”, aveva chiesto anzitutto “l’autorizzazione all’intervento chirurgico strumentale alla
riassegnazione del sesso da maschile in femminile” e, quindi la
rettificazione dei dati anagrafici riguardanti il sesso e il nome, e l’ordine
all’ufficiale dello stato civile di procedere alla iscrizione del suo matrimonio
con il partner, con il quale aveva in passato contratto unione civile. Il giudice a quo ha del tutto obliterato l’esame
della domanda dell’attore.
Inoltre il Tribunale ha richiamato gli
approdi raggiunti dalla Cassazione e dalla Corte Costituzionale, in virtù dei
quali la lettura sinottica delle norme de qua non deve
portare a ritenere l’intervento chirurgico pre-condizione necessaria della
pronuncia di mutamento di sesso, ma solamente un possibile mezzo strumentale a
un pieno benessere psicofisico (Corte cost. n. 221/2015; Cass n. 15138/2015).
Così operando, il giudice ha chiarito
che l’attore non aveva effettuato alcun intervento demolitivo-ricostruttivo
degli organi sessuali ( ciò che costituiva
l’oggetto della domanda di autorizzazione), ma una terapia ormonale,
chiedendo la rettifica dell’attribuzione di sesso nei registri di stato civile,
dichiarando di aver acquisito l’identità di genere femminile attraverso un
percorso psicologico comprovante la definitività e irreversibilità di tale orientamento,
prescindendo dalle caratteristiche anatomiche degli organi sessuali.
Conseguentemente, il Collegio rimettente
ha, quindi proceduto alla illustrazione dei propri dubbi di illegittimità
costituzionale del plesso normativo evocato ed ha sollevato innanzi alla Corte
Costituzionale le relative questioni in via del tutto ipotetica.
Ebbene il Tribunale ha osservato che “l’interdipendenza
tra pronuncia di rettificazione e sorti dell’unione civile in precedenza
contratta tra persone dello stesso sesso non forma oggetto di lacuna normativa”
.
Difatti viene ricordato come l’art. 1,
comma 26, della L. n. 76 del 2016 preveda espressamente che “la
sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso determina lo scioglimento
dell’unione civile tra persone dello stesso sesso”. Differentemente il
successivo comma 27, nell’ipotesi inversa di rettificazione di sesso che
interessa uno dei due coniugi uniti in matrimonio, stabilisce l’automatica
instaurazione dell’unione civile tra persone di pari sesso, ove queste abbiano
manifestato la volontà di non sciogliere il matrimonio o di non cessarne gli
effetti civili.
Ebbene la Consulta, in tema di
rettificazione di attribuzione di sesso, ha avuto modo di affermare che
l’interpretazione costituzionalmente adeguata della legge n.164 del 1982
consente di escludere il requisito dell’intervento chirurgico di
normoconformazione.
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La competenza sul mantenimento dei figli residenti all’estero è italiana
Con la sentenza n. 30903, depositata il 19 ottobre 2022, le Sezioni Unite civili hanno risolto in favore della Autorità giudiziaria italiana la questione di giurisdizione, rimessa dalla Cassazione, sulla domanda di determinazione degli obblighi di mantenimento del figlio residente all’estero in un giudizio di separazione, escludendo che per tali materie operi il criterio determinativo cogente della residenza abituale del minore (Cass. Civ., SS.UU., sent. 19 ottobre 2022, n. 30903).
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Art. 1227 c.c.: può essere attivato anche dalla condotta di chi dovrebbe sorvegliare il minore
Nel 2018, la Cassazione, con le ordinanze “gemelle” n. 2480, 2481, 2482 e 2483, stabilì una regola importante in tema di responsabilità da cose in custodia riguardante la condotta del danneggiato. Come noto, la prova liberatoria prevista dall’art. 2051 c.c. è il caso fortuito. Il fortuito può essere determinato, secondo queste ordinanze, che davano peraltro continuità a un indirizzo giurisprudenziale tutt’altro che minoritario, anche dalla condotta del danneggiato.
Infatti la condotta del danneggiato può avere incidenza causale sull'evento dannoso, valutabile ai sensi dell'art. 1227, comma 1, c.c. Quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l'adozione da parte del danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l'efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno; fino al caso estremo, in cui la sua condotta può assurgere a causa esclusiva del danno.
Il caso in esame è proprio un caso estremo. Un bambino cade, malamente, a causa della presenza di una buca nel marciapiede che si trova vicino alla casa dei nonni, alla cui sorveglianza era stato affidato. I giudici di merito respingono la richiesta risarcitoria, e così anche la Cassazione (cfr. Cass. civ., sez. VI-3, ord. 11/11/2022, n. 33390): la caduta era avvenuta in un luogo ben noto al bambino, in ora serale ma ancora con ottima visibilità; lo stato di sconnessione del marciapiede era noto sia ai genitori che al minore, oltre che, ovviamente, ai nonni; gli effetti della caduta facevano capire che il bambino stesse correndo, il che avrebbe obbligato il nonno a un'adeguata sorveglianza.
In conclusione, il comportamento colposo di chi era tenuto alla sorveglianza era tale da interrompere il nesso di causalità tra la cosa e il danno. La conclusione è condivisibile: il minore, per definizione, è irresponsabile, in tutti i sensi. Pertanto non è possibile pretendere da un bambino una condotta avveduta e prudente, che non è semplicemente in grado di porre in essere. Ma se c’è un adulto che lo sorveglia, il discorso cambia: è costui che ha il compito di far tenere al piccolo una condotta adeguata. L’unica stranezza, se vogliamo, del ragionamento del giudice è che mischia elementi rilevanti per la condotta del bambino (la visibilità, la conoscenza dello stato dei luoghi da parte del bambino stesso) ad elementi propri della condotta del nonno (l’inadeguata sorveglianza e il mancato intervento per impedire che il nipote corresse sullo sconnesso). Il “combinato disposto” delle due condotte ha l’effetto di mandare esente il comune da responsabilità.
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ILLEGITIMO IL DECRETO DEL MINISTERO DELL'INTERNO 31 GENNAIO 2019
Il Tribunale di Roma ha stabilito che il decreto del Ministero dell’Interno del 31 gennaio 2019 in materia di carte di identità viola un “innumerevole elenco di principi e diritti di fonte costituzionale ed internazionale”, è viziato da un evidente eccesso di potere e pertanto che vada disapplicato (Trib. Roma, sez. XVIII civ., ord. 9 settembre 2022).
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violato l’art. 8 CEDU
La Corte europea dei diritti dell’uomo ha riconosciuto all’unanimità la violazione da parte dell’Italia dell’art. 8 CEDU in danno di una madre e dei suoi due figli: nei confronti di questi ultimi, per essere venuta meno ai doveri di protezione e assistenza in occasione degli incontri con il padre, tossicodipendente e alcolizzato, accusato di maltrattamenti e minacce durante gli incontri stessi; nei confronti della madre, per aver assunto la decisione di sospendere la sua autorità genitoriale per l’opposizione mostrata agli incontri tra il padre e i bambini, in ragione di fatti di violenza domestica e della mancanza di sicurezza durante gli incontri. La Corte ha riconosciuto che gli incontri hanno turbato l’equilibrio psicologico dei bambini e sono stati disposti senza considerare il loro interesse superiore; quanto alla decisione di sospendere la responsabilità genitoriale della madre, la Corte ha ritenuto che le autorità nazionali non abbiano esaminato con cura la situazione della donna e le ragioni della sua opposizione agli incontri tra i bambini e il padre (Corte EDU, sez. I, 10 novembre 2022, n. 25426/20
).
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RIDUZIONE ASSEGNO DIVORZILE E ONERE DELLA PROVA
Secondo quanto affermato da un’ordinanza del luglio scorso della Suprema Corte, ai fini della riduzione dell’assegno divorzile, il coniuge onerato deve dare prova che il beneficiario abbia concrete possibilità di lavorare. Non basta, quindi, l’ipotetica ed astratta possibilità lavorativa o di impiego del coniuge beneficiario dell’assegno, ma occorre dare la prova che il beneficiario abbia l’effettiva e concreta possibilità di esercitare un’attività lavorativa confacente alle proprie attitudini (Cass. Civ., sez. VI, ord. 20 luglio 2022, n. 22758).
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in vigore in Lombardia il regolamento delle attività di condhotel
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NESSO CASUALE PROVATO DAL PAZIENTE
In tema di responsabilità contrattuale per inadempimento delle obbligazioni professionali (tra le quali si collocano quelle di responsabilità medica, anteriormente alla L. n. 24 del 2017), è onere del creditore-danneggiato provare, oltre alla fonte del suo credito (contratto o contatto sociale), il nesso di causalità, secondo il criterio del "più probabile che non", tra la condotta del professionista e il danno lamentato, mentre spetta al professionista dimostrare, in alternativa all'esatto adempimento, l'impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, provando che l'inesatto adempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile, da intendersi nel senso oggettivo della sua inimputabilità all'agente. È quanto si legge nell’ordinanza n. 5808 del 27 febbraio 2023 della Cassazione.
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ADOZIONE - RECISIONE CON LA FAMIGLIA DI ORIGINE
Cass. civ., Sez. I, Ordinanza, 05/01/2023, n. 230
Deve dichiararsi rilevante e non manifestamente infondata in riferimento agli artt. 2, 3, 30 e 117 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell'art. 27, c. 3 L. n. 184 del 1983 nella parte in cui stabilisce che con l'adozione legittimante derivante dall'accertamento dello stato di abbandono e dalla dichiarazione di adottabilità cessano irreversibilmente i rapporti dell'adottato (e conseguentemente del minore adottabile per effetto della dichiarazione di adottabilità) con la famiglia di origine estesa ai parenti entro il quarto grado (art. 10 c.4 n. 184 del 1983), escludendo la valutazione in concreto del preminente interesse del minore a non reciderli secondo le modalità stabilite in via giudiziale.
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circolazione per " stato di necessità " e ritiro patente
Anche se pare tratta dalla trama di un film comico, questa situazione si è verificata sul serio. Un automobilista, a causa di una positività all’alcooltest, aveva subito la sanzione del ritiro della patente. Qualche mese dopo, tuttavia, viene sorpreso alla guida di un autoveicolo.
La giustificazione addotta era di essersi dovuto mettere necessariamente alla guida del suo veicolo dopo essere stato contattato dalla madre della sua compagna, in stato di gravidanza e colta da improvvisi dolori al basso ventre, allo scopo di raggiungere la suddetta e accompagnarla al più vicino Pronto soccorso. Chiedeva, pertanto, il riconoscimento dello stato di necessità, almeno putativo, atteso che il ricorrente si era rappresentato una situazione di pericolo grave alla salute della donna e del nascituro, in ragione di precedenti minacce di aborto che avevano interessato la compagna.
La storia è accattivante, tuttavia la Corte Cass. civ., sez. VI-2, ord. 17/10/2022, n. 30426 rileva che: non era stata depositata alcuna documentazione idonea a dimostrare che il giorno in cui è stata commessa l'infrazione fosse effettivamente in atto la situazione di pericolo prospettata; la documentazione medica attestante le pregresse minacce di aborto risaliva a oltre un anno prima; non vi era alcuna prova di una nuova e concreta minaccia di aborto sussistente anche nel periodo successivo; non era nemmeno dimostrato, a quanto è dato capire, che la compagna del ricorrente fosse effettivamente incinta. Di conseguenza, la patente veniva definitivamente revocata.
Non siamo al livello di quei film comici, in cui la donna si siede vicino al guidatore con un cuscino sotto la camicia per simulare la gravidanza e ottenere la benevolenza della polizia, ma poco ci manca.
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IL CONDOMINIO NON PUO' OSTACOLARE I LAVORI. SUPERBONUS, BONUS FACCIATE E PONTEGGI.
In caso di esecuzione di lavori condominiali, che rientrato nell’agevolazione fiscale del superbonus e bonus facciate, il singolo condomino è obbligato a consentire l'accesso e il passaggio nella sua proprietà per l'esecuzione dei lavori deliberati all'unanimità dall'assemblea condominiale e, in particolare, il montaggio dei ponteggi sulla rampa carrabile di cui era proprietario. Nel caso di specie, nell’ambito di un equo contemperamento di esigenze, il giudice ha statuito che i ponteggi dovranno essere installati in maniera tale da consentire il passaggio del veicolo del condomino e per il tempo strettamente necessario all'esecuzione dei lavori di rifacimento della facciata laterale prospiciente la suddetta rampa così da non arrecare un eccessivo e grave pregiudizio allo stesso (Tribunale di Firenze, ordinanza, 19 settembre 2022).
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LE RIPRESE CASALINGHE NON DEVONO INTERFERIRE CON IL VICINATO
Chi vuole posizionare un impianto di videosorveglianza domestico, può farlo liberamente ma il cono di ripresa delle telecamere deve puntare esclusivamente sulle aree di stretta pertinenza e non devono interferire con la vita privata di altri soggetti compresi i vicini di casa. Le riprese devono essere no rilegate all'abitazione evitando zone comuni, condominiali, parcheggi, strade pubbliche e vie, e devono anche evitare di riprendere finestre, giardini, terrazzi e porte di altre persone. Questo è quanto espresso dal Garante per la protezione dei dati personali con il parere n. 48950 rilasciato il 16 settembre 2022.
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LA CONVIVENZA STABILE E' SUSCETTIBILE DI COMPORTARE LA CESSAZIONE DELL'OBBLIGO DI CORRESPONSIONE DELL'ASSEGNDO DI MANTENIMENTO
Cass. civ., Sez. I, Ordinanza, 10/06/2022, n. 18862
La convivenza stabile e continuativa, intrapresa con altra persona, è suscettibile di comportare la cessazione o l'interruzione dell'obbligo di corresponsione dell'assegno di mantenimento che grava sull'altro, dovendosi presumere che le disponibilità economiche di ciascuno dei conviventi more uxorio siano messe in comune nell'interesse del nuovo nucleo familiare; resta salva, peraltro, la facoltà del coniuge richiedente l'assegno di provare che la convivenza di fatto non influisce in senso migliorativo sulle proprie condizioni economiche e che i propri redditi rimangono inadeguati.
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La componente compensativa dell'assegno divorzile deve essere dedotta dalla parte che faccia valere il diritto all'assegno
Cass. Civ., Sez. VI - 1, ord., 8 febbraio 2023, n. 3776
Può venir meno, in conseguenza dell'instaurarsi di una stabile convivenza di fatto tra l'ex coniuge ed altra persona, il diritto alla componente assistenziale dell'assegno di divorzio, ma non anche necessariamente della componente compensativo-perequativa dello stesso, che potrà comportare il riconoscimento dell'assegno laddove alla mancanza di redditi adeguati si associ la prova dell'apporto alla realizzazione del patrimonio familiare e personale dell'ex coniuge.La sussistenza della componente compensativa dell'assegno divorzile deve, tuttavia, essere specificamente dedotta dalla parte che faccia valere il proprio diritto all'assegno nonostante l'instaurazione di una stabile convivenza "more uxorio" con un terzo.
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La cremazione, se non autorizzata dai parenti, è atto lesivo del diritto di culto
Cass. Civ., Sez. III, Sent., 10 gennaio 2023, n.370
Condizioni per il sorgere del diritto al mantenimento in favore del coniuge cui non sia addebitabile la separazione sono la non titolarità di adeguati redditi propri, ossia di redditi che gli permettano di mantenere un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, e la sussistenza di una disparità economica tra le parti.
Nell'ambito dello svolgimento di siffatto accertamento è necessario non confondere il tenore di vita con la fruizione diretta di particolari beni.
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ILLEGITTIMO IL DECRETO DEL MINISTERO DELL'INTERNO DEL 31 GENNAIO 2019
illegittimo e va disapplicato il decreto del Ministero dell’Interno che obbliga alla dicitura “padre” e “madre” sulle carte di identità per i minorenni
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No all’integrazione dell’assegno per la perdita dei benefit
Cass. civ., sez. I, ord., 13 gennaio 2023, n.952
Condizioni per il sorgere del diritto al mantenimento in favore del coniuge cui non sia addebitabile la separazione sono la non titolarità di adeguati redditi propri, ossia di redditi che gli permettano di mantenere un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, e la sussistenza di una disparità economica tra le parti.
Nell'ambito dello svolgimento di siffatto accertamento è necessario non confondere il tenore di vita con la fruizione diretta di particolari beni.
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REVOCA ASSEGNO SEPARAZIONE O DIVORZIO, QUANDO E' POSSIBILE RICHIEDERNE LA RESTUITUZIONE
Cass. civ., Sez. I, 11 gennaio 2023, n.4777
solo se l'assegno non era in origine dovuto.
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IMPUGNABILITA' PROVVEDIMENTI DE POTESTATE PROVVISORI SOLO PER PROVVEDIMENTI CHE INCIDANO IN MODO TENDENZIALMENTE PERMENENTE SUI DIRITTI DEI SOGGETTI IMPLICATI E SULLA VITA DEL MINORE
sulla impugnabilità dei provvedimenti de potestate provvisori. Corte d'Appello di Milano, 9 febbraio 2023
nei casi in cui il provvedimento, lungi dal definire in giudizio, abbia natura strumentale, ovvero risulti finalizzato all'adozione di un futuro provvedimento definitivo, e sia deputato unicamente a neutralizzare, in vista di detta decisione, possibili situazioni pregiudizievoli, tali da vanificare o comprimere l'utilità e la proficuità della decisione finale, l'intervento del giudice di secondo grado deve ritenersi inammissibile, in quanto rischierebbe di travolgere e pregiudicare l'attività istruttoria tuttora in corso dinanzi al Tribunale. Ai fini di valutare l’ammissibilità del rimedio giurisdizionale avverso i provvedimenti sulla responsabilità genitoriale, occorre verificare se gli stessi abbiano o meno carattere decisorio, nel senso di incidere con efficacia di giudicato su situazioni soggettive di natura sostanziale. L'impugnabilità è predicabile solo per quei provvedimenti che incidano in modo almeno tendenzialmente permanente sui diritti dei soggetti implicati e sulla vita del minore.
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MODELLO DI CONVENZIONE DI NEGOZIAZIONE ASSISTITA IN MATERIA DI FAMIGLIA
Il Consiglio Nazionale Forense ha approvato nella seduta amministrativa del 24 febbraio 2023 i nuovi modelli, per la conclusione delle convenzioni di negoziazione assistita, come previsto dal comma 7-bis dell'art.2 del decreto legge 132 del 2014 per cui " Salvo diverso accordo, la convenzione di negoziazione assistita è conclusa mediante utilizzo del modello elaborato dal Consiglio nazionale forense in conformità alle disposizioni del presente capo".
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FAMIGLIA DI FATTO
FAMIGLIA DI FATTO E PROTEZIONE COMPLEMENTARE. TRIBUNALE DI BOLOGNA, 2 DICEMBRE 2022
Quanto alla nozione di vita familiare, la Corte Edu le ha conferito un significato più ampio di quello tradizionale, attribuendo agli stati contraenti la facoltà di differenziare, in relazione ai diversi modelli della stessa, le varie forme di tutela, ritenendo tra gli altri l'applicabilità dell'art.8 in presenza di un legame familiare anche solo di fatto, e che anche una vita familiare progettata non debba essere per ciò solo esclusa dal suo ambito di applicazione.
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L'USO DELLA VIOLENZA PER FINI EDUCATIVI NON E' MAI CONSENTITO
Cass. Pen., Sez. VI, sent. 12 dicembre 2022 n. 46924
Esula dal perimetro applicativo della fattispecie incriminatrice dell'abuso di mezzi di correzione o di disciplina in ambito scolastico qualunque forma di violenza fisica o psichica, ancorché sostenuta da "animus corrigendi".L'elemento differenziale tra il reato di abuso dei mezzi di correzione e quello di maltrattamenti non può individuarsi nel grado di intensità delle condotte violente tenute dall'agente, in quanto l'uso della violenza per fini correttivi o educativi non è mai consentito.
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ASCOLTO DEL MINORE
Cass. civ., Sez. I, Ordinanza, 07/03/2023, n. 6802
In tema di provvedimenti in ordine alla convivenza dei figli con uno dei genitori, l'audizione del minore infradodicenne capace di discernimento costituisce adempimento previsto a pena di nullità, a tutela dei principi del contraddittorio e del giusto processo, in relazione al quale incombe sul giudice che ritenga di ometterlo un obbligo di specifica motivazione, non solo se ritenga il minore infradodicenne incapace di discernimento ovvero l'esame manifestamente superfluo o in contrasto con l'interesse del minore, ma anche qualora opti, in luogo dell'ascolto diretto, per quello effettuato nel corso di indagini peritali o demandato ad un esperto al di fuori di detto incarico, atteso che solo l'ascolto diretto del giudice dà spazio alla partecipazione attiva del minore al procedimento che lo riguarda.
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ORIENTAMENTO SESSUALE
La giusta causa di licenziamento ex art. 2119 cod. civ. - posta a fondamento del provvedimento di destituzione, unitamente alla previsione regolamentare - integra una clausola generale, che richiede di essere concretizzata dall'interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l'accertamento della ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici e giuridici. La sussunzione della fattispecie concreta nella clausola elastica della giusta causa secondo "standards" conformi ai valori dell'ordinamento, che trovino conferma nella realtà sociale, è dunque sindacabile in sede di legittimità con riguardo alla pertinenza e non coerenza del giudizio operato, quali specificazioni del parametro normativo avente natura giuridica e del conseguente controllo nomofilattico affidato alla Corte di cassazione.
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IMPUGNAZIONE DELLA DONAZIONE FITTIZIA TRA CONIUGI
Si tratta di beni di cui il coniuge era proprietario prima del matrimonio, quindi non rientranti nella comunione, beni ricevuti dopo il matrimonio in donazione o testamento, beni personali per l’esercizio dell’attività lavorativa, risarcimenti del danno ricevuti o beni acquistati con il ricavato dalla vendita dei già menzionati beni.
Sul tema si pone, però, il problema del ricorso all’intestazione fittizia all’altro coniuge simulando la stipula di un contratto senza la realizzazione di alcun effetto, dal momento che il proprietario rimane a tutti gli effetti l’amministratore del bene.
Nell’ipotesi in cui il coniuge donante abbia cambiato idea e voglia far valere l'azione di simulazione, revocando la donazione, ha l’onere di dimostrare con prova scritta l’avvenuto accordo.
I controinteressati, invece, possono fornire la prova con qualsiasi mezzo, appellandosi al modo in cui è stato gestito il bene e verificando che l’uso sia rimasto inalterato anche dopo la donazione.
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DANNO NON PATRIMONIALE
CORTE DI CASSAZIONE CIVILE SEZ. VI, ORD. 16 NOVEMBRE 2022, N. 33797
il danno non patrimoniale, quando ricorrono le ipotesi espressamente previste dalla legge, o sia stato leso in modo grave un diritto della persona tutelato dalla Costituzione, è risarcibile anche quando scaturisca da un inadempimento contrattuale ( Nel caso di specie la S.C. ha confermato la decisione d'appello che aveva ritenuto fondata la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale del successore testamentario nei confronti dell'associazione donataria evidenziando che la mancata realizzazione dello scopo filantropico perseguito dalla donante con la donazione di un immobile di pregio aveva arrecato a questa una delusione ed un patimento, pregiudizio concrettizatosi in sofferenze morali e psichiche, da qualificare in termini di danno morale soggettivo)
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SUCCESSIONE TESTAMENTARIA
CORTE DI CASSAZIONE CIVILE SEZ. II, ORD. 2 DICEMBRE 2022, N. 35461
Se il de cuius ha fatto più donazioni o disposizioni testamentarie, in prima linea sono soggette a riduzione, fino a esaurimento dei beni che ne formano oggetto, le disposizioni testamentarie; successivamente si passa alle donazioni ( art. 555, comma 2, c.c.). Se le disposizioni testamentarie sono più di una la loro riduzione avviene proporzionalmente senza distinguere fra eredi e legatari ( art. 558 c.c. ). In caso di più donazioni queste non si riducono proporzionalmente, come le disposizioni testamentarie ( art. 558 c.c. ), ma cominciando dall'ultima e risalendo via via alle anteriori ( art 559). Le donazioni coeve, per le quali non sia possibile stabilire quale di esse sia anteriore rispetto alle altre, debbono essere ridotte in proporzione al loro valore, come le disposizioni testamentarie.
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REVOCA DEL TESTAMENTO PER SOPRAVVENIENZA DI FIGLI
In tema di revocazione del testamento per sopravvenienza dei figli, la disposizione di cui al comma 1 dell’art. 687 c.c. ha un fondamento più propriamente oggettivo, riconducibile alla modificazione della situazione familiare del disponente rispetto a quella esistente allorquando lo stesso aveva disposto dei suoi beni, con ciò intendendosi - appunto- non già la sopravvenienza di ulteriore prole o discendenza, ma bensì la sopravvenienza di una discendenza prima del tutto inesistente. ( c.c., art 687 )
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STIPULA DI ACCORDI PATRIMONIALI: VA RICONOSCIUTA L'APPLICABILITA' DELL'ESENZIONE FISCALE NELLA SEPARAZIONE PERSONALE DEI CONIUGI
Con ordinanza n. 26363 depositata il 7 settembre 2022, la Corte di Cassazione ha specificato che ove nell'ambito di una separazione personale sia stato concluso un accordo patrimoniale tra il contribuente e la coniuge che prevede la cessione di quote societarie, astrattamente generatrice di plusvalenza assoggettabile a tassazione separata, va riconosciuta l'applicabilità dell'esenzione prevista dall'art. 19 della L. n. 74 del 1987, poiché essa si riferisce a tutti gli atti e a tutte convenzioni che i coniugi pongono in essere nell'intento di regolare, sotto il controllo del giudice, i loro rapporti patrimoniali conseguenti allo scioglimento del matrimonio o alla separazione personale, ivi compresi gli accordi che contengono il riconoscimento o il trasferimento della proprietà esclusiva di beni mobili ed immobili all'uno o all'altro coniuge (Cass. Civ., sez. VI – 5, ord. 7 settembre 2022, n. 26363).
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LIBERO IL DEBITORE CHE RESTITUISCA IL PRESTITO NELLE MANI DI UNO SOLO DEGLI EX CONIUGI
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la decisione n. 23819/2022, secondo cui la ricezione da parte di uno solo dei coniugi di una somma di denaro in restituzione di un prestito concesso con beni della comunione costituisce un atto liberatorio ex art. 180 c.c. poiché il pagamento è valido se effettuato anche al singolo componente della comunione legale (Cass. Civ., sez. III, sent. 1° agosto 2022, n. 23819
).
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L'IMPORTANZA DELLA FUNZIONE COMPENSATIVA DELL'ASSEGNO DIVORZILE - Cass. Civ., Sez.VI-1, ord., 8 febbraio 2023, n. 3776
Può venir meno, in conseguenza dell'instaurarsi di una stabile convivenza di fatto tra l'ex coniuge ed altra persona, il diritto alla componente assistenziale dell'assegno di divorzio, ma non anche necessariamente della componente compensativo-perequativa dello stesso, che potrà comportare il riconoscimento dell'assegno laddove alla mancanza di redditi adeguati si associ la prova dell'apporto alla realizzazione del patrimonio familiare e personale dell'ex coniuge.La sussistenza della componente compensativa dell'assegno divorzile deve, tuttavia, essere specificamente dedotta dalla parte che faccia valere il proprio diritto all'assegno nonostante l'instaurazione di una stabile convivenza "more uxorio" con un terzo.
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NOTAIO IN ALTERNATIVA AL GIUDICE TUTELARE
Tra i molteplici effetti della riforma Cartabia, i
notai diventano primi attori nei procedimenti di volontaria giurisdizione, in
base alla quale ci si potrà rivolgere anche al notaio, in quanto pubblico
ufficiale, oltre che al giudice tutelare.
A detta di ciò, con la suddetta riforma, il notaio,
in quanto pubblico ufficiale, può autorizzare la stipula degli atti pubblici e
delle scritture private autenticate nei quali intervenga un minore, un
inabilitato, un interdetto o un soggetto beneficiario della misura dell’amministrazione di sostegno. Ciò può
accadere per esempio nel vendere o acquistare un immobile, accettare una eredità
oppure tutte quelle situazioni relative ad atti che hanno ad oggetto beni
ereditari.
Nello svolgimento di queste attività il notaio può
farsi assistere da consulenti, ed assumere informazioni, “ senza formalità,
presso il coniuge, i parenti entro il terzo grado e agli affini entro il
secondo del minore o del soggetto sottoposto a misura di protezione “ o nel
caso di beni ereditari, “ presso gli altri chiamati e i creditori risultanti
dall’inventario, se redatto”
Con tale riforma, le parti potranno scegliere se
rivolgersi direttamente all’autorità giudiziaria o al notaio per la stipula
dell’atto che richiede un autorizzazione. In questo modo si assiste ad un
sistema cd. a doppio binario, finalizzato a snellire i tempi della
giustizia. A favore della scelta
notarile, l’autorizzazione rilasciata
dal notaio acquista efficacia dopo 20 giorni dalle comunicazioni al Tribunale e
al Pubblico Ministero senza che sia stato proposto reclamo.
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Accesso difensivo ex L 241/90 alla documentazione patrimoniale, reddituale e finanziaria del coniuge
La recente Pronuncia dell’Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato n.19 del 25/09/2020, ha chiarito che in pendenza del
giudizio di separazione o di divorzio, l’accesso
alla documentazione, reddituale, patrimoniale e finanziaria dell’altro coniuge
deve ritenersi oggettivamente utile al perseguimento del fine di tutela ai
sensi degli articoli 22 ss. della legge 241 del 1990.
In tal
senso gli art. 22 ss. della Legge n. 241/1990, permettono di richiedere documenti,
dati e informazioni detenuti da una Pubblica Amministrazione riguardanti
attività di pubblico interesse, purché il soggetto richiedente abbia un
interesse diretto, concreto e attuale rispetto al documento stesso.
A tal proposito l’Adunanza Plenaria è
intervenuta, nel caso di specie, dopo che l’Agenzia delle Entrate ha negato
alla ricorrente la richiesta per
l’accesso alla documentazione reddituale patrimoniale e finanziaria.
Ebbene l’Adunanza Plenaria ha affermato che le
dichiarazioni, le comunicazioni e gli atti acquisiti dall’amministrazione
finanziaria, contenenti i dati reddituali, patrimoniali e finanziari, e
inseriti nelle banche dati
dell’anagrafe tributaria compreso anche l’archivio dei rapporti finanziari,
costituiscono documenti amministrativi ai fini dell’accesso documentale
difensivo ai sensi dell’articolo 22 e ss. della legge 241 del 1990.
Tuttavia, l’accesso agli atti è consentito solo a particolari
condizioni.
Innanzitutto è necessaria un’esigenza di tutela concreta, ossia l’onere
di dimostrare che il documento al quale si intende accedere è necessario e
indispensabile. Con particolare
riferimento, all’art 24, comma 7, L. n. 241/1990, stabilisce che “ deve
comunque essere garantito ai richidenti l’accesso ai documenti amministrativi
la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi
giudici”. Si evince che il principio di tutela prevalga rispetto a quello della
riservatezza, sempre prendendo in considerazione e ponendo una particolare
attenzione ai dati che possono essere sensibili, ossia dati personali idonei a
rilevare lo stato di salute del soggetto interessato.
La L. n. 241/1990, ha inoltre evidenziato che non
rileva la circostanza che la questione
dell’accesso agli atti sia stata sollevata anche in sede di giudizio civile.
Gli
eventuali strumenti processuali azionati nel processo civile, ai fini
dell’accesso degli atti, non incidono sull’ammissibilità di quelli contemplati
dalla disicplina dell’accesso di cui alla L n. 241/1990 e tutelati per il
tramite del processo amministrativo.
In materia di accesso agli atti amministrativi,
l’ordinamento amministrativo ha infatti posto delle norme sostanziali, che
assicurano, a determinate condizioni, l’accessibilità degli atti amministrativi,
affidnado la tutela al giudice amministrativo, prevedendo il rito ad hoc di cui
all’art. 116 c.p.a. ai sensi del quale “Contro
le determinazioni e contro il silenzio sulle istanze di accesso ai documenti
amministrativi, nonché per la tutela del diritto di accesso civico connessa
all'inadempimento degli obblighi di trasparenza il ricorso è proposto entro
trenta giorni dalla conoscenza della determinazione impugnata o dalla
formazione del silenzio, mediante notificazione all'amministrazione e ad almeno
un controinteressato. Si applica l'articolo 49. Il termine per la proposizione di ricorsi incidentali o
motivi aggiunti è di trenta giorni.”
Peraltro, la recentissima pronuncia del Cons. Stato,
Sez. II, Sent. 28.03.2023 n. 3160 ha specificato che la qualificazione
del carattere difensivo dell’istanza di accesso, stante la concezione ampia del
diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., postula che il diritto all’accesso
non possa essere ostacolato ogni qualvolta sussista la possibilità che dall’ostensione
derivi una qualche utilità per la tutela di situazioni soggettive, dovendosi
comunque verificare in astratto, e non in concreto, la potenziale utilità.
Sempre una recente sentenza del Consiglio di
Stato ha chiarito che le finalità dell’accesso devono essere dedotte e
rappresentate dalla parte in modo puntuale e specifico nell’istanza si
ostensione e suffragate con idonea documentazione, in modo da consentire
all’Amministrazione il vaglio del nesso di strumentalità necessaria tra la
documentazione richiesta con la situazione finale controversa. (Cons. Stato
Sez. VI, 12.01.2023, n. 413).
Deve dunque escludersi che sia sufficiente un
generico riferimento a non meglio definite esigente probatorie e difensive (Cons.
Stato, Ad. Plen., 18.03.2021 n. 4).
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Non c’è prova dello stalking se le vittime non hanno paura e denunciano dopo anni
Avv. Lorenzo Mariani
Con Sentenza n. 367 del
30.01.2023-13.02.2023, il Tribunale di Roma, sez. GUP, ha disposto il non
luogo a procedere perché il fatto non sussiste nei confronti di un uomo,
imputato per atti persecutori continuati (ex art. 81 cpv e 612bis c. 1 e 2 cp) nei
confronti dell’ex compagna e del suo attuale partner.
Entrambi avevano denunciato
l’uomo sul finire del 2020, dopo che questi aveva depositato alcune foto nel
giudizio civile di modifica della regolamentazione dei figli minori avuti con
la querelante. Le parti offese consideravano quegli scatti, che ritraevano
l’automobile del nuovo compagno di lei, come prova di un pedinamento. Inoltre,
asserivano che già nel 2014 l’imputato avesse minacciato l’ex compagna di
tenerla sotto controllo, di cacciarla dalla casa familiare e di sottrarle i
figli perché non accettava la sua nuova relazione.
Il Giudice per l’Udienza Preliminare
proscioglieva l’imputato, assistito dal nostro Studio, in quanto riteneva non
provato nessuno degli elementi del reato di atti persecutori ex art. 612bis cp.
E infatti, il giudice ricordava
che il reato in questione è integrato da condotte che abbiano ingenerato nella
vittima un perdurante e grave stato di ansia o di paura o un fondato timore per
l'incolumità propria o di un prossimo congiunto oppure l’abbiano costretta ad
alterare le proprie abitudini di vita.
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Cassazione: «Se l'ex rifiuta un lavoro, addio all'assegno di mantenimento»
Secondo la recente sentenza della
Cassazione n. 2684/2023, rifiutare una proposta lavorativa seria e stabile in
assenza di una valida giustificazione potrebbe compromettere per l’ex coniuge
la possibilità di ottenere l’assegno di divorzio. La motivazione risiede nella
violazione, che in tal modo si andrebbe a realizzare, dei «doveri
postconiugali», che prevedono i principi di «autodeterminazione e
autoresponsabilità» di entrambi i componenti della ex coppia, imponendo agli
stessi di rendersi autonomi e autosufficienti rispetto all’ex coniuge.
Nello specifico, la sentenza
riguarda una ex coppia di Ancona: l’assegno divorzile inizialmente previsto era
di 48mila euro annui. L’ex marito aveva chiesto una revoca del mantenimento,
sottolineando non solo che la donna avesse da tempo una nuova relazione
stabile, ma anche che avesse rifiutato una proposta lavorativa seria - che
prevedeva un reddito da 32mila euro annui - oltre alla possibilità di una
polizza assicurativa a suo nome per ottenere una pensione integrativa. Per i
giudici d’appello, però, la stabilità della nuova relazione non sarebbe stata
adeguatamente dimostrata, mentre l’offerta lavorativa è stata considerata
«strumentale» a ottenere una riduzione, oppure la revoca, dell’assegno di mantenimento,
visto che l’accordo di divorzio prevedeva la possibilità di ricalcolare
l’importo se la donna avesse trovato un impiego part-time con uno stipendio
mensile superiore ai mille euro.
La Cassazione ha invece dato
ragione all’ex marito, annullando la sentenza di secondo grado. Non per quanto
riguarda la nuova relazione della donna però, che infatti non è stata
considerata un motivo fondato di ricorso statuendo che «In tema di assegno
divorzile in favore dell’ex coniuge economicamente più debole, questi, se privo
anche nell’attualità di mezzi adeguati e se impossibilitato a procurarseli per
motivi oggettivi, conserva il diritto al riconoscimento dell’assegno, in
funzione esclusivamente compensativa».
È stato invece ritenuto «fondato»
il motivo di ricorso che riguarda il rifiuto dell’offerta lavorativa ricevuta
dalla donna, insieme alla polizza assicurativa. Considerate la serietà
dell’offerta e la congruità dell’impiego rispetto alla formazione della donna,
la Corte ha ritenuto che la ex moglie, rifiutando la proposta, avrebbe violato
«i doveri postconiugali». Una nuova modifica ai principi che regolano gli
assegni di divorzio, che interviene a poca distanza dall’altra recente sentenza
secondo cui l’assegno di mantenimento dopo il divorzio può essere revocato a
chi effettua «spese voluttuarie». Oppure a chi invece di lavorare si dedica allo
svago, fa acquisti non necessari, e non si impegna nel cercare un’occupazione.
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La Cassazione: «I bambini non devono essere costretti a vedere i nonni»
La Cassazione civile, sez. I, con la sentenza n. 288131/2023 statuisce che il diritto dei nonni a frequentare i nipoti minorenni «non può prevalere sull’interesse dei bambini che manifestano contrarietà a tale relazione». Nonni e zii devono appianare i contrasti e le tensioni con i genitori del minore se vogliono esercitare il loro diritto, non incondizionato, a vedere i nipoti. Non sono infatti i minori a doversi sacrificare per il tornaconto degli ascendenti, in nome di un ipotetico pregiudizio che potrebbe derivare dall’assenza di queste figure nella loro crescita. Partendo da questi presupposti, la Cassazione, accoglie il ricorso di una coppia di genitori, teso ad evitare gli incontri, non graditi dai loro figli minori con i nonni e uno zio paterno, visti gli attriti che avevano addirittura portato un giudice a prescrivere alla nonna paterna l’assistenza di uno psichiatra a causa dell’elevata conflittualità (provvedimento poi revocato). La Suprema corte fa come principio cardine per dirimere la controversia quello dell’interesse superiore del minore, che prevale sia sull’interesse dei genitori che di altri familiari.
Per la Suprema corte infatti, è fuor di dubbio che ciascun minore ha un rilevante interesse a fruire di un legame, relazionale ed affettivo, con i propri familiari. Relazioni che, normalmente, funzionano secondo linee armoniche e spontanee. Ci sono però i casi particolari in cui il risultato di rapporti, d’abitudine tranquilli, generano «situazioni limite che esigono l’intervento giudiziale, quando non sia sufficiente il buon senso a far superare le frizioni».
Secondo la Cassazione non ci può essere infatti alcuna «imposizione "manu militari" di una relazione sgradita e non voluta» soprattutto se si tratta di ragazzi capaci «di discernimento» o che abbiano compiuto 12 anni. Il giudice evidenzia infatti che l’articolo 317-bis del Codice civile, nel riconoscere agli ascendenti un vero e proprio diritto a mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni, non ha un carattere incondizionato «ma ne subordina l’esercizio e la tutela, a fronte di contestazioni o comportamenti ostativi di uno o entrambi i genitori, a una valutazione del giudice avente di mira l‘ “esclusivo interesse del minore”». L’obiettivo è dunque la «realizzazione di un progetto educativo e formativo, volto ad assicurare un sano ed equilibrato sviluppo della personalità del minore, nell’ambito del quale possa trovare spazio anche un’attiva partecipazione degli ascendenti, quale espressione del loro coinvolgimento nella sfera relazionale ed affettiva del nipote». Un fine che può essere realizzato solo grazie alla buona volontà degli adulti.
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Disaccordo tra genitori su scelte di rilevante importanza per i figli: educazione, residenza e salute
Numerose pronunce della
Cassazione hanno per oggetto la problematica situazione del contrasto tra
coniugi separati su scelte educative e/o di vita importanti relative ai figli minori.
Al riguardo è possibile richiamare
l’ordinanza n.21553/2021 con cui la Cassazione, in relazione ad un contrasto
dei genitori sorto relativamente alla scelta della scuola, se laica o
confessionale, da far frequentare ai propri figli, statuisce che “il contrasto
tra genitori (in questo caso separati) va risolto avendo come criterio guida il
preminente interesse del minore a una crescita sana ed equilibrata anche quando
questo comporti la limitazione, a volte temporanea, di ideali, valori, principi
dei genitori pure essi meritevoli di tutela costituzionale.”
Di questo principio la
giurisprudenza fa sapiente applicazione anche al di fuori della casistica
connessa alla scelta del tipo di scuola da far frequentare ai propri figli.
Quest’ultimo acquista rilievo anche nelle questioni relative alle scelte in
materia di tutela di salute.
In particolare, la pandemia e la
relativa scelta se sottoporre o meno i minori al vaccino anti-Covid, ha generato
profondi contrasti all’interno delle famiglie. Una tra le più significative
pronunce al riguardo autorizza un padre divorziato “a prestare, senza necessità
del consenso materno, l’assenso affinché la figlia possa ricevere vaccinazioni
obbligatorie e non, ed effettuare tamponi antigenici e/o molecolari al bisogno”.
La lunga e articolata argomentazione della pronuncia in esame, mette in grande
evidenza come di fatto la Corte di merito abbia seguito il principio della
necessaria priorità dell’interesse del minore aldilà delle convinzioni personali
dei genitori.
Infine, occorre richiamare un ultimo
caso relativo alla scelta della residenza del minore. Nel caso di genitori separati
il problema che si pone è se il genitore collocatario del minore possa autonomamente
decidere di cambiare residenza, incidendo inevitabilmente questa sua scelta sulle
modalità di esercizio del diritto di visita dell’altro genitore, nonché sulla
vita di relazione del minore. Anche in questo caso la corte dava applicazione
del principio sopra menzionato statuendo che di fronte a scelte insindacabili,
in quanto corrispondenti ad un diritto costituzionalmente garantito, in ordine
alla propria residenza compiute da parte dei coniugi separati che però non
comportano la perdita dell’idoneità ad essere collocatari dei figli minori, il
giudice ha esclusivamente il dovere di valutare se sia più funzionale al
preminente interesse dei minori il collocamento presso l’uno o l’altro dei genitori.
Il giudice è quindi tenuto a definire la controversia guardando al preminente
interesse dei minori ad una crescita sana e ad uno sviluppo armonico della personalità,
che si traduce in primis nel mantenere adeguati e costanti rapporti con
entrambi i genitori.
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CTU contabile per la madre sospettata di sperperare il mantenimento della figlia
Avv. Lorenzo Mariani
Il Tribunale di Roma, Sez. I,
con Decreto del 10.01.2023, in un procedimento di divorzio giudiziale, ha
disposto una CTU contabile sulla situazione patrimoniale e reddituale della
resistente, in seguito alle doglianze del ricorrente per cui la donna
dissiperebbe l’ingente mantenimento mensile da lui corrisposto per la figlia
minore della coppia.
Infatti, l’uomo – difeso dal
nostro Studio - allegava che la signora stesse mettendo in pericolo le esigenze
della minore: ad esempio aveva rischiato una procedura di sfratto per mancata
corresponsione dei canoni di locazione dell’immobile in cui aveva dimorato con
la bambina.
Inoltre, dall’esame dei conti correnti intestati alla resistente, emergeva in
modo inequivoco l’utilizzo dell’assegno di mantenimento per la figlia per
finalità personali della donna.
Quest’ultima, peraltro, nonostante l’elevato importo delle somme messe a sua
disposizione, si era ripetutamente esposta ad elevato rischio di insolvenza, con
annessa segnalazione alla Centrale Rischi e ulteriori costi per interessi e
spese legali.
Per tale motivo, oltre
all’espletamento di una CTU contabile, l’uomo chiedeva di: “ assumere, ex
art. 333 cc, i provvedimenti più idonei per tutelare [la minore] dalle condotte
pregiudizievoli della madre, anche con nomina di un curatore speciale con
poteri ad acta, stanti gli indebitamenti, lo sperpero delle risorse economiche
destinate alla minore, il rifiuto costante della madre di addivenire a un accordo
sulla gestione delle stesse, nonché stanti le carenze genitoriali della signora
dimostrato dall’andamento scolastico di [minore] nonché la pretesa della
signora di decidere unilateralmente sulla vita e le attività di [minore]
nonostante la motivata opposizione del padre, come dimostra la vicenda
dell’equitazione (…)
nominare un curatore speciale per la minore, anche con poteri ad acta idonei a
intervenire nella gestione delle risorse economiche e in ogni altra questione
relativa alla stessa.
Disporre, ex art. 709 ter c. 2 n. 2 cpc e in via equitativa, un risarcimento a
carico della sig.ra [resistente] e in favore di [minore] o, in subordine:
- disporre in via equitativa
risarcimento ex art. 709 ter c. 2 n. 3 cpc a carico della sig.ra [resistente] e
in favore del sig. [ricorrente] con condanna ex art. 614 bis cpc per ogni
giorno di inosservanza dei provvedimenti.”
La signora negava invece di avere
mai posto in essere comportamenti pregiudizievoli nei confronti della figlia, evidenziando
di essersi limitata a non pagare il canone di locazione dell’immobile in cui
dimorava con lei quando già aveva preso in locazione un altro appartamento. La
donna precisava poi che le somme destinate alla minore (inizialmente contenute
al solo importo di € 800,00) erano state destinate interamente alla stessa e
che il ricorrente non poteva sindacare le scelte di investimento che la resistente
aveva fatto in relazione al proprio assegno di mantenimento.
Il giudice, tenuto conto
preliminarmente dell’alta conflittualità tra i genitori anche su questioni di
natura educativa, sportiva e sanitaria, nominava un curatore speciale nell’interesse
della minore e al fine di garantire l’attuazione dei provvedimenti dettati dal
Tribunale.
Inoltre, disponeva indagini da parte dei Servizi Sociali, così da
verificare le condizioni di vita individuali, familiari e sociali della figlia.
Infine, disponeva CTU contabile sulla
signora, onde verificare la natura e la qualità delle entrate di pertinenza
della stessa e l’utilizzo delle somme a vario titolo incamerate, per i
provvedimenti di competenza del Tribunale quanto alla corretta quantificazione
dell’assegno di mantenimento per la resistente e per la figlia minore oltre che
per ogni altro provvedimento di competenza del giudice in tema di affido della
minore.
In particolare, il decreto:
“2. DISPONE procedersi a
C.T.U. contabile nei confronti della sig.ra [resistente] ai fini della verifica
della capacità reddituale, patrimoniale e finanziaria della stessa - in
relazione al periodo che va dall’1/01/2019 sino all’attualità – in particolare
quanto all’attività dalla stessa svolta, al suo patrimonio e alle entrate a vario
titolo alla stessa riconducibili, onde verificarne la natura e la qualità
nonché l’utilizzo delle somme da quest’ultima incamerate, specificando, ove
possibile, in quale misura e per quali finalità l’assegno versato dal
ricorrente per la figlia minore risulti destinato ad esigenze di mantenimento
della figlia minore, ordinario o straordinario (tenendo conto del Protocollo di
Intesa del Tribunale di Roma del 2014);
3. DELEGA a tal
fine il C.T.U. a richiedere informazioni e acquisire documenti presso tutti gli
enti pubblici e/o privati e precisamente: Registro delle Imprese, Agenzia delle
Entrate e relative Direzioni Provinciali
e Regionali, ACI/PRA, ENAC, Istituti di Credito, Finanziari e Assicurativi,
presso i quali la resistente detiene e/o ha detenuto rapporti finanziari con
invito a produrre un elenco dettagliato degli stessi e tutti i relativi
documenti, nonché alle Società presso le quali la stessa detiene e/o hanno
detenuto partecipazioni e/o ricoperto incarichi societari, sia direttamente che
per interposta persona fisica e/o giuridica, con invito a produrre le scritture
contabili e/o i documenti necessari per la risposta al quesito;
4. AUTORIZZA il
C.T.U. a richiedere direttamente alla Guardia di Finanza territorialmente
competente ogni altra informazione relativa alla situazione reddituale e
patrimoniale della resistente che si renda necessaria ai fini dell’espletamento
del proprio incarico; “
Il giudice fissava poi l’udienza
di valutazione della CTU in modalità cartolare, ex art. 127 ter cpc, e riservava
all’esito la decisione sulle altre domande del ricorrente.
Il provvedimento è successivo a
quello del 15.12.2021, presente sul nostro sito, con il quale il giudice aveva
concesso al ricorrente di accedere alle banche dati degli istituti di credito di
cui era cliente l’ex moglie, dopo che l’uomo aveva rappresentato al magistrato delle
irregolarità sulla gestione del mantenimento per la figlia, emerse da un’indagine dell’Agenzia
delle Entrate.
In quell’occasione, il magistrato
aveva anche ammonito ex art. 709 ter cpc la resistente a impiegare il mantenimento
della figlia per le esigenze della
stessa.
Tribunale di Roma, Sez. I, 10.01.2023 (testo integrale)
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Sostituzione nella mediazione obbligatoria: per il Tribunale di Roma non è necessaria la procura notarile
Tribunale di Roma, Sez. XVIII, Sent. 02.01.2023, n.62.
"Non è fondata l’eccezione della convenuta di improcedibilità della domanda per mancata comparizione personale dell’attore al procedimento di mediazione, in quanto questi ha conferito procura speciale al suo difensore; il potere della parte di sostituire a sé stesso un terzo soggetto per la partecipazione alla mediazione può essere conferito con una procura speciale sostanziale, con la conseguenza che solo in assenza di tale procura il giudice potrà dichiarare l’improcedibilità del giudizio per non avveramento della condizione prevista nell’art. 5 d.lgs. n. 28/2010."
Per il Tribunale di Roma, quindi, solo l'assenza fisica della procura speciale a sostituire in mediazione comporta la pronuncia di improcedibilità della causa, a nulla rilevando altre circostanze come la mancanza di autenticazione notarile.
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Stepchild adoption e maternità surrogata
La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con la sent. n. 38162 depositata in data 30.12.2022 ha statuito che i bambini nati all'estero con maternità surrogata potranno essere riconosciuti in Italia come figli di entrambi i genitori con l'adozione in casi particolari, che richiede il consenso del Giudice.
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Alienazione di alloggi di edilizia agevolata: il termine quinquennale decorre dall’effettiva assegnazione del cespite dal de cuius e non dall’atto pubblico che la formalizza
Avv. Lorenzo Mariani
Cass. Civ. Sez. II, Sent., 28.12.2022 n.37895
È causalmente valida la scrittura
privata con cui l'alienante di un immobile di edilizia agevolata si obbliga
a corrispondere i relativi contributi consortili all’acquirente. Tale
pattuizione è indipendente dal fatto che quest’ultimo possegga o meno i
requisiti soggettivi: il nuovo proprietario sta infatti chiedendo non una contribuzione
dallo Stato, ma le somme in possesso dell’alienante. Con la compravendita,
queste hanno perso il vincolo di destinazione a beneficio del legittimato alla
sovvenzione e, pertanto, ben potrebbero essere impiegate dall’acquirente per
fini diversi da quelli previsti dallo Stato.
Non è nulla la compravendita di
un alloggio di edilizia agevolata avvenuto prima del quinquennio (ex art. 20 L.
179/1992) dal formale atto di intestazione all’alienante, ma ben oltre cinque
anni dalla effettiva assegnazione e consegna dell’immobile per successione dal
defunto padre.
Il predetto termine opera dalla assegnazione effettiva del cespite, non dal
formale atto pubblico di trascrizione del precedente acquisto.
Così ha deciso la Suprema Corte
di Cassazione, con Sent. n. 27895/2022, riconoscendo le ragioni della
acquirente dell’immobile, difesa dall'Avv. Vincenzo Mauro dello Studio M&A.
L’arresto affronta anche
interessanti questioni di diritto processuale.
Si tratta infatti del culmine di una
complessa e lunga vicenda che ha riguardato due decreti ingiuntivi, azionati
dalla nostra assistita, avverso la precedente proprietaria di un alloggio di edilizia
agevolata, al fine di ottenere le somme corrispondenti a contributi consortili maturati
rispettivamente dal 2000 al 2006 e dal 2007 al 2011.
Entrambi i decreti ingiuntivi si fondavano sulla scrittura privata con cui l’alienante
si obbligava a versare all’acquirente i suddetti contributi.
In sede di opposizione, la precedente proprietaria sosteneva che la scrittura
privata fosse nulla perché contraria alle norme imperative, al pari
dell’alienazione perché avvenuta appena 10 giorni dopo il formale atto pubblico
con cui l’alienante aveva trascritto l’assegnazione dell’immobile in suo favore
per successione dal defunto padre.
Il primo decreto ingiuntivo
veniva prima confermato dal Tribunale poi annullato dalla Corte d’Appello, che
accoglieva le argomentazioni dell’opponente.
Al contrario, il secondo decreto
ingiuntivo veniva confermato in entrambi i gradi di giudizio.
L’acquirente ricorreva per
Cassazione contro la sentenza di Corte d’Appello che aveva accolto
l’opposizione, sulla base di due motivi:
1) violazione
o falsa applicazione, sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., dell'art.
20 della legge n. 179/1992, in riferimento agli artt. 2697 c.c. e 115 c.p.c. per avere la Corte territoriale
dichiarato la nullità dell'atto di vendita del 22 marzo 2000 e della correlata
scrittura privata, senza considerare, ai fini del computo del periodo
quinquennale per l'alienazione degli alloggi di edilizia economica e popolare,
che l’alienante era assegnataria dell'appartamento sin dall'anno 1987, come da
verbale di assegnazione e consegna di alloggio dell'8 maggio 1987, poi
formalizzato con l'atto pubblico del 10 marzo 2000.;
2) nullità
della sentenza ex art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., per vizio logico della motivazione, in
relazione alla contraddittorietà e alla mera apparenza del supporto
argomentativo attinente ad una quaestio facti, per avere la Corte distrettuale
escluso che l'acquirente avesse dimostrato di essere in possesso dei requisiti
soggettivi per poter beneficiare dei contributi consortili, allorché, invece,
la qualità di socio della acquirente e l'iscrizione nel libro soci della
Cooperativa sarebbero risultate documentalmente.
La Suprema Corte ha ritenuto
fondati entrambi i motivi, anche e soprattutto per via del giudicato formatosi
sulle medesime questioni di fatto e di diritto con la sentenza di Corte
d’Appello che aveva rigettato l’opposizione al secondo decreto ingiuntivo.
Prima di tutto, la corte ricorda
che:
“nel giudizio di cassazione, l'esistenza del giudicato esterno è, al pari di
quella del giudicato interno, rilevabile d'ufficio, non solo qualora emerga da
atti comunque prodotti nel giudizio di merito, ma anche nell'ipotesi in cui il
giudicato si sia formato successivamente alla pronuncia della sentenza
impugnata, come nel caso di specie.
Si tratta, invero, di un elemento che non può essere incluso nel fatto, in
quanto, pur non identificandosi con gli elementi normativi astratti, è ad essi
assimilabile, essendo destinato a fissare la regola del caso concreto, e
partecipando quindi della natura dei comandi giuridici, la cui interpretazione
non si esaurisce in un giudizio di mero fatto. Il suo accertamento, pertanto,
non costituisce patrimonio esclusivo delle parti, ma, mirando ad evitare la formazione
di giudicati contrastanti, conformemente al principio del ne bis in idem,
corrisponde ad un preciso interesse pubblico, sotteso alla funzione primaria
del processo, e consistente nell'eliminazione dell'incertezza delle situazioni
giuridiche, attraverso la stabilità della decisione.
Tale garanzia di stabilità, collegata all'attuazione dei principi
costituzionali del giusto processo e della ragionevole durata, i quali
escludono la legittimità di soluzioni interpretative volte a conferire rilievo
a formalismi non giustificati da effettive e concrete garanzie difensive, non
trova ostacolo nel divieto posto dall'art. 372 c.p.c., il quale, riferendosi
esclusivamente ai documenti che avrebbero potuto essere prodotti nel giudizio
di merito, non si estende a quelli attestanti la successiva formazione del
giudicato; questi ultimi, d'altronde, comprovando la sopravvenuta formazione di
una regula iuris, alla quale il giudice ha il dovere di conformarsi in
relazione al caso concreto, attengono ad una circostanza che incide sullo
stesso interesse delle parti alla decisione, e sono quindi riconducibili alla
categoria dei documenti riguardanti l'ammissibilità del ricorso.
La produzione di tali documenti può aver luogo unitamente al ricorso per
cassazione, se si tratta di giudicato formatosi in pendenza del termine per
l'impugnazione, ovvero, nel caso di formazione successiva alla notifica del
ricorso, come nella fattispecie, fino all'udienza di discussione prima
dell'inizio della relazione; solo qualora la produzione abbia luogo oltre il
termine stabilito dall'art. 378 c.p.c. per il deposito delle memorie, dovendo
essere assicurata la garanzia del contraddittorio, la Corte, avvalendosi dei
poteri riconosciutile dall'art. 384, terzo comma, c.p.c., nel testo modificato
dal d.lgs. n. 40/2006, deve assegnare alle parti un opportuno termine per il
deposito in cancelleria di eventuali osservazioni (Cass. Sez. L, Ordinanza n.
12754 del 21/04/2022; Sez. 2, Ordinanza n. 1534 del 22/01/2018; Sez. 1,
Sentenza n. 26041 del 23/12/2010; Sez. U, Sentenza n. 13916 del 16/06/2006).”
E che:
“qualora in due giudizi tra le
stesse parti siano fatti valere due crediti fondati sul medesimo rapporto
giuridico ed uno dei due sia stato definito con sentenza passata in giudicato,
l'accertamento così compiuto, in ordine alla situazione giuridica, ovvero alla
soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale
comune ad entrambe le cause, formando la premessa logica indispensabile della
statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza con autorità di cosa
giudicata, preclude il riesame dello stesso punto di diritto accertato e
risolto, e ciò anche se il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle
che hanno costituito lo scopo ed il petitum del primo (Cass. Sez. 3, Ordinanza
n. 27013 del 14/09/2022; Sez. 2, Ordinanza n. 11314 del 10/05/2018; Sez. 6-5,
Ordinanza n. 5478 del 05/03/2013; Sez. 5, Sentenza n. 10280 del 04/08/2000;
Sez. 3, Sentenza n. 3795 del 16/04/1999)”.
Per tali motivi, la Suprema Corte
hanno accolto il ricorso e rinviato alla Corte d’Appello in differente
composizione.
Cass. Civ., Sez. II, Sent., 28.12.2022 n. 37895 (testo integrale)
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Se la ex spende più di quanto guadagna, niente assegno divorzile.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi
Sigg.ri Magistrati:
Dott. ACIERNO Maria -
Presidente -
Dott. TRICOMI Laura -
Consigliere -
Dott. CAIAZZO Rosario
- Consigliere -
Dott. CAPRIOLI Maura
- rel. Consigliere -
Dott. FIDANZIA Andrea
- Consigliere -
ha pronunciato la
seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto
al n. 15391/2020 R.G. proposto da:
A.A., elettivamente
domiciliato in MARINO VIA DELLE MOLETTE 40/B, presso lo studio dell'avvocato
CHIAPPA DANIELA, (CHPDNL68L51H501X) che lo rappresenta e difende;
- ricorrente -
contro
B.B., elettivamente
domiciliato in ROMA VIA PAPIO MARCO, 15, presso lo studio dell'avvocato ANSELMI
FRANCESCA (NSLFNC75C61H501S) che lo rappresenta e difende;
- controricorrente -
avverso SENTENZA di
CORTE D'APPELLO ROMA n. 6068/2019 depositata il 11/10/2019;
Udita la relazione
svolta nella camera di consiglio del 04/11/2022 dal Consigliere MAURA CAPRIOLI.
Svolgimento del processo
Ritenuto che:
La Corte di appello
di Roma, con sentenza nr 6068/2019, accoglieva l'appello proposto da B.B. nei
riguardi di A.A. rigettando la domanda di assegno divorzile proposta dall'ex
moglie.
Il giudice del
gravame, richiamati i più recenti approdi di questa Corte in tema di
presupposti per il riconoscimento dell'assegno divorzile, riteneva, alla luce
delle risultanze di causa, che non fosse stato provato alcunché in ordine al
suo apporto alla vita familiare.
Osservava che in sede
di separazione i coniugi si erano riconosciuti reciproca indipendenza economica
avendo regolato gli ulteriori rapporti economici fra di loro. In questo quadro
la Corte di distrettuale rilevava che la richiesta dell'attribuzione
dell'assegno divorzile giustificata dall'avvenuto licenziamento della
richiedente nel corso del giudizio di primo grado non poteva avere effetti
automatici sulla capacità di lavoro e reddituale che le aveva consentito di
fruire di una entrata annua di Euro 22.000,00.
Il giudice del
gravame riteneva che l'appellata non avesse assolto all'obbligo di dimostrare
di essersi attivata nella ricerca di altra attività lavorativa con la mera
produzione di qualche e-mail senza alcun riscontro.
Evidenziava che la
situazione denunciata dalla A.A. relativamente alla inadeguatezza dei mezzi non
poteva considerarsi attendibile non avendo la medesima ritenuto di chiarire
come potesse provvedere al pagamento del canone di locazione di Euro 500,00
mensili, al rimborso della rata di finanziamento di circa 368,00 mensili, a
mantenere l'autovettura e a corrispondere le spese per l'utilizzo di una carta
di credito di circa Euro 400,00/500,00 mensili oltre a spese sanitarie per Euro
5.067,00 annui. Sottolineava che tali elementi lasciavano fondatamente ritenere
la sussistenza di fonti non dichiarate che consentivano alla A.A. di far fronte
agli oneri eccedenti le disponibilità dovute al sussidio di disoccupazione.
La Corte distrettuale
osservava che il mancato deposito dell'accordo raggiunto in sede di
licenziamento e della documentazione relativa al tfr, malgrado fossero stati
più volte sollecitati, confermava l'inaffidabilità delle condizioni dichiarate
dall'appellata la quale era venuta meno al dovere di lealtà processuale cui
sono tenuti i coniugi nei giudizi di separazione e divorzio valutabile ex art.
116 c.p.c., comma 2.
Avverso tale sentenza
A.A. propone ricorso per cassazione affidato a due motivi cui resiste con
controricorso B.B..
Motivi della decisione
Considerato che:
Con il primo motivo
si deduce la violazione e falsa applicazione dell'art. 116, in relazione all'art.
360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.
Si sostiene che la
Corte di appello avrebbe fondato il suo convincimento relativamente alla
presenza delle fonti di reddito non dichiarate dalla ricorrente unicamente su
di una presunzione semplice derivante dall'omessa produzione in giudizio di due
documenti: la transazione stipulata in sede di licenziamento ed il trattamento
di fine rapporto.
Si lamenta, in
particolare, che il giudice di merito non avrebbe dato il giusto rilievo alle
prove documentate in atti attestanti la mancanza di "mezzi adeguati"
quali il procedimento di demansionamento e la conseguente decurtazione della
retribuzione mensile, la lettera di licenziamento, la dichiarazioni sostitutiva
di un atto notorio e le comunicazioni di accredito di Banco posta attestanti la
percezione dell'indennità di disoccupazione, il contratto di locazione e le
ricevute di pagamento del canone oltre alle dichiarazione dei redditi.
Si rileva inoltre che
la Corte distrettuale si sarebbe limitata a sanzionare la richiedente per la
mancata esibizione della documentazione su precisata che comunque non avrebbe
mai potuto attestare l'autosufficienza economica.
Con il secondo motivo
si denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 898 del 1970, art.
5, comma 6, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Si duole in
particolare che la Corte non avrebbe indicato quali prove l'odierna ricorrente
avrebbe dovuto produrre ai fini di dimostrare la fondatezza della propria
domanda di assegno divorzile.
Si afferma inoltre
che la decisione impugnata non avrebbe tenuto conto delle condizioni oggettive
di impossibilità di reperire una occupazione quali l'età, il livello di
specializzazione e la crisi economica nonché la differenza fra le due posizioni
reddituali né valutato il contributo dato dalla richiedente alla carriera
dell'ex coniuge. Il primo motivo è inammissibile in ragione della illegittimità
della pretesa della odierna ricorrente di ridiscutere il modo attraverso il
quale il giudice di appello ha valutato i mezzi di prova complessivamente
acquisiti al giudizio, trattandosi di una proposta di rilettura nel merito dei
fatti di causa, non consentita in questa sede di legittimità.
La Corte di appello,
diversamente da quanto sostenuto nel ricorso, ai fini dell'adeguatezza dei
mezzi di sussistenza e della capacità lavorativa, ha considerato non solo le
dichiarazioni dei redditi delle parti ma anche gli oneri di spese di cui era
gravata la richiedente pervenendo alla conclusione della esistenza di fonti non
dichiarate eccedenti le disponibilità del sussidio di disoccupazione.
Conclusione questa
rafforzata, sempre secondo la insindacabile valutazione dei fatti compiuta
dalla Corte d'Appello, dal mancato deposito dell'accordo transattivo raggiunto
con il datore di lavoro e del documento attestante la percezione del tfr da
parte dell'odierna ricorrente al termine del rapporto, valutati dal giudice del
merito unitamente agli altri elementi presuntivi e posti a base del suo
convincimento ex art. 116 c.p.c.. Del pari inammissibile perché
fondata su una valutazione dei fatti alternativa a quella risultante
dall'accertamento compiuto dal giudice del merito, è la censura relativa alla
mancanza di autosufficienza economica cui dovrebbe pervenirsi anche sulla base
delle risultanze istruttorie valorizzate dal giudice del merito.
Le valutazioni,
censurate come ipotetiche non scalfiscono il quadro probatorio,
insindacabilmente valutato dalla Corte d'Appello fondato sulla capacità di
spesa attuale e sulla mancanza colpevole di un quadro effettivo della
consistenza economico patrimoniale e reddituale della parte ricorrente.
Il secondo motivo
nella parte in cui critica la mancata valorizzazione di condizioni oggettive
(l'impossibilità di reperire una nuova occupazione a causa dell'età e della
mancanza di una specializzazione, della differenza fra le posizioni reddituali
e il contributo dato dalla moglie alla carriera del marito) è parimenti
inammissibile.
La decisione della
Corte di Roma si basa su un accertamento in fatto, fondato su una valutazione
delle risultanze istruttorie adeguatamente motivata e, conseguentemente, non
suscettibile di riesame in sede di legittimità.
Con la censura in
esame, in sostanza, la ricorrente contrappone alla ricostruzione proposta dalla
Corte distrettuale, una lettura alternativa del fatto e delle prove, senza
considerare il duplice principio, che merita di essere ribadito, per cui:
1) il motivo di
ricorso non può mai risolversi in un'inammissibile istanza di revisione delle
valutazioni e del convincimento del giudice di merito tesa all'ottenimento di
una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del
giudizio di cassazione (Cass. Sez. U, Sentenza n. 24148 del 25/10/2013,
Rv. 627790); 2) "L'esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei
testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova
testimoniale, il giudizio sull'attendibilità dei testi e sulla credibilità di
alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie,
di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono
apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a
fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre,
non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio
convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a
confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente
disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati
specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata"
(Cass. Sez. 3, Sentenza n. 12362 del 24/05/2006, Rv. 589595: conf. Cass.
Sez. 1, Sentenza n. 11511 del 23/05/2014, Rv. 631448; Cass. Sez. L,
Sentenza n. 13485 del 13/06/2014).
La Corte di appello,
contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, ha vagliato le affermazioni
della richiedente tenendo conto del materiale probatorio acquisito in causa
sottolineando per quanto riguarda il profilo compensativo che non era stato dimostrato
il contributo che la richiedente aveva dato alla carriera professionale del
marito.
Alla stregua delle
considerazioni sopra esposte il ricorso va dichiarato inammissibile. Le spese
della fase di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano in favore della
controricorrente come da dispositivo.
Va disposto che in
caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle
parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. n. 30 giugno 2003
n. 196, art. 52.
P.Q.M.
La Corte dichiara
inammissibile il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento della somma di
Euro 2500,00 per compensi oltre 200,00 per esborsi oltre accessori di legge in
favore della parte controricorrente;
si dà atto della
sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della
ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a
quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se
dovuto.
Dispone che in caso
di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e
dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. n. 30 giugno 2003 n. 196,
art. 52.
Conclusione
Così deciso in Roma,
il 4 novembre 2022.
Depositato in Cancelleria il 15 dicembre 2022
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Assegno divorzile: Non sindacabili in Cassazione censure sul merito del giudizio.
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Domanda di determinazione degli obblighi di mantenimento del figlio residente all’estero: la competenza è italiana.
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Assegno di divorzio: dovuto anche se l’ex convive con un altro.
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La violazione degli obblighi di assistenza familiare sussiste anche nell'ipotesi di versamento parziale.
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Assegno divorzile: indispensabile la valutazione dell'apporto alla vita familiare fornito coniuge economicamente più debole.
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Nullità degli accordi dei coniugi separati in vista del divorzio.
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Minore con due mamme: sì alla dicitura “genitore” sulla carta di identità.
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Furto di corrente elettrica: non applicabile la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto.
23/11/22
Stato di necessità di chi guida nonostante la sospensione della patente: onere della prova.
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Stato di necessità di chi guida nonostante la sospensione della patente: onere della prova.
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Figli costretti a incontri col padre violento: condannata l’Italia
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Ripetibilità delle somme versate a titolo di assegno.
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Responsabilità medica: il danneggiato deve provare la causalità materiale e giuridica.
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Costituisce molestia anche l’invio di messaggi WhatsApp sgraditi.
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Procedibile d’ufficio il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare.
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Post diffamatorio su Facebook riconducibile al titolare del profilo.
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Revisione dell'assegno divorzile: presupposti.
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Il figlio assume i cognomi di entrambi i genitori (salvo diverso accordo al momento del riconoscimento).
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Assegno divorzile anche per il mantenimento alla dimora familiare.
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Reiterate violenze fisiche e morali inflitte al coniuge: addebito automatico.
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Limiti al mantenimento dei figli maggiorenni non autosufficienti.
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Cause aventi ad oggetto rapporti obbligatori sorti tra parti legate da un rapporto affettivo venuto meno: competenza territoriale.
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Per ridurre l'assegno divorzile occorre dimostrare l'effettiva possibilità di lavorare.
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Separazione e figli residenti all’estero: la competenza a decidere sulla domanda di determinazione degli obblighi di mantenimento del figlio residente all’estero.
24/10/22
Assegno di mantenimento: redditi occultati al fisco e le indagini della polizia tributaria.
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Assegno di mantenimento: redditi occultati al fisco e le indagini della polizia tributaria.
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La convivenza more uxorio fa venir meno il diritto dell'ex al mantenimento.
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La separazione dei coniugi come causa di illecito endofamiliare: risarcimento del danno non patrimoniale a favore dei figli adottivi.
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Quantificazione del danno endofamiliare da privazione del rapporto genitoriale.
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Sul diritto alla provvigione del mediatore.
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L'incidenza economica dell'assegnazione della casa familiare nella quantificazione dell'assegno di mantenimento.
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Spetta a chi chiede l'addebito della separazione all'altro coniuge provare l'infedeltà e il nesso causale con la fine della relazione.
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Niente risarcimento se il cane morde il veterinario imprudente, anche in presenza del padrone
Avv. Lorenzo Mariani
Con Sentenza n. 13136 del 08.09.2022
il Tribunale di Roma ha rigettato la domanda di risarcimento ex art. 2052 cc da
parte di una veterinaria, che aveva convenuto in giudizio il padrone di un
grosso cane di razza Corso, da cui era stata morsa sul labbro poco prima di operarlo
agli occhi.
A detta dell’attrice, il cane l’avrebbe
aggredita mentre stava venendo sedato, in presenza del padrone che lo teneva al
guinzaglio.
Il proprietario del cane, e la
compagnia assicurativa chiamata in causa, sostenevano invece che in primo luogo
la responsabilità ex art. 2052 fosse traslata dal proprietario alla danneggiata
che ne aveva la custodia; in secondo luogo, che comunque la responsabilità
dovesse ritenersi esclusa per caso fortuito consistente nel comportamento della
danneggiata, la quale non aveva controllato la predisposizione e la attuazione del piano anestesiologico e, soprattutto, si era più volte avvicinata imprudentemente al volto
del cane, privo di museruola.
In seguito all’espletamento dell’interrogatorio
formale e dell’ascolto della anestesista quale testimone, la causa veniva
trattenuta in decisione con termine per note ex art. 190 cpc.
Nel rigettare la domanda, il
giudice ha ripercorso brevemente i principi fondanti la responsabilità
oggettiva ex art. 2052 cc:
“Poiché il limite della
responsabilità risiede nell'intervento di un fattore ("salvo che provi il caso
fortuito") che attiene non ad un comportamento del responsabile, ma
alle modalità di causazione del danno, la rilevanza del fortuito deve essere
apprezzata sotto il profilo causale, in quanto suscettibile di una valutazione
che consenta di ricondurre ad un elemento esterno, anziché all'animale che ne è
fonte immediata, il danno concretamente verificatosi.
Spetta dunque all'attore provare
l'esistenza del rapporto eziologico tra il comportamento dell'animale e
l'evento dannoso secundum o contra naturam, comprendendosi in tale concetto
qualsiasi atto o moto dell'animale quod sensu caret, mentre il convenuto, per
liberarsi dalla responsabilità, dovrà provare non già di essere esente da colpa
o di aver usato la comune diligenza e prudenza nella custodia dell'animale,
bensì l'esistenza di un fattore, estraneo alla sua sfera soggettiva, idoneo ad
interrompere quel nesso causale.”
“Ora, per assurgere a fattore
esterno idoneo a cagionare il danno, l'evento deve avere i caratteri della
imprevedibilità, inevitabilità e assoluta eccezionalità, ovvero della condotta
colposa, specifica o generica”
“La prova liberatoria del
proprietario o di chi ha in custodia l’animale, in ogni caso, non può limitarsi
alla mera allegazione di una violazione di norme di condotta imputabile al
danneggiato, essendo necessario che fornisca in concreto la prova
dell'interruzione del nesso causale con l'evento.
In tal senso, deve ritenersi che
la posizione di garanzia che grava sul detentore del cane "copre"
anche i comportamenti imprudenti altrui.”
Proprio sulla base dei predetti requisiti, il giudice riteneva provato il caso fortuito quale colpa esclusiva della veterinaria danneggiata.
E infatti, al momento del
sinistro il cane era fuori dal controllo del padrone, poiché era già stato
sedato ed affidato alle cure della veterinaria.
Il sinistro è da attribuirsi al
comportamento colposo dell'attrice, che si è avvicinata al suo muso privo
di protezioni, senza curarsi dell’eventualità che l’animale potesse reagire d’impulso.
Pertanto, in questo caso la
posizione di garanzia del padrone, seppur presente al momento del sinistro, non
ha “coperto” il comportamento della danneggiata, vista la disattenzione con cui
ha gestito il proprio paziente.
Trib. Roma, Sez. XIII, Sent., 08.09.2022, n. 13136 (testo completo)
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Non fa vedere i figli al padre perché ha ingaggiato un investigatore: per il Tribunale di Roma non è reato
Il Gip ha ritenuto che non fosse rinvenibile alcuna
fattispecie di reato poiché l’inottemperanza non sarebbe stata dovuta alla volontà di non dare corso al
provvedimento quanto piuttosto a una reazione, seppur esagerata, dell'indagata alla presenza del personale investigativo incaricato dall'ex marito in sede di richiesta di esercitare il diritto di visita ai minori.
Per il Gip, di conseguenza, tale situazione deve trovare tutela in sede civile attraverso provvedimenti che garantiscano una migliore tutela dei bambini, stante la conflittualità tra i genitori.
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Assegno divorzio: è necessario accertare il sacrificio di prospettive reddituali e professionali.
<!--#4DTEXT ad_dataCreazioneL{al_IDArticolo}--> : Undefined
Il TAR Puglia sospende cautelarmente la bocciatura di una bambina di sette anni: può avere effetti traumatici
TAR Puglia, Sez. Unite, ord. 28.07.2022
n. 347
Accolta l’istanza cautelare avverso
la bocciatura di una bambina di sette anni.
Per il Tribunale Amministrativo Regionale
della Puglia, la perdita di un anno scolastico a quell’età, oltretutto in
difetto di adeguata motivazione, costituisce ex se un grave danno, anche
alla luce dell’esclusivo interesse della minore.
Infatti, si tratta di un’esperienza
traumatica che potrebbe danneggiare l’autostima della bambina e compromettere
il rapporto di fiducia nei confronti dell’Istituzione scolastica oltre al fatto
che, in conseguenza della bocciatura, la minore verrebbe allontanata dalla classe
nella quale si stava integrando.
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No all'esimente dello "stato d'ira" per chi diffama l'ex coniuge su Facebook per via di contrasti e rancori costanti
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Inammissibili le critiche alla CTU medica se non sono state già formulate in appello
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La Cassazione sui poteri del giudice minorile nei giudizi de potestate
Cass. Civ., Sez. I, ord. 3.8.2022
n. 24118
In materia di provvedimenti sulla
responsabilità genitoriale, il giudice non può fondare la propria decisione
solo sulla dichiarazione del minore resa nel corso dell’audizione giudiziale.
Diversi sono, infatti, i poteri e
i doveri del giudicante minorile, rispetto a quelli esercitati nel diritto
civile: essi sono tanto più intensi quanto più incisivo è l’oggetto
dell’accertamento che deve essere eseguito in relazione sulla valutazione
prognostica del preminente interesse del minor pregiudizio per i minori.
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Separazione: i genitori devono proteggere il figlio dall’esposizione al conflitto in atto tra loro.
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Determinazione dell’assegno di mantenimento: le indagini della polizia tributaria come strumento per accertare il tenore di vita della famiglia.
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Ridotto l’assegno alla ex che non ha sacrificato le aspettative.
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Negoziabilità del cognome dopo la decisione della Corte Costituzionale.
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Guida sotto l’effetto di droghe, patteggiamento e sospensione della patente di guida.
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Non è discriminatorio imporre al padre di astenersi dal coinvolgere la figlia nelle sue attività religiose.
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Prima di dichiarare il minore adottabile occorre verificare l'effettiva ed attuale possibilità di recupero delle capacità e competenze genitoriali.
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Separazione: l'assegno di mantenimento va rapportato ai redditi necessari a mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.
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Revoca assegno divorzile esclusa per fatti non sopravvenuti alla pronuncia della sentenza.
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Niente ordini di protezione contro il coniuge non più convivente, anche se ha agito in giudizio per rientrare in casa
Lorenzo Mariani
Con ordinanza
del 30.06.2022, la Sezione I del Tribunale di Roma ha deciso su un ricorso per
ordini di protezione contro gli abusi familiari ex art. 342 bis cc presentato
da una donna avverso il marito.
Secondo la
ricorrente, l'uomo aveva avuto atteggiamenti via via sempre più aggressivi
verso di lei e i figli - nati da un precedente matrimonio - per i quali era
stato oltretutto denunciato. Adduceva che il resistente si era allontanato
dalla casa coniugale per poi presentare ricorso per la reintegrazione nel
possesso ex art. 1168 cc al fine di rientrarvi. L’accoglimento di tale domanda
giudiziale, quindi, avrebbe comportato il ritorno dell'uomo in casa, stante
anche il fatto che le autorità penali non avevano disposto alcuna misura cautelare
nei suoi confronti.
Il marito,
costituitosi, negava di aver mai tenuto i comportamenti violenti contestatigli,
dichiarava di non avere alcuna intenzione di tornare a convivere con la donna,
rappresentava che la signora aveva sporto denuncia-querela solo in seguito
all'allontanamento, che entrambi avevano depositato ricorso per la separazione
giudiziale e che egli aveva agito ex art. 1168 cc solo per rientrare in
possesso dei suoi effetti personali, rimasti nella casa coniugale e mai
restituiti dalla signora, la quale aveva sostituito la serratura di casa in sua
assenza.
Dopo due udienze e la sopravvenuta vittoria del marito nel giudizio di reintegra nel possesso, il giudice ha rigettato il ricorso per difetto del requisito di attuale convivenza.
Con l’occasione, il giudicante analizza vari aspetti della tutela ex artt. 342 bis e ter cc, anche in relazione alle misure cautelari di natura penale e al giudizio di separazione tra coniugi.
In breve,
secondo il ragionamento del giudice:
- la finalità
della tutela apprestata è quella di impedire, proprio con l’interruzione della
convivenza, il protrarsi o l’insorgere di situazione di pericolo per
l’integrità fisica o morale del soggetto pregiudicato all’interno del nucleo
familiare. Infatti, l'allontanamento del familiare pericoloso, assieme
all'ammonimento, rappresenta il contenuto minimo dell'ordine di protezione, ai
sensi dell'art. 342 ter cc.
- Per tale ragione,
in assenza del predetto requisito, la possibile estensione della tutela nei
confronti di ogni “altro componente del nucleo familiare diverso dal coniuge o
dal convivente” sarebbe illogica, non trovando altrimenti spiegazione la scelta
di perseguire familiari aliunde residenti, magari anche a centinaia
chilometri di distanza dalla parte lesa, rispetto a terzi, privi di
qualsivoglia rapporto di parentela, responsabili di condotte ugualmente
pregiudizievoli.
- la tutela
civilistica contro gli abusi familiari è complementare, anche se non
necessariamente successiva, a quella cautelare in sede penale, la quale non
richiede il requisito della attuale convivenza. Pertanto, avendo la signora
denunciato il marito, potrà trovare protezione in tale sede ove ve ne siano i
presupposti.
- Il requisito
della convivenza (inteso come “perdurante coabitazione”) sussiste anche quando
sia stato il familiare in pericolo ad allontanarsi per via del timore di subire
violenza fisica dal congiunto, mantenendo, tuttavia, nell'abitazione familiare
il centro degli interessi materiali ed affettivi.
Nel caso di
specie, era stato il marito ad allontanarsi, mentre la moglie era rimasta nella
casa familiare, così come era incontestato che la donna avesse cambiato la
serratura di casa e l'uomo, una volta ottenuta la reintegra nel possesso, non
avesse preteso di continuare a convivere con la donna ma avesse solo recuperato
i propri effetti personali.
- Stante la
pendenza di un giudizio di separazione, le reciproche pretese delle parti - tra
cui le allegazioni di violenza della donna - potranno trovare tutela in tale
sede una volta provate.
La pronuncia in parola conferma quindi l’orientamento,
in tema di tutela ex art. 342 bis e ter cc contro gli abusi familiari, che vede
la convivenza attuale come un requisito imprescindibile, anche in ragione del
suo carattere complementare rispetto alla tutela penale.
Sono invece rintracciabili arresti di segno
contrario, che valorizzano il rischio di ritorno del familiare in casa con
conseguente pericolo per l’incolumità del ricorrente. Si veda Tribunale
Perugia, sez. I, 7.8.2020 e Tribunale Napoli, 19 dicembre 2007.
Tribunale di Roma, Sez. I, 30.06.2022
(testo completo)
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Stati Uniti: la Corte Suprema ha de-federalizzato il diritto all'aborto.
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Relazione extraconiugale intrattenuta con la moglie del fratello della donante: è ingiuria grave.
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Cassazione: delibabilità della sentenza di nullità ecclesiastica anche in caso di convivenza ultratriennale. Attendendo il giudizio di rinvio della Corte di Appello
La Corte di Cassazione, Sez. I, con Ordinanza n. 17910 del 01.06.2022, ha rinviato la causa alla Corte di Appello di Firenze, la quale - sulla base del principio della convivenza ultratriennale - aveva negato la delibazione di una sentenza di nullità ecclesiastica per incapacità della moglie di procreare, tenuta dolosamente nascosta dalla donna all'uomo.
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Colpito dalle porte scorrevoli del supermercato: la responsabilità è extracontrattuale.
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La ex laureata e in grado di lavorare non ha diritto all’assegno di divorzio.
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Il credito relativo al mantenimento dei figli non è compensabile.
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Sulla validità del contratto vitalizio di mantenimento.
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Revocabilità di una donazione per ingratitudine.
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L'apertura della successione non comporta l'acquisto della qualità di erede in favore dei successibili ex lege.
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Illegittime tutte le norme che attribuiscono automaticamente il cognome del padre.
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Il testatore può escludere la successione per rappresentazione.
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La collazione in caso di mancanza di un relictum.
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La violazione del diritto alla bigenitorialità da parte di un genitore non comporta la decadenza dalla responsabilità genitoriale.
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Sì al mantenimento alla madre anche se il figlio va a vivere con il padre.
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Sì all’assegno divorzile in Se la sproporzione economico-patrimoniale tra le parti è riconducibile alle scelte di conduzione familiare condivise in costanza di matrimonio.
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Cassazione: si all'adozione ad opera del coniuge della madre anche se il padre biologico è ancora in vita.
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Separazione dei coniugi: Il diritto di difesa in giudizio prevale sulla tutela della privacy
Con la Sentenza n. 4296 del 18.03.2022,
la I Sezione Civile del Tribunale di Roma ha pronunciato separazione personale
tra una coppia di professionisti con due figli maggiorenni, affrontando
numerose tematiche di diritto sostanziale e processuale.
In particolare, in materia di
prova dell’infedeltà coniugale ai fini dell’addebito, il Tribunale ricordava
che la produzione in giudizio, da parte di un coniuge, di messaggi WhatsApp presenti
sul cellulare dell’altro non viola la normativa sulla privacy, poiché essa “non
trova applicazione in generale allorquando i dati personali, pur se non concernenti una parte del giudizio,
vengano raccolti nell’ambito di un processo, laddove è il diritto di difesa, esercitato
in maniera pertinente e non eccedente le sue finalità, a prevalere, con le forme stabilite
dal codice di rito (vedi Cass. civ. SU 3034/11, Cass. civ. 18279/10, 7783/14)”.
Sempre in relazione alla prova dell’addebito,
il giudice ricorda che: “le riproduzioni fotografiche, informatiche e le rappresentazioni meccaniche di cui all'art.
2712 c.c. (tra cui gli “sms” e le “emails”) formano piena prova dei fatti e
delle cose rappresentate se colui contro il quale vengono prodotte non ne disconosca la conformità ai fatti
o alle cose medesime (vedi Cass. civ. 11606/2018, 5141/2019) in modo circostanziato e specifico, mediante l’allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza
tra la realtà fattuale e quella riprodotta (vedi tra le altre Cass. civ. 1250/18,
2117/11, 17526/16)”.
La pronuncia in esame presenta
ulteriori questioni interessanti, in materia di onere della prova dell’infedeltà
coniugale - con riferimento anche all’attendibilità dei testi – nonché in materia
di prova delle condizioni economiche del coniuge economicamente più debole tramite facta
concludentia di quello più forte, di raggiungimento dell’indipendenza
economica dei figli maggiorenni e di procedibilità delle domande di
risarcimento per danno da illecito endofamiliare (in particolare il cd. per mobbing
coniugale).
Pertanto, si invita alla lettura
dell’intero provvedimento.
Trib. Roma, Sez. I, Sent.
18.03.2022, n. 4296 (testo completo)
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Il concorso tra la violenza sessuale e la violenza privata.
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L'accordo tra i genitori esclude il mantenimento ai figli? Il giudice non è vincolato.
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Obbligare la propria moglie a indossare il velo islamico è reato.
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Revocato mantenimento al figlio maggiorenne non indipendente se ha una borsa di studio
Lorenzo Mariani
Con Ordinanza del 01.03.2022, la
Prima Sezione Civile del Tribunale di Roma ha deciso in merito a una
domanda di modifica dei provvedimenti presidenziali di separazione formulata
dal marito, il quale chiedeva revocarsi il mantenimento per la moglie e i due
figli maggiorenni.
Il giudice non ha ritenuto di
poter abbattere l’assegno di mantenimento per la signora, in quanto le
dimissioni di due dipendenti dalla azienda di cui era titolare il marito non
dimostrano l’intervenuto peggioramento delle sue condizioni economiche.
Ha ritenuto però di dover
revocare l’assegno di mantenimento per uno dei figli maggiorenni della coppia.
Il giovane, sebbene non economicamente indipendente – come specifica il
giudicante stesso – ha comunque una consistente borsa di studio e frequenta
l’università all’estero. Non risulta dagli atti che egli abbia esigenze
economiche che non possa coprire col suddetto importo e, allo stesso modo, non vi
sono spese ulteriori che la madre debba affrontare per lui, circostanza
ritenuta dal giudice indispensabile per prevedere l’assegno.
Similmente, il giudice ha ritenuto
di dover ridurre il mantenimento per l’altro figlio in quanto assunto con
contratto di apprendistato da un’azienda.
Per il Tribunale di Roma, dunque,
la raggiunta autosufficienza economica del figlio maggiorenne non è una condicio
sine qua non per la perdita del diritto all’assegno di mantenimento: la
prestazione può essere revocata – quantomeno temporaneamente - anche se il
beneficiario percepisce una diversa somma che copra tutte le sue esigenze e,
allo stesso tempo, non vi siano spese ulteriori che il genitore convivente
debba sostenere per lui.
Quanto al (ridotto) assegno per
il fratello, è stata confermata la sua corresponsione nelle mani della madre.
Ciò, in applicazione di un
principio consolidato nella giurisprudenza: per quanto il genitore convivente e
il figlio maggiorenne siano titolari di diritti autonomi e concorrenti e siano
entrambi legittimati a percepire il menzionato assegno, è comunque necessario
che sia il figlio stesso a proporre autonoma domanda di mantenimento diretto,
poiché la decisione del giudice non può sottrarsi al principio della domanda.
(vedi Cass. civ. 34100/2021; Cass. civ. 25300/2013).
Ancora, va notato che il giudice
ha espressamente indicato che le nuove statuizioni economiche sono vigenti a
far data dal dicembre 2021, a implicita qualificazione delle somme già versate
come ripetibili.
Trib. Roma, Sez. I, 01.03.2022
(testo completo)
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I limiti al diritto di controllo del socio della SRL ex art. 2476 c. 2 cc
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No al vaccino anti-covid per i figli minorenni se uno dei due genitori è contrario
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Non coercibile il diritto dovere di visita del figlio minore spettante al genitore non collocatario.
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Bonus bebè e assegno di maternità anche agli stranieri regolari.
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La legittimazione alla presentazione di proposte concorrenti nell’ambito di procedure di concordato preventivo.
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Ammonimento e indagine sui conti correnti per la madre sospettata di mal gestire il mantenimento della figlia
Lorenzo Mariani
Con provvedimento del 15.12.2021,
comunicato il 22.02.2022, la Sezione Famiglia del Tribunale di Roma ha assunto delle interessanti misure provvisorie in un sub-procedimento per
modifica delle condizioni di divorzio, introdotto su istanza dell’ex marito.
L’istanza era volta a condannare
la madre, beneficiaria dell’assegno di mantenimento per la figlia minore, a
contribuire a una polizza in favore della bambina già stipulata dal padre.
Ancora, il ricorrente chiedeva di
ottenere – come supplemento di attività istruttoria nel giudizio di divorzio principale
- l’accesso alle banche dati degli istituti di credito dove la resistente
risultava avere dei conti correnti non dichiarati, secondo un’indagine
effettuata dall’Agenzia delle Entrate.
Il giudice riteneva di non poter imporre
alla resistente degli obblighi di contribuzione alla polizza contratta dal ricorrente,
in quanto atto di autonomia privata.
Riteneva però di dover ammonire
la madre “all’utilizzo delle somme ricevute dal sig. C per il
mantenimento della figlia per le finalità di cura e tutela della figlia stessa,
pena ogni possibile diverso provvedimento in tema di affido e mantenimento
della minore e possibile invio degli atti alla Procura (in relazione al
contegno della madre, ove violativo degli obblighi di mantenimento e assistenza
materiale nei confronti della figlia)”.
Infatti - ricordava il giudicante
- nel mantenimento per la minore dovevano rientrare anche le spese per
l’appartamento in cui la stessa viveva in locazione con la madre, spese cui “peraltro
deve provvedere anche la madre della minore con le risorse attuali o potenziali
derivanti dalla sua capacità
di lavoro”
E invero risultava incontestato
che la signora avesse subìto un pignoramento per canoni locatizi non versati,
nonostante l’ingente mantenimento corrispostole dall’ex marito a tale scopo.
Inoltre, viste le apparenti
irregolarità riscontrate dall’Agenzia delle Entrate, il giudice autorizzava
anche l’indagine suppletiva sulle posizioni bancarie della signora, incaricando
il ricorrente stesso di provvedere in tal senso.
Il provvedimento in parola,
assunto in seguito a trattazione scritta dell’udienza, rinviava poi ogni altra
determinazione a successiva udienza da tenersi in persona.
Trib. Roma, Sez. I, 15.12.2021-22.02.2022 (testo completo)
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Dichiarazione di adottabilità: la Cassazione fornisce ulteriori chiarimenti in proposito.
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Nella quantificazione dell'assegno divorzile non vanno considerate le elargizioni temporanee e provvisorie dei genitori del coniuge obbligato.
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Revisione dell’assegno di divorzio.
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Azienda facente parte del patrimonio ereditario e lo sfruttamento diretto da parte degli eredi.
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Imposta di successione e il trust.
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Non è inadempiente il coniuge che pignora il conto corrente su cui versa l'assegno di mantenimento all'altro
Inoltre, è ammissibile l'audizione del figlio maggiorenne (beneficiario dell’assegno, perciò da ritenersi allo stato economicamente non autosufficiente con conseguente parifica, dal punto di vista economico, al minore), in merito alle attività lavorative dallo stesso svolte e ai relativi redditi ritratti nonché al suo percorso scolastico.
Mentre è ultronea e inammissibile l'audizione del figlio nonché, in subordine, l’escussione dello stesso a testimone in merito alla sua “disponibilità” a ricevere il versamento diretto dell’assegno, atteso che la relativa statuizione, in difetto di accordo delle parti, richiede una espressa domanda del figlio mediante l’intervento dello stesso in giudizio, a tal fine consentitogli.

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L'assegno divorzile e il contributo fornito dall’ex coniuge nella realizzazione della vita familiare
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La pendenza di un procedimento per ordini di protezione contro gli abusi familiari non sospende quello per reintegrazione del possesso sulla casa coniugale
Con Ordinanza del 12.01.2022,
pubblicata il 13.01.2022, la VII Sezione Civile del Tribunale di Roma ha definito
un procedimento di reintegrazione del possesso ex artt. 1168 cc e 703 cpc,
relativo a un immobile adibito a casa coniugale, azionato dal marito avverso la
moglie.
Preliminarmente, in merito
all’eccezione di sospensione per pregiudizialità ex art 295 cpc sollevata dalla
donna sulla base della pendenza di un procedimento per ordini di protezione
contro gli abusi familiari a carico del marito, il giudice ha chiarito che: “non
sussiste alcun rapporto di pregiudizialità necessaria tra il presente giudizio
e quello promosso dalla resistente ex artt. 342 bis e ter c.c.; differenti sono
i presupposti, come non vi è necessaria coincidenza nel contenuto delle
statuizioni invocate, considerato, vieppiù, che la decisione del presente
procedimento non pregiudica l’altro”.
Nel merito, il Tribunale ha
specificato che il ricorrente ha diritto a rientrare in possesso dell’immobile
indipendentemente dal fatto che sia stato cacciato dalla moglie (come da lui
sostenuto) ovvero si sia allontanato volontariamente (come asserito dalla
moglie convenuta in giudizio).
Ciò in quanto risultava pacifico
che egli volesse fare ritorno nella casa e la resistente vi si fosse opposta,
avendo cambiato la serratura di ingresso all’immobile inteso sostituire al compossesso
del ricorrente un proprio esclusivo possesso.
È poi irrilevante il fatto che,
all’anagrafe, l’uomo risulti residente in un altro luogo: l’immobile di cui è
stato spossessato è pacificamente adibito a casa coniugale, secondo il concetto
di “residenza della famiglia”. Quest’ultimo non coincide con quello di
“residenza anagrafica” ma costituisce il luogo in cui le parti hanno fissato la
residenza della famiglia secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti
della famiglia stessa, come dispone l’art. 143 del Codice Civile.
In definitiva, la moglie va
condannata a reintegrare il marito nel possesso dell’appartamento in esame,
avendovi entrambi i coniugi esercitato una forma di compossesso che ha trovato
titolo nel vincolo matrimoniale e che si è estrinsecata con la coabitazione
presso l’appartamento medesimo.
Trib.Roma, Sez. VII, ord. 13.01.2022 (testo completo)
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Decorrenza dell'assegno di mantenimento in caso di separazione consensuale.
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Se il figlio maggiorenne non riesce a reperire un'occupazione stabile non può continuare a fare affidamento a vita sull'aiuto dei genitori.
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Accordi relativi alla frequentazione dei figli e la facoltà del giudice di discostarsi dalla volontà dei genitori.
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Affidamento dei figli minori: la valutazione delle risultanze processuali e la ricostruzione della fattispecie operate dai giudici del merito sono discrezionali.
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Tribunale di Roma: decadenza della responsabilità genitoriale e divieto di avvicinamento per il genitore che si disinteressa completamente del figlio
Lorenzo Mariani
Con il Decreto del 12.11.2021, pubblicato il 24.11.2021, la Prima Sezione Civile del Tribunale di Roma ha deciso su un ricorso per l’affido dei minori nati fuori dal matrimonio con contestuale richiesta di ordine di protezione.
Il ricorso veniva presentato da
una donna che aveva avuto un figlio con un uomo di origine straniera, conosciuto
presso uno SPRAR dove la stessa lavorava come mediatrice socio-culturale. Nel corso
della relazione, l’uomo aveva avuto condotte estremamente violente contro la ricorrente,
anche alla presenza del figlio minore del bambino, oltre ad essersi allontanato
dal nucleo familiare a più riprese per recarsi all’estero, dove aveva anche
subìto una condanna per tentato omicidio.
Il Tribunale disponeva immediatamente e inaudita altera parte la
sospensione di tutti gli incontri tra padre e figlio e il divieto di
avvicinamento entro 300 metri.
Questo provvedimento veniva poi confermato dal PM e mantenuto nelle more del
procedimento, dove il resistente rimaneva contumace.
Il Tribunale disponeva in corso di causa l’affido super-esclusivo del minore
alla madre e veniva aperto un sub-procedimento per l’assunzione di
provvedimenti de potestate.
Il giudizio si è concluso con il
Decreto in parola, che ha confermato le disposizioni di allontanamento e
divieto di incontri, pronunciando altresì la decadenza della responsabilità genitoriale
del padre.
Al di là delle violenze di cui ai
provvedimenti cautelari, la decadenza della responsabilità genitoriale è stata
motivata sulla base del disinteresse sistematico e totale del padre verso il figlio.
Infatti:
“merita di essere accolta la domanda di decadenza dalla responsabilità
genitoriale [del padre] sul figlio minore, stante il contegno di sistematico,
reiterato e protratto disinteresse dallo stesso serbato nei confronti dei
bisogni materiali, affettivi, educativi e relazionali del figlio minore al cui
mantenimento, peraltro, non ha mai contribuito.
Dalla relazione del Servizio
Sociale che è riuscito a contattare telefonicamente il resistente emerge che lo
stesso (il quale riferisce di vivere e lavorare a Trieste) nel corso del
colloquio telefonico con l’assistente sociale non ha mai parlato né chiesto del
bambino, limitandosi ad affermare che il presente procedimento “è sbagliato e
non vale per lui” e la madre di suo figlio non vuole dare i documenti per
rinnovare il suo permesso di soggiorno; che, inoltre, lui è in possesso solo
del recapito telefonico di servizio della [madre] e si rifiuta di chiamarla a
quel numero.
Dalla medesima relazione emergono, di contro, il buon rapporto madre-figlio,
recentemente trasferitisi in un’abitazione di più ampie dimensioni, ma soprattutto
la serenità e tranquillità [del minore], tanto che lo stesso Servizio ha concluso
evidenziando che non sono necessari interventi di sostegno a favore
del nucleo madre-figlio e ha proposto l’avvio di incontri protetti padre-figlio
solo ove il padre ne faccia espressa richiesta.”
Trib. Roma, Sez. I, 24.11.2021 (testo completo)
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Primo via libera al suicidio assistito per un malato italiano
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Divorzio e mantenimento dei figli: le spese di valore inferiore ai 50 euro vanno considerate spese ordinarie
Giudice di Pace di Roma, Sez. I, Sent. n. 23618 del 10.11.2021
"In relazione alla natura di spesa straordinaria, occorre precisare che, secondo il suo comune significato, deve trattarsi di spesa non ordinaria e di una entità economicamente rilevante al fine di poter essere considerata tale; in tal senso devono considerarsi spese ordinarie, ricompresi negli obblighi di mantenimento e comunque qualificabili come donazioni manuali (laddove il mantenimento fosse a carico dell'altro coniuge), tutte le spese per somme inferiori a 50 euro. "
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Dichiarazione di adottabilità di un figlio minore: consentita solo in presenza di fatti gravi.
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Risvolti economici dell'assegnazione della casa coniugale.
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Maestra condannata per maltrattamenti.
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Affidamento paritetico e mantenimento diretto.
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Maltrattamenti in famiglia: è reato anche se gli atti lesivi si alternano con periodi di normalità.
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Se il fatidico "si" non viene mai pronunciato, cosa succede ai doni fatti in vista del matrimonio?
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Trasferimento all'estero al seguito del genitore collocatario: occorre operare un bilanciamento tra gli interessi coinvolti.
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Formazione della massa ereditaria.
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Gli effetti della mancata audizione del genitore nel giudizio di primo grado relativo alla dichiarazione di adottabilità del minore.
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Comportamenti prepotenti ed aggressivi del padre: no all'affido condiviso.
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Se la ex convive con un altro non perde automaticamente il diritto all’assegno divorzile.
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La Corte di Strasburgo condanna l'Italia per l'eccessivo formalismo richiesto dalla Cassazione.
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Revoca dell’ammissione dell’imputato minorenne alla messa alla prova e la sospensione del processo.
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Successioni ereditarie: l'azione di riduzione.
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Adempimento di crediti appartenenti al de cuius e l'azione di petizione di eredità.
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Minore straniero non accompagnato e la protezione internazionale.
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Presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria.
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permesso di soggiorno per ragioni umanitarie e stato di gravidanza della richiedente.
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Concessione del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie.
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Condizioni per l'assegnazione di una porzione della casa familiare al genitore non collocatario dei figli.
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Acquisto di un bene in regime di separazione.
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Delibazione della sentenza canonica di nullità del matrimonio: l'eccezione va proposta dal convenuto nella comparsa di risposta.
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Anche i dispositivi di rilevamento della velocità con modalità dinamica vanno obbligatoriamente segnalati.
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Quando l'SMS diventa reato.
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Assegno divorzile indebitamente corrisposto? Deve essere restituita ogni singola mensilità a partire dal primo versamento.
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Pensione di reversibilità e unione civile.
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L’abbandono del figlio in tenera età integra la fattispecie del danno endofamiliare.
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Assegno divorzile: la Cassazione torna ad esprimersi in materia.
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affidamento paritetico e mantenimento diretto del minore senza alcun assegno a carico.
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Validi i i trasferimenti immobiliari in caso di divorzio congiunto.
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Integrazione e rimodulazione del progetto di intervento ai fini dell'ammissione al beneficio della messa alla prova.
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Convocazione dell'assemblea via mail? La delibera è annullabile.
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Criterio del tenore di vita: nella separazione coniugale è ancora rilevante.
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Colpa medica e coefficiente di salvezza.
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Gravi sofferenze provocate alla partner: per la Cassazione scatta il reato di tortura.
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Lo specialista in ospedale deve anche prescrivere la terapia.
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Validi i trasferimenti immobiliari nell’ambito degli accordi di separazione e divorzio.
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La fusione per incorporazione comporta l'estinzione della società incorporata.
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L'addebito della separazione non determina automaticamente il riconoscimento dell'assegno di mantenimento a favore dell'altro coniuge.
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Assegno divorzile: l'ultimo orientamento della Cassazione.
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Opponibilità erga omnes della sentenza di disconoscimento di paternità.
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Padre si oppone alla vaccinazione anticovid 19 del figlio minore: madre autorizzata alla somministrazione.
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Se l'ex coniuge riceve una cospicua eredità si può chiedere la modifica dell'assegno di mantenimento.
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Sì alla parziale sospensione in appello della sentenza di separazione se gli arretrati del mantenimento sono molto alti, anche senza valutazioni sulla loro adeguatezza
Con l’Ordinanza del 27.07.2021
la Corte di Appello di Roma, decidendo su un’istanza inibitoria ex artt.
283 e 351 cpc avverso una sentenza di separazione, ha stabilito che è possibile
sospendere il titolo esecutivo solo in relazione al mantenimento per il coniuge
e il figlio minore dovuto per il periodo tra la data della domanda in primo
grado a quella della pubblicazione della sentenza. Tale sospensione
parziale può basarsi anche sul solo grave pericolo di non poter recuperare gli ingenti
importi versati in seguito a una eventuale riforma favorevole all’appellante, pur
senza una valutazione della fondatezza dei motivi di appello in fase
inibitoria.
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Responsabilità dei genitori: necessaria la nomina del curatore speciale.
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Permesso di soggiorno per motivi familiari.
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Cassazione: la casa coniugale può essere assegnata al coniuge che vive col figlio psicologicamente molto fragile
Con l’Ordinanza 19561 dell’8
luglio 2021 la Cassazione ha respinto il ricorso di una madre che chiedeva
l’assegnazione della casa familiare per sé.
Gli Ermellini hanno dato risalto
al fatto che presso la casa familiare vivessero il padre con uno dei due figli,
psicologicamente molto fragile poiché provato dalla forte conflittualità tra i
genitori e da un rapporto pessimo con la madre.
La sorella, invece, si era
rifiutata di vivere col padre perché coinvolto in un’inchiesta relativa a reati
di natura sessuale.
Il Supremo Collegio ha
riconosciuto che la casa dovesse essere assegnata al padre in quanto la scelta del Giudice di merito di favorire l’interesse di uno dei figli è insindacabile in sede di legittimità se correttamente motivata. Nel
caso di specie, l’interesse a favorire il ragazzo già convivente col padre
derivava proprio dalle sue condizioni piscologiche precarie.
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Irrevocabile il consenso al divorzio congiunto da un solo coniuge.
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Affido condiviso anche se il padre in passato ha tenuto una condotta contraria all'interesse del figlio.
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Costituisce sottrazione internazionale la violazione di un accordo tra genitori sul diritto di custodia del figlio
Con la Sentenza n. 18620 del
30.06.2021 la Corte di Cassazione ha ritenuto integrato l’illecito della
sottrazione internazionale nella condotta di una madre che, in violazione di un
accordo tra la stessa e l’ex marito relativamente alla custodia e all’affido della
figlia, ha trasferito la residenza della minore in Italia senza più fare
ritorno in Belgio.
L’accordo, sottoscritto dai due
genitori davanti a un Tribunale belga, prevedeva che entrambi esercitassero la
responsabilità genitoriale sulla bambina e individuava il Belgio come residenza
abituale della stessa.
Il Tribunale di Milano non aveva
valorizzato tale accordo, ritenendolo in contrasto con le domande giudiziali
proposte dalla donna presso il Tribunale di Monza, e altresì aveva negato l’ordine
di rimpatrio sul presupposto che non fosse determinabile una residenza abituale
della minore, stante anche la sua tenera età.
La Cassazione, invece, ha
ritenuto irrilevante la pendenza delle domande giudiziali presso il Tribunale
di Monza, anche perché l’accordo non era stato soggetto a revisioni.
Ancora, gli Ermellini hanno argomentato
che: “ l’illecito della sottrazione internazionale, Convenzione dell'Aja del
1980, resa esecutiva in Italia nel 1994, mira a tutelare il minore contro gli
effetti nocivi del suo illecito trasferimento o mancato rientro nel luogo ove
egli svolge la sua abituale vita quotidiana, sul presupposto della tutela del
superiore interesse dello stesso alla conservazione delle relazioni
interpersonali che fanno parte del suo mondo e costituiscono la sua identità
(Corte Cost. 231/2001).”
Non essendo riscontrabili tali
eventualità nel caso di specie (comunque rimesse alla valutazione discrezionale
del Giudice di merito), e stabilendo l’accordo tra le parti sia l’affido
condiviso che la residenza abituale in Belgio, gli Ermellini hanno ritenuto integrato
l’illecito della sottrazione internazionale.
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È incostituzionale la sospensione della prescrizione per rinvio dovuto a necessità organizzative da pandemia COVID-19
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Il concetto di “indispensabilità” della prova nuova in appello nell'attuale formulazione dell’art. 345, comma 3 c.p.c.
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Sentenza di divorzio successiva alla morte di uno dei coniugi: ammesso l'appello per cessata materia del contendere.
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Lo scioglimento della comunione dei beni dei coniugi separati e la sua ricostituzione in seguito a riconciliazione
Con l'Ordinanza n. 6820 del
11.03.2021, la Suprema Corte ha avuto modo di chiarire i
principi che regolamentano la comunione legale dei beni nel caso di separazione
personale dei coniugi.
Gli Ermellini hanno infatti stabilito
che: “”in materia di comunione legale tra i coniugi, la separazione
personale costituisce causa di scioglimento della comunione, che è rimossa
dalla riconciliazione dei coniugi medesimi, cui segue il ripristino automatico
del regime di comunione originariamente adottato, con la sola esclusione degli
acquisti effettuati durante il periodo di separazione e fatta salva
l’invocabilità, “ratione temporis”, dell’effetto pubblicitario derivante dalla
novella di cui all’art. 69 del Dpr 396 del 2000, che ha previsto l’annotazione
a margine dell’atto di matrimonio delle dichiarazioni rivelatrici della volontà
conciliativa”.
La pronuncia in parola, pertanto,
delinea il funzionamento della comunione legale al momento della
riconciliazione dei coniugi in seguito a separazione: essa si applica per quei
beni che verranno acquistati successivamente alla riconciliazione e torna ad
estendersi retroattivamente ai beni acquistati prima dello scioglimento. Tale applicazione
retroattiva non si estende però agli acquisti effettuati in costanza di separazione,
creando così un intervallo temporale tra i due periodi di vigenza della
comunione.
Si ricorda che la comunione legale
(artt. 177 ss cc) è il regime patrimoniale predefinito in assenza di diverso
accordo tra i coniugi. Essa è
caratterizzata dall’assenza di una individuazione di quote specifiche di
proprietà. Quando la comunione legale si scioglie, i beni che ne erano soggetti
cadono in comunione ordinaria. Quest’ultima, a differenza della prima, è
divisa in quote. Pertanto, ogni coniuge diventa titolare della quota del bene
compreso nella comunione legale e può liberamente disporne. (Sul punto, si veda
Cass. 28.12.2018 n. 33546).
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L'affido super esclusivo
L’affido super esclusivo (o esclusivo rafforzato) è un istituto di costruzione giurisprudenziale nato da una particolare interpretazione dell’art. 337-quater del Codice Civile. Il terzo comma dell’articolo in parola così recita: “Il genitore cui sono affidati i figli in via esclusiva, salva diversa disposizione del giudice, ha l'esercizio esclusivo della responsabilità genitoriale su di essi; egli deve attenersi alle condizioni determinate dal giudice. Salvo che non sia diversamente stabilito, le decisioni di maggiore interesse per i figli sono adottate da entrambi i genitori. Il genitore cui i figli non sono affidati ha il diritto ed il dovere di vigilare sulla loro istruzione ed educazione e può ricorrere al giudice quando ritenga che siano state assunte decisioni pregiudizievoli al loro interesse.”
La figura qui analizzata è,
appunto, ricondotta all’inciso “Salvo che non sia diversamente stabilito”
e si qualifica pertanto come una terza via tra l’affido condiviso e quello
esclusivo, posta al livello più alto di “gravità” nella limitazione
dell’esercizio della responsabilità genitoriale.
Infatti, mentre l’affido
esclusivo prevede comunque che le decisioni di maggiore interesse vengano prese
di comune accordo trai genitori, l’affido super esclusivo riserva al solo
genitore affidatario il compito di adottare tutte le scelte che riguardino il minore,
senza il previo consenso o avvertimento dell’altro.
Nei fatti, l’istituto in esame
esautora il genitore non affidatario, in maniera simile a un provvedimento
limitativo o estintivo della responsabilità genitoriale.
La differenza sostanziale con
questi ultimi provvedimenti sta nel fatto che, giuridicamente, con l’affido
esclusivo rafforzato la titolarità della responsabilità genitoriale non viene
intaccata: è il suo esercizio che viene marginalizzato al punto da limitarsi al
solo diritto/dovere per il genitore non affidatario di vigilare sull’istruzione
ed educazione della prole e ricorrere al giudice in caso ritenga siano state
prese decisioni pregiudizievoli per il minore, come da dettato del predetto
art. 337-quater cc.
L’affido esclusivo rafforzato,
con tutta evidenza, è uno strumento molto potente e può trovare applicazione
solo in casi di grave incapacità del genitore di crescere il minore in accordo
con le sue inclinazioni e necessità, specie quando la condotta del genitore
risulti dannosa o pregiudizievole per il figlio.
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Il riparto delle competenze in materia di famiglia tra giudice tutelare, giudice della separazione e tribunale per i minorenni
Trib. Roma, Sez. IX, 09.06.2021
Con riguardo ai provvedimenti adottati in sede di separazione dei coniugi, il potere di vigilanza attribuito dall'articolo 337 cod. civ. al giudice tutelare concerne l'attuazione delle condizioni stabilite dal tribunale ordinario per l'affidamento della prole in sede di separazione tra i coniugi, di talché il suo esercizio presuppone l'interpretazione delle condizioni della separazione ma non si estende all'attribuzione di poteri decisori, che non siano meramente applicativi delle condizioni medesime.
Di conseguenza, resta esclusa ogni statuizione modificativa di dette condizioni, che spetta invece al tribunale ordinario, ovvero, quando si tratti di incidere in via ablativa o limitativa della potestà genitoriale, al tribunale per i minorenni.
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Google Earth utilizzabile come prova per dimostrare gli abusi edilizi.
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I genitori sono responsabili per le lesioni provocate dalla inadeguatezza dell'educazione impartita ai figli minorenni.
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L’ergastolo è in contrasto con la Costituzione.
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Riconoscimento degli effetti di un provvedimento di adozione straniero da parte di coppia omosessuale maschile.
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Il riconoscimento dell’efficacia della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio religioso e il giudicato della sentenza non definitiva sullo status.
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Niente assegno di divorzio al coniuge giovane e poco intraprendente nella ricerca di una nuova occupazione.
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Assegno divorzile: lo status di "coniuge debole" va verificato concretamente accertandosi se è il frutto di una scelta o se è indipendente dalla volontà dell'interessata.
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Elevata conflittualità tra i genitori e decadenza dalla responsabilità genitoriale.
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Tribunale di Santa Maria Caupa Vetere: la donna può impiantare l'embrione crioconservato anche se il marito non è d'accordo
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Il canone di locazione agevolato va determinata in riferimento alle zone OMI in vigore al momento della stipula del contratto di locazione.
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Sulla natura di atto recettizio dell'avviso di convocazione all'assemblea dei condomini.
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Il provvedimento adottato dal tribunale su ricorso del coniuge che chieda la revisione dell'assegno di mantenimento a favore del figlio ha efficacia immediatamente esecutiva.
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Sulla decorrenza dell'obbligo di mantenimento del figlio.
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Provvedimenti ablativi o limitativi della potestà genitoriale: l’effetto attrattivo della competenza in favore del giudice della separazione/divorzio.
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Assegno di mantenimento per il figlio maggiorenne che studia fuori sede.
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Sulla posizione di parti sostanziali dei minori nel giudizi che li riguardano.
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Lesione della quota di riserva: integrale esaurimento del patrimonio del "de cuius" mediante donazioni e onere della prova a carico del legittimario leso.
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La comunicazione dell'ordinanza presidenziale da parte della cancelleria del Tribunale non fa decorrere il termine breve per il reclamo ex art. 708 c. 4 cc.
“Contro i provvedimenti di cui al terzo comma si può
proporre reclamo con ricorso alla corte d'appello che si pronuncia in camera di
consiglio. Il reclamo deve essere proposto nel termine perentorio di dieci
giorni dalla notificazione del provvedimento “
In poche parole, la reclamata equiparava la comunicazione
del provvedimento da parte della cancelleria alla notifica menzionata
nell’articolo, ritenendo quindi che fosse decorso il succitato termine di 10
giorni prima della presentazione in Corte di Appello del reclamo.
La Corte, diversamente opinando, ha ritenuto invece che il
termine breve di 10 giorni ex art. 708 cpc decorra solo dal momento della
notifica del provvedimento presidenziale effettuato da una delle parti del
giudizio di separazione o divorzio. Al contrario, la comunicazione da parte
della cancelleria fa decorrere il termine ordinario di sei mesi.
Non va dimenticato, infatti, che l’art. 16 del D.L. 179/2012
ha imposto alle cancellerie l’obbligo di recapitare via PEC gli atti
dell’Ufficio Giudiziario e che l’art. 133 c. 2 cpc prevede esplicitamente solo
per la sentenza che la comunicazione da parte della cancelleria non possa
far decorrere il termine breve per l’impugnazione.
Inoltre, anche tra chi ritiene che il termine breve ex art.
708 cpc decorra solo con la notifica di parte, non vi è concordia sulla durata
del termine lungo in caso di sola comunicazione di cancelleria. Infatti,
mancando un esplicito dato normativo, alcuni ritengono che il termine coincida
con l’udienza davanti al G.I. (C.D.A. Napoli, ord. 26.6.2007).
La pronuncia qui esaminata offre anche spunti interessanti
in relazioni ad altri aspetti del procedimento per reclamo ex art. 708 c. 4
cpc, come le sue condizioni di ammissibilità e il suo rapporto con gli altri
mezzi a disposizione della parte per chiedere la modifica delle statuizioni
presidenziali.
Corte di Appello di Napoli, ord. 05.02.2021 (testo
completo)
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Cognome dei figli: l'ordinanza della Corte Costituzionale.
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Sull'assegnazione della casa familiare al genitore non collocatario.
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Assegno di mantenimento: si alla compensazione del credito.
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La ex partner della madre del minore non ha diritto di visita nei confronti del bambino, se ciò è contrario al suo best interest.
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Con il patto di famiglia, la quota di legittima è, per legge, convertita in un diritto di credito immediatamente esigibile.
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Le Sezioni Unite sull'ammissibilità dei danni punitivi: dalla natura compensativa a quella punitiva-sanzionatoria.
Con la sentenza 5 luglio 2017 n.
16601, le Sezioni Unite della Suprema Corte pongono fine all’annosa questione
relativa all’ammissibilità e al conseguente riconoscimento dei danni punitivi
all’interno dell’ordinamento nazionale, previa individuazione della natura
della responsabilità civile.
Innanzitutto, occorre muovere
dalla esposizione dei filoni giurisprudenziali formatisi in merito alla
questione de qua.
L’orientamento prevalso in seno
alla Suprema Corte di Cassazione era granitico nel ritenere con fermezza
l’incompatibilità della responsabilità civile con la funzione sanzionatoria,
essendo demandata a tale responsabilità la sola funzione di restaurare la sfera
del soggetto danneggiante.
In altri termini, alla luce della
suddetta tesi, la finalità punitiva era pura prerogativa esclusiva della
responsabilità penale, il cui paradigma è da rinvenirsi nel
principio di legalità e nei suoi corollari, di cui costituiscono espressione
gli artt. 25 co. 2 Cost. (divieto di retroattività della legge penale), 27 co.
1 (principio di personalità della responsabilità penale e divieto di
responsabilità per fatto altrui) e 27 co. 3 (nella misura in cui esprime lo
scopo di rieducazione insito nella pena inflitta).
Il filone giurisprudenziale testè
richiamato ha costituito oggetto di profonda revisione critica ad opera della
dottrina; revisione critica mutuata dagli orientamenti giurisprudenziali
successivi e posta alla base delle motivazioni della sentenza delle Sezioni
Unite oggetto del presente commento.
Invero, con la pronuncia in esame
il Supremo Consesso ha messo in evidenza che la funzione sanzionatoria del
risarcimento del danno non è incompatibile con il sistema della responsabilità
civile, pur necessitando di un’apposita previsione legislativa che esprima in
modo chiaro lo scopo punitivo della disposizione medesima.
D’altronde, come efficacemente
esposto ed argomentato dai Giudici di legittimità, il panorama normativo offre
numerosi esempi paradigmatici dell’abbandono della esclusiva funzione
compensativo-riparatoria della responsabilità civile, in favore
dell’accoglimento altresì della finalità punitivo-sanzionatoria impressa dalla
stessa.
Si pensi, ad esempio, al
novellato art. 96 co. 3 c.p.c., che consente la condanna della parte
soccombente al pagamento di una somma “equitativamente determinata” in funzione
sanzionatoria dell’abuso del processo (diposizione, tra l’altro, mutuata anche
dall’art. 26 del Codice del processo amministrativo, introdotto dal d. lgs.n.
104/2010). Occorre precisare che sulla natura dell’art. 96 co. 3 c.p.c. si è di
recente espressa la Corte costituzionale, interrogata circa la questione di
legittimità costituzionale della previsione de qua. Ebbene, la Corte - con la
pronuncia n. 152/2016 - ha sancito con granitica certezza la natura altresì
sanzionatoria con finalità deflattiva della suddetta disposizione.
Costituisce ulteriore esempio
chiarificatore della funzione sanzionatoria della responsabilità civile il
decreto legislativo di nuovo conio n. 7/2016, i cui artt. 3-5 hanno abrogato le
fattispecie di reato previste a tutela della fede pubblica, onore e patrimonio,
prevedendo altresì - in caso di natura dolosa del reato - una sanzione
afflittiva pecuniaria da cumulare al risarcimento del danno in favore del
danneggiato.
I due esempi appena fatti, che si
incardinano in un ben più ampio novero di fattispecie espressive della
suesposta finalità della responsabilità civile e che non si intendono qui
oggetto di elencazione per chiare finalità di sintesi, confermano il riscontro
della cittadinanza nel nostro ordinamento della natura polifunzionale della
responsabilità civile.
Pertanto, superato positivamente
l’ostacolo dell’ammissibilità della funzione sanzionatoria della responsabilità
civile, occorre ora comprendere in che misura possa essere importata
nell’ordinamento nazionale una sentenza di condanna per danni punitivi emessa
da uno Stato estero, previa verifica della compatibilità di tale trasposizione
con l’ordine pubblico.
Preso atto che la nozione di
“ordine pubblico” include un ampio sistema di tutele in favore dei cives approntate
a livello sovraordinato rispetto alla legislazione primaria, le Sezioni Unite
chiariscono che il principio di legalità vigente nell’odierno ordinamento
postula che la sentenza straniera di condanna sia emessa nel rispetto di
adeguate basi normative, che garantiscano i principi di tipicità e
prevedibilità della sanzione.
Alla luce delle suddette
argomentazioni, i Giudici di legittimità hanno concluso che alla responsabilità
civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del
soggetto che ha subito la lesione, essendo interne al sistema sia la funzione
di deterrenza che quella sanzionatoria del responsabile civile.
Pertanto, non è ontologicamente
incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto di origine statunitense del
risarcimento di danni di natura punitiva.
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Delibazione di sentenza ecclesiastica e indissolubilità del matrimonio.
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È possibile, per l'erede del legatario premorto all'accettazione, rinunciare al legato in sostituzione di legittima
Con l’Ordinanza del 27.08.2020 n.
17861, la VI Sezione civile della Corte di Cassazione ha stabilito che, ove il
legato in sostituzione di legittima abbia ad oggetto il diritto di usufrutto ma
il legatario muoia prima di poterlo accettare, la facoltà di rinuncia si
trasmette all’erede del legatario nonostante egli non possa subentrare nel
diritto già acquisito dal proprio dante causa. Infatti, in tale condizione
l’erede del legatario diviene iure hereditatis titolare dell’azione di
riduzione e può scegliere di assumere su di sé obblighi ed eventuali diritti
nascenti dall’estinzione dell’usufrutto ovvero di rinunciarvi, assolvendo così
all’onere cui è subordinata l’azione di riduzione stessa.
La Corte, sul punto osservava
che: “In dottrina è comune l’osservazione che il fatto che l'acquisto del
legato avvenga automaticamente non vuol dire che l'accettazione sia inutile o
irrilevante. Con l'accettazione, infatti, il legatario fa definitivamente
proprio il beneficio del legato e ciò si traduce nella definitività giuridica
dell'acquisto, che non è più rinunziabile. Consegue da quanto sopra che se il
legatario muore senza avere accettato, la facoltà di rinunziare, quale potere
inerente al rapporto successorio in atto non esauritosi col definitivo
conseguimento del legato, passa all'erede. L'applicazione di tale regola al
legato sostitutivo comporta che l'erede del legittimario si trova, sotto questo
aspetto, nella stessa condizione del legittimario proprio dante causa. Se il
dante causa era ancora nella condizione di poter rinunciare al legato, e
assolvere all'onere richiesto per poter domandare la riduzione delle
disposizioni testamentarie, nella medesima condizione si troverà il suo erede,
divenuto titolare iure hereditatis dell'azione di riduzione (art. 557 c.c.).”
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L’esistenza di un patto successorio istitutivo può essere dimostrata con ogni mezzo
Con Sentenza n. 18197 del
02.09.2020, la 2° Sezione civile della Corte di Cassazione ha stabilito che
l’esistenza di un patto successorio istitutivo non deve risultare
necessariamente da l testamento o da un atto scritto. Al contrario, essa può
venir dimostrata con qualunque mezzo, essendo il patto successorio considerato
illecito dalla legge.
Infatti, gli Ermellini così si
esprimevano: “Questa Corte condivide la soluzione, proposta dalla più
accreditata dottrina, secondo cui non è necessario che l’esistenza del patto
successorio istitutivo risulti dal testamento, quale motivo determinante della
disposizione (art. 626 c.c.), o da atto scritto, ma è sempre ammissibile
qualunque mezzo di prova, perché si tratta di provare un accordo che la legge
considera come illecito. È utile operare
un parallelo con quanto prescrive l’art. 1417 c.c., in materia di prova della
simulazione, che può essere liberamente provata dalle parti quando l’azione
diretta ad accertare la illiceità del contratto dissimulato.”
Nella sua decisione, la Corte ha anche ricordato la differenza tra testamenti simultanei validi e patto successorio istitutivo.
I primi si hanno quando due disposizioni testamentarie, sia pure reciproche,
costituiscano due atti perfettamente distinti, quantunque scritti sullo stesso
foglio.
Il secondo, vietato dall’art. 458 cc, si ha invece quando le disposizioni
testamentarie redatte da più persone, pur essendo contenute in schede
formalmente distinte, danno luogo a un accordo con il quale ciascuno dei
testatori provvede alla sua successione in un determinato modo, in determinante
correlazione con la concordata disposizione dei propri beni da parte degli
altri.
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Nel procedimento di affidamento, l’ascolto del minore è un adempimento necessario.
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Assegno di mantenimento alla moglie che si occupa del lavoro domestico per seguire il marito negli traslochi professionali.
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Il giudice non può escludere il "pernotto" della figlia presso l'abitazione del genitore senza una specifica motivazione.
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Covid-19 e cognome dei figli nati fuori dal matrimonio: padre positivo deve fare domanda ex art. 262 cc
Con Decreto del 01.02.2021, la Prima Sezione Civile del Tribunale di Roma accoglieva la domanda.
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Sul controllo a distanza dell'attività dei lavoratori.
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Definirsi single su Facebook può comportare l'addebito della separazione.
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Matrimonio nullo se la condizione d'infermità mentale che ha determinato l'interdizione già esisteva al momento del matrimonio.
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Non è reato non consentire gli incontri tra la figlia e il padre violento.
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L'affidamento super esclusivo.
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Assegnazione della casa familiare e morosità condominiale: si può configurare una responsabilità solidale con l'ex coniuge?
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La pubblicazione di post canzonatori ed irridenti su Facebook non integra la condotta degli atti persecutori.
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Madre “riferimento” per le esigenze del figlio: può chiedere all’ex l’aumento.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE CHIARA Carlo - Presidente -
Dott. MELONI Marina - Consigliere -
Dott. ACIERNO Maria - Consigliere -
Dott. PARISE Clotilde - rel. Consigliere -
Dott. CARADONNA Lunella - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 1634/2016 proposto da:
B.G., elettivamente domiciliato in Roma, Viale Eritrea n. 36, presso lo studio dell'avvocato Zanchi Guido, rappresentato e difeso dall'avvocato Zanchi Italo, giusta procura a margine del ricorso;
- ricorrente -
contro
V.M., elettivamente domiciliata in Roma, Viale delle Milizie n. 34, presso lo studio dell'avvocato Renzi Maria Rosaria, rappresentata e difesa dall'avvocato Rossi Maria Gabriella, giusta procura in calce al controricorso;
- controricorrente -
avverso il decreto della CORTE D'APPELLO di LECCE, depositato il 19/11/2015;
nonché sul ricorso 20675/2016 proposto da:
B.G., elettivamente domiciliato in Roma, Viale Eritrea n. 36, presso lo studio dell'avvocato Zanchi Guido, rappresentato e difeso dall'avvocato Zanchi Italo, giusta procura a margine del ricorso;
- ricorrente -
contro
V.M., elettivamente domiciliata in Roma, Viale delle Milizie n. 34, presso lo studio dell'avvocato Renzi Maria Rosaria, rappresentata e difesa dall'avvocato Rossi Maria Gabriella, giusta procura in calce al controricorso;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 675/2016 della CORTE D'APPELLO di LECCE, depositata il 27/06/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16/09/2020 dal Cons. Dott. PARISE CLOTILDE;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CERONI Francesca che ha concluso per il rigetto dei ricorsi, riportandosi alle conclusioni scritte nella requisitoria già depositata in atti;
udito, per il ricorrente, l'Avvocato Zanchi Italo che si riporta e chiede l'accoglimento dei ricorsi;
udito, per la controricorrente, l'Avvocato Rossi Maria Gabriella che si riporta e chiede il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Con ricorso ex art. 337 quinquies c.c., V.M. chiedeva al Tribunale di Lecce l'aumento, da Euro 200 a Euro 450, dell'assegno di mantenimento a carico del padre B.G. per il figlio maggiorenne L., studente iscritto all'Università di (OMISSIS). Il Tribunale, con Decreto 28 gennaio 2015, rigettava la domanda rilevando che la coabitazione del figlio maggiorenne con la madre già affidataria era cessata e che il figlio, in ragione della frequenza dei corsi universitari a (OMISSIS), faceva rientro presso l'abitazione materna solo in occasione delle festività natalizie e pasquali e durante le vacanze estive.
2. Il reclamo proposto dalla V. avverso il citato decreto è stato accolto dalla Corte d'appello di Lecce con Decreto n. 139 del 2015, pubblicato il 19-11-2015 e notificato 27-11-15. La Corte territoriale ha ritenuto sussistente la legittimazione iure proprio e concorrente della madre a chiedere l'aumento del contributo di mantenimento del figlio maggiorenne non economicamente autosufficiente, il quale "fa sempre capo al genitore con cui coabita per reperire le risorse necessarie per soddisfare le sue esigenze, a cui non può provvedere autonomamente". La Corte d'appello ha, pertanto, disatteso l'orientamento richiamato dal Tribunale, non attribuendo rilevanza, nel caso di specie, al criterio del tempo, prevalente o sporadico, trascorso dal figlio maggiorenne presso l'abitazione del genitore già collocatario, essendo giustificato da ragioni di studio l'allontanamento, per parte prevalente dell'anno, del figlio stesso dalla suddetta abitazione. La Corte territoriale ha, inoltre, accolto la richiesta di aumento del contributo di mantenimento a carico del padre, quantificato in Euro 450,00 mensili, importo ritenuto congruo in considerazione delle spese che notoriamente deve affrontare uno studente universitario fuori sede.
3. Avverso questo provvedimento B.G. propone ricorso per cassazione (R.G.N. 1634/2016), affidato a due motivi, di cui il primo articolato in cinque punti, nei confronti di V.M., che resiste con controricorso.
4. Avverso lo stesso Decreto n. 139 del 2015, B.G. ha proposto, ai sensi dell'art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4, ricorso per revocazione, che è stato dichiarato inammissibile dalla Corte d'appello di Lecce con sentenza n. 675/2016 pubblicata il 27-6-2016. La Corte territoriale ha ritenuto insussistente il denunciato errore di fatto, rilevando che con il decreto impugnato era stato valutato l'aspetto della maggiore o minore permanenza del figlio presso la casa materna, presso quella paterna e presso la sede universitaria e se ne era esclusa la rilevanza, attribuita, invece, alla circostanza che il figlio, nonostante la coabitazione sporadica con la madre, faceva capo alla stessa "per reperire le risorse necessarie per soddisfare le sue esigenze, a cui non può provvedere autonomamente".
5. Avverso la citata sentenza n. 675/2016 della Corte d'appello di Lecce B.G. propone ricorso per cassazione (R.G.N. 20675/2016), affidato a sette motivi, nei confronti di V.M., che resiste con controricorso.
6. La prima causa, inizialmente assegnata alla Sesta Sezione di questa Corte, è stata rimessa alla pubblica udienza, ai sensi dell'art. 380 bis c.p.c., u.c., per l'eventuale riunione dell'altra causa ai sensi dell'art. 335 c.p.c..
La Procura Generale ha depositato requisitoria e le parti hanno depositato memorie illustrative.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo del ricorso di cui al n. 1634/2016 R.G. il ricorrente lamenta: (i) l'erronea valutazione da parte della Corte d'appello del fatto che il figlio ormai maggiorenne non coabita più con la madre e del fatto che a questa si sarebbe dovuto rivolgere per le proprie esigenze economiche, rimarcando che nei gradi di merito la stessa madre aveva riferito che il figlio abitava a (OMISSIS) e nei periodi in cui rientrava a (OMISSIS) si tratteneva anche presso la casa paterna, nonchéassumendo come pacifica la contribuzione del padre alle spese universitarie, specie quelle concordate con il figlio (pag. 4 ricorso), il quale, dunque, non faceva solo riferimento alla madre per tali spese; (ii) la violazione del disposto dell'art. 337 septies c.c., che prevede il versamento dell'assegno periodico di mantenimento per il figlio, maggiorenne ma non indipendente economicamente, direttamente a questi, e non la regola opposta indicata nel decreto impugnato, ossia la responsabilità economica esclusiva di un solo genitore, benché collocatario, verso il figlio maggiorenne; (iii) la mancanza di motivazione specifica in ordine alle circostanze di fatto giustificative della decisione di disporre il versamento dell'assegno di mantenimento non al figlio ma alla madre, la cui legittimazione concorrente sussiste solo se permane la convivenza; (iv) la mancata considerazione da parte del giudice di merito della cessata coabitazione tra il figlio maggiorenne, che si gestisce del tutto autonomamente, e la madre, in violazione e falsa applicazione degli artt. 337 ter e 337 septies c.c.; (v) l'erronea valutazione delle circostanze di fatto (maggiore età del figlio, suo trasferimento a (OMISSIS), rientro in (OMISSIS) in alcuni periodi di vacanza con alloggio alternato presso entrambi i genitori, versamento dell'assegno di mantenimento sul conto corrente intestato al figlio), nonché la violazione del principio dettato dall'art. 337 septies c.c., secondo il quale, ad avviso del ricorrente, il figlio maggiorenne che non coabita con i genitori "è legittimato in via esclusiva alla fissazione dell'ammontare degli assegni di mantenimento", considerato che, nella specie, gli assegni di mantenimento pagati dal padre venivano versati dalla madre sul conto corrente bancario intestato al figlio, il quale si gestiva in autonomia, come risultava dal contenuto della nota di WhatsApp prodotta e inviata nel (OMISSIS).
1.2. Con il secondo motivo del medesimo ricorso (n. 1634/2016 R.G.) il ricorrente si duole dell'omessa valutazione delle sue deduzioni nel merito della suddivisione dell'onere di mantenimento del figlio tra gli ex coniugi, stante la dedotta sua limitata disponibilità economica, quale libero professionista, come assume documentato in causa in relazione ai redditi dello stesso degli anni 2013 e 2014, rispetto a quella della madre, dirigente ASL con cospicuo stipendio e proprietaria di immobili. Denuncia altresì il vizio di omessa motivazione, avendo la Corte territoriale valutato soltanto le necessità dello studente universitario e non le possibilità di ciascun genitore al fine della distribuzione dell'onere contributivo.
2. Con il secondo ricorso (n. 20675/2016 R.G.) il ricorrente lamenta: (i) con il primo motivo il vizio di illogicità logica e contraddittorietà della motivazione, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per avere la corte territoriale escluso la rilevanza della coabitazione, salvo, di seguito, affermarla, seppure con la connotazione di sporadicità, al fine di giustificare la legittimazione della madre alla domanda di cui trattasi, rimarcando la contraddittorietà nell'utilizzo del termine coabitazione, che non può essere sporadica, oppure, diversamente opinando, dovendosi attribuire rilevanza anche alla coabitazione con il padre, parimenti sporadica; (ii) con i motivi secondo, terzo e quinto la violazione dell'art. 337 ter e septies c.c., per avere la Corte d'appello attribuito rilevanza alla coabitazione, e non alla convivenza, in contrasto con i principi affermati da questa Corte nelle pronunce che richiama (Cass. n. 18869/2014 e n. 4555/2012) e per avere il giudice d'appello ritenuto sussistente la legittimazione concorrente del genitore collocatario, nonostante la pacifica cessazione della convivenza con quest'ultimo, in contrasto con il principio dettato dall'art. 337 septies c.c., secondo il quale, ad avviso del ricorrente, il figlio maggiorenne che non coabita con i genitori è legittimato in via esclusiva a trattare la quantificazione dell'assegno di mantenimento con ciascuno dei genitori e a riceverne direttamente il versamento, non essendo concepibile una sorta di prorogatio, in capo al genitore originariamente collocatario, della responsabilità di sostentamento del figlio maggiorenne allontanatosi per motivi di studio; (iii) con il quarto motivo l'omessa motivazione, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riguardo le specifiche circostanze di fatto giustificative del riconoscimento alla madre, e non già direttamente al figlio maggiorenne e non economicamente autonomo, della legittimazione a richiedere l'assegno di mantenimento; (iv) con il sesto motivo la mancata valutazione delle circostanze del caso maggiore età del figlio, suo trasferimento a (OMISSIS), rientro in (OMISSIS) in alcuni periodi di vacanza con alloggio alternato presso entrambi i genitori, versamento dell'assegno di mantenimento sul conto corrente intestato al figlio- in base alle quali emergeva l'autonomia del figlio nella gestione delle risorse economiche e della sua esistenza; (v) con il settimo motivo la violazione dell'art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4, per mancata revocazione del provvedimento 10-19/11/2015 della Corte d'appello di Lecce, ricorrendo l'errore di fatto consistito nell'affermazione di una circostanza - convivenza o coabitazione con la madre - pacificamente esclusa dalle parti, la violazione dell'art. 324 c.p.c., in relazione al giudicato formatosi sul difetto di coabitazione, con provvedimento del 28/01/2015 del Tribunale di Lecce, nonché, infine, l'improprio rilievo attribuito alla coabitazione sporadica e il mancato riconoscimento di una eguale posizione giuridica a entrambi i genitori verso il figlio maggiorenne, una volta cessata la coabitazione con la madre, già genitore collocatario.
3. In via preliminare deve disporsi la riunione dei due ricorsi in applicazione analogica dell'art. 335 c.p.c.. Si deve, infatti, ritenere che la riunione di detti ricorsi, anche se non espressamente prevista dalla citata norma del codice di rito, discenda dalla connessione esistente tra le due pronunce, atteso che sul ricorso per cassazione proposto contro la sentenza revocanda può risultare determinante la pronuncia di cassazione riguardante la sentenza resa in sede di revocazione (Cass. n. 10534/2015).
4. In ragione della peculiare connessione di cui si è appena detto, prioritariamente deve esaminarsi il ricorso avverso la sentenza che rigetta l'istanza di revocazione (n. 20675/2016 R.G.).
4.1. L'oggetto del giudizio di revocazione, promosso dall'attuale ricorrente ai sensi dell'art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4, è l'errore sul fatto della coabitazione del figlio maggiorenne con la madre, fatto che è stato posto, ad avviso del ricorrente, a fondamento della decisione assunta con il decreto della Corte d'appello impugnato e la cui sussistenza il ricorrente assume incontestabilmente esclusa tra le parti.
Premesso, dunque, che il giudizio revocatorio verte, in base alla stessa prospettazione del ricorrente, sull'errore di fatto denunciato nei termini precisati, deve ritenersi pertinente all'oggetto di quel giudizio solo il settimo motivo di ricorso, mentre tutti gli altri motivi, che sono sostanziale riproposizione di quelli di cui al primo ricorso (n. 1634/2016 R.G.), attengono a questioni giuridiche o di merito, estranee al tema decidendi di cui si è detto.
4.2. Ciò posto, le doglianze espresse con il settimo motivo non colgono la ratio decidendi. La Corte territoriale ha, infatti, ritenuto insussistente il denunciato errore di fatto, rilevando che con il decreto impugnato era stato valutato l'aspetto della maggiore o minore permanenza del figlio presso la casa materna, presso quella paterna e presso la sede universitaria e se ne era esclusa la rilevanza, attribuita, invece, alla circostanza che il figlio, nonostante la coabitazione sporadica con la madre, faceva capo alla stessa "per reperire le risorse necessarie per soddisfare le sue esigenze, a cui non può provvedere autonomamente".
In altri termini, la Corte d'appello non solo ha affermato che non vi fosse stata la falsa percezione di quanto emergeva dagli atti, ma anche e soprattutto ha escluso la decisività di quel fatto ai fini della decisione assunta, per avere avuto rilievo non la circostanza della coabitazione del figlio con la madre, peraltro sporadica, ma il fatto che quest'ultima fosse il soggetto di riferimento del figlio per soddisfare le sue esigenze. A ciò si aggiunga che il giudizio sulla decisività dell'errore costituisce un apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito, non sindacabile in sede di legittimità se sorretto da idonea motivazione, come nella specie (Cass. n. 25376/2006).
Le censure espresse dal ricorrente non si confrontano con il suddetto, chiaro, percorso argomentativo, risolvendosi in ripetitiva enunciazione della erronea rilevanza decisiva attribuita alla circostanza della coabitazione del figlio con la madre, decisività che è stata, invece, espressamente esclusa dalla Corte territoriale, ed essendo, per le stesse ragioni, inconferente il richiamo al giudicato, asseritamente formatosi in punto di difetto di coabitazione, di cui al decreto del Tribunale del 28/01/2015, riformato con il decreto della Corte d'appello di cui è chiesta la revocazione.
4.3. In conclusione, il ricorso di cui al n. 20675/2016 R.G. deve dichiararsi inammissibile.
5. Passando all'esame dell'altro ricorso, occorre premettere che, anche qualora fosse ora mutata la situazione per effetto dei provvedimenti provvisori emessi in sede di divorzio (cfr. memoria illustrativa del ricorrente di data 28-3-2017 e documenti allegati), permarrebbe l'interesse del ricorrente alla pronuncia in relazione al periodo anteriore, atteso che solo a partire dalla data in cui nel giudizio divorzile sono emessi i provvedimenti provvisori questi ultimi si sostituiscono a quelli emessi nel giudizio di separazione (Cass. n. 7547/2020).
5.1. Il primo motivo è articolato in cinque punti, con censure espresse sub specie del vizio di violazione di legge (artt. 337 ter e septies c.c.) e motivazionale, tutte concernenti, sotto distinti ma collegati profili, la rilevanza della convivenza e/o coabitazione del figlio maggiorenne con la madre al fine di escludere la legittimazione iure proprio di quest'ultima a pretendere l'aumento del contributo di mantenimento di Euro 200 che era stato posto a carico del padre, con obbligo di versamento alla madre collocataria, in base a quanto concordato dai coniugi in sede di separazione e recepito con la sentenza del Tribunale di Lecce n. 2583/2011.
Il ricorrente assume, in buona sostanza, che non sussista la legittimazione iure proprio e concorrente della madre ad agire per ottenere l'aumento del contributo di mantenimento per il figlio maggiorenne in ragione del fatto che quest'ultimo, per motivi di studio, trascorre lunghi periodi non più presso l'abitazione della madre, ma nella città ove ha intrapreso gli studi universitari.
5.2. La giurisprudenza di questa Corte ha ripetutamente chiarito, con orientamento costante, che l'obbligo di mantenere il figlio non cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età, ma si protrae, qualora questi, senza sua colpa, divenuto maggiorenne, sia tuttavia ancora dipendente dai genitori. In tale ipotesi, il coniuge separato o divorziato, già affidatario, è legittimato, iure proprio, ed in via concorrente con la diversa legittimazione del figlio, che trova fondamento nella titolarità, in capo a quest'ultimo, del diritto al mantenimento, ad ottenere dall'altro coniuge un contributo per il mantenimento del figlio maggiorenne. La perdurante legittimazione del coniuge già affidatario, in difetto di richiesta di corresponsione diretta dell'assegno da parte del figlio divenuto nelle more maggiorenne, si configura come autonoma, nel senso che il genitore già collocatario resta titolare, nei confronti dell'altro genitore obbligato, di un'autonoma pretesa basata sul comune dovere nei confronti del figlio ai sensi degli artt. 147 e 148 c.c. (tra le tante Cass. n. 25300/2013 e Cass. n. 35629/2018).
L'art. 337 septies c.c., prevede, infatti, come ipotesi alternativa a quella, ordinaria, del versamento diretto dell'assegno di mantenimento al figlio maggiorenne, quella conseguente a "diversa determinazione del giudice". Nella casistica giurisprudenziale di merito, formatasi in osservanza dei principi affermati da questa Corte (tra le tante Cass. n. 4555/2012 e da ultimo Cass. n. 17380/2020), la "diversa determinazione" che il giudice può assumere, valutate le circostanze del caso concreto, è anzitutto, appunto, il versamento del contributo all'altro genitore che si occupi materialmente del mantenimento del figlio, a ciò conseguendo la legittimazione attiva del suddetto genitore. Poiché, di norma, è il genitore con il quale il figlio abita a provvedere materialmente ai bisogni ed alle necessità del figlio stesso, la coabitazione si configura, nelle ipotesi che più frequentemente ricorrono, come un parametro fattuale di rilevanza indiziaria, idoneo a giustificare la deroga alla regola generale della corresponsione diretta della somma a titolo di contributo al mantenimento al figlio maggiorenne. Il versamento dell'assegno periodico al genitore con cui permane la coabitazione con il figlio maggiorenne rappresenta, perciò, un contributo concreto alla copertura delle spese correnti che egli si trova a dover sostenere mensilmente, spese correnti cui sono e restano comunque entrambi i genitori obbligati ai sensi degli artt. 147 e 148 c.c..
In definitiva, la coabitazione può assurgere ad univoco indice del fatto che permanga un più intenso legame di comunanza familiare tra il figlio maggiorenne e il genitore con cui abita e che sia quest'ultimo la figura di riferimento per il corrente sostentamento del primo e colui che provvede materialmente alle sue esigenze. Ciò che decisivamente rileva, perciò, ai fini della legittimazione, è che il genitore di cui trattasi sia appunto la figura di riferimento del figlio per il suo corrente sostentamento e colui che provvede materialmente alle sue esigenze: elemento, questo, rispetto al quale la convivenza ha valore puramente inferenziale.
5.2.1. Così chiarita la finalità, sostanzialmente probatoria a livello indiziario, da attribuirsi al fatto della coabitazione, ritiene il Collegio che debba darsi continuità, con le precisazioni di cui si dirà, all'orientamento di questa Corte (Cass. n. 11320/2005; Cass. n. 14241/2017 e n. 12391/2017 non massimate) secondo il quale non può darsi dirimente rilevanza al solo dato temporale della permanenza del figlio presso l'abitazione del genitore già collocatario. Mentre il rapporto coniugale è connotato di regola da una quotidiana coabitazione e dalla unicità di interessi familiari, quello di filiazione può essere più spesso caratterizzato, in presenza di peculiari e personali interessi del figlio, specie se maggiorenne, da una sua presenza solo saltuaria per la necessità di assentarsi con frequenza per motivi di studio o di lavoro anche per non brevi periodi (così Cass. n. 11320/2005).
La sporadicità dei rientri presso l'abitazione del genitore, stante le ragioni dell'allontanamento, non comporta affatto, per ciò solo, che siano mutati i precedenti assetti di contribuzione familiare. Una frequentazione solo saltuaria della casa da parte del figlio non è, infatti, incompatibile con la persistenza di un più intenso legame di comunanza di vita con uno solo dei genitori, tale che sia quest'ultimo a restare la figura di riferimento per il corrente sostentamento del figlio e a provvedere materialmente alle sue esigenze.
In altri termini, come rimarcato anche dalla Procura Generale, pur in difetto della prevalenza temporale della presenza del figlio nella casa del genitore già collocatario, quest'ultimo e la sua casa potranno essere rimasti per il primo un punto di riferimento stabile del nucleo familiare, sebbene "ristretto" all'esito della separazione coniugale, stante la sistematicità del ritorno del figlio studente in quel luogo, compatibilmente con i suoi impegni universitari o, in generale, di studio. Soprattutto, poi, potrà verificarsi in concreto che sia quel genitore, pur in assenza di coabitazione abituale o prevalente, a provvedere materialmente alle esigenze del figlio stesso, anticipando ogni esborso necessario per il suo sostentamento presso la sede di studio.
Nel concorso di dette circostanze, il cui accertamento non può che essere rimesso ai giudici di merito, trova giustificazione la legittimazione iure proprio di cui si sta trattando, sempre che sia mancata la richiesta in via giudiziale, da parte del figlio maggiorenne, di corresponsione diretta dell'assegno di mantenimento (Cass. n. 12392/2017, non massimata, per l'affermazione del principio secondo cui la legittimazione attiva resta al genitore in mancanza di richiesta giudiziale di versamento diretto del figlio).
5.2.2. Ritiene, pertanto, il Collegio di dover dissentire dall'indirizzo espresso in alcune pronunce di questa Corte (cfr. Cass. n. 4555/2012 e Cass. n. 18075/2013) secondo cui, anche nelle ipotesi di allontanamento del figlio per motivi di studio, la persistenza della legittimazione iure proprio del genitore già collocatario deve valutarsi in base al criterio discretivo della prevalenza temporale della coabitazione, potendo mutuarsi i principi affermati sull'assegnazione della casa familiare.
In relazione a quest'ultima tematica, il parametro della prevalenza temporale è certamente dirimente, atteso che è solo l'effettiva e fisica presenza del figlio nella casa familiare a giustificarne l'assegnazione al coniuge già collocatario, sicché detta assegnazione va negata se difetta la prevalenza temporale effettiva della presenza del figlio nell'abitazione. Invece, con riguardo alla legittimazione iure proprio del genitore a richiedere all'ex coniuge il contributo per il mantenimento del figlio, nella particolare ipotesi di suo allontanamento per motivi di studio, la casa ove vive il coniuge già collocatario assume rilevanza solo come luogo di "ritorno" e ritrovo del nucleo familiare nei termini di cui si è detto, sicché non è pertinente, ai fini che qui interessano e per quanto precisato, l'accertamento dell'assidua o prevalente frequentazione della casa da parte del figlio.
5.3. Facendo applicazione dei principi suesposti al caso di specie, le doglianze sono infondate, laddove il ricorrente assume la carenza di legittimazione attiva della V. perché difetta la coabitazione prevalente del figlio presso la sua casa.
Occorre premettere che non è in discussione che sia dovuto il mantenimento al figlio maggiorenne, studente universitario "modello", e non autosufficiente, né risulta, in base a quanto esposto nel decreto impugnato e a quanto dedotto dalle parti, che egli abbia richiesto al padre la corresponsione diretta dell'assegno, a modifica di quanto previsto nella sentenza di separazione coniugale, intervenendo in giudizio oppure esperendo autonoma azione.
Ciò posto, la Corte territoriale, dopo aver precisato di non condividere l'orientamento giurisprudenziale secondo cui il genitore è legittimato a chiedere l'aumento dell'assegno di mantenimento per il figlio solo se quest'ultimo abiti in prevalenza presso la sua casa, ha ravvisato sussistente la legittimazione concorrente della reclamante in quanto genitore a cui il figlio faceva capo per reperire le risorse necessarie per soddisfare le sue esigenze, a cui non poteva provvedere autonomamente. L'accertamento di fatto compiuto dalla Corte d'appello è, dunque, consistito nell'individuare la madre come soggetto di riferimento per il corrente e materiale sostentamento economico del figlio trasferitosi in altra città per motivi di studio, ossia per necessità di istruzione e per scelta dello stesso figlio, condivisa dalla madre ed avversata dal padre, anche giudizialmente senza esito positivo.
Le censure si incentrano, per un verso e principalmente, sulla questione della sporadicità della coabitazione del figlio con la madre, che non ha, invece, rilevanza dirimente in base alle considerazioni in diritto sopra espresse (p. 5.2), sicché ne discende l'infondatezza per quanto si è precisato.
Per altro verso, il ricorrente, senza censurare specificamente il fatto posto a base della decisione impugnata (materiale e corrente sostentamento della madre necessario per mantenere il figlio a (OMISSIS), con la relativa anticipazione di ogni spesa), deduce che il figlio si gestisce autonomamente, dato che gli assegni di mantenimento corrisposti dal padre venivano versati dalla madre su un conto corrente intestato al giovane, nonché si limita genericamente a sostenere di contribuire "alle spese straordinarie, specie quelle universitarie e concordate col figlio", richiamando una "nota di WhatsApp", prodotta in primo grado come doc. n. 5, indicata come risalente al (OMISSIS), da cui risulterebbero le nuove condizioni economiche concordate con il figlio, peraltro, per quanto è dato comprendere, con un aumento del contributo (raddoppiato rispetto a quello iniziale di Euro 200) solo a carico della madre.
In disparte ogni considerazione sulla valenza di quel documento, del quale non vi è cenno nel decreto impugnato, ai fini della prova dell'accordo asseritamente intervenuto tra padre e figlio, che non risulta aver mai avanzato richiesta di corresponsione diretta del contributo di mantenimento dovuto dal padre, le doglianze sono inammissibili perché genericamente formulate e neppure specificamente riferibili alla ratio decidendi del decreto impugnato di cui si è detto.
6. Anche il secondo motivo è in parte infondato e in parte inammissibile.
6.1. Il ricorrente si duole della suddivisione in parti paritarie tra gli ex coniugi del disposto aumento del contributo di mantenimento (Euro 450 a carico di ciascuno) per mancata considerazione delle sue condizioni reddituali, lamentando anche omessa motivazione.
La Corte d'appello ha, invece, motivato in modo idoneo, non inferiore al minimo costituzionale (Cass. S.U. n. 8053/2014), la statuizione sul punto e le ulteriori doglianze, relative alla valutazione della capacità reddituale del padre, libero professionista, sollecitano, in realtà, inammissibilmente una rivalutazione del merito.
7. In conclusione il ricorso di cui al n. 1634/2016 R.G. va rigettato.
8. Considerata la parziale difformità di orientamento di questa Corte sulle questioni dirimenti rispetto a precedenti pronunce, le spese del presente giudizio sono compensate per metà e le residue spese, liquidate nell'intero come in dispositivo, sono poste a carico del ricorrente.
9. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto (Cass. S.U. n. 5314/2020).
10. Va disposto che in caso di diffusione della presente sentenza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52.
P.Q.M.
La Corte, riuniti i ricorsi, dichiara inammissibile il ricorso di cui al n. 20675/2016 R.G. e rigetta il ricorso di cui al n. 1634/2016, compensa per metà le spese del presente giudizio e condanna il ricorrente alla rifusione della residua metà di dette spese, liquidate, nell'intero, in complessivi Euro 6.400, di cui Euro 400 per esborsi, oltre spese generali, nella misura del 15 per cento, ed accessori come per legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.
Dispone che in caso di diffusione della presente sentenza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52.
Così deciso in Roma, il 16 settembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 31 dicembre 2020
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Sospensione dell’esercizio della responsabilità genitoriale anche per chi maltratta il proprio coniuge.
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La coltivazione domestica di una piantina di marijuana: se diretta all'uso meramente personale non è reato.
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Reato di violenza sessuale: la Cassazione chiarisce il concetto di "abuso di autorità".
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Responsabilità per violazione del consenso informato.
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Il Tribunale di Roma sulla prova della annullabilità per conflitto di interessi ex art. 1394 cc e le prove derivanti dal processo penale
Con Sentenza n.
11268 del 01.08.2020 la Sezione X del Tribunale di Roma ha stabilito che, ai
fini della pronuncia di annullamento del contratto ex art. 1394 cc, il
conflitto di interessi tra rappresentante e rappresentato e la sua conoscenza o
conoscibilità da parte del terzo possono essere dimostrati anche solo
presuntivamente, attraverso circostanze ed elementi che, secondo lo id quod
plerumque accidit, nel loro insieme siano idonei a indicare una comunanza
di interessi tra rappresentate e terzo a detrimento del rappresentato. Non è
quindi necessario, a parere del Giudicante di primo grado, che i requisiti
dell’annullabilità ex art. 1394 cc siano confortati da specifica prova scritta;
né essi devono obbligatoriamente inerire a tutte le situazioni di conflitto esistenti
tra rappresentante e rappresentato, potendo riguardare anche il solo specifico
negozio di cui si chiede l’annullamento. Gli elementi di prova, per giunta,
possono derivare dagli atti di un procedimento penale che abbia coinvolto il
rappresentante ma a cui il terzo sia rimasto estraneo.
Nel caso di specie, la
domanda ex art. 1394 cc veniva formulata da una signora vittima dei raggiri di
un soggetto che l’aveva convinta a farsi rilasciare procura speciale a vendere la propria casa
familiare di residenza. Tale procura veniva impiegata per svendere l’immobile in
parola, ad insaputa della firmataria alla quale oltretutto non risultava essere
stato versato alcun corrispettivo.
Nel giudizio per
l’annullamento del contratto di compravendita, i convenuti acquirenti contestavano
la domanda di parte attrice rappresentando di non avere avuto conoscenza delle
complessive macchinazioni truffaldine del rappresentante a danno della donna, volte
a depauperarla completamente e sfociate poi in un procedimento penale a carico
del procuratore. In pendenza del procedimento civile, questi era stato
condannato in primo grado per truffa: condanna confermata in seguito dalla
Corte di Appello che aveva però pronunciato il non doversi procedere per
prescrizione del reato. Gli acquirenti erano rimasti estranei a tali vicende
penali.
Il Giudice accoglieva la
domanda di parte attrice, rinvenendo la prova del conflitto di interessi - e
della sua conoscenza o conoscibilità da parte dei convenuti - in alcuni
elementi presenti negli atti del già citato procedimento penale, come il
dimostrato proposito truffaldino del rappresentante e la parentela tra gli
acquirenti e il titolare della società che aveva intermediato la vendita di
tutti gli immobili della firmataria, sempre su procura data allo stesso
rappresentante. Ancora, riteneva accoglibile la domanda ex art. 1394 cc per via
di anomalie nel contratto di compravendita e dell’esiguità del prezzo pattuito,
del cui versamento alla signora, oltretutto, non vi era prova.
E ancora:
“il giudice civile,
può utilizzare come fonte del proprio convincimento le prove raccolte in un
giudizio penale, già definito, ancorché con sentenza di non doversi procedere
per intervenuta prescrizione, ponendo a base delle proprie conclusioni gli
elementi di fatto già acquisiti con le garanzie di legge in quella sede e
sottoponendoli al proprio vaglio critico, mediante il confronto con gli
elementi probatori emersi nel giudizio civile; a tal fine, egli non è tenuto a
disporre la previa acquisizione degli atti del procedimento penale e ad
esaminarne il contenuto, qualora, per la formazione di un razionale
convincimento, ritenga sufficiente le risultanze della sola sentenza.”
22/12/20
Interpretazione del testamento e attribuzione di una quota aritmetica dell'asse ereditario.
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Interpretazione del testamento e attribuzione di una quota aritmetica dell'asse ereditario.
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Diritto di prelazione e disciplina del maso chiuso.
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Donazione indiretta, simulazione e azione di riduzione.
<!--#4DTEXT ad_dataCreazioneL{al_IDArticolo}--> : Undefined
In tema di filiazione, un semplice mandato ai servizi sociali non garantisce i rapporti del figlio con il padre se la madre ne ha alienato la figura.
Cass. civ. Sez. I, Ord., (ud. 25/11/2020) 16-12-2020, n. 28723
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GENOVESE Francesco A. - Presidente -
Dott. VALITUTTI Antonio - Consigliere -
Dott. LAMORGESE Antonio P. - Consigliere -
Dott. CARADONNA Lunella - rel. Consigliere -
Dott. FIDANZIA Andrea - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso n. 6235/2019 proposto da:
M.E., rappresentato e difeso dall'Avv. Castigli Gian Luca, del Foro di Arezzo, giusta procura allegata in calce al ricorso per cassazione.
- ricorrente -
contro
D.C.A.A., M.S.A., rappresentato e difeso dall'Avv. Paola Gallesi; Procura Generale presso la Corte di appello di Firenze;
- intimati -
avverso il decreto della Corte di appello di FIRENZE n. 6492/2014 pubblicato il 7 agosto 2018;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 25 novembre 2020 dal Consigliere Dott. Lunella Caradonna.
Svolgimento del processo
Che:
1. Con decreto del 7 agosto 2018, la Corte di appello di Firenze ha rigettato il reclamo proposto da M.E. avverso il decreto del Tribunale peri Minorenni di Firenze dell'11 ottobre 2016 che non aveva accolto la richiesta di decadenza di D.C.A.A. dalla potestà genitoriale sul figlio minore M.S.A., nato il (OMISSIS), con l'allontanamento del minore dall'abitazione materna, dando mandato ai servizi Sociali di (OMISSIS) di predisporre, a seguito di una espressa richiesta in tal senso rivolta loro dal M. e previa un'adeguata preparazione del minore del padre stesso, incontri osservati una volta al mese, ferme le altre disposizioni vigenti.
2. A sostegno del decreto impugnato, la Corte di appello di Firenze, all'esito della disposta CTU al fine di valutare la capacità genitoriale della madre e la possibilità di ripresa dei rapporti padre-figlio, ha affermato che non era necessario, nè opportuno disporre l'affidamento del minore ai servizi Sociali e che, al fine di consentire di ipotizzare una ripresa dei rapporti padre-figlio, appariva sufficiente dare mandato ai Servizi Sociali di (OMISSIS). 3. M.E., avverso il suddetto decreto, ha proposto ricorso per cassazione con atto affidato a sei motivi.
4. D.C.A.A. e M.S.A., rappresentato e difeso dall'Avv. Paola Gallesi, non hanno svolto difese.
Motivi della decisione
Che:
1. Con il primo motivo il ricorrente deduce, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, la violazione e falsa applicazione degli artt. 330 e 336 c.c. e dell'art. 354 c.p.c., comma 1, posto che non era mai stato nominato un curatore speciale per il minore e che, verificata la mancata integrazione del contraddittorio in primo grado nei confronti del minore, la Corte di appello si era limitata a nominare difensore l'Avv. Paola Gallesi, mentre avrebbe dovuto rimettere la causa al primo giudice.
2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 330 e 337 ter c.c., per non avere interpretato la norma individuando gli elementi della fattispecie nella violazione o trascuratezza dei doveri inerenti alla potestà genitoriale o nell'abuso dei relativi poteri con grave pregiudizio per il figlio sostituendoli con l'adeguatezza della capacità genitoriale della madre e il pregiudizio per il minore dall'eventuale allontanamento da questa.
3. Con il terzo motivo il ricorrente deduce, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, la censura dell'affermazione con la quale si conclude per l'adeguatezza della capacità della madre, in quanto la Corte aveva messo a fondamento della propria decisione unicamente una parte ampiamente contestata della CTU, omettendo l'esame dei comportamenti posti in essere dalla madre che avevano alienato la figura paterna.
4. Con il quarto motivo il ricorrente deduce, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, la violazione e falsa applicazione dell'art. 337 ter c.c., in ordine ai comportamenti posti in essere dalla madre che avevano alienato la figura paterna nella parte in cui aderendo alla giurisprudenza di Cassazione che ritiene che in tema di Pas occorra accertare se sussistono i denunciati comportamenti volti all'allontanamento del figlio dall'altro genitore, aveva invece ritenuto decisa l'incapacità del padre a relazionarsi con il figlio.
5. Con il quinto motivo il ricorrente deduce, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione dell'art. 116 c.p.c., in relazione alla valutazione effettuata dalla CTU sulla capacità genitoriale della madre.
6. Con il sesto motivo il ricorrente deduce, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l'omessa e in ogni caso contraddittorietà, insufficienza della motivazione, illogicità e palese erroneità della stessa in ordine ai comportamenti posti in essere dal padre per recuperare il rapporto con il figlio.
7. Deve in via preliminare affermarsi l'ammissibilità del ricorso.
Ed invero, questa Corte, rimeditando il proprio precedente contrario orientamento, ha più recentemente statuito, con affermazione cui il Collegio intende assicurare continuità, che i provvedimenti cosiddetti de potestate, che attengono alla compressione della titolarità della responsabilità genitoriale, ovvero i provvedimenti di decadenza limitativi di cui agli artt. 330 e 333 c.c., hanno l'attitudine al giudicato rebus sic stantibus, in quanto non revocabili o modificabili salva la sopravvenienza di fatti nuovi, sicchè il decreto della corte di appello che, in sede di reclamo, conferma, revoca o modifica il predetto provvedimento, è impugnabile con ricorso per cassazione ex art. 111 Cost., comma 7 (Cass., 6 marzo 2018, n. 5256; Cass., 21 novembre 2016, n. 23633; Cass. 29 gennaio 2016, n. 1743).
Specificamente questa Corte ha affermato "essendo indubitabile che il decreto adottato dal tribunale per i minorenni, con il quale si dispone la decadenza o la limitazione della responsabilità genitoriale, incide su diritti di natura personalissima, di primario rango costituzionale, deve - per converso - ritenersi che tale provvedimento, emanato peraltro all'esito di un procedimento che si svolge con la presenza di parti processuali in conflitto tra loro, abbia attitudine al cd. giudicato rebus sic stantibus. Tale provvedimento non è, invero, nè revocabile, nè modificabile, se non per la sopravvenienza di fatti nuovi e non per la mera rivalutazione delle circostanze preesistenti già esaminate. Pertanto, dopo che la Corte d'appello lo abbia confermato, revocato o modificato in sede di reclamo ex art. 739 c.p.c., il decreto camerale - secondo l'orientamento innovativo in esame - acquista una sua definitività, ed è senz'altro impugnabile con il ricorso per cassazione che va, di conseguenza, ritenuto pienamente ammissibile" (Cass., 25 luglio 2018, n. 19780).
7.1 Si tratta di un indirizzo che trova applicazione anche nella presente controversia, con la necessaria premessa che si tratta di una rivisitazione dell'indirizzo tradizionale che ha avuto origine dalla modifica dell'art. 38 disp. att., introdotta dalla L. 10 dicembre 2002, n. 219, art. 3, comma 1, che ha attribuito al giudice ordinario anche i procedimenti ex artt. 330 e 333 c.c., nell'ipotesi in cui sia in corso tra le stesse parti un giudizio di separazione o divorzio, e alla nuova veste assunta dal minore nei procedimenti giurisdizionali che lo riguardano.
Di recente, questa Corte ha ulteriormente precisato che in materia di provvedimenti de potestate ex artt. 330, 333 e 336 c.c., il decreto pronunciato dalla Corte d'appello sul reclamo avverso quello del Tribunale per i minorenni è impugnabile con il ricorso per cassazione, avendo, al pari del decreto reclamato, carattere decisorio e definitivo, in quanto incidente su diritti di natura personalissima e di primario rango costituzionale, ed essendo modificabile e revocabile soltanto per la sopravvenienza di nuove circostanze di fatto e quindi idoneo ad acquistare efficacia di giudicato, sia pure rebus sic stantibus, anche quando non sia stato emesso a conclusione del procedimento per essere stato, anzi, espressamente pronunciato "in via non definitiva", trattandosi di provvedimento che riveste comunque carattere decisorio, quando non sia stato adottato a titolo provvisorio ed urgente, idoneo ad incidere in modo tendenzialmente stabile sull'esercizio della responsabilità genitoriale (Cass., 24 gennaio 2020, n. 1668).
7.2 Tale principio, che il Collegio condivide, deve considerarsi applicabile anche alla fattispecie in esame, in quanto avente ad oggetto la domanda di decadenza di D.C.A.A. dalla potestà genitoriale sul figlio minore M.S.A., nato il (OMISSIS).
8. Tanto premesso in punto di ammissibilità del ricorso per cassazione, l'esame delle censure porta al rigetto del primo motivo e, all'accoglimento del terzo e quarto motivo che vanno trattati unitariamente in quanto hanno ad oggetto la medesima questione giuridica della tutela del principio della bigenitorialità.
8.1 Questa Corte ha già avuto modo di affermare che il procedimento ex art. 336 c.c., benchè non prettamente contenzioso, non ha ad oggetto preminente, o addirittura esclusivo, un'attività di controllo del giudice sull'esercizio della responsabilità genitoriale, che escluda la presenza di parti processuali fra di loro in conflitto (Cass., 21 novembre 2016, n. 23633; Cass. 29 gennaio 2016, n. 1743).
L'articolo in esame stabilisce, infatti, quali sono i soggetti legittimati a promuovere il ricorso, prevede che i genitori e i minori siano assistiti da un difensore, sancisce l'obbligo di audizione dei genitori, nonchè, nel testo modificato dal D.Lgs. n. 154 del 2013, l'obbligo di ascolto del minore dodicenne, od anche di età inferiore ove dotato di discernimento e il decreto che dispone la limitazione o la decadenza della responsabilità genitoriale incide su diritti di natura personalissima di primario rango costituzionale (Cass., 6 marzo 2018, n. 5256).
8.2 Anche la Corte Costituzionale, con la sentenza interpretativa di rigetto n. 1 del 30 gennaio 2002, ha chiarito che dalla novità introdotta dalla L. n. 149 del 2001, art. 37, comma 3 (che ha aggiunto all'art. 336 c.c., il comma 4, che stabilisce che per i provvedimenti di cui ai commi precedenti, ovvero adottati ai sensi degli artt. 330 e 333 c.c., i genitori ed il minore sono assistiti da un difensore) si evince l'attribuzione della qualità di parti del procedimento che, in quanto tali, hanno diritto ad averne notizia ed a parteciparvi, non solo dei genitori ma anche del minore ed ha, altresì, precisato che la necessità che il contraddittorio sia assicurato anche nei confronti del minore, previa eventuale nomina di un curatore speciale ai sensi dell'art. 78 c.p.c., può trarsi pure dall'art. 12, comma 2, della Convenzione sui diritti del fanciullo, resa esecutiva in Italia con la L. n. 176 del 1991 e perciò dotata di efficacia imperativa nell'ordinamento interno, che prevede che al fanciullo sia data la possibilità di essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo concerne, sia direttamente sia tramite un rappresentante o un organo appropriato.
8.3 Tanto premesso in punto di principi applicabili al caso in esame, si legge nel ricorso per cassazione che la Corte di appello di Firenze, verificata la mancata integrazione del contraddittorio in primo grado nei confronti del minore, aveva nominato, all'udienza del 22 febbraio 2017, il difensore l'Avv. Paola Gallesi e, nel provvedimento impugnato, che il legale del minore aveva concluso per l'affidamento ai servizi Sociali con monitoraggio di almeno un anno.
Nel caso in esame, quindi, la rappresentanza nel procedimento del figlio minore S.A. è stata affidata al difensore specificamente nominato, a cui spettava esaminare l'istanza e gli atti processuali e formulare le conclusioni ritenute opportune nell'interesse esclusivo del minore, così come in effetti è accaduto.
La Corte di appello di Firenze, nominando difensore del minore l'Avv. Paola Gallesi, ha in tal modo sanato il vizio procedurale verificatosi per effetto della mancata partecipazione del minore pure in primo grado.
9. Le censure sollevate con il terzo e il quarto motivo sono fondate. 9.1 Il ricorrente deduce, in particolare, che sia il Tribunale, che la Corte di appello non avevano in alcun modo valutato alcuni fatti decisivi - ben documentati, quali i comportamenti posti in essere dalla madre finalizzati ad emarginare la figura paterna (così i tabulati telefonici, le registrazioni audio di telefonate intercorse tra padre e figlio, le relazioni dell'educatore C., le sentenze di rigetto della Corte di appello di Catania e del Tribunale dei minori di Firenze, la relazione depositata il 30 marzo 2018, la relazione del consulente di parte depositata unitamente alla consulenza d'ufficio il 30 marzo 2018), nè avevano considerato l'interesse del minore al recupero della figura paterna e all'accettazione della diversità delle due figure genitoriali, la cui compresenza e la cui co-referenzialità costituivano elementi imprescindibili per un sereno sviluppo della sfera emozionale ed affettiva del minore stesso.
Nella sostanza il ricorrente censura la violazione del principio della bigenitorialità, cioè del diritto del bambino di avere un rapporto tendenzialmente equilibrato ed armonioso con entrambi i genitori e, quindi, anche con il padre, ai fini dell'esercizio condiviso della responsabilità genitoriale.
La Corte territoriale, secondo l'assunto del ricorrente, avrebbe omesso del tutto di considerare i documenti che dimostravano come la D.C. aveva ostacolato in ogni modo il suo rapporto con il figlio e che l'attuale convivenza del figlio con la madre costituiva un insuperabile impedimento al suo riavvicinamento al figlio; che era stato omesso l'espletamento di indagini specifiche volte ad individuare l'esistenza di una Parental Alienation Syndrome e che ciò aveva precluso la tutela dei suoi diritti di padre e dei diritti del figlio.
9.2 Ciò posto, questa Corte di legittimità ha più volte affermato che, nell'interesse superiore del minore, va assicurato il rispetto del principio della bigenitorialità, da intendersi quale presenza comune dei genitori nella vita del figlio, idonea a garantirgli una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi, nel dovere dei primi di cooperare nell'assistenza, educazione ed istruzione (Cass., 8 aprile 2019, n. 9764; Cass., 23 settembre 2015, n. 18817; Cass., 22 maggio 2014, n. 11412).
Tale orientamento trova riscontro nella giurisprudenza della Corte Edu, che, chiamata a pronunciarsi sul rispetto della vita familiare di cui all'art. 8 CEDU, pur riconoscendo all'autorità giudiziaria ampia libertà in materia di diritto di affidamento di un figlio di età minore, ha precisato che è comunque necessario un rigoroso controllo sulle "restrizioni supplementari", ovvero quelle apportate dalle autorità al diritto di visita dei genitori, e sulle garanzie giuridiche destinate ad assicurare la protezione effettiva del diritto dei genitori e dei figli al rispetto della loro vita familiare, di cui all'art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, onde scongiurare il rischio di troncare le relazioni familiari tra un figlio in tenera età ed uno dei genitori (Corte EDU, 9 febbraio 2017, Solarino c. Italia).
La Corte EDU, quindi, invita le Autorità nazionali ad adottare tutte le misure atte a mantenere i legami tra il genitore e i figli, affermando che "per un genitore e suo figlio, stare insieme costituisce un elemento fondamentale della vita familiare" (Kutzner c. Germania, n. 46544/99, CEDU 2002) e che "le misure interne che lo impediscono costituiscono una ingerenza nel diritto protetto dall'art. 8 della Convenzione" (K. E T. c. Finlandia, n. 25702/94, CEDU 2001).
I giudici di Strasburgo, inoltre, hanno precisato che, in un quadro di osservanza della frequentazione tra genitore e figlio, gli obblighi positivi da adottarsi dalle autorità degli Stati nazionali, per garantire effettività della vita privata o familiare nei termini di cui all'art. 8 della Convenzione EDU, non si limitano al controllo che il bambino possa incontrare il proprio genitore o avere contatti con lui, ma includono l'insieme delle misure preparatorie che, non automatiche e stereotipate, permettono di raggiungere questo risultato, nella preliminare esigenza che le misure deputate a ravvicinare il genitore al figlio rispondano a rapida attuazione, perchè il trascorrere del tempo può avere delle conseguenze irrimediabili sulle relazioni tra il fanciullo e quello dei genitori che non vive con lui (Corte EDU, 29 gennaio 2013, Lombardo c. Italia).
In particolare, nella pronuncia da ultimo richiamata, la Corte EDU ha affermato che era stato violato l'art. 8 della Convenzione da parte dello Stato italiano, in un caso in cui le autorità giudiziarie, a fronte degli ostacoli opposti dalla madre affidataria, ma anche dalla stessa figlia minorenne, a che il padre esercitasse effettivamente e con continuità il diritto di visita, non si erano impegnate a mettere in atto tutte le misure necessarie a mantenere il legale familiare tra padre e figlia minore, attraverso un concreto ed effettivo esercizio del diritto di visita nel contesto di una separazione legale tra i genitori.
Nello specifico, i giudici Europei hanno messo in evidenza che quelle autorità si erano limitate reiteratamente e con formule stereotipate a confermare i propri provvedimenti, nonchè a prescrivere l'intervento dei servizi sociali, cui erano richieste di volta in volta informazioni e delegata una generica funzione di controllo, così determinandosi il consolidamento di una situazione di fatto pregiudizievole per il padre, mentre avrebbero potuto rapidamente adottare misure specifiche per il ripristino della collaborazione tra i genitori e dei rapporti tra il padre e la figlia, anche avvalendosi della mediazione dei servizi sociali.
9.3 Tanto premesso in punto di principi giurisprudenziali applicabili nel caso in esame, la Corte di appello di Firenze, all'esito della consulenza tecnica d'ufficio disposta al fine di valutare la capacità genitoriale della madre e la possibilità di ripresa dei rapporti del padre con il figlio, con motivazione praticamente assente, dando acritica conferma alla motivazione del giudice di primo grado e senza tenere in alcun conto le critiche mosse dal padre con l'atto di impugnazione, ha ritenuto l'adeguatezza della capacità genitoriale della madre e ha affermato che non era necessario, nè opportuno disporre l'affidamento del minore ai servizi Sociali e che, al fine di consentire di ipotizzare una ripresa dei rapporti padre-figlio, appariva sufficiente dare mandato ai Servizi Sociali di (OMISSIS). Rileva questo Collegio, tenendo anche conto della evidente conflittualità esistente tra i genitori, che non consentiva di effettuare una prognosi positiva in relazione alla possibilità di soluzioni diverse concordate, che manca del tutto una specifica motivazione in ordine alle eventuali ragioni che hanno indotto la Corte di merito ad escludere una frequentazione più assidua con il padre, che ha piuttosto disposto, peraltro a seguito di una espressa richiesta del M. e previa un'adeguata preparazione del minore e del padre stesso, incontri osservati una volta al mese con l'ausilio dei servizi sociali, ossia ad escludere una effettiva realizzazione del principio di bigenitorialità del minore, in funzione dei suoi bisogni di crescita equilibrata.
La Corte, inoltre, omette del tutto di prendere in esame quale fatto decisivo della controversia la condotta "oppositiva" della madre, quale risulterebbe dai fatti documentali introdotti nel giudizio dal padre del minore, su cui non svolge alcuna considerazione, pur trattandosi di una condotta gravemente lesiva del diritto del minore alla bigenitorialità, nè evidenzia le ragioni di incapacità del padre di prendersi cura del figlio, mancando nel contempo di apprezzare, avuto riguardo alla posizione del genitore collocatario, che tra i requisiti di idoneità genitoriale rileva anche la capacità di preservare la continuità delle relazioni parentali con l'altro genitore a tutela del diritto del figlio alla bigenitorialità e alla crescita equilibrata e sana. Ancora, i giudici di merito non hanno motivato sulle ragioni del rifiuto del padre da parte del figlio e sono venuti meno all'obbligo di verificare, in concreto, l'esistenza dei denunciati comportamenti volti all'allontanamento fisico e affettivo del figlio minore dall'altro genitore, potendo il giudice di merito, a tal fine, utilizzare i comuni mezzi di prova tipici e specifici della materia, ivi compreso l'ascolto del minore, e anche le presunzioni (desumendo eventualmente elementi anche dalla presenza, ove esistente, di legame "peculiari" tra il figlio e uno dei genitori).
Tali comportamenti, infatti, ove accertati, sicuramente pregiudicherebbero il diritto del figlio alla bigenitorialità e ad una sua crescita equilibrata e serena.
Questa Corte, al riguardo, ha avuto occasione di osservare che, in tema di affidamento dei figli minori, il giudizio prognostico che il giudice, nell'esclusivo interesse morale e materiale della prole, deve operare circa le capacità dei genitori di crescere ed educare il figlio nella nuova situazione determinata dalla disgregazione dell'unione, va formulato tenuto conto, in base ad elementi concreti, del modo in cui i genitori hanno precedentemente svolto i propri compiti, delle rispettive capacità di relazione affettiva, nonchè della personalità del genitore, delle sue consuetudini di vita e dell'ambiente sociale e familiare che è in grado di offrire al minore (Cass., 23 settembre 2015, n. 18817, citata).
10. I restanti motivi sono assorbiti dall'accoglimento dei predetti.
11. In conclusione la decisione impugnata va cassata, in relazione al terzo e quarto motivo, con rinvio alla Corte di appello di Firenze, in diversa composizione, per il riesame e la liquidazione delle spese di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il terzo e quarto motivo di ricorso; dichiara infondato il primo motivo, assorbiti gli altri; cassa il decreto impugnato, in relazione ai motivi accolti, e rinvia la causa alla Corte di appello di Firenze, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
Dispone che ai sensi del D.Lgs. n. 198 del 2003, art. 52, siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi in caso di diffusione del presente provvedimento.
Così deciso in Roma, il 25 novembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 16 dicembre 2020
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Danno da morte del congiunto e onere della prova.
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La Kafalah negoziale è utilizzabile ai fini del ricongiungimento familiare.
Cass. civ.
Sez. I, Sent., (ud. 14/10/2020) 11-11-2020, n. 25310
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare Giuseppe -
Presidente -
Dott. TERRUSI Francesco - rel. Consigliere -
Dott. PAZZI Alberto - Consigliere -
Dott. PACILLI Giuseppina Anna Rosaria -
Consigliere -
Dott. CARADONNA Lunella - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 33922/2018 proposto da:
Ministero degli Affari Esteri, in persona del
Ministro pro tempore, nonchè Ministero dell'Interno, in persona del Ministro
pro tempore, entrambi elettivamente domiciliati in Roma, Via dei Portoghesi 12,
presso l'Avvocatura generale dello Stato che li rappresenta e difende ope
legis;
- ricorrenti -
contro
A.Z.;
- intimato -
avverso la sentenza n. 813/2018 della CORTE
D'APPELLO di GENOVA, depositata il 16/05/2018;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 14/10/2020 dal Cons. Dott. TERRUSI FRANCESCO;
udito il P.M., in persona del Sostituto
Procuratore Generale Dott. CERONI Francesca, che ha concluso per il rigetto del
ricorso;
udito per i ricorrenti l'avvocato generale dello
Stato Ilia Massarelli, che ha concluso per l'accoglimento.
Svolgimento del processo
La corte d'appello di Genova ha respinto il
gravame del Ministero dell'Interno e del Ministero degli Esteri contro
l'ordinanza con la quale il tribunale della stessa città aveva annullato il
diniego del visto dell'ambasciata italiana a (OMISSIS) per il ricongiungimento
familiare di A.Z., già titolare di permesso per asilo politico, col proprio
fratello minore I.A., affidatogli tramite procura notarile della madre.
L'avvocatura generale dello Stato ha proposto
ricorso per cassazione nell'interesse di entrambi i ministeri, deducendo un
unico motivo.
L'intimato non ha svolto difese.
La causa è stata rimessa in pubblica udienza con
ordinanza interlocutoria n. 5081 del 2020, in relazione all'ambito applicativo
dell'art. 29 T.U. IMM., nella parte relativa ai minori che, ai fini del
ricongiungimento, possono essere equiparati ai figli (adottati, affidati e
sottoposti a tutela).
Motivi della decisione
I. - Con l'unico mezzo l'avvocatura denunzia la
violazione o falsa applicazione della L. n. 184 del 1983, art. 9 e art. 29 del
T.U. IMM. perchè la norma da ultimo citata, nell'indicare i familiari di cui è
ammesso il ricongiungimento, non farebbe alcun riferimento ai fratelli, che
sono in base all'ordinamento italiano parenti di secondo grado, e non potrebbe
essere interpretata estensivamente.
Il ricorso è fondato, sebbene nel senso e nei
limiti che seguono.
II. - La corte d'appello di Genova ha confermato la
decisione di primo grado sulla base di due considerazioni: (i) perchè l'art. 29
T.U. IMM., elenca i minori che possono equiparasi ai figli - ovvero gli
adottati, gli affidati e i sottoposti a tutela e (ii) perchè nel caso concreto
il fratello minore del richiedente era stato a lui affidato dalla madre in base
a dichiarazione giurata vidimata da un notaio del luogo.
Anche se, con certo qual grado di contraddizione,
la medesima corte ha pure sottolineato che le amministrazioni appellanti non
avevano provato che il minore fosse fratello del richiedente, è pacifico,
stante il tenore complessivo del provvedimento, che la decisione è stata resa
sullo specifico presupposto che il minore è il fratello del richiedente, a lui
affidato dalla madre. Occorre aggiungere del resto che, a riguardo del rapporto
parentale e dell'avvenuto affidamento con la ridetta modalità, la decisione non
è stata censurata.
III. - Il giudice a quo ha soggiunto che
l'affidamento parentale è in Italia libero (per i primi sei mesi), ai sensi
della L. n. 184 del 1983, art. 9, cosicchè le modalità adottate per l'affido,
nel caso in esame, non avrebbero potuto esser ritenute in contrasto con
l'ordinamento nazionale.
In tal guisa ha ritenuto non pertinenti i
riferimenti delle amministrazioni ai precedenti di questa Corte in ordine
all'istituto della "kafalah", poichè nella specie la madre aveva
direttamente e semplicemente affidato il minore al fratello maggiore senza
spogliarsi della potestà genitoriale.
IV. - In una simile motivazione - che identifica
la ratio decidendi - si annidano errori di diritto, poichè invece proprio dalla
giurisprudenza formatasi, nel tempo, con riguardo alla "kafalah"
(istituto di diritto islamico teso a garantire protezione e assistenza ai
minori che versino in condizioni di abbandono o privazione di mezzi, stante il
divieto coranico dell'adozione) la corte d'appello avrebbe dovuto trarre i
principi rilevanti ai fini di causa.
A questo proposito è opportuno ricostruire,
benchè sommariamente, il quadro normativo e giurisprudenziale in materia.
L'art. 29 del T.U. Imm. dispone che lo straniero
può chiedere il ricongiungimento per i seguenti familiari: "a) coniuge non
legalmente separato e di età non inferiore ai diciotto anni; b) figli minori,
anche del coniuge o nati fuori del matrimonio, non coniugati, a condizione che
l'altro genitore, qualora esistente, abbia dato il suo consenso; c) figli
maggiorenni a carico, qualora per ragioni oggettive non possano provvedere alle
proprie indispensabili esigenze di vita in ragione del loro stato di salute che
comporti invalidità totale; d) genitori a carico, qualora non abbiano altri
figli nel Paese di origine o di provenienza, ovvero genitori
ultrasessantacinquenni, qualora gli altri figli siano impossibilitati al loro
sostentamento per documentati, gravi motivi di salute 2". Dopodichè la
norma al comma 2 chiarisce che "i minori adottati o affidati o sottoposti
a tutela sono equiparati ai figli".
il punto attiene al significato da attribuire
all'espressione "affidati".
V. - Quanto alla "kafalah" un
orientamento assume che l'art. 29 citato non potrebbe essere interpretato
estensivamente, neppure ai sensi dell'art. 28, comma 2, del medesimo D.Lgs., il
quale, nel consentire l'applicazione delle norme più favorevoli, si riferisce
esclusivamente a quelle che disciplinano le modalità del ricongiungimento
(Cass. n. 4868-10).
Su questo orientamento fa leva l'avvocatura
ricorrente.
Tuttavia l'orientamento citato è stato nella
medesima prospettiva in parte contraddetto dalle Sezioni unite di questa Corte,
che ex art. 363 c.p.c., hanno affermato il principio per cui "non può
essere rifiutato il nulla osta all'ingresso nel territorio nazionale, per
ricongiungimento familiare, richiesto nell'interesse di minore cittadino
extracomunitario, affidato a cittadino italiano residente in Italia con
provvedimento di "kafalah" pronunciato dal giudice straniero, nel
caso in cui il minore stesso sia a carico o conviva nel paese di provenienza
con il cittadino italiano, ovvero gravi motivi di salute impongano che debba
essere da questi personalmente assistito" (Cass. Sez. U n. 21108-13).
Nella motivazione è stato precisato (in linea ben
vero con quanto già indicato da Cass. n. 7472-08) che in ogni situazione nella
quale venga in rilievo l'interesse del minore deve esserne assicurata la
prevalenza sugli eventuali interessi confliggenti principio, codesto,
espressamente affermato nell'art. 3 della Convenzione di New York sui diritti
del fanciullo del 24 novembre 1989 ("In tutte le decisioni relative ai
fanciulli, di competenza delle istituzioni pubbliche o private di assistenza
sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi
legislativi, l'interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione
preminente") e ribadito con l'art. 24 della Carta dei diritti fondamentali
dell'Unione Europea del 7 dicembre 2000, adottata il 12 dicembre 2007 a
Strasburgo (che, ai sensi dell'art. 6 del trattato di Lisbona, entrato in
vigore il 1 dicembre 2009, ha lo stesso valore giuridico dei Trattati).
In sostanza, "in tutti gli atti relativi ai
bambini, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private,
l'interesse superiore del bambino deve essere considerato preminente"; e
tanto è desumibile anche dall'art. 2 (applicabile anche agli stranieri
maggiorenni o minori: v. C. Cost. n. 199-86, C. Cost. n. 203-97, C. Cost. n.
376-00) e art. 30 Cost..
VI. - Ora, come hanno chiarito le Sezioni unite,
tale principio deve trovare applicazione anche in materia di disciplina interna
dell'immigrazione - il che è d'altronde previsto dall'art. 28, comma 3, T.U.
Imm., secondo il quale "in tutti i procedimenti amministrativi e
giurisdizionali finalizzati a dare attuazione al diritto all'unità familiare e
riguardanti i minori, deve essere preso in considerazione con carattere di
priorità il superiore interesse del fanciullo, conformemente a quanto previsto
dall'art. 3 della Convenzione sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989,
ratificata e resa esecutiva ai sensi della L. 27 maggio 1991, n. 176".
A questo orientamento il collegio intende dare
continuità.
Deve essere anche precisato che, in relazione
alla "kafalah" pubblicistica (situazione pur diversa da quella in
esame, che si basa su un affidamento diretto e privatistico dalla madre del
minore al fratello), il corredo argomentativo della sentenza delle Sezioni
unite si incentra sulla ammissibilità dell'interpretazione estensiva (sebbene
ovviamente non di quella analogica) dell'art. 29 del T.U. Imm., in ciò
chiaramente smentendo la diversa odierna tesi dell'avvocatura dello Stato.
Dopo aver ricordato che nell'interpretazione
delle norme primarie il giudice deve preferire quella conforme a Costituzione,
la richiamata sentenza ha ribadito che la definizione normativa dei familiari
stranieri per i quali il cittadino italiano residente in Italia può chiedere il
ricongiungimento "non consente l'applicazione analogica a casi non
previsti" (Cass. n. 25661-10), ma consente, in mancanza di regole di
ermeneutica di diverso segno, l'interpretazione estensiva, specialmente quando
sia l'unica costituzionalmente orientata e conforme ai principi affermati nelle
norme sovranazionali, pattizie o provenienti da fonti dell'Unione Europea.
In tal modo la sentenza ha esplicitamente
richiamato - e quindi per tale via confermato - quanto specificamente stabilito
da Cass. n. 7472-08, secondo la quale tra gli istituti della
"kafalah" di diritto islamico, "quando questa non abbia natura
esclusivamente negoziale", e dell'affidamento nazionale di un minore
prevalgono i punti in comune sulle differenze; cosicchè il primo istituto, il
quale costituisce l'unico di protezione previsto dagli ordinamenti islamici nei
confronti dei minori orfani, illegittimi o abbandonati, può fungere da
presupposto per il ricongiungimento familiare e dare titolo allo stesso, ai
sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 29, comma 2 (cd. T.U. Imm.).
VII. - L'indirizzo risalente alla citata
pronuncia delle Sezioni unite ha lasciato aperta la questione relativa al
limite dell'interpretazione estensiva, determinato dall'inciso "quando
questa (la "kafalah") non abbia natura esclusivamente
negoziale".
Devesi cioè stabilire se il confine
dell'interpretazione estensiva debba porsi in rapporto ai soli istituti
pubblicistici (come la "kafalah" tradizionale), ovvero possa
determinarsi anche oltre tali istituti, col fine di dare tutela a situazioni
nelle quali l'interesse del minore al ricongiungimento sia stato tradotto in
atti di affidamento puro e semplice a uno dei familiari maggiorenni.
Questo è l'aspetto che rileva nel presente
giudizio. E tale aspetto la corte territoriale ha completamente trascurato,
erroneamente affermando la non pertinenza dei riferimenti alla
"kafalah"; mentre invece essi ben afferivano, sebbene nell'ottica
dell'interpretazione estensiva (in base ai principi giurisprudenziali appena
richiamati) e del suo eventuale limite.
VIII. - Sennonchè pure la "kafalah"
convenzionale, prevista in alcuni ordinamenti giuridici che si ispirano
all'insegnamento del Corano, è stata considerata rilevante dalla successiva
giurisprudenza di questa Corte, con la condivisibile avvertenza che si tratta
di un istituto di protezione familiare inteso a far godere al minore maggiori
opportunità di crescita e migliori condizioni di vita, salvaguardando il
rapporto con i genitori.
Tale istituto prescinde dallo stato di abbandono
del minore, ma si realizza mediante un negozio stipulato tra la famiglia di
origine e quella di accoglienza, donde per tale via presenta caratteri comuni
con l'affidamento previsto dall'ordinamento nazionale. E solo in quanto
finalizzato a realizzare l'interesse superiore del minore esso non contrasta
con i principi dell'ordine pubblico italiano e neppure con quelli della
Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, che
pure opera espressamente, all'art. 20, comma 3, il riconoscimento quale
istituto di protezione del minore della sola "kafalah" giudiziale -
la quale, diversamente da quella convenzionale, presuppone invece la situazione
di abbandono o comunque di grave disagio del minore nel suo ambiente familiare
(v. Cass. n. 1843-15).
In tale prospettiva la valutazione circa la
possibilità di consentire al minore l'ingresso in Italia e il ricongiungimento
con l'affidatario non può essere esclusa, quindi, in considerazione della
natura e della finalità dell'istituto della "kafalah" negoziale, ma
pur sempre deve essere effettuata caso per caso in considerazione del superiore
interesse del minore.
IX. - Simili criteri di giudizio vanno in questa
sede confermati, come in qualche modo sostenuto anche dal procuratore generale
in udienza.
Solo che, parametrata a essi, l'impugnata
sentenza è deficitaria.
Lo è innanzi tutto nella parte in cui ha omesso
di svolgere l'accertamento richiesto sulla natura e sulle finalità
dell'istituto prescelto dalle parti (appartenenti alla stessa famiglia) e sulla
corrispondenza di esso alle norme di diritto interno dello Stato di
provenienza.
Lo è poi nella motivazione assunta, poichè è
stato affermato a premessa che non alla "kafalah" le parti avevano
fatto riferimento (per quanto nel correttivo negoziale), sebbene a un atto di
affidamento mero (avente forma "notarile") del minore dalla madre al
fratello maggiore; atto che tuttavia neppure è stato qualificato sul piano
giuridico.
Lo è infine nella ragione di conferma della
decisione di prime cure, motivata con l'apodittica affermazione che un simile
atto non sarebbe contrastante con la legislazione nazionale italiana. Quando
invece, ferme essendo le analogie riscontrabili con il citato istituto di
diritto islamico apoditticamente escluso, la corte d'appello avrebbe dovuto
accertare prioritariamente (i) quale fosse la effettiva ragione
pratico-giuridica di esso (giacchè un atto consimile è potenzialmente
utilizzabile anche a fine elusivo delle norme del Paese ospitante); (ii) se e
in qual senso, in base alle norme di diritto interno dello Stato di
provenienza, il ricorso a un istituto del genere fosse da considerare ammesso e
(iii) se e in qual senso, a fronte della concreta situazione personale e
familiare, esso fosse coerente con i superiori interessi del minore. Cosicchè
solo dopo l'espletamento di tale doverosa indagine si sarebbe potuto giungere a
un concreto giudizio di non contrarietà all'ordinamento interno.
X. - L'impugnata sentenza va dunque cassata.
Segue il rinvio alla medesima corte d'appello, la
quale, in diversa composizione, rinnoverà l'esame uniformandosi ai principi
esposti.
Essa provvederà anche sulle spese del giudizio
svoltosi in questa sede di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa l'impugnata
sentenza e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla corte
d'appello di Genova.
Dispone che, in caso di diffusione della presente
sentenza, siano omesse le generalità e gli altri dati significativi.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio
della Sezione Prima Civile, il 14 ottobre 2020.
Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2020
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In caso di scioglimento della comunione ereditaria, il coerede ha diritto ad ottenere il rimborso dell'intera somma spesa per apportare migliorie al bene comune.
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Abbandono del domicilio familiare da parte di uni dei coniugi e conseguente addebito della separazione personale.
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Una semplice voltura castale è idonea a configurare un’accettazione tacita dell’eredità.
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Tribunale di Roma: inammissibile il sequestro nel giudizio per divorzio se il richiedente ha un titolo esecutivo e ha già pignorato
Con provvedimento del 09.12.2020, la Prima Sezione Civile del Tribunale di Roma ha ritenuto inammissibile la richiesta di sequestro conservativo e quella di sequestro di quote societarie avanzate dalla ricorrente nei confronti del marito.
Nel motivare il rigetto, il Giudice ha evidenziato che il sequestro
conservativo era inammissibile perché la richiedente disponeva già di un titolo
esecutivo da far valere contro il resistente.
Inoltre, risultava inammissibile anche la richiesta di sequestro di quote
societarie poiché la ricorrente aveva già proceduto a vincolarle tramite pignoramento eseguito in
forza del predetto titolo esecutivo.
Pertanto, il Tribunale
non ha rinvenuto alcun rischio che il convenuto dismettesse il proprio
patrimonio, al contrario di quanto sostenuto da parte attrice. Quest’ultima,
infatti, riteneva dimostrato tale intento nel fatto che il coniuge avesse trasferito alcune quote da
una società ad un’altra.
Sul punto, il Giudice ha comunque
ritenuto necessari “maggiori approfondimenti sulla reale capacità economica
del resistente, in ragione delle partecipazioni societarie, sia quanto alla
T*** srl (società in relazionale alla quale è necessario verificare la
potenziale redditività ed il valore della quota) che quanto alle T*** M*** srl
(società della quale il resistente è titolare di quota pari all’1,5%
dell’intero, ma di cui risulta amministratore, occupandosi peraltro, pur a
fronte dell’esiguità della quota, di trovare nuovi soci, come da sue stesse
dichiarazioni, ed assumendo garanzia ipotecaria per un finanziamento sociale,
circostanze tutte che necessitano di approfondimento in ordine all’effettiva
posizione del sig. P. all’interno della citata società); peraltro deve darsi
conto della circostanza che, a fronte della cessione di quote della T*** srl alla
T*** M*** s.r.l, il resistente ha ricevuto la somma di euro 125.000,00, che la
parte dichiara di aver versato alla predetta T*** M*** srl, per l’aumento di
capitale sottoscritto, segno questo (unitamente alla circostanza che la parte
stia continuando a versare gli importi dovuti per il mantenimento dei figli,
salvi i dedotti pregressi inadempimenti) di capacità economica.”
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Nei giudizi di modifica delle condizioni di separazione o divorzio la domanda in corso di causa può essere proposta solo nel rispetto del contraddittorio.
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Ripetizione dell'indebito per il genitore che ha versato il mantenimento alla prole già economicamente indipendente.
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Non è configurabile il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare se il coniuge si attiene agli impegni assunti con l'ex coniuge tramite un accordo transattivo anche se non omologato dal giudice.
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La regolarità edilizia del fabbricato è condizione necessaria per lo scioglimento della comunione attraverso la divisione.
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Quantificazione del contributo dovuto dal genitore per il mantenimento dei figli economicamente non autosufficienti.
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Tribunale di Roma: se la causa del danno resta incerta, la prova della responsabilità medica contrattuale è in capo al paziente
Con la Sentenza n. 17156 del
1.12.2020 la XIII Sezione Civile del Tribunale di Roma ha rigettato una
richiesta risarcitoria per responsabilità medica di natura contrattuale,
avanzata da una donna avverso la struttura ospedaliera ove era stata sottoposta
a un intervento di tiroidectomia cui aveva fatto seguito un’importante
ipocalcemia.
La CTU aveva ritenuto provato il
nesso causale tra intervento e conseguenze lamentate ma non era stata in grado
di motivare la loro inspiegabile gravità, oltretutto riconoscendo che la
prestazione era stata correttamente ponderata ed eseguita dall’equipe medica.
Pertanto, pur richiedendo la convocazione dei Periti di Ufficio per
chiarimenti, parte attrice sosteneva che – comunque –
la responsabilità della Struttura Sanitaria permanesse anche qualora la causa
del danno lamentato fosse rimasta incerta, gravando quindi sulla convenuta
l’onere della prova del fatto escludente l’evento pregiudizievole.
Il Giudice ha rigettato tale
interpretazione delle regole sull’onere delle prova, ritenendo piuttosto di
doversi uniformare all’orientamento di Cassazione per cui: “in tal caso il
deficit probatorio grave [sic] sull’attore: «nei giudizi di risarcimento
del danno da responsabilità medica, è onere del paziente dimostrare l'esistenza
del nesso causale, provando che la condotta del sanitario è stata, secondo il
criterio del "più probabile che non", causa del danno, sicché, ove la
stessa sia rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata»
(Cassazione sez. III n. 3704 del 15/02/2018 m. 647948 - 01)”.
Pertanto, l’adito Giudicante ha
ritenuto che: “L’ipocalcemia ingravescente è da considerarsi un evento
naturale eccezionalmente innescatosi in seguito all’intervento di
tiroidectomia, senza che sia rimasto – ad avviso del decidente – del tutto
estranea l’esecuzione dei tre cicli radiometabolici tra i cui effetti
collaterali - esplicitati nel consenso informato reso per il secondo ciclo di
terapia presso l’Ospedale di Cagliari – vi è l’indicazione che la terapia in
questione «ha lo scopo di distruggere i residui di tessuto tiroideo dopo
l’intervento chirurgico», dilatando gli effetti negativi della patologia di cui
si discute.”
La pronuncia, decisamente
articolata e ricca di rimandi giurisprudenziali, offre spunti interessanti
anche su ulteriori questioni di malpractice sanitaria, come il valore
giuridico della complicanza prevedibile e non prevenibile.
Trib. Roma, sez. XIII civ.
1.12.2020, n. 17156 (testo completo)
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Modificabilità dell'assegno di mantenimento anche in pendenza di divorzio.
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Il marito accusa falsamente la moglie dalla quale è separato di intrattenere una relazione con un altro uomo: è diffamazione aggravata.
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In sede di reclamo avverso l’ordinanza presidenziale, la Corte d'Appello non deve statuire sulle spese.
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Colpevole del reato di stalking chi assilla la propria ex utilizzando il pretesto di chiederle di vedere il figlio.
02/12/20
Infedeltà del coniuge: presupposti per il risarcimento del danno da illecito endofamiliare.
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Infedeltà del coniuge: presupposti per il risarcimento del danno da illecito endofamiliare.
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Separazione consensuale a mezzo negoziazione assistita con trasferimento immobiliare: necessaria l’autenticazione del verbale da parte del Notaio.
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Accesso ai documenti fiscali dell’ex coniuge: consentito anche a prescindere dalla pendenza di un giudizio di separazione o divorzio.
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I genitori devono impartire un’educazione idonea a scongiurare danni ai terzi.
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Danni da infiltrazioni: responsabilità oggettiva del condominio sulle parti comuni fino a prova del caso fortuito.
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Determinazione della rendita per infortunio sul lavoro a favore dei familiari superstiti.
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Periodo di conservazione dei dati personali dell'interessato.
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Violazione della privacy e risarcimento del danno.
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No alla diffusione dei dati sulla salute che rendano anche indirettamente identificabili le persone.
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Requisiti aggiuntivi di accreditamento degli organismi di certificazione.
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Ripartizione della pensione della reversibilità tra coniuge divorziato e coniuge superstite.
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Il Tribunale Ordinario autorizza il padre a far vaccinare i figli anche senza il consenso della madre
Con Decreto
del 17.11.2020, pubblicato il 24.11.2020, la Prima Sezione Civile del Tribunale
di Roma, decidendo un procedimento ex artt. 316 c. 4 e 337 bis cc tra un uomo e
una donna ex conviventi, ha autorizzato il padre non collocatario a procedere
alla vaccinazione obbligatoria dei figli minori della coppia, anche in
disaccordo con la madre.
Il Tribunale
risolveva preliminarmente questione di competenza sollevata dalla signora, la
quale riteneva che la domanda di sottoposizione alla profilassi vaccinale obbligatoria
dovesse essere proposta avanti il Tribunale per i Minorenni poiché comportante
una limitazione della responsabilità genitoriale senza la previa pendenza di un
procedimento per separazione o divorzio (le parti non erano coniugate).
Il Collegio ha
così argomentato:
“Preliminarmente l’eccezione di difetto di competenza del Tribunale adito
con riferimento alla questione della vaccinazione obbligatoria per i minori
sollevata dalla ricorrente in sede di note di trattazione scritta deve essere
rigettata.
La domanda
formulata del presente giudizio [dal padre] ha ad oggetto la risoluzione di un
conflitto tra i genitori con riferimento ad una questione di particolare
rilevanza per il minore secondo quanto previsto dall’art. 337- ter comma 4. Il
resistente non ha richiesto l’adozione di alcuna misura limitativa
dell’esercizio della responsabilità genitoriale, non essendo stata neppure
allegata la presenza di condotte paterne pregiudizievoli per i minori. In
applicazione dell’art. 38 disp. att. c.c. competente per la domanda oggetto del
presente giudizio è, pertanto, il Tribunale adito.”
In punto di
decisione, così concludeva:
“Quanto alle vaccinazioni per i minori, per le quali la madre ha manifestato
il proprio convincimento in senso negativo e la necessità di essere
adeguatamente informata, senza nondimeno addurre valide ragioni ostative o
allegare condizioni di salute incompatibili con la somministrazione, il
Tribunale, rammentando l’obbligatorietà (anche ai fini della frequenza
scolastica) delle vaccinazioni come previste dal calendario allegato al Piano
Nazionale di prevenzione nazionale vigente per la fascia 0-16 anni e
considerando che ben potranno essere soddisfatte eventuali richieste
informative della madre da parte degli organi sanitari preposti in sede di
somministrazione, ritiene che il padre debba essere autorizzato ad eseguire la
profilassi vaccinale dei figli L. e S. normativamente prevista in via
obbligatoria anche in assenza di consenso materno (in tal senso correttamente
qualificandosi la di lui domanda tesa ad ottenere che in via urgente il
Tribunale disponga che i minori siano sottoposti all’immediata somministrazione
dei vaccini obbligatori).
[…]
P.Q.M.
Il Tribunale, pronunciando sul ricorso iscritto al n […]
- Autorizza [il padre] a far eseguire le vaccinazioni normativamente previste
come obbligatorie ai figli L. e S. anche in assenza del consenso materno”.
Indietro
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Violazione della privacy e risarcimento del danno.
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Il concetto di capacità lavorativa.
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Violazione del dovere di coabitazione e abbandono della casa coniugale.
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L'obbligato al mantenimento deve provare che il beneficiario non autosufficiente ha rifiutato offerte lavorative.
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La genitorialità intenzionale: dubbi sulla legittimità costituzionale della normativa italiana.
Con l’ordinanza n. 8325 del 2020, la Corte
di Cassazione, sez. civ. I, ha sollevato questione di legittimità
costituzionale degli artt. 12, sesto comma, della legge n. 40 del 2004, 18 del
d.p.r. n. 396 del 2000, 64, primo comma, lett. g, della legge n. 218 del 1995,
se interpretati alla luce della sentenza delle Sezioni unite della Corte di
Cassazione n. 12193 del 2019, «laddove si esclude, attraverso il limite
dell’ordine pubblico, fissato in linea generale e astratta dal legislatore, la
possibilità del riconoscimento ai fini dell’efficacia in Italia, di
provvedimenti giurisdizionali stranieri che accertino il diritto di essere
inserito - quale genitore d’intenzione - nell’atto di nascita del figlio della
persona cui si è legati da matrimonio celebrato all’estero, nato con le
modalità della gestazione per altri (c.d. “maternità surrogata”)»1 (p. 8-9).
In particolare, la legge 19 febbraio n. 40
del 2004, recante “Norme in materia di procreazione assistita”, riserva
l’accesso alle tecniche di pma alle coppie eterosessuali coniugate o
conviventi, affette da sterilità o infertilità, o portatrici di malattie
genetiche trasmissibili, rispondenti ai criteri di gravità di cui all’art. 6,
primo comma, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n. 1942, i cui componenti
siano entrambi viventi e in età potenzialmente fertile. L’esclusione dei single
e delle coppie omosessuali si giustifica, nell’ideologia originaria della legge
n. 40, per l’esigenza di garantire al nascituro una famiglia così detta “tradizionale”.
Tuttavia, nonostante i divieti italiani, le coppie e i single, provvisti dei
mezzi economici necessari, possono ricorrere alla pma e alla gpa all’estero,
nei paesi in cui tali pratiche sono lecite. Al ritorno in Italia si pone, però,
il problema del riconoscimento degli atti di nascita che attestano la
genitorialità anche del così detto genitore d’intenzione.
Il principale ostacolo al riconoscimento
degli atti di nascita validamente formati all’estero (o dei provvedimenti
giurisprudenziali stranieri) che attestano la genitorialità del così detto
genitore intenzionale è rappresentato dal limite dell’ordine pubblico.
Una prima apertura nei confronti del
riconoscimento in Italia degli atti di nascita di cui sopra è avvenuta con la
sentenza della Corte di Cassazione, sez. I, n. 19599 del 2016. Secondo la Corte
il riconoscimento e la trascrizione dell’atto di nascita in questione non
contrastava con il principio dell’ordine pubblico, in quanto quest’ultimo deve
essere inteso non, secondo un’accezione di ispirazione statualista, come ordine
pubblico interno, ossia «come espressione di un limite riferibile
all’ordinamento giuridico nazionale», bensì, in maniera più aderente agli artt.
10, 11 e 117, primo comma, Cost., come ordine pubblico internazionale, ossia
«come complesso dei principi fondamentali caratterizzanti l’ordinamento interno
in un determinato periodo storico, ma ispirati a esigenze di tutela dei diritti
fondamentali dell’uomo comuni ai diversi ordinamenti e collocati a un livello
sovraordinato rispetto alla legislazione ordinaria». «In altri termini -
osservava la Corte - i principi di ordine pubblico devono essere ricercati
esclusivamente nei principi supremi e/o fondamentali della nostra Carta
costituzionale, vale a dire in quelli che non potrebbero essere sovvertiti dal
legislatore ordinario». Da ciò segue che il contrasto con l’ordine pubblico non
è ravvisabile per il solo fatto che la norma straniera si ponga in contrasto
con divieti interni, in quanto «il parametro di riferimento non è costituto (o
non è costituito più) dalle norme con le quali il legislatore ordinario
eserciti (o abbia esercitato) la propria discrezionalità in una determinata
materia, ma esclusivamente dai principi fondamentali vincolanti per lo stesso
legislatore ordinario» e, in particolare, dai «diritti fondamentali dell’uomo,
desumibili dalla Carta costituzionale, dai Trattati fondativi e dalla Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione Europea, nonché dalla Convenzione Europea dei
diritti dell’uomo». Tali principi sono stati poi ribaditi dalla Corte di
Cassazione, sez. I, con la sentenza n. 14878 del 2017.
Eppure, nel 2019 la Corte di Cassazione,
Sezioni unite, con la sentenza n. 12193 del 2019, nella quale si è affermata la
contrarietà all’ordine pubblico del provvedimento giurisdizionale straniero con
cui sia stato accertato il rapporto di filiazione tra minori, nati in paese
straniero mediante ricorso alla maternità surrogata ivi lecita, e il genitore
d’intenzione italiano, con conseguente impossibilità di riconoscimento e
trascrizione. A giudizio delle Sezioni unite, infatti, il divieto di
surrogazione di maternità, ex art. 12, sesto comma, della l. n. 40 del 2004, è
qualificabile come principio di ordine pubblico, in quanto posto a tutela di
valori fondamentali, quali la dignità umana della gestante e l’istituto della
adozione. Secondo i Giudici il riconoscimento e la trascrizione degli atti di
nascita formati a seguito di gpa si pongano in contrasto proprio con l’ordine
pubblico internazionale, come ricostruito nella sentenza del 2016, e cioè con
principi fondamentali dell’ordinamento nazionale e sovranazionale.
Un ruolo determinante spetta invece
sentenza del 24 gennaio 2017, ric. n. 25358/12, con cui, nel caso Paradiso e
Campanelli c. Italia, la Grande Chambre della Corte Europea dei diritti
dell’Uomo, ribaltando la precedente decisione di primo grado, ha stabilito che
non costituisce violazione dell’art. 8 CEDU la decisione delle autorità di uno
Stato membro di allontanare un minore, nato all’estero ricorrendo alla
maternità surrogata, dalla coppia che è ricorsa a tale tecnica, quando lo
stesso non abbia alcun legame genetico con il padre e la madre committenti. Nel
caso di specie, a giudizio della Grande Chambre, non vi sarebbe stata alcuna
violazione del diritto alla vita familiare del minore, posto che non si sarebbe
costituita alcuna famiglia de facto (principalmente per il breve tempo in cui
il minore è rimasto con la coppia), né, quindi, del suo superiore interesse,
mentre l’interferenza nella vita privata della coppia committente sarebbe stata
pienamente giustificata alla luce dell’art. 8 CEDU, posto che le misure
adottate dalle autorità italiane erano conformi alla legge e perseguivano uno
scopo legittimo, individuato nella necessità di protezione dei minori.
Il problema della possibile violazione del superiore interesse del minore è affrontato anche dalle Sezioni unite. Al riguardo i giudici, da un lato, ammettono che il bilanciamento compiuto dal legislatore nella previsione dell’art. 12, sesto comma, della legge n. 40 comporti un necessario affievolimento dell’interesse del minore alla conservazione dello status filiationis in caso di surrogazione di maternità, per la prevalenza di altri, superiori, interessi di ordine pubblico internazionale. D’altro lato, sottolineano, però, come tale affievolimento non si traduca necessariamente nella cancellazione dell’interesse del concepito.
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Inseminazione artificiale.
La Cassazione ritiene che
ricorrano i presupposti per rimettere alla Corte costituzionale la questione di
legittimità costituzionale dell'art. 12, comma 6, l. n. 40 del 2004, dell'art.
18, d.P.R. n. 396 del 2000, e dell'art. 64, comma 1, lett. g), l. n. 218 del
1995, laddove si esclude, attraverso il limite dell'ordine pubblico, fissato in
linea generale e astratta dal legislatore, la possibilità del riconoscimento,
ai fini dell'efficacia in Italia, di provvedimenti giurisdizionali stranieri
che accertino il diritto di essere inserito - quale genitore d'intenzione -
nell'atto di nascita del figlio della persona cui si è legati da matrimonio
celebrato all'estero, nato con le modalità della gestazione per altri (c.d.
"maternità surrogata").
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO
ITALIANO
LA CORTE SUPREMA
DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA
CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BISOGNI Giacinto - Presidente -
Dott. IOFRIDA Giulia - Consigliere -
Dott. CAIAZZO Rosario - rel. Consigliere -
Dott. SCALIA Laura - Consigliere -
Dott. FIDANZIA Andrea - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
INTERLOCUTORIA
sul ricorso n. 30401/2018 proposto da:
Ministero dell'Interno, in persona del
Ministro pro tempore; Sindaco del Comune di Verona, nella qualità di Ufficiale
del Governo, elett.te domiciliati in Roma, alla via dei Portoghesi n. 12,
presso l'Avvocatura Generale dello Stato, che li rappresenta e difende;
- ricorrenti -
contro
F.P., B.F., in proprio e quali genitori
del minore B.F.P., elett.te domiciliati presso l'avv. Alexander Schuster, il
quale li rappresenta e difende, con procura speciale in calce al controricorso
e ricorso incidentale;
- controricorrenti -
contro
Procuratore Generale presso la Corte di
Appello di Venezia;
- intimato -
nonchè F.P., B.F., in proprio e quali
genitori del minore B.F.P., elett.te domiciliati presso l'avv. Alexander
Schuster, il quale li rappresenta e difende, con procura speciale in calce al
controricorso e ricorso incidentale;
- ricorrenti incidentali -
contro
Ministero dell'Interno, in persona del
Ministro pro tempore; Sindaco del Comune di Verona, nella qualità di Ufficiale
del Governo, elett.te domiciliati in Roma, alla via dei Portoghesi n. 12,
presso l'Avvocatura Generale dello Stato, che li rappresenta e difende;
- intimati -
avverso la sentenza n. 6775/2018 della
CORTE D'APPELLO di VENEZIA, depositata il 16/07/2018;
udita la relazione della causa svolta
nella pubblica udienza del 05/12/2019 dal Cons. Dott. CAIAZZO ROSARIO;
udito il Pubblico Ministero, in persona
del Sostituto Procuratore Generale, Dott.ssa IMMACOLATA Zeno, la quale ha
concluso per l'accoglimento del quarto motivo del ricorso principale e per il
rigetto degli altri motivi e del ricorso incidentale;
udito, per i ricorrenti, l'avvocato dello
Stato Ferrante Wally che ha chiesto l'accoglimento del ricorso principale;
udito, per i controricorrenti e ricorrenti
incidentali, l'avvocato Schuster Alexander il quale ha chiesto il rigetto del
ricorso principale e l'accoglimento del ricorso incidentale.
I sigg.ri F.P. e B.F. hanno proposto
ricorso ex art. 702 bis c.p.c., alla Corte di appello di Verona a seguito del
rifiuto loro opposto dall'ufficiale di stato civile del Comune di Verona, di
trascrivere l'atto di nascita del minore B.F.P., nato in (OMISSIS), nel quale
si attesta che il medesimo è il figlio dei ricorrenti.
Al riguardo, i ricorrenti, cittadini italiani,
coniugati in (OMISSIS), con matrimonio trascritto in Italia nel registro delle
unioni civili nel (OMISSIS), hanno allegato che: il bambino era nato con le
modalità tipiche della gestazione per altri (cd. "maternità
surrogata"), essendo la fecondazione avvenuta tra un ovocita di una
donatrice anonima e i gameti di F.P., con successivo impianto dell'embrione
nell'utero di una diversa donna, non anonima, che aveva portato a termine la
gravidanza e partorito il bambino; al momento della nascita le Autorità
canadesi avevano formato un atto di nascita nel quale era indicato, come unico
genitore, F.P., mentre nè la donatrice dell'ovocita, nè la cd. "madre
gestazionale" erano dichiarate madri del minore. A seguito del ricorso
presso la Suprema Corte della British Columbia, i ricorrenti avevano ottenuto,
in data 8.11.2017, una sentenza nella quale si dichiarava che entrambi erano
genitori del minore con la conseguente modifica dell'atto di nascita.
L'ufficiale di stato civile del Comune di Verona aveva però rifiutato la
richiesta avanzata il 16.12.17, di rettificare l'atto di nascita, sia perchè
già esisteva un atto di nascita trascritto, sia per l'assenza di dati normativi
certi e di precedenti nella giurisprudenza di legittimità favorevoli alla
richiesta. Pertanto, i ricorrenti hanno chiesto, a norma della L. 2 agosto
1995, n. 218, art. 67, l'esecutorietà in Italia della sentenza emessa in Canada
nel 2017, al fine di ottenere la trascrizione dell'atto di nascita del minore,
invocando l'applicazione del combinato disposto della L. n. 218 del 1995, artt. 33, 65 e 66 e rilevando la non
contrarietà all'ordine pubblico della suddetta sentenza canadese, già passata
in giudicato, e la liceità delle condotte che hanno determinato la nascita del
bambino secondo le leggi del Paese in cui sono state poste in essere.
L'Avvocatura dello Stato si è costituita
per il Sindaco del Comune di Verona e per il Ministero dell'Interno, sollevando
varie eccezioni preliminari e d'inammissibilità della domanda per contrarietà
all'ordine pubblico; parimenti il Pubblico Ministero è intervenuto opponendosi
all'accoglimento del ricorso.
Con ordinanza del 16.7.18, la Corte
d'appello di Venezia, in accoglimento del ricorso, ha accertato che la sentenza
emessa dalla Suprema Corte della British Columbia in data 8.9.17 - che aveva
riconosciuto F.P. e B.F. quali genitori di B.F.P., nato il (OMISSIS) -
possedeva i requisiti per il riconoscimento a norma della L. n. 218 del 1995, art. 67.
In particolare, la Corte territoriale
veneziana nella sua motivazione osserva che: va preliminarmente riconosciuta la
legittimazione processuale del Sindaco del Comune di Verona, nella veste di
ufficiale di Governo, e del Ministero dell'Interno. Nel merito la circostanza
che nel sistema delle fonti interne non sia previsto il matrimonio tra soggetti
dello stesso sesso, e quindi che non sia concesso di attribuire automaticamente
ad entrambi la responsabilità genitoriale del minore nato dalla procreazione
medicalmente assistita, si risolve nell'evidenza di una diversità di discipline
sostanziali, ma non è di per sè indice dell'esistenza di un principio superiore
fondante e irrinunciabile dell'assetto costituzionale o dell'ordinamento
dell'Unione Europea. Nella materia in esame vige tra i diritti fondamentali la
tutela del superiore interesse del minore in ambito interno e internazionale,
come sancita dalle convenzioni internazionali. Nell'ambito di questo assetto
l'ordine pubblico internazionale impone l'esigenza imprescindibile di
assicurare al minore la conservazione dello status e dei mezzi di tutela di cui
possa validamente giovarsi in base alla legislazione nazionale applicabile, in
particolare del diritto al riconoscimento dei legami familiari ed al
mantenimento dei rapporti con chi ha legalmente assunto il riferimento della
responsabilità genitoriale. Nè può ricondursi all'ordine pubblico la previsione
che il minore debba avere genitori di sesso diverso, posto che nel nostro
ordinamento è contemplata la possibilità che il minore abbia due figure
genitoriali dello stesso sesso nel caso in cui uno dei genitori abbia ottenuto
la rettificazione dell'attribuzione del sesso con gli effetti di cui alla L. n. 164 del 1982, art. 4. Quanto ai divieti di ricorrere
alla procreazione medicalmente assistita di cui alla L. n. 12, comma 2, L. n. 40 del 2004, le scelte del
legislatore italiano appaiono frutto di discrezionalità e non esprimono
principi fondanti a livello costituzionale che impegnino l'ordine pubblico. Nè
può ritenersi rilevante la sanzione penale comminata dell'art. 12, comma 6,
della predetta Legge che punisce chiunque, in qualsiasi forma, realizzi,
organizzi o pubblicizzi la maternità surrogata dato che il divieto e la
sanzione penale non si sovrappongono alla valutazione del miglior interesse del
minore concepito all'estero con tali tecniche, il quale non può essere privato
dello status legittimamente acquisito nel paese in cui è nato.
Ricorre in Cassazione l'Avvocatura dello
Stato nell'interesse del Ministero dell'Interno e del Sindaco di Verona, con
quattro motivi.
F.P. e B.P., quali esercenti la
responsabilità genitoriale sul minore P. resistono con controricorso, eccependo
l'inammissibilità e l'infondatezza del ricorso; i controricorrenti propongono
altresì ricorso incidentale affidato ad un unico motivo condizionato
all'accoglimento di uno o più motivi del ricorso principale.
Con il primo motivo del ricorso principale
si deduce il difetto assoluto di giurisdizione, a norma dell'art. 360 c.p.c., comma 1, in
quanto nell'ordinamento giuridico nazionale non esiste una norma che legittimi
una piena bigenitorialità omosessuale, come affermata dal giudice canadese.
Con il secondo motivo si denunzia
violazione del D.P.R. n. 396 del 2000, art. 95, essendo competente in materia il
Tribunale in primo grado. La Corte d'appello ha erroneamente ritenuto che
l'oggetto del procedimento fosse il riconoscimento dell'efficacia del
provvedimento giurisdizionale straniero nell'ordinamento italiano, mentre
invece i ricorrenti hanno richiesto la trascrizione dell'atto di nascita
straniero ai sensi del D.P.R. n. 396 del 2000, art. 28, comma 2, lett. e), impugnando il
provvedimento con cui l'ufficiale di stato civile aveva rifiutato di
trascrivere il suddetto provvedimento giurisdizionale canadese, venendo dunque
in rilievo un'opposizione al rifiuto di trascrizione che, a norma del citato
art. 95, è proponibile con ricorso innanzi al Tribunale.
Con il terzo motivo si denunzia violazione
e falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c., in
relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4,
avendo la Corte d'appello omesso di pronunciarsi sull'eccezione di difetto di
legittimazione attiva del padre intenzionale B.F. a rappresentare il minore.
Con il quarto motivo si denunzia
violazione e falsa applicazione della L. n. 218 del 1995, artt. 16 e 65, D.P.R. n. 396 del 2000, art. 18, L. n. 40 del 2005, art. 5 e
art. 12, commi 2 e 6, in quanto l'ordinanza impugnata confligge con vari
principi fondanti l'ordine pubblico, tra cui la nozione di filiazione intesa
nell'ordinamento italiano quale discendenza da persone di sesso diverso, come
disciplinata dalle norme in materia di fecondazione assistita, anche eterologa,
nonchè con il divieto della cd. "maternità surrogata", fattispecie
costituente reato secondo la legge italiana.
L'unico motivo del ricorso incidentale
denunzia la violazione e la falsa applicazione dell'art. 100 c.p.c. e L. n. 218 del 1995, art. 67, avendo erroneamente la Corte
d'appello considerato il Ministero e il Sindaco controricorrenti legittimati
passivi, poichè il primo non aveva competenze in materia di stato civile,
mentre il Sindaco non era titolare di un interesse proprio rispetto all'istanza
di trascrizione.
Anzitutto, sono da esaminare i primi tre
motivi del ricorso principale e l'unico dell'incidentale per il loro carattere
logico-preliminare rispetto alla suddetta questione di legittimità
costituzionale. Tali motivi sono infondati, anche alla luce della motivazione
della recente sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, n.
12193/19.
I primi due motivi possono inoltre essere
esaminati congiuntamente poichè tra loro connessi.
Sussiste la giurisdizione del giudice
ordinario adito, poichè il giudizio fonda la causa petendi sull'accertamento di
diritti fondamentali (rectius, sulla prospettazione di tali diritti, e ciò
basta a innescare la giurisdizione).
Il procedimento della L. n. 218 del 1995, ex art. 67, si
differenzia da quello di rettificazione degli atti dello stato civile
disciplinato dal D.P.R. n. 396 del 2000, in quanto, pur
con esso concorrente, ha una più ampia portata, avendo per oggetto il
riconoscimento dello status accertato o costituito dal provvedimento straniero.
Ciò giustifica una lettura allargata della legittimazione a partecipare a tale
giudizio.
Il rifiuto di procedere alla trascrizione
nei registri dello stato civile di un provvedimento giurisdizionale straniero,
con il quale sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato
all'estero e un cittadino italiano, dà luogo, se non determinato da vizi
formali, a una controversia di stato, da risolversi mediante il procedimento
disciplinato dalla L. n. 218 del 1995, art. 67, in contraddittorio con il
Sindaco, in qualità di ufficiale dello stato civile destinatario della
richiesta di trascrizione, ed eventualmente con il Ministero dell'interno,
legittimato a spiegare intervento in causa e ad impugnare la decisione, in
virtù della competenza ad esso attribuita in materia di tenuta dei registri
dello stato civile.
Quanto al ricorso incidentale va ribadito
che il Sindaco è l'organo il cui rifiuto di trascrizione dà origine alla
controversia e come tale è direttamente interessato alle conseguenze e
all'attuazione della pronuncia di delibazione; l'ordine di trascrizione (o di
cancellazione della trascrizione già eseguita) riveste infatti un ruolo
centrale e non accessorio nella decisione ex art. 67.
Dall'altro lato, il Sindaco è ufficiale di
governo, organo periferico dell'Amministrazione statale dell'Interno, alla cui
competenza il D.P.R. n. 396 del 2000, ha trasferito le
attribuzioni in materia di tenuta dei registri dello stato civile e contro la
quale possono essere esperite tra l'altro le azioni di risarcimento di
eventuali danni derivanti dalla (effettuata od omessa) trascrizione. Anche il
Ministero dell'Interno ha pertanto un interesse autonomo, concreto e attuale a
partecipare al giudizio, mentre tuttavia il Ministero dell'Interno
interveniente ed essendo parte a pieno titolo del giudizio di riconoscimento
può anche impugnare il provvedimento a sè sfavorevole.
Infine il terzo motivo del ricorso
principale è infondato, in quanto è evidente che la Corte d'appello abbia
pronunciato implicitamente sull'eccezione di difetto di legittimazione di B.F.,
decidendo sulla domanda di quest'ultimo in ordine al diritto di essere inserito
quale "padre d'intenzione" - nell'atto di nascita del figlio di F.P.,
cui è legato da matrimonio celebrato in (OMISSIS).
Il quarto motivo di ricorso e la questione
di legittimità costituzionale del divieto di trascrizione.
Il quarto motivo è il fulcro del ricorso
principale e suscita una pluralità di questioni, affrontate e decise dalla
recente sentenza n. 12193/2019 delle Sezioni Unite, che rivestono un rilievo
costituzionale e sono decisive ai fini del riconoscimento o meno del
provvedimento giudiziario canadese.
Il Collegio ritiene che ricorrano i
presupposti per rimettere alla Corte Costituzionale la questione di legittimità
costituzionale della L. n. 40 del 2004, art. 12, comma 6, D.P.R. n. 396 del 2000, art. 18, L. n. 218 del 1995, art. 64, comma 1, lett. g), se interpretati
alla luce della citata sentenza delle Sezioni Unite laddove si esclude,
attraverso il limite dell'ordine pubblico, fissato in linea generale e astratta
dal legislatore, la possibilità del riconoscimento, ai fini dell'efficacia in
Italia, di provvedimenti giurisdizionali stranieri che accertino il diritto di
essere inserito - quale genitore d'intenzione - nell'atto di nascita del figlio
della persona cui si è legati da matrimonio celebrato all'estero, nato con le
modalità della gestazione per altri (cd. "maternità surrogata").
Al fine di prospettare tale questione di legittimità
costituzionale, occorre muovere dalla motivazione della predetta sentenza delle
Sezioni Unite n. 12193 del 2019.
Il cardine di tale motivazione è fondato
sul rilievo per cui il riconoscimento dell'efficacia di un provvedimento
giurisdizionale straniero, con il quale sia stato accertato il rapporto di
filiazione tra un minore nato all'estero mediante il ricorso alla maternità
surrogata e il genitore d'intenzione, nella specie cittadino italiano, trova
ostacolo nel divieto di surrogazione di maternità, previsto dalla L. n. 40 del 2004, art. 12, comma 6, qualificabile
come principio di ordine pubblico, in quanto posto a tutela di valori
fondamentali, quali la dignità della donna e l'istituto dell'adozione. Secondo
le Sezioni Unite la tutela di tali valori, non irragionevolmente ritenuti
prevalenti sull'interesse del minore, nell'ambito di un bilanciamento
effettuato direttamente dal legislatore, al quale il giudice non può sostituire
la propria valutazione, non esclude peraltro la possibilità di conferire
comunque rilievo al rapporto con il genitore intenzionale, mediante il ricorso
ad altri strumenti giuridici e specificamente, nel nostro ordinamento,
all'adozione in casi particolari, prevista dalla L. n. 184 del 1983, art. 44, comma 1, lett. d).
Le Sezioni Unite si sono confrontate
direttamente con il divieto, sanzionato penalmente, della L. n. 40 del 2004, art. 12, comma 6, legge,
quest'ultima, considerata "costituzionalmente necessaria". Tale
divieto, secondo le Sezioni Unite, mostra con chiarezza che, anche dopo gli
interventi della Corte costituzionale, la L. n. 40 del 2004, continua a
distinguere tra fecondazione eterologa e maternità surrogata. Ne discende che
il divieto penale contenuto in una legge siffatta va considerato espressivo di
un superiore principio di ordine pubblico che, come chiarito anche dalla Corte
costituzionale con la sentenza n. 272 del 2017, mira a sanzionare una pratica
che offende in modo intollerabile la dignità umana e fa dunque riferimento a
valori superiori e fondanti. Ciò comporta che non può essere trascritto nè
riconosciuto in Italia il provvedimento giudiziale straniero che, riconoscendo
implicitamente la validità dell'accordo di maternità surrogata attribuisce la
paternità (o la maternità) anche al genitore intenzionale che non ha apportato
alcuno contributo biologico alla procreazione.
Tale conclusione, secondo le Sezioni
Unite, non si pone in contrasto con il superiore interesse del minore: sia
perchè tale interesse non ha valore assoluto e può affievolirsi rispetto ad
altri valori, rientrando tale valutazione bilanciata anche nel margine di apprezzamento
che la Corte Europea dei Diritti dell'uomo comunque riconosce agli Stati ai
fini della decisione di autorizzare o meno la pratica di maternità surrogata e
gli effetti giuridici ad essa collegati; sia perchè l'interesse del minore a
restare nella coppia (anche dello stesso sesso) di cui fa parte il genitore
d'intenzione è pur sempre tutelabile attraverso l'adozione in casi particolari
di cui alla L. n. 184 del 1983, art. 44, comma 1, lett. d), secondo
l'orientamento inaugurato da Cass. n. 12962 del 2016. Alla luce di questa
ricostruzione, le Sezioni Unite hanno concluso che gli effetti del
riconoscimento del provvedimento straniero, di cui è stata chiesta la
trascrizione, si pongono in contrasto con l'ordine pubblico della L. n. 218 del 1995, ex art. 64,
comma 1, lett. g).
Il parere del 10 aprile 2019 della Grande
Chambre della Corte Europea dei Diritti Umani.
Successivamente, in data 10.4.19, è stato
pubblicato il parere consultivo della Grande Camera della Corte Europea dei
Diritti dell'Uomo sulla richiesta preventiva della Adunanza Plenaria della
Corte di Cassazione francese (decisa con arret interlocutoire n. 638 del 5
ottobre 2018 e trasmessa con lettera del 12 ottobre 2018).
Tale parere è stato reso, per la prima
volta, in esecuzione del Protocollo n. 16 allegato alla Convenzione Europea dei
Diritti dell'Uomo, entrato in vigore 11 ottobre 2018 - ma non per l'Italia, che
non lo ha ancora reso esecutivo-; al riguardo, nel rapporto esplicativo allo
stesso Protocollo si evidenzia che la formulazione di cui all'art. 1, par. 1,
del Protocollo, trae ispirazione dall'art. 43, par. 2, della Convenzione, il
quale sancisce che il rinvio di un caso dinanzi alla Grande Camera è ammesso
quando "la questione oggetto del ricorso solleva gravi problemi di
interpretazione o di applicazione della Convenzione o dei suoi Protocolli, o
comunque un'importante questione di carattere generale".
La dottrina ha chiarito che il parere reso
dalla Grande Camera, nell'ambito del predetto protocollo, costituisce un
giudizio astratto, teso a chiarire in via preliminare il contenuto delle norme
convenzionali, fornendo quindi un ausilio ai giudici nazionali che potranno,
così, prevenirne la violazione ovvero, se già commessa, porvi rimedio.
La vicenda che ha portato alla richiesta
di parere consultivo è nota inserendosi nella procedura di riesame del
giudicato emesso dalla Corte di Cassazione francese dopo la decisione dei
leading cases Menesson e Labassee c. Francia da parte della Corte Europea dei
Diritti dell'Uomo (C.E.D.U., 26 giugno 2014, ric. nn. 65192/11 e 65941/11). Con
tali pronunce del 2011 la Corte di Strasburgo ha sancito la violazione da parte
della Francia del diritto, tutelato dall'art. 8 della C.E.D.U., alla vita
privata e familiare dei figli e la non adeguata considerazione del loro
superiore interesse per effetto del diniego di riconoscimento della filiazione
- legittimamente acquisita negli Stati Uniti in seguito a gestazione per altri
- nei confronti del padre intenzionale e biologico. La giurisdizione francese è
stata successivamente investita di una richiesta di riesame del giudicato per
ciò che concerne il permanente rifiuto di trascrivere nei registri dello stato
civile il riconoscimento della filiazione anche nei confronti della madre
intenzionale che non aveva contribuito al concepimento mediante donazione dei
propri gameti.
La Corte di Cassazione francese ha
formulato nei seguenti termini le questioni che ha inteso sottoporre alla Corte
di Strasburgo con la propria richiesta di parere consultivo: a) se uno Stato
parte della Convenzione, rifiutando di trascrivere nei registri dello stato
civile l'atto di nascita di un bambino nato all'estero mediante gestazione per
altri, nella parte in cui tale atto designa come madre legale la madre
intenzionale - mentre la trascrizione dell'atto di nascita è ammessa laddove
designa come padre legale il padre intenzionale in quanto padre biologico -
eccede il proprio margine di apprezzamento di cui dispone con riferimento
all'art. 8 della Convenzione E.D.U. e se deve distinguersi a seconda che il
bambino sia stato concepito o meno con i gameti della madre intenzionale; b)
nella ipotesi di una risposta positiva a uno dei precedenti quesiti se la
possibilità per la madre intenzionale di adottare il figlio del suo coniuge,
padre biologico, permette di rispettare le prescrizioni dell'art. 8 della
Convenzione costituendo un modo alternativo di instaurazione del rapporto di
filiazione nei suoi confronti.
Con il proprio parere consultivo la Corte Europea
dei Diritti dell'Uomo ha risposto positivamente al primo quesito (non ritenendo
attinente all'oggetto della procedura prevista dal protocollo n. 16 la
questione sulla rilevanza della donazione dei gameti da parte della madre
intenzionale) e, rispondendo al secondo quesito, ha affermato che l'adozione da
parte della madre intenzionale può ritenersi accettabile, come modello
alternativo di instaurazione del rapporto legale di filiazione, a condizione
che le modalità previste dal diritto interno per l'adozione garantiscano la
effettività e celerità del riconoscimento e che esso risulti conforme
all'interesse superiore del minore.
Nel ritenere che tale risposta della Corte
di Strasburgo si ponga in conflitto con il diritto vivente in Italia, così come
si è venuto a configurare all'esito della citata pronuncia delle Sezioni Unite,
il Collegio considera particolarmente significativi i seguenti passaggi della
motivazione del parere consultivo.
In primo luogo il richiamo alla
Convenzione di New York del 1989, ratificata in Italia con L. 27 maggio 1991, n. 176 e, in
particolare, ai suoi artt. 2, 3, 7, 8, 9 e 18, che disegnano lo statuto dei
diritti inviolabili dei minori. La Convenzione in particolare sancisce: a)
l'obbligo per gli Stati parti di rispettare e garantire i diritti enunciati
nella Convenzione a prescindere da ogni considerazione di razza, di colore, di
sesso, di lingua, di religione, di opinione, politica o altra, del fanciullo o
dei suoi genitori o rappresentanti legali, dalla loro origine nazionale, etnica
o sociale, dalla loro situazione finanziaria, dalla loro incapacità, dalla loro
nascita o da ogni altra circostanza; b) la tutela da ogni forma di discriminazione
o di sanzione, motivate dalla condizione sociale, dalle attività, opinioni
professate o convinzioni dei suoi genitori, dei suoi rappresentanti legali o
dei suoi familiari; c) la considerazione preminente dell'interesse superiore
del minore in tutte le decisioni delle pubbliche autorità che lo riguardano; d)
il diritto del minore alla registrazione immediata al momento della nascita e,
da allora, a un nome, ad acquisire una cittadinanza e nella misura del
possibile, a conoscere i suoi genitori e ad essere allevato da essi, a veder
preservata da ingerenze illegali la propria identità, ivi compresa la sua
nazionalità, il suo nome e le sue relazioni familiari, così come riconosciute
dalla legge; e) il diritto a non essere separato dai suoi genitori, se non
quando sia necessario nel suo preminente interesse, e di intrattenere rapporti
personali e contatti diretti regolari con entrambi i genitori anche se
risiedono in Stati diversi; f) il riconoscimento ad entrambi i genitori della
responsabilità comune nei confronti del figlio per ciò che concerne la sua
educazione e la cura del suo sviluppo.
In secondo luogo la Corte Europea ha
affrontato immediatamente la questione del rapporto fra l'interesse superiore
del minore - che, ha ribadito la Corte, deve sempre prevalere quando è in
discussione la sua situazione personale - e il margine di apprezzamento
attribuito agli Stati nel riconoscere il rapporto di filiazione nei confronti
del genitore intenzionale che non sia anche genitore biologico. A tal fine ha
richiamato quanto già affermato nelle sentenze del 2011 e cioè che sebbene sia
concepibile che la Francia possa desiderare di scoraggiare i propri cittadini
dal ricorrere, recandosi all'estero, a un metodo di procreazione che proibisce
nel proprio territorio, tuttavia gli effetti del mancato riconoscimento non
investono solo le persone che hanno operato la scelta di adottare le modalità
procreative non consentite dall'ordinamento francese. Invero, gli effetti del
divieto di riconoscimento si ripercuotono sui minori che vedono gravemente
inciso il diritto al rispetto della loro vita privata e familiare.
Il riferimento della Corte all'art. 8
della Convenzione Europea viene subito circostanziato come impossibilità di
conciliare l'interesse superiore del minore, che va valutato caso per caso, con
le conseguenze di un divieto generale e assoluto di riconoscimento del legame
di filiazione con il genitore intenzionale in quanto tali conseguenze sono
lesive della stessa identità del minore e del diritto alla continuità dello
status filiationis, compromettendo il radicamento del minore nel contesto
familiare in cui è nato; in sostanza sono lesive di tutti quei diritti che
costituiscono, alla luce della Convenzione di New York, il nucleo inviolabile
della sua protezione. Ciò a giudizio della Corte Europea restringe il margine
di apprezzamento degli Stati e impone al diritto interno di offrire la
possibilità del riconoscimento del legame di filiazione con il genitore
intenzionale.
Tale riconoscimento deve essere reso sempre
possibile e può essere negato solo se, in casi particolari, ciò corrisponda in
concreto all'interesse superiore del minore ma la Corte Europea ritiene che non
necessariamente il riconoscimento debba coincidere con la trascrizione nei
registri dello stato civile dell'atto di nascita legalmente formato all'estero.
Agli Stati parti della Convenzione, che attualmente adottano al riguardo
soluzioni diverse, va riservato un più ampio margine di apprezzamento sulla
possibilità di predisporre modalità alternative alla trascrizione dell'atto di
nascita e la adozione da parte del genitore d'intenzione ben può essere una
modalità alternativa al riconoscimento. Tuttavia la Corte fissa due condizioni
perchè l'adozione possa considerarsi un mezzo ugualmente rispettoso dell'art. 8
della Convenzione. Le condizioni previste per l'adozione devono essere idonee a
garantire l'effettività del riconoscimento del legame di filiazione e la
procedura deve essere rapida e non esporre il minore a una protratta situazione
di incertezza giuridica circa il riconoscimento del legame. Se la Convenzione
non impone agli Stati di riconoscere ab initio un legame di filiazione con il
genitore intenzionale ciò che richiede l'interesse superiore del minore - da
valutare in concreto, caso per caso - è che questo legame costituito legalmente
all'estero venga riconosciuto non oltre il momento della sua concretizzazione.
Accertamento quest'ultimo che non può che essere compiuto dalle Autorità
nazionali competenti le quali potranno valutare, tenendo conto delle
circostanze particolari del caso di specie, se e quando tale legame si sia
concretizzato.
Alla luce della motivazione del parere
consultivo della Corte di Strasburgo si intravedono chiaramente due profili di
conflitto non superabili con la attuale situazione del diritto vivente in
Italia come configurato dalla recente sentenza delle Sezioni Unite.
Il primo di tali profili è l'attribuzione
al divieto di maternità surrogata dello statuto di principio di ordine pubblico
internazionale prevalente a priori sull'interesse del minore per effetto di una
scelta compiuta dal legislatore italiano in via generale e astratta dalla
valutazione del singolo caso concreto.
Una tale configurazione, che si basa sulla
rilevanza del divieto di gestazione per altri, sancito penalmente dalla L. n. 40 del 2004, art. 12, si scontra, in primo luogo, con
la constatazione della Corte Europea per cui, se è legittimo che uno Stato
parte della Convenzione imponga misure dissuasive nei confronti dei propri
cittadini che intendano ricorrere all'estero a forme di procreazione vietate nel
proprio territorio, anche se tali misure incidano sulle situazioni soggettive
di coloro che mettano in pratica tale intendimento, tuttavia non è consentito
agli Stati di adottare misure che incidano negativamente sulla situazione
soggettiva di chi nasce da una gestazione per altri e abbiano l'effetto di
negare i diritti inviolabili connessi alla identità personale del minore e alla
sua appartenenza al nucleo familiare di origine. Diritti che risultano
definitivamente fissati dall'atto di nascita legalmente formato
nell'ordinamento del paese in cui il minore è nato.
In secondo luogo il principio della
preminenza dell'interesse del minore impedisce al legislatore di imporre una
sua compressione in via generale e astratta e di determinare conseguentemente
un affievolimento ex lege del diritto al riconoscimento dello status
filiationis legalmente acquisito all'estero. Un simile diniego non può che
essere il frutto di una valutazione in sede giurisdizionale e sulla base di una
considerazione rigorosa del caso concreto che conduca a ritenere, in via
eccezionale, corrispondente all'interesse specifico del minore il mancato
riconoscimento dello stato di filiazione.
In questa prospettiva anche la
predisposizione di mezzi alternativi alla trascrizione dell'atto di nascita
formato all'estero assume nella motivazione della Corte Europea la valenza di
una diversa ma equiparata forma di riconoscimento dello status filiationis e
non la predisposizione o la utilizzazione di uno strumento di minor tutela
confacente a una situazione di diritto affievolito.
Ciò evidenzia il secondo inconciliabile
profilo di conflitto con l'attuale configurazione del diritto vivente che, alla
stregua della pronuncia delle Sezioni Unite, ritiene adeguata alla tutela
dell'interesse del minore la presenza nel sistema normativo di una modalità
alternativa alla trascrizione dell'atto di nascita e cioè la possibilità per il
genitore di intenzione di richiedere l'adozione in casi particolari della L. n. 184 del 1983, ex art. 44,
lett. d). Un istituto che per le ragioni che si esporranno in prosieguo non
risulta affatto idoneo a garantire quella effettività e celerità di
attribuzione dello status filiationis ritenute dalla Corte di Strasburgo le
condizioni imprescindibili per qualificare la modalità alternativa alla
trascrizione rispettosa del diritto alla tutela della vita privata e familiare
del minore.
Rilevanza del parere consultivo e
impossibilità di una interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente
conforme.
Il Collegio ritiene che nella decisione
della causa non si possa prescindere dal predetto parere della Grande Camera
che, sebbene non direttamente vincolante, impone scelte ermeneutiche differenti
da quelle adottate dalle Sezioni Unite nella sentenza del 2019. Tuttavia la
impossibilità di una opzione interpretativa in contrasto con quello che allo
stato costituisce il diritto vivente, per come interpretato dalla più alta
istanza della giurisdizione di legittimità, direttamente chiamata a
pronunciarsi su una questione di massima importanza, e, per altro verso, la
impossibilità di confermare una linea interpretativa che, per quanto si è detto
sinora, si ritiene in contrasto con la posizione espressa dalla Corte Europea
sullo stesso tema, induce a sollevare la questione di costituzionalità
della L. n. 40 del 2004, art. 12, comma 6, L. n. 218 del 1995, art. 64, comma 1, nonchè del D.P.R. n. 396 del 2000, art. 18, se interpretati, come attualmente
nel diritto vivente, come impeditivi, in via generale e senza valutazione
concreta dell'interesse superiore del minore, della trascrizione dell'atto di
nascita legalmente costituito all'estero di un bambino nato mediante gestazione
per altri nella parte in cui esso attesta la filiazione dal genitore
intenzionale non biologico, specie se coniugato con il genitore intenzionale
biologico. Si ravvisa infatti il contrasto di tale interpretazione con l'art. 117 Cost., comma 1, in
relazione all'art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo e agli
artt. 2, 3, 7, 8, 9, 10 e 18 della Convenzione di New York del 20 novembre 1989
delle Nazioni Unite nonchè all'art. 24 della Carta dei diritti fondamentali
dell'Unione Europea.
Al riguardo, a parere del giudice
rimettente, non è possibile una interpretazione costituzionalmente e
convenzionalmente conforme delle norme in questione attraverso un'esegesi
adeguatrice. Se è vero che una tale verifica è un obbligo del giudice a quo
perchè la prospettazione d'incostituzionalità delle norme costituisce sempre
una extrema ratio tuttavia, nella fattispecie in esame, utilizzando gli
ordinari poteri ermeneutici, la soluzione conforme a Costituzione e alla
C.E.D.U. non è praticabile, se non contraddicendo la recente statuizione delle
Sezioni Unite. Parallelamente la verifica della rispondenza del diritto vivente
ai principii costituzionali in relazione a quelli convenzionali non potrebbe
che avvenire mediante la richiesta, che anche le Sezioni Unite sarebbero tenute
a prospettare, di un intervento interpretativo del Giudice delle leggi, o che,
eventualmente, si estrinsechi in una pronuncia additiva o manipolativa delle
norme che s'intendono sottoporre al vaglio di costituzionalità.
In particolare, va osservato che la
sentenza delle Sezioni Unite, per l'autorevolezza dell'organo giudiziario da
cui promana - la cui funzione è appunto quella di assicurare con le sue
decisioni nel territorio nazionale l'esatta osservanza e l'uniforme
interpretazione delle norme di diritto, vale a dire la cosiddetta funzione
nomofilattica della Suprema Corte - ha certamente formato un diritto vivente
sull'interpretazione delle norme applicate nella fattispecie concreta da cui il
giudice a quo non può prescindere nella sua opera diretta a rinvenire
nell'ordinamento giuridico un'interpretazione costituzionalmente conforme delle
medesime norme.
E' noto che nella giurisprudenza della
stessa Corte Costituzionale, in conformità di autorevole insegnamento
dottrinale, il tenore letterale della norma o il diritto vivente sono, in
astratto, riguardati come principali ostacoli alla ricerca di una soluzione
conforme a Costituzione. Ma al riguardo, il collegio rimettente non ignora
anche che, in particolare, l'eventuale resistenza opposta dalla prevalente
interpretazione giurisprudenziale della disposizione normativa è ritenuta in
molte occasioni superabile, in quanto uniformarsi al diritto vivente è
considerata "facoltà" e non "obbligo" per il giudice a quo
(v. Corte Cost., sent. n. 350 del 1997).
Nel caso concreto, però, non appare
possibile che il Collegio decida la causa fornendo un'interpretazione della
fattispecie astratta che si contrapponga e superi quella adottata dalle Sezioni
Unite, essendo ciò precluso, per quanto esposto, dalla natura della pronuncia
che è ontologicamente orientata a radicare il diritto vivente al fine di
garantire la certezza e l'uniformità dell'applicazione del diritto, quale bene
fondamentale dell'ordinamento giuridico. Ciò appare viepiù evidente se si
considera che le Sezioni Unite, nel pronunciare la sentenza predetta, sono
state espressamente investite da una sezione semplice della Suprema Corte al
fine di affermare il principio di diritto nella complessa materia in esame.
Ora, tenuto anche conto del sopravvenuto
parere espresso dalla Grande Camera della CEDU - come sopra illustrato - il
Collegio ritiene che la formulazione delle disposizioni normative applicate
nella fattispecie offra una resistenza insuperabile ad essere interpretata in
modo conforme alla Convenzione e alla Costituzione, se interpretate secondo la
citata sentenza delle Sezioni Unite e del diritto vivente così formatosi.
Al riguardo, in conformità di quanto
ritiene la dottrina, a norma dell'art. 374 c.p.c., comma 3, va
osservato che il Collegio della sezione semplice della Suprema Corte non è
posto di fronte alla secca alternativa tra l'uniformare la propria decisione al
principio di diritto enunciato dalle sezioni unite - per dirimere un contrasto
o una questione di massima di particolare importanza - e la rimessione con
ordinanza interlocutoria del ricorso alle Sezioni Unite, esponendo le ragioni
del dissenso. Il Collegio della sezione semplice può sottrarsi a questa
alternativa attivando l'incidente suscettibile di condurre a una declaratoria
di incostituzionalità, e quindi alla rimozione, della disposizione sottostante
al principio enunciato dalle Sezioni Unite.
La stessa Corte costituzionale ha
convalidato questo percorso interpretativo con la sentenza n. 3 del 2015,
esaminando la questione sollevata dal giudice a quo il quale aveva prospettato
l'impossibilità di un'interpretazione costituzionalmente conforme delle norme
impugnate attesa la sussistenza del diritto vivente formatosi a seguito di una
sentenza delle Sezioni Unite.
Conflitto con i principi d'inviolabilità
dei diritti fondamentali del minore, d'uguaglianza, non discriminazione,
ragionevolezza e proporzionalità.
Il contrasto del diritto vivente appare
peraltro a questo Collegio sussistere anche in relazione ai principi fondamentali
affermati dalla Carta e dalla giurisprudenza costituzionale italiana in materia
di diritti inviolabili del minore e diritto d'eguaglianza correlato ai rapporti
di filiazione e pertanto il Collegio intende altresì prospettare questione di
legittimità costituzionale delle stesse disposizioni citate in precedenza per
contrasto con gli artt. 2, 3, 30 e 31 Cost., se interpretate
secondo la sentenza n. 12193/19 delle Sezioni Unite.
I principi di uguaglianza e di non
discriminazione, specificamente in relazione alla nascita, sono consacrati
nella Costituzione negli artt. 2, 3, 30 e 31. Al riguardo, va osservato che
l'interpretazione - fatta propria dalle Sezioni Unite - secondo cui il
riconoscimento del provvedimento straniero di inserimento del padre
d'intenzione nello stato di nascita del minore è precluso dal limite
dell'ordine pubblico, sulla base del disvalore espresso dalla sanzione penale
comminata per la fattispecie della gestazione per altri (cd. maternità
"surrogata"), si pone in contrasto con gli artt. 2, 30 e 31 Cost.. Invero,
l'interpretazione delle Sezioni Unite è d'ostacolo all'inalienabile diritto del
minore all'inserimento e alla stabile permanenza nel nucleo familiare, inteso
come formazione sociale tutelata dalla Carta Costituzionale, attesa l'impossibilità
di sancire la paternità legale del genitore d'intenzione. E' evidente che la
tutela del diritto del minore alla propria identità e alla formazione e al
consolidamento del rapporto di filiazione all'interno della propria famiglia,
legittimamente costituitasi in conformità della legge canadese, sia infirmata
da un riconoscimento parziale dell'atto di stato civile che escluda il padre
d'intenzione sulla base di considerazioni estranee alla tutela del minore.
Al riguardo, il Collegio intende
sottoporre al Giudice delle leggi la questione di costituzionalità anche sotto
il profilo del bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti, che,
a giudizio del Collegio, è stato realizzato con modalità tali da determinare il
sacrificio e la compressione dell'interesse superiore del minore in una ottica
incompatibile con il dettato costituzionale (cfr., da ultimo, Corte Cost.,
sent. n. 236 del 2018) e comunque con modalità e in una misura irrazionale
sproporzionata ed eccessiva con l'effetto di ribaltare la gerarchia di valori
sottesa alla Carta costituzionale, incentrata sul principio personalistico di
tutela dei diritti fondamentali della persona. Occorre, in proposito, muovere
dal rilievo che l'ordine pubblico internazionale costituisce, anche secondo
l'orientamento di una autorevole dottrina, il criterio di ragionevolezza sulla
base del quale s'istituisce la gerarchia assiologica tra norme, postulando che
l'applicazione di una legge straniera o il riconoscimento di efficacia di un
atto straniero può spingersi sino al punto di creare, nel caso concreto, una
frattura, rispetto all'ordinamento interno, derivante dall'applicazione della
legge straniera o dal riconoscimento dell'atto straniero, ma non oltre il punto
in cui il contrasto concerna i principi fondamentali e irrinunziabili del
nostro sistema ordinamentale, ossia, in particolare, i principi ispirati alla
tutela dei diritti fondamentali della persona umana e della sua dignità.
Invero, la stessa nozione di ordine
pubblico recepita dalle Sezioni Unite, attraverso il riferimento primario ai
principi costituzionali, implica che, dinanzi a valori fondamentali
dell'individuo, l'interesse pubblico (anche se assistito da una sanzione
penale) passi necessariamente in secondo piano, secondo il principio
ermeneutico di bilanciamento tra principi di ordine pubblico di rango
costituzionale e principi di ordine pubblico derivanti da discrezionalità
legislativa, con la conseguenza che, in questo caso, la nozione di ordine pubblico
va circoscritta ai soli valori supremi e vincolanti contenuti nella
Costituzione e nelle Carte dei diritti fondamentali sovranazionali.
E' quindi possibile affermare che la
nozione di ordine pubblico internazionale, anche se intesa come comprensiva
della rilevanza di norme interne inderogabili, e di rilevanza penale, nella
tradizione giuridica domestica (cd. ordine pubblico discrezionale) non possa
mai comportare la lesione di diritti fondamentali dell'individuo,
manifestazione di valori supremi e vincolanti della cultura giuridica che ci
appartiene, trasfusi nella Costituzione, nella Convenzione Europea del 1950 e
nella Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea, che rappresentano un
ordine pubblico gerarchicamente superiore (cd. ordine pubblico costituzionale).
Invero, come è stato rilevato da
autorevole dottrina, la tutela dell'interesse superiore del minore - anche
sotto il profilo della sua identità personale, familiare e sociale - e il
principio di ordine pubblico solo apparentemente possono apparire due entità
contrapposte perchè, invece, è proprio il preminente interesse del minore, in
quanto espressione della inviolabilità dei diritti della persona umana, a
concorrere alla formazione del principio di ordine pubblico, ed a costituire un
valore che è parte integrante e costitutiva dell'ordine giuridico italiano.
In questo contesto di principi fondanti
dell'ordinamento costituzionale italiano la legislazione e la giurisprudenza
costituzionale e ordinaria hanno delineato progressivamente la unificazione e
l'unicità dello stato di figlio a prescindere dalle condizioni di nascita e
dalle modalità con le quali viene a istituirsi il rapporto di filiazione. Nè
può affermarsi che sia principio generale del nostro ordinamento giuridico che
lo stato di filiazione sia esclusivamente legato al contributo biologico del
genitore al concepimento e alla nascita del figlio; invero, l'adozione e la
legittimità dell'accesso alle tecniche di procreazione eterologa smentiscono
tale assunto.
Per altro verso la possibilità per la
donna di partorire anonimamente e di non costituire il legame di filiazione
smentisce un nesso indissolubile fra genitorialità biologica e giuridica.
Nè tale compressione del diritto del
minore alla sua identità personale e sociale può trovare la sua legittimazione
in quanto espressiva della rilevanza del principio di dignità della donna come
elemento anche esso costitutivo e indefettibile dell'ordine pubblico. Il
riconoscimento della decisione straniera non comporta alcun riconoscimento del
contratto di "maternità surrogata" - la cui illiceità
nell'ordinamento italiano non viene in discussione nel caso in esame - ma ha
come effetto il riconoscimento dello status e dell'identità del figlio,
acquisite insieme alla cittadinanza canadese, e al diritto fondamentale a
instaurare un rapporto familiare con coloro che si sono liberamente impegnati
ad accoglierlo assumendone le relative responsabilità e formando una famiglia
che ha pieno riconoscimento sia nell'ordinamento canadese, in cui si consente
il matrimonio fra persone dello stesso sesso e la gestazione per altri, sia
nell'ordinamento italiano in cui tale riconoscimento è già concretamente in
atto come unione civile. Un bilanciamento fra i diritti inviolabili del minore
e l'interesse dello Stato a impedire una forma di procreazione che ritiene
lesiva della dignità della donna appare pertanto del tutto improprio. Nessuna
tutela deriva alla donna dal mancato riconoscimento del rapporto di filiazione
con il genitore intenzionale. Mancato riconoscimento che, come si è detto, lede
invece gravemente il figlio. Lo Stato tutela la dignità della donna vietando la
gestazione per altri nel suo ordinamento ma non può affievolire i diritti
inviolabili di un minore, che è nato all'estero e vi ha acquisito legalmente il
proprio status e la propria identità personale, come conseguenza di un
improprio bilanciamento dei diritti inviolabili del minore con la propria
legittima volontà di scoraggiare i propri cittadini a recarsi all'estero per
eludere il divieto della gestazione per altri. Come ha affermato chiaramente
nel suo parere consultivo la Corte di Strasburgo, seguendo una linea
interpretativa pienamente aderente ai nostri valori costituzionali, la
compressione del diritto del minore alla sua identità personale, familiare e
sociale non può verificarsi per effetto di una condotta altrui, anche se
penalmente illecita nel nostro ordinamento.
L'interpretazione ostativa al
riconoscimento appare dunque in contrasto con gli artt. 2 e 3 Cost., in quanto il
diniego di trascrizione dell'atto di stato civile, nella parte afferente
all'inserimento del padre d'intenzione, sovrapponendo il divieto penalistico
inerente alla cd. "maternità surrogata" alla tutela del diritto del
minore alla pienezza del suo status, comporta la conseguenza di discriminare i
nati nell'attribuzione dello stato di figlio a seconda delle circostanze della
nascita e della modalità di gestazione. Oltre a questa lesione del principio di
non discriminazione che ha una chiara codificazione nella Costituzione
italiana, nella C.E.D.U., nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione
Europea e, come si è detto, nella Convenzione di New York del 1989 sui diritti
dei minori, l'interpretazione appare irragionevole perchè distingue i genitori
riconosciuti come tali dall'ordinamento straniero sulla base del loro apporto
biologico alla procreazione. Infatti, se alla base della interpretazione
seguita dalle Sezioni Unite vi è la ricognizione del disvalore della maternità
surrogata e della rilevanza della sanzione penale comminata dalla L. n. 40 del 2004, art. 12, comma 6, appare del tutto
irragionevole e contraddittorio consentire la trascrizione dell'atto di stato
civile in cui è inserito il solo padre biologico, autore della condotta
procreativa realizzata in pieno contrasto con la norma penale, e precludere
invece il riconoscimento del provvedimento giudiziario straniero che ha
legittimato l'inserimento nello stato civile della famiglia anche del padre
d'intenzione il quale è rimasto estraneo a tale condotta.
L'affermazione della esclusione in via
generale e aprioristica del riconoscimento, attribuita, da parte delle Sezioni
Unite, alla scelta sanzionatoria del legislatore non tiene inoltre in alcun
conto la legislazione del paese in cui è avvenuta la nascita e il
riconoscimento. Invero, non può apparire irrilevante che la gestazione in
questione sia avvenuta nel pieno rispetto delle leggi di un Paese, quale il
Canada, che condivide i fondamentali valori della nostra Costituzione e
legittima solo la "maternità surrogata" altruistica, cioè senza
corrispettivo e diretta a fornire sostegno a favore di una nascita, che
altrimenti non potrebbe avvenire, con il consenso, accertato dalle autorità
giurisdizionali, della madre gestazionale e/o genetica a non assumere lo status
di genitore per favorire l'avvento di una nuova vita. Tale fattispecie ispirata
da intenti solidaristici va distinta da quelle ipotesi in cui, invece, questa
stessa pratica è realizzata con finalità di tipo commerciale. Situazioni,
queste ultime, che all'evidenza meriterebbero una differente valutazione in
termini assiologici e normativi, alle quali invece - seguendo la linea
interpretativa che ricostruisce in termini assoluti il limite dell'ordine
pubblico - si è costretti ad accordare il medesimo trattamento.
Seguendo l'interpretazione sin qui
contestata il risultato ottenuto dall'opposizione del limite dell'ordine
pubblico alla trascrizione è in definitiva quello di far ricadere gli effetti
negativi sul soggetto che non ha alcuna responsabilità per le modalità in cui è
stato concepito ed è nato e sul soggetto che non ha contribuito alla
procreazione mentre alcuna tutela viene ad essere attribuita alla donna che ha
portato a termine la gestazione nell'esercizio di un potere di
autodeterminazione che le è riconosciuto dal proprio ordinamento. Si tratta in
sostanza di un bilanciamento fra diritti e interessi che non hanno alcuna
attinenza con i soggetti che ne sono titolari e con le loro condotte.
Secondo le Sezioni Unite il riconoscimento
dell'efficacia di un provvedimento giurisdizionale straniero, con il quale sia
stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore, nato all'estero
mediante il ricorso alla maternità surrogata, e il genitore d'intenzione, munito
della cittadinanza italiana, trova ostacolo nel divieto di surrogazione di
maternità che è qualificabile come principio di ordine pubblico, anche in
quanto posto a tutela del valore fondamentale rappresentato dall'istituto
dell'adozione. Ma anche questa ragione di bilanciamento che determina
l'affievolimento dell'interesse del minore non si sottrae a una critica sotto i
profili ampiamente esaminati in precedenza della astrattezza del giudizio di
prevalenza attribuito al legislatore e della compressione dei diritti
inviolabili del minore. Nè appare rispondere a un criterio di ragionevolezza e
proporzionalità attribuire al ricorso alla maternità surrogata un attentato
all'istituto dell'adozione. L'attribuzione dello status filiationis nei
confronti del genitore intenzionale non biologico dipende, allo stesso modo di
quanto avviene per la fecondazione eterologa, dalla attuazione di un progetto
genitoriale che appartiene alla coppia legata da vincolo matrimoniale. Nè può
affermarsi che nell'ordinamento italiano sia presente un principio assoluto di
favor adoptionis e anzi questo è da escludere per le coppie dello stesso sesso
cui è preclusa l'adozione. Per quanto riguarda poi la sottrazione a un giudizio
preventivo sull'idoneità genitoriale il raffronto dell'accesso a una forma di
procreazione medicalmente assistita con l'adozione appare improprio perchè
l'idoneità genitoriale è attribuita per principio, e salva una verifica
giudiziale conseguente a comportamenti pregiudizievoli per il minore nel corso
della relazione familiare, a qualsiasi persona e si estende necessariamente al
coniuge per garantire il pieno inserimento del futuro nato nella discendenza e
nella vita familiare. Un tale giudizio preventivo sull'interesse del minore a
veder riconosciuto lo status filiationis nel nostro ordinamento non è comunque
estraneo al procedimento di delibazione secondo l'indicazione della Corte
Europea dei Diritti dell'Uomo che ritiene ineliminabile una valutazione caso
per caso intesa a verificare la realizzazione in concreto dell'interesse del
minore alla trascrizione.
Infine, di non minore rilevanza appare la
lesione delle norme costituzionali che tutelano la vita familiare e
l'esplicazione della personalità nelle formazioni sociali. Disposizioni che,
per i profili che qui interessano, vengono sempre più strettamente ricollegate
dalla Corte Costituzionale all'art. 8 della Convenzione E.D.U. e alla
giurisprudenza della Corte Europea. L'accezione dell'endiadi "vita privata
e familiare" va intesa in senso ampio, comprensiva di ogni espressione
della personalità e dignità della persona ed anche del diritto all'identità
dell'individuo. In questa prospettiva si è sempre più chiaramente affermata una
valorizzazione dei legami familiari secondo i principi di uguaglianza e di
bigenitorialità affinchè i minori possano fruire pienamente della relazione
genitoriale e i genitori possano entrambi partecipare a pieno titolo alla cura
e alla educazione dei figli e ad adottare congiuntamente le decisioni più
importanti che li riguardano.
Ora, richiamando quanto sopra esposto
circa il parere espresso dalla Grande Camera il 10.4.19, occorre evidenziare
che esso ha valorizzato tali parametri, che ha ritenuto decisivi, evocando
specificamente il migliore interesse del minore ed il ridotto margine di
apprezzamento riservato ai Paesi contraenti in materia, ribadendo il carattere
sopraordinato del primo e le ragioni delle restrizioni del secondo. A parere
del Collegio, tale ultimo rilievo appare rivestire un'inequivoca decisività
nell'orientare ogni interpretazione del giudice nazionale nel senso di
considerare la discrezionalità del singolo Paese come recessiva laddove essa si
esprima attraverso norme che non garantiscano, come si è detto, la tutela piena
dei diritti del minore alla propria identità ma anche alla piena fruizione ed
espressione della propria vita familiare. L'applicazione della sanzione penale
- che la giurisprudenza ha comunque escluso per la coppia che vi ricorre, se
praticata all'estero, anche in ordine al reato di alterazione di stato,
previsto dall'art. 567 c.p., comma 2 (Cass.
penale, sezione V n. 13525 del 10.3.2016 e Cass. penale, sezione VI n. 48696
del 10.3.2016) - e la predisposizione di misure dissuasive per la sua elusione
non può legittimare altresì la incisione dei rapporti familiari successivi alla
condotta sanzionata. Un limite questo che costituisce un principio generale e
fondamentale dell'ordinamento italiano per come si è configurato attraverso le
più importanti riforme in materia familiare che hanno inteso eliminare
qualsiasi discriminazione dei figli in relazione alla loro nascita e realizzare
una condizione di pari dignità dei genitori nel loro rapporto con i figli,
finalità che sono una chiara espressione dei valori riconosciuti dalla
Costituzione italiana (artt. 30 e 31) e dalla Unione Europea oltre che dalle
Convenzioni internazionali cui l'Italia ha aderito sin dall'immediato
dopoguerra, nello spirito che attraversa tutta la Costituzione, di piena
adesione alla nuova rilevanza dei diritti umani anche nella sfera dei rapporti
internazionali.
Il disconoscimento del rapporto di
filiazione nei confronti di uno dei genitori legalmente riconosciuti
dall'ordinamento del paese di nascita e di cittadinanza comporta la alterazione
dei rapporti familiari con ripercussioni gravemente nocive nei confronti del
minore che vede messa in discussione e negata la unicità e inscindibilità della
sua relazione genitoriale nello spazio e subisce una grave menomazione ex post
della relazione con il genitore intenzionale e gli effetti negativi di una
artificiale situazione di disparità e di potenziale conflittualità fra coloro
che ha percepito come entrambi suoi genitori. In questa prospettiva appare
quanto mai pertinente l'utilizzazione nel suddetto parere consultivo della CEDU
dell'espressione "concretizzazione" del legame come momento in cui
viene in essere la irreversibilità del diritto del minore al pieno
riconoscimento del suo status filiationis. In altri termini l'appartenenza a
una comunità familiare non tollera geometrie variabili in funzioni del luogo in
cui si trova o andrà a vivere il minore. Ciò che si è concretizzato deve essere
riconosciuto pienamente alla stregua di quello che si realizza con la
trascrizione dell'atto di nascita. Il margine di discrezionalità per gli Stati
è ampio per ciò che concerne la scelta delle modalità del riconoscimento, ma
estremamente limitato per ciò che concerne il contenuto del riconoscimento che
deve essere effettivo e tempestivo per non protrarre la situazione di
vulnerabilità del minore come conseguenza del mancato riconoscimento immediato.
Al riguardo, giova evidenziare che l'opzione ermeneutica formulata dalle
Sezioni Unite, secondo la quale la pretesa sanzionatoria dello Stato deve
prevalere sui diritti e sull'interesse del bambino, attraverso il filtro
dell'ordine pubblico, non trova conferma nella giurisprudenza della Corte
Costituzionale che in varie pronunce ha affermato con chiarezza che il disvalore
che la legge attribuisce alla condotta dei genitori, al punto anche di
sanzionarla penalmente, non può riverberarsi sulla condizione giuridica del
figlio, nè per quanto riguarda l'accertamento di status, nè per quanto riguarda
le relazioni personali. Al riguardo, va richiamato qui quell'importante filone
giurisprudenziale della Corte costituzionale formatosi in riferimento agli
automatismi legislativi (cfr., ex multis, Corte Cost., sent. n. 31 del 2012, e
n. 7 del 2013): esso, pur riguardando ipotesi differenti da quella qui in
discussione, viene comunque in rilievo perchè il Giudice delle leggi ha
censurato proprio sotto il profilo della ragionevolezza, ai sensi dell'art. 3 Cost., congegni
normativi che, al pari di quello al centro dell'odierna questione, precludono
al giudice "ogni possibilità di valutazione e di bilanciamento, nel caso
concreto".
Infatti, con tali pronunce la Corte
Costituzionale ha, rispettivamente, escluso che la condanna per il reato di
alterazione di stato o di soppressione di stato giustifichi, come sanzione
accessoria, l'automatica decadenza dalla potestà/responsabilità dei genitori,
dovendo anche in tal caso il giudice valutare, nell'esclusivo interesse del
bambino, l'effettiva qualità della relazione e l'opportunità di salvaguardarla.
Si pensi, inoltre, nell'ambito del
medesimo orientamento, alla sentenza n. 494 del 28.11.2002, che dichiarò
costituzionalmente illegittimo l'art. 278 c.c. abr. che, in
ordine all'incesto, impediva le indagini sulla paternità e la maternità.
Può dunque dirsi che, in materia di status
il legislatore e la giurisprudenza hanno definitivamente abbandonato ogni
logica sanzionatoria; invero, se la tutela dei diritti del bambino costituisce
fine primario dell'ordinamento, allora essa non può essere sacrificata per
condannare il comportamento dei genitori. Il fatto che la nascita sia dovuta ad
una condotta degli adulti riprovata dall'ordinamento anche con il ricorso a
sanzioni penali (l'adulterio, lo stupro, l'incesto, negli esempi sopra
riportati), non impedisce più di costituire legalmente lo stato di figlio.
Incostituzionalità del divieto di
trascrizione dell'atto di nascita in mancanza di un modo alternativo e conforme
alle prescrizioni dell'art. 8 C.E.D.U. di riconoscimento dello status
filiationis.
Alla luce di queste considerazioni non può
ritenersi adeguato alle prescrizioni del parere consultivo del 9 aprile 2019 il
modo alternativo di riconoscimento cui fa riferimento la decisione delle
Sezioni Unite e cioè l'adozione della L. n. 184 del 1983, ex art. 44,
lett. d).
In primo luogo, va osservato che tale -
forma di adozione non crea un vero rapporto di filiazione ma il riconoscimento
di una situazione affettiva cui attribuisce sì diritti e doveri ma che nega
comunque al figlio e all'adottante il diritto a una relazione pienamente
equiparata alla filiazione e pone il genitore non biologico in una situazione
di inferiorità rispetto al genitore biologico.
L'adozione in casi particolari di cui
all'art. 44, lett. d), non crea legami parentali con i congiunti dell'adottante
ed esclude il diritto a succedere nei loro confronti.
In sostanza vi è - sempre che il
procedimento di adozione in casi particolari si concluda positivamente - una
sorta di declassamento (downgrade) della relazione genitoriale e dello status
filiationis che non può legittimarsi in alcun modo paragonandolo a quello del
matrimonio fra persone dello stesso sesso in unione civile previsto dal
legislatore del 2016. In quest'ultimo caso la riqualificazione del rapporto non
crea alcuna arbitraria discriminazione all'interno del nucleo familiare e
preserva comunque i diritti e doveri derivanti per il diritto civile italiano
dal matrimonio. Nè una legittimazione può essere ricercata dall'essere il
vincolo matrimoniale instaurato fra persone dello stesso sesso, che nel nostro
ordinamento non possono accedere alle tecniche di procreazione assistita. La
stessa condizione di non riconoscibilità da parte del genitore intenzionale non
biologico riguarda anche le coppie eterosessuali e una ipotetica
differenziazione del regime di trascrizione degli atti di nascita sulla base
della eterosessualità dei coniugi o della loro omosessualità incontrerebbe
comunque la preclusione nei principi, a cui si è fatto riferimento in
precedenza, di non discriminazione nei confronti del minore e dei suoi genitori
e nel carattere inviolabile dei diritti fondamentali del minore alla identità e
alla vita familiare. Ne consegue, allora, che l'unica giustificazione
rinvenibile del diniego di riconoscimento del provvedimento dello Stato
canadese legittimante l'inserimento del padre d'intenzione nell'atto di nascita
del minore è appunto quella di un effetto espansivo della sanzione penale nei
confronti del minore e del genitore intenzionale non biologico, ma si tratta di
una giustificazione della quale ci si è ampiamente occupati sinora evidenziando
il suo conflitto con le norme costituzionali, convenzionali e internazionali.
Per altro verso, l'istituto non
corrisponde al requisito della tempestività trattandosi di un procedimento
finalizzato ad un provvedimento che richiede un lungo e complesso iter
processuale e decisionale perchè non consiste in una delibazione di una
pronuncia giurisdizionale straniera che, se pure effettuata con riferimento
all'interesse superiore del minore e quindi con una attenzione specifica al
caso concreto, comporta come esito finale il recepimento di uno status già
codificato in una statuizione giurisdizionale da dichiarare efficace nel nostro
ordinamento. Il procedimento di adozione è invece finalizzato a una creazione
di una situazione soggettiva ad hoc e specificamente propria del nostro
ordinamento. Pertanto, tale procedimento comporta una articolazione e
complessità decisamente superiore rispetto al procedimento di delibazione di
una sentenza straniera, esponendo pertanto il minore a un lungo periodo di
incertezza giuridica sulla propria condizione personale e determinando una
preclusione o, comunque, una serie di ostacoli gravi all'esercizio della
responsabilità genitoriale da parte del genitore intenzionale che la richiede.
Inoltre, l'adozione in casi particolari ex
art. 44, lett. d), è soggetta alla volontà del genitore intenzionale di adire
l'autorità giudiziaria italiana per richiederla e quindi lascia aperta la sua
possibilità di sottrarsi all'assunzione di responsabilità già manifestata e
legittimata nel paese in cui il minore è nato; ipotesi questa che potrà
verificarsi specificamente nel caso di crisi della coppia genitoriale. Più
grave è, per altro verso, la condizione inversa e cioè la soggezione
dell'adozione ex art. 44, lett. d), all'assenso all'adozione da parte del
genitore biologico che potrebbe venir meno in caso di separazione o divorzio,
ma anche di sopravvenuto decesso.
In definitiva, il Collegio non ritiene
esistenti nel sistema normativo italiano attuale istituti che consentano una
forma di riconoscimento del legame di filiazione alternativa alla trascrizione
dell'atto di nascita o al riconoscimento del provvedimento giurisdizionale
straniero che instauri il legame di filiazione anche con il genitore
intenzionale non biologico nei confronti del minore nato mediante ricorso
all'estero alla pratica della gestazione per altri. Conformemente alla ratio
sottesa al parere consultivo della Corte di Strasburgo sembra potersi affermare
che l'istituto dell'adozione in casi particolari potrebbe semmai costituire una
forma di tutela del rapporto affettivo insorto con il genitore intenzionale nei
casi particolari in cui il pieno riconoscimento dello status filiationis non si
dimostri concretamente rispondente all'interesse del minore.
Anche sotto questo profilo relativo al
deficit di istituti alternativi vanno pertanto sollevate le precedenti
questioni di legittimità costituzionale.
In definitiva, le valutazioni che
precedono inducono a prospettare al giudice delle leggi la questione di
legittimità costituzionale della L. n. 40 del 2004, art. 12, comma 6, L. n. 218 del 1995, art. 64, comma 1, lett. g) e D.P.R. n. 396 del 2000, art. 18 (che vieta la trascrizione
negli atti dello stato civile degli atti formati all'estero se contrari
all'ordine pubblico), perchè in contrasto con gli artt. 2, 3, 30, 31 Cost. e art. 117 Cost., comma 1 - in
relazione all'art. 8 CEDU - se interpretati, secondo l'attuale conformazione
del diritto vivente, come impeditivi, in via generale e senza valutazione
concreta dell'interesse superiore del minore, della trascrizione dell'atto di
nascita legalmente costituito all'estero di un bambino nato mediante gestazione
per altri nella parte in cui esso attesta la filiazione dal genitore
intenzionale non biologico, specie se coniugato con il genitore intenzionale
biologico.
Letti gli artt. 134 e 137 Cost., L. Cost. 9 febbraio 1948, n. 1, art. 1 e L. Cost. 11 marzo 1953, n.
87, art. 23.
DICHIARA rilevante e non manifestamente
infondata la questione di legittimità costituzionale della L. n. 40 del 2004, art. 12, comma 6, D.P.R. n. 396 del 2000, art. 18 e L. n. 218 del 1995, art. 64, comma 1, lett. g), nella parte in
cui non consentono, secondo l'interpretazione attuale del diritto vivente, che
possa essere riconosciuto e dichiarato esecutivo, per contrasto con l'ordine
pubblico, il provvedimento giudiziario straniero relativo all'inserimento
nell'atto di stato civile di un minore procreato con le modalità della gestazione
per altri (altrimenti detta "maternità surrogata") del cd. genitore
d'intenzione non biologico, per contrasto con gli artt. 2, 3, 30, 31 Cost., art. 117 Cost., comma 1,
quest'ultimo in relazione all'art. 8 della Convenzione Europea per la
Protezione dei Diritti Umani e delle Libertà Fondamentali, artt. 2, 3, 7, 8, 9
e 18 della Convenzione 20 novembre 1989 delle Nazioni Unite sui diritti dei
minori, ratificata in Italia con L. 27 maggio 1991, n. 176 e dell'art.
24 della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea. Dispone che la
presente ordinanza sia notificata alle parti, al Presidente del Consiglio dei
Ministri e comunicata al Presidente del Senato e al Presidente della Camera dei
Deputati.
Dispone che, all'esito, il fascicolo sia
trasmesso, unitamente alla prova delle eseguite notificazioni e comunicazioni,
alla Corte Costituzionale. Dispone che sia omessa l'indicazione dei nominativi
e dei dati identificativi delle parti.
Sospende il giudizio.
Dispone che sia omessa l'indicazione dei
nominativi e dei dati identificativi delle parti.
Sospende il giudizio.
Così deciso in Roma, nella Camera di
consiglio, il 5 dicembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 29 aprile
2020
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Rapporto tra la qualità di erede del coniuge superstite e il diritto di abitazione.
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Termine a quo della prescrizione decennale per il rimborso del mantenimento del figlio naturale.
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Delitto di percosse anche se sul corpo della vittima non permangono segni lesivi.
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Il diritto degli ascendenti di frequentare i nipoti minorenni è recessivo rispetto al diritto di questi ultimi di crescere in maniera serena ed equilibrata.
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Il mutamento del cognome del minore, per l'aggiunta di quello della madre, necessita l'accordo dei genitori.
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Danno endofamiliare: risarcibile solo in caso di violazione di un diritto fondamentale di natura costituzionale.
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Non delibabile la sentenza straniera di divorzio che maschera un ripudio.
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Accordo integrativo a latere del contratto di locazione: nullo per contrarietà a norme imperative.
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L'accertamento della maternità ex art. 269 c.p.c., in caso di parto anonimo è sottoposta alla revoca della rinuncia alla genitorialità giuridica da parte della madre.
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Cessione in godimento del lastrico solare per ripetitore.
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Relativamente al progetto educativo dei figli, ciascun genitore deve rispettare il credo dell'altro genitore.
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Il potere di pattuire con i condomini morosi dilazioni di pagamento o di concludere accordi transattivi non spetta all'amministratore ma all'assemblea.
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Vessatoria la clausola che attribuisce al mediatore il diritto alla provvigione anche in caso di recesso del venditore.
Fatto
1. Con decreto n. 11779 del 09/13.06.2011, il Giudice di Pace di Roma ingiungeva a A.B. ed a C.D. il pagamento in favore della D. Immobiliare S.r.l. dell'importo pari ad Euro 4.100,00, oltre interessi e spese, a titolo di penale per l'anticipato recesso dal contratto di mediazione stipulato in data 07.02.2011.
1.1. Con il citato contratto, A.B. e C.D. affidavano alla D. Immobiliare s.r.l. l'incarico di alienare un immobile di loro proprietà in Roma, prevedendo all'art. 4, comma 3, il diritto di ciascuna parte di recedere anticipatamente dall'accordo, previa corresponsione, in favore dell'altra, di un corrispettivo pari all'1% del prezzo di vendita dell'immobile, stimato in complessivi Euro 410.000,00.
1.2. Con comunicazione del 15.02.2011, A.B. e C.D. recedevano dal contratto, ritenendo che la stima del prezzo di vendita fosse incongruo ed inferiore di circa Euro 30.000.00 rispetto a quello effettuato da altre due agenzie immobiliari.
1.3. Con atto di citazione notificato il 20.10.2011, A.B. e C.D. proponevano opposizione a decreto ingiuntivo, deducendo, da un lato, il carattere vessatorio della clausola di cui all'art. 4, comma 3, del mandato di mediazione immobiliare e rilevando, dall'altro, l'errore essenziale in cui sarebbero incorsi ad opera della controparte nella determinazione del prezzo di vendita. Con riguardo al primo dei due profili, gli opponenti, in qualità di consumatori D.Lgs. n. 206 del 2005, ex art. 3, comma 1, denunciavano il significativo squilibrio contrattuale derivante dall'applicazione della previsione di cui all'art. 4, che, nel commisurare il corrispettivo dovuto dai preponenti in caso di recesso, non contemplava un adeguamento dello stesso all'attività concretamente espletata dall'agenzia, costringendo, in tal modo, i mandanti a riconoscere in favore di controparte l'importo pattuito a prescindere dall'attività svolta e dai risultati conseguiti dal mediatore. L'iniquità di tale previsione negoziale risultava avvalorata dall'inconsistente differenza tra la percentuale riconosciuta in favore dell'agente in caso di conclusione dell'affare - pari a 1,5% del prezzo di vendita dell'immobile - e quella stabilita in caso di recesso del cliente - pari all'1% del medesimo prezzo. Quanto, poi, alla seconda censura formulata, gli opponenti sostenevano di essere stati indotti in errore dall'agenzia in errore in ordine al prezzo dell'immobile, essendo lo stesso di ammontare notevolmente inferiore a quello risultante dalle quotazioni del mercato immobiliare.
1.4. Con sentenza n. 28598/2013 del 16.11.2012, il Giudice di Pace di Roma accoglieva l'opposizione e, per l'effetto, revocava il decreto ingiuntivo opposto, dichiarando nullo ed inefficace il contratto stipulato tra le parti e rilevando, in ogni caso, la legittimità del recesso esercitato dagli opponenti per avere l'agente sottostimato il prezzo di vendita dell'immobile, inducendoli, in tal modo, alla stipula di un negozio in base ad una distorta rappresentazione della realtà.
1.5. Con atto di citazione notificato in data 20.01.2014, la D. Immobiliare s.r.l. appellava la sentenza del Giudice di pace.
1.6. Instauratosi il contraddittorio con la costituzione di A.B. e C.D., il Tribunale di Roma, con sentenza dell'11.3.2016, accoglieva l'appello e, per l'effetto confermava il decreto ingiuntivo opposto.
1.7. Il Tribunale applicava la disciplina di cui agli artt. 1469 bis e ss. relativa ai contratti del consumatore e non riconosceva natura vessatoria alla clausola di cui all'art. 4, comma 3 del contratto di mediazione. In particolare, osservava il giudice d'appello come la previsione negoziale censurata ponesse le parti su di un piano di assoluta parità, riconoscendo alle stesse la facoltà di recedere dal contratto previa corresponsione del medesimo importo. La stessa quantificazione del corrispettivo dovuto non era indice, secondo il Tribunale, del carattere vessatorio della clausola negoziale, essendo lo stesso di ammontare inferiore di un terzo rispetto all'importo previsto a titolo di compenso provvigionale. Infine, quanto al profilo dell'errore essenziale in cui sarebbe incorsi i mandanti al momento della stipula del negozio, il giudice del gravame ne motivava l'insussistenza in ragione del mancato assolvimento dell'onere probatorio ex art. 2697 c.c., non avendo gli stessi dimostrato l'effettiva sussistenza del vizio denunciato, limitandosi a produrre in atti stime del valore del proprio immobile eseguite da altre agenzie immobiliari, inidonee a comprovare l'anomalia occorsa nel procedimento di formazione della volontà.
2. Per la cassazione della sentenza hanno proposto ricorso A.B. e C.D. sulla base di sei motivi.
2.1. Ha resistito con controricorso D. Immobiliare S.r.l..
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1418, 1419, 1342, 1362 e 1469 bis c.c. e del D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, artt. 18, 19, 20, 21, 22, 33, 34, 35, 36 e 64, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. I ricorrenti muovono dalla disposizione contenuta nel D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 33, la quale prevede la nullità di una clausola che imponga al consumatore, in caso di inadempimento, il pagamento di una somma di denaro eccessivo a titolo di risarcimento, clausola penale o altro titolo equivalente di importo manifestamente eccesivo. Il giudice di merito avrebbe errato nel riconoscere al mediatore il diritto alla provvigione in caso di recesso anticipato, sulla base dell'art. 4, comma 3 del contratto, omettendo di accertare in concreto se il contratto avesse avuto un inizio di esecuzione e se un'attività affettiva fosse stata dal medesimo svolta, tenendo conto che la revoca era intervenuta solo una settimana dopo il conferimento dell'incarico. La determinazione concreta dell'importo dovuto in caso di recesso, stabilita nella misura pari a due terzi, comporterebbe, secondo i ricorrenti, uno squilibrio nel sinallagma contrattuale, in quanto nessun tipo, di attività sarebbe stata svolta dal mediatore. Infine, il giudice di merito non avrebbe considerato che il recesso sarebbe avvenuto entro dieci giorni dalla conclusione del contratto, sicchè sussisterebbe il diritto ex lege del consumatore, ai sensi dell'art. 64 del Codice del Consumo, di recedere senza corrispondere alcuna penalità.
2. Con il terzo motivo di ricorso, sotto la rubrica "violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., n. 3 con riferimento agli artt. 1725 e 1759 c.c. e del D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 64, (applicabili ratione tempons) in relazione all'art. 2697 c.c. ed agli artt. 115 e 116 c.p.c. ", il ricorrente lamenta che il giudice di merito non avrebbe valutato la sussistenza di una giusta causa di recesso e l'attività concretamente effettuata dal mediatore fino a tale data. Sarebbe mancata l'indagine sull'adeguatezza del corrispettivo pattuito, ai sensi dell'art. 4, comma 3 del contratto di mediazione, in quanto la comunicazione del recesso era avvenuta dopo sette giorni dalla stipula del contratto.
3.1. I motivi, che vanno esaminati congiuntamente per la loro connessione, sono fondati nei limiti di cui in motivazione.
3.2. Non sussiste, in primo luogo, la violazione del D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 64 -secondo cui per i contratti e per le proposte contrattuali a distanza ovvero negoziati fuori dai locali commerciali, il consumatore ha diritto di recedere senza alcuna penalità e senza specificarne il motivo, entro il termine di quattordici giorni lavorativi - non risultando dalla motivazione della sentenza impugnata che il contratto di mediazione sia stato concluso fuori dai locali commerciali.
3.3. Quanto alla natura abusiva della clausola che prevede una penale pari all'1%, del prezzo di vendita in caso di revoca dell'incarico prima della scadenza, si impongono, preliminarmente, alcune premesse di inquadramento.
3.4. Il D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206 - noto con l'accezione di Codice del Consumo - rappresenta il plesso normativo finalizzato ad apprestare una tutela incisiva e pregnante ad una parte - consumatore - generalmente dotata di minor forza contrattuale dell'altra - professionista - nella definizione dell'assetto negoziale, atto a disciplinare l'operazione perseguita dalle parti contraenti.
3.5. A questo proposito occorre ricordare che, in base alla giurisprudenza costante della Corte di Giustizia, il sistema di tutela istituito con la direttiva 93/13 si fonda sull'idea che il consumatore si trova in una posizione di inferiorità nei confronti del professionista per quanto riguarda sia il potere negoziale sia il livello di informazione (v., in particolare, sentenza del 17 luglio 2014, Sanchez Mordilo e Abril Garcfa, C-169/14, EU:C:2014:2099, punto 22 e giurisprudenza ivi citata).
3.6. La normativa speciale, introducendo una specifica disciplina diretta ad appianare le disuguaglianze sostanziali fra soggetti titolari di poteri contrattuali differenti, integra la normativa codicistica, enucleando una forma di tutela privatistica differenziata su base personale, applicabile esclusivamente in ragione della qualifica soggettiva rivestita dalle parti contraenti.
3.7. La forte connotazione soggettiva dell'impianto così strutturato emerge chiaramente dalla previsione di cui all'art. 3 del Codice del Consumo che, circoscrivendo l'ambito applicativo della normativa, definisce le contrapposte categorie di consumatore e professionista.
3.8. Precisamente, ai sensi della lett. a) della previsione de qua, con l'accezione "consumatore ed utente" si intende "la persona fisica che agisce per scopi estranei all'attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta"; di contro, il termine "professionista" individua, ai sensi della lett. e) della medesima disposizione, "la persona fisica o giuridica che agisce nell'esercizio della propria attività imprenditoriale o professionale".
3.9. Tracciati i confini soggettivi della normativa di cui al D.Lgs. n. 206 del 2005, risulta, a questo punto, necessario perimetrarne l'ambito oggettivo, focalizzando l'attenzione sulle c.d. clausole vessatorie, la cui disciplina, in forza del rinvio operato dall'art. 1469 bis c.c., è cristallizzata negli artt. 33 e ss. del Codice del Consumo.
3.10. Mette conto evidenziare che l'art. 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13 prevede che "le clausole abusive non vincolino i consumatori se, malgrado la buona fede determina un significativo squilibrio in danno del consumatore. Si tratta di una disposizione imperativa tesa a sostituire all'equilibrio formale, che il contratto determina fra i diritti e gli obblighi delle parti contraenti, un equilibrio reale, finalizzato a ristabilire l'uguaglianza tra queste ultime (v., in particolare, sentenze del 17 luglio 2014, Sanchez Mordilo e Abril Garcia, C-169/14, EU:C:2014:2099, punto 23, nonchè del 21 dicembre 2016, Gutierrez Naranjo e a., C-154/15, C-307/15 e C-308/15, EU:C:2016:980, punti 53 e 55).
3.11. Secondo la giurisprudenza costante della Corte di Giustizia, tale, disposizione deve essere considerata come una norma equivalente alle disposizioni nazionali che occupano, nell'ambito dell'ordinamento giuridico interno, il rango di norme di ordine pubblico (v. sentenze del 6 ottobre 2009, Asturcom Telecomunicaciones, C-40/08, EU:C:2009:615, punti 51 e 52, nonchè del 21 dicembre 2016, Gutierrez Naranjoe a., C-154/15, C-307/15 e C-308/15, EU:C:2016:980, punto 54; Corte di Giustizia UE sez. I, 26/01/2017, n. 421). 3.12.L'art. 33, comma 1 del Codice del Consumo pone un'enunciazione di ordine generale, definendo vessatorie le clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto.
3.13. Indice univoco del carattere abusivo di una clausola, alla stregua della definizione poc'anzi enunciata, è, dunque, rappresentato dallo squilibrio avente ad oggetto non già il mero valore delle reciproche prestazioni delle parti, bensì il complesso dei diritti e degli obblighi derivanti dal regolamento contrattuale predisposto.
3.14. L'indagine giudiziale circa la natura vessatoria delle clausole è agevolata dalla tipizzazione, all'interno del Codice del Consumo, di un elenco di clausole per le quali sussiste una presunzione assoluta di vessatorietà, che hanno l'effetto di indebolire ulteriormente la posizione contrattuale del consumatore.
3.15. L'automatica comminazione della sanzione della nullità parziale della clausola, e non dell'intero rapporto contrattuale, associata a tali previsioni subisce una deroga espressa con riguardo alle c.d. clausole presumibilmente vessatorie.
3.16. L'art. 33, comma 2 del Codice del Consumo contiene un elenco di venti clausole soggette ad una presunzione relativa di vessatorietà, in forza della quale una previsione negoziale astrattamente riconducibile ad una o più delle clausole espressamente contemplate dal suddetto elenco si presume vessatoria, salvo che il professionista fornisca la prova contraria.
3.17. L'onere probatorio gravante sul professionista al fine di confutare la natura presumibilmente vessatoria di una clausola contrattuale si considera assolto al ricorrere di determinati presupposti.
3.18. In primis, la presunzione di vessatorietà può essere vinta dal professionista, in conformità a quanto espressamente previsto dall'art. 34, comma 4 del Codice del Consumo, mediante la dimostrazione che la clausola censurata non sia stata unilateralmente imposta dallo stesso, ma abbia, di contro, formato oggetto di specifica trattativa individuale tra le parti, sempre che la medesima risulti caratterizzata dagli indefettibili requisiti dell'individualità, serietà ed effettività (Cass. civ., 20/03/2016, n. 6802; Cass. civ., 26/09/2008, n. 24262).
3.19. In primo luogo, ai sensi dell'art. 34, comma 2 del Codice del Consumo, non possono considerarsi vessatorie le clausole che attengono alla determinazione dell'oggetto del contratto nè all'adeguatezza del corrispettivo dei beni,e dei servizi, purchè tali elementi siano individuati in modo chiaro e comprensibile. - 3.20.Secondo quanto stabilito da Cass. civ., sez. III, 03/11/2010, n. 22357, la clausola che attribuisca al mediatore il diritto alla provvigione anche nel caso di mancata effettuazione dell'affare per fatto imputabile al venditore può presumersi vessatoria, e quindi inefficace a norma dell'art. 1469 bis c.c., se le parti non abbiano espressamente pattuito un meccanismo di adeguamento di tale importo all'attività sino a quel momento concretamente espletata dal mediatore.
3.21. La ratio dell'introduzione di tale principiò di gradualità va ravvisata nell'esigenza di garantire, nei contratti a prestazioni corrispettive come il contratto di mediazione "atipica" il rispetto del sinallagma contrattuale, dovendo trovare la prestazione di una parte il proprio fondamento nella controprestazione, al fine di evitare il ricorrere di situazioni di indebito arricchimento ai danni del contraente debole del negozio perfezionato.
3.22. Come argomentato nella citata sentenza, il compenso del mediatore, in caso di mancata conclusione dell'affare, trova giustificazione nello svolgimento di una concreta attività di ricerca di terzi interessati all'affare, attraverso la predisposizione dei propri mezzi e della propria organizzazione. 3.23.L'accertamento relativo all'abusività della clausola va svolto anche nell'ipotesi in cui sia previsto il diritto potestativo di recesso, al fine di evitare che il diritto al compenso possa essere fissato in misura indipendente dal tempo e dall'attività svolta dal mediatore.
3.24. Non si tratta, pertanto, di un inammissibile sindacato sull'oggetto del contratto, vietato dall'art. 34 comma 2 del Codice del Consumo in quanto non è messo in gioco la congruità del corrispettivo nell'ambito del regolamento dei rapporti contrattuali; l'accertamento sulla; vessatorietà della clausola costituisce, invece, un dovere officioso del giudice, tenuto a rilevare, anche d'ufficio la nullità di una clausola che, nel contratto concluso tra il consumatore ed il professionista, determina, a carico del consumatore, un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto.
3.25. Il giudice di merito ha reputato non squilibrata in favore del professionista la clausola citata sia perchè l'indennità dell'1% per il diritto di recesso è stabilite anche a carico dell'agenzia sia perchè oggetto di trattativa tra le parti. Non ha però tenuto conto che il compenso andava parametrato all'attività concretamente svolta dal mediatore, che, in relazione al breve lasso temporale intercorrente tra la conclusione del contratto e l'esercizio del diritto di recesso, meritava di attenta valutazione da parte del giudice di merito.
3.26. La clausola contrattuale, che riconosce il diritto al compenso in via automatica, se svincolata dall'effettivo svolgimento dell'attività di ricerca dei terzi interessati all'affare e delle attività ad esse propedeutiche, conduce al risultato di costituire, a favore dell'agente immobiliare una rendita di posizione, andando ad incidere negativamente sull'equilibrio contrattuale nel rapporto tra professionista e consumatore espressamente previsto dall'art. 33 del Codice del Consumo.
3.27. La valutazione in concreto dell'attività svolta impedisce che il diritto alla provvigione da parte del mediatore possa essere svincolato dallo svolgimento di qualsiasi controprestazione, determinando inevitabilmente non tanto uno squilibrio nella prestazioni ma addirittura l'assenza della prestazione.
3.29. Il sindacato sull'equilibrio contrattuale, che costituisce uno dei cardini dell'operazione ermeneutica in materia di contratto concluso con il consumatore risulta del tutto omessa, indagine che, invece avrebbe dovuto essere svolta, secondo l'orientamento di questa Corte espresso da Cassazione Sez. III del 3.11.2010 n. 23357.
3.30. Il principio espresso dalla citata decisione, che demanda al giudice di merito la valutazione della vessatorietà della clausola che prevede un importo eccessivo in favore del mediatore, nell'ipotesi di mancata conclusione dell'affare deve essere quindi estesa anche nel caso in cui sia stato esercitato il diritto potestativo di recesso.
3.31. La decisione impugnata si pone in contrasto con la giurisprudenza della Corte di Giustizia, che, in più occasioni ha affermato che, in assenza di un controllo efficace del carattere potenzialmente abusivo delle clausole del contratto da parte del giudice, il rispetto dei diritti conferiti dalla direttiva 93/13 non può essere garantito (sentenza del 13.9.2018, Profit Credit Polska, C-176/17, EU: C.2018:711).
3.32. Tale penetrante controllo è previsto anche in via officiosa affine di ovviare allo squilibrio che esiste tra il consumatore ed il professionista, come affermato nella sentenza dell'11 marzo 2020, Lintner, C-511/17, EU:C:2020:188, in materia di credito al consumo. Nella citata decisione, la corte di Lussemburgo demanda al giudice, anche in caso di mancata comparizione del consumatore, il compito di adottare i mezzi istruttori necessari per verificare il carattere potenzialmente abusivo delle clausole rientranti nell'ambito di applicazione della direttiva 93/13, per garantire al consumatore la tutela dei diritti che gli sono conferiti dalla direttiva stessa.
3.33. Più recentemente, la Corte di Giustizia, con la sentenza del 4.6.2020, nella causa C-495/19, avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Tribunale Regionale di Poznan, Polonia, concernente l'acquisizione d'ufficio, da parte del giudice, dei mezzi istruttori per accertare la natura abusiva delle clausole, in caso di procedimento contumaciale, ha affermato che tale indagine deve essere effettuata, qualora sussistano dubbi sul carattere abusivo delle clausole. E' stato ribadito che spetta ai giudici nazionali, tenendo conto di tutte le norme del diritto nazionale e applicando i metodi di interpretazione riconosciuti da quest'ultimo, decidere se e in quale misura una disposizione nazionale possa essere interpretata conformemente alla direttiva 93/13, senza procedere ad un'interpretazione contra legem di tale disposizione nazionale (v., per analogia, sentenza del 17 aprile 2018, Egenberger, C-414/16, EU:C: 2018:257, punto 71 e giurisprudenza ivi citata). La Corte ha peraltro stabilito che l'esigenza di un'interpretazione conforme include l'obbligo, per i giudici nazionali, di modificare, se del caso, una giurisprudenza consolidata se questa si basa su un'interpretazione del diritto nazionale incompatibile con gli scopi di una direttiva (sentenza del 17 aprile 2018, Egenberger, C-414/16, EU:C:2018:257, punto 72 e giurisprudenza ivi citata).
3.34. La corte di merito ha omesso di valutare il profilo di vessatorietà della clausola contrattuale, anche con riferimento all'art. 33, lett. e) del Codice del Consumo, che stabilisce la presunzione di vessatorietà della clausola che consente al professionista di trattenere una somma di denaro versata dal "consumatore se quest'ultimo non conclude il contratto o recede da sso, senza prevedere il diritto del consumatore di esigere dal professionista il doppio della somma corrisposta se è quest'ultimo a non concludere il contratto oppure a recedere.
3.35. La sentenza impugnata va cassata in relazione ai motivi accolti, nei limiti di cui in motivazione, e rinviata, anche per le spese del giudizio di legittimità, innanzi al Tribunale di Roma, in diversa composizione, che si atterrà ai seguenti principi di diritto:
"La clausola che attribuisca al mediatore il diritto alla provvigione anche in caso di recesso da parte del venditore può presumersi vessatoria quando il compenso non trova giustificazione nella prestazione svolta dal mediatore. E' compito del giudice di merito valutare se una qualche attività sia stata svolta dal mediatore attraverso le attività propedeutiche e necessarie per la ricerca di soggetti interessati all'acquisto del bene".
"Si presume vessatoria la clausola che consente al professionista di trattenere una somma di denaro versata dal consumatore se quest'ultimo non conclude il contratto o recede da esso, senza prevedere il diritto del consumatore di esigere dal professionista il doppio della somma corrisposta se è quest'ultimo a non concludere il contratto oppure a recedere".
4. Con il secondo motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 con riferimento all'art. 1176 c.c., comma 2, e art. 1375 c.c. in relazione agli artt. 1427,1428,1429,1469 bis, 1759,2697 e 2729 c.c. e art. 115 c.p.c., per non aver il Giudice di merito riconosciuto l'errore essenziale in cui sarebbero incorsi i ricorrenti ad opera della controparte nella determinazione del prezzo di vendita dell'immobile, unilateralmente determinato e sottostimato rispetto alle valutazioni compiute da altre agenzie.
4.1. Il motivo è infondato.
4.2. L'errore, quale vizio del consenso idoneo ad incidere sul libero processo di formazione della volontà, deve, per assumere rilevanza ai fini dell'annullamento contrattuale, essere dotato degli specifici requisiti normativamente tipizzati ex art. 1428 c.c. dell'essenzialità e della riconoscibilità.
4.3. L'errore sulla valutazione economica della cosa oggetto del contratto non rientra nella nozione di errore di fatto idoneo a giustificare una pronuncia di annullamento del contratto, in quanto non incide sull'identità o qualità della cosa, ma attiene alla sfera dei motivi in base ai quali la parte si è determinata a concludere un certo accordo ed al rischio che il contraente si assume, nell'ambito dell'autonomia contrattuale, per effetto delle proprie personali valutazioni sull'utilità economica dell'affare (Cass. civ., sez. II, 03/09/2013, n. 20148; Cass. civ., sez. I, 12/06/2008, n. 15706; Cass. civ., sez. Ili, 03/04/2003, n. 5139). 4.4.Il Tribunale di Roma, con apprezzamento di fatto, incensurabile in sede di legittimità, ha tratto la prova relativa all'assenza dei requisiti dell'errore di fatto proprio dalla disparità della valutazione dell'immobile da parte delle altre due agenzie immobiliari, che prevedevano un'oscillazione di circa Euro 30.000,00. 4.5.In secondo luogo, il Tribunale ha accertato che" la censura relativa alla presunta unilaterale determinazione del prezzo di vendita da parte della Do.Ro Immobiliare s.r.l. risultava smentita dalla lettera del regolamento contrattuale, in cui sì menziona espressamente l'accordo raggiunto tra le parti in merito alla quantificazione del corrispettivo di vendita dell'immobile (cfr. pag. 6 sentenza Tribunale).
4.6. Ebbene, nel caso di specie, l'errore invocato dagli odierni ricorrenti esula dalla nozione di errore di fatto essenziale e riconoscibile, traducendosi semplicemente in una falsa rappresentazione avente ad oggetto il valore del bene e, quindi, la convenienza stessa dell'affare concluso dalle parti contraenti.
5. Con il quarto motivo di ricorso si deduce il vizio di omessa motivazione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, con riferimento all'art. 1418 c.c., comma 1, artt. 1419 e 1725 c.c., per non aver il Giudice di merito statuito in ordine alla difformità dei modelli di incarico predisposti dalla D. Immobiliare rispetto alla modulistica di settore approvata e recepita da F.I.A.I.P. e dalle Camere di Commercio.
6. Con il quinto motivo di ricorso si deduce l'omessa motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5 con riferimento all'art. 1418 c.c., comma 1, artt. 1419 e 1725 c.c., per non aver il Tribunale di Roma proceduto all'esame delle clausole di cui agli artt. 6 e 7 del contratto di mediazione, rispettivamente disciplinanti la durata del vincolo negoziale ed il diritto di esclusiva, sulle quali sarebbe mancata la trattativa.
7. Con il sesto motivo di ricorso si deduce l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5 con riferimento all'art. 2697 c.c. e art. 115 c.p.c., per aver il Giudice di merito errato nell'applicazione del c.d. fatto notorio concernente la documentazione prodotta dai ricorrenti in relazione alla stima del valore dell'immobile effettuata da altre agenzie, con ciò disattendo le norme di cui agli artt. 2697 c.c. e ss., in materia di onere della prova.
8.I motivi, che vanno esaminati congiuntamente per la loro connessione, sono inammissibili.
8.1. I ricorrenti, nella formulazione delle suddette doglianze, si sono limitati ad addurre, in violazione del principio di autosufficienza di cui all'art. 366 c.p.c., critiche generiche alla sentenza impugnata, impedendo a codesta Corte di avere una completa cognizione del significato e della portata delle censure formulate.
8.2. I motivi di cui ai nn. 4 e 5 del ricorso, oltre ad essere privi del summenzionato carattere della completezza ed esaustività, risultano, altresì, estranei al thema decidendum del giudizio, con conseguente violazione del consolidato orientamento di questa Corte, secondo cui i motivi di ricorso per cassazione devono investire, a pena di inammissibilità, questioni che abbiano formato oggetto del thema decidendum del giudizio di secondo grado, fissato dalle impugnazioni e dalle richieste delle parti (Cass. civ., sez. II, 11/08/1990, n. 8230).
8.3. Non può, pertanto, alla stregua delle considerazioni svolte, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, che ha ad oggetto il fatto storico e non la diversa ricostruzione delle emergenze istruttorie da parte del giudice di merito, con motivazione che deve assicurare il "minimo costituzionale" (Cassazione civile sez. un., 07/04/2014, n. 8053.
8.4. Anche il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione è inammissibile perchè presuppone come ancora vigente il controllo di legittimità sulla motivazione della sentenza nei termini in cui esso era possibile prima della modifica dell'art. 360 c.p.c., n. 5, apportata dal D.L n. 83 del 2012, convertito - nella L. n. 134 del 2012, essendo viceversa denunciabile soltanto l'omesso esame di uno specifico fatto decisivo che sia stato oggetto di discussione tra le parti (Cass. civ., SS.UU., Sent. n. 8053/2014).
P.Q.M.
Accoglie il primo ed il terzo motivo di ricorso nei limiti di cui in motivazione, rigetta i restanti, cassa la sentenza in relazione ai motivi accolti e rinvia al Tribunale di Roma in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Seconda Sezione Civile della Corte di cassazione, il 5 febbraio 2020.
Depositato in Cancelleria il 18 settembre 2020.
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Revisione dell'assegno divorzile per giustificati motivi sopravvenuti.
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Concezione soggettiva della condizione di intollerabilità della convivenza.
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La Cassazione chiarisce il termine a quo della prescrizione decennale per il rimborso del mantenimento del figlio naturale.
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Sì al parental control su cellulari e computer dei figli adolescenti.
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Cognome della coppia unita civilmente.
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Riconoscimento di un minore concepito mediante il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita.
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Tre anni di convivenza dopo le nozze: no alla delibazione della sentenza di nullità del matrimonio religioso.
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E' dovere anche dei figli maschi di occuparsi dei genitori anziani.
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La Cassazione: il minore è parte del processo che lo riguarda.
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Danni da infiltrazioni. Il Condominio deve dimostrare il caso fortuito.
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Per il mantenimento del figlio minore vige il principio di proporzionalità.
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Il giudice di legittimità può sindacare le modalità di esercizio del diritto di visita solo se il giudice di merito si è ispirato a criteri diversi da quello dell’esclusivo interesse del minore.
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L’accordo transattivo intervenuto dopo il divorzio è idoneo a disciplinare i rapporti patrimoniali tra gli ex coniugi.
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La mala gestio del condominio va sempre provata.
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Ascensore. Innovazione pregiudizievole. Serve il consenso unanime dei condomini.
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Lavori straordinari. Con l'approvazione assembleare si legittima l'amministratore a riscuotere i contributi.
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Spese dei lavori di manutenzione. Solo con l'unanimità si possono derogare le tabelle millesimali.
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Assegno divorzile per l'ex e il figlio minorenne: solo al figlio spetta il mantenimento dello stesso tenore di vita.
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Autovelox sul lato opposto della strada: la sanzione è illegittima.
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Niente addebito al marito traditore se la moglie ne accetta i tradimenti per anni.
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Il Dpcm che ha dichiarato l'emergenza sanitaria Covid 19 è illegittimo?
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Area condominiale adibita a parcheggio.
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La stipula di un mutuo consente la riduzione dell'assegno di mantenimento.
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Revoca dell’assegnazione della casa familiare: non impone l’adeguamento delle statuizioni economiche.
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Grande conflittualità tra i coniugi: per la Cassazione niente affido condiviso del figlio.
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Sulla sentenza parziale di separazione.
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Cassazione: il diritto dei nonni di frequentare i nipoti può essere limitato in caso di conflitto con i loro genitori.
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Assegno di divorzio ridotto in caso di eredità e se il matrimonio dura poco.
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Coppie gay, il nome della madre intenzionale non può essere scritto negli atti di stato civile insieme a quello della madre naturale.
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Il marito che ruba alla moglie la credenziali dell’home banking rischia condanna penale.
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Illecito endofamiliare (in pillole).
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Cassazione: la Corte d’Appello adita in sede di reclamo avverso l’ordinanza del Presidente del Tribunale non deve statuire sulle spese.
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Calcolo dell'assegno divorzile: i parametri della Corte d'Appello di Roma.
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Quando può dirsi raggiunta l'indipendenza economica dei figli?
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Il danno all'immagine ed alla reputazione inteso come danno conseguenza non sussiste "in re ipsa".
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Revisione dell’assegno di mantenimento per i figli.
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Cessione in godimento del lastrico solare per ripetitore.
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Cassazione: legittima la disposizione del Giudice di aggiungere il cognome paterno a quello della madre, se funzionale all'interesse del figlio e alla tutela della sua identità personale

La pronuncia in esame trae origine dal decreto con cui il giudice di primo
grado aveva accolto la domanda proposta da una donna, disponendo che il figlio di costei assumesse, in aggiunta al suo, anche il cognome del padre naturale, e stabilendo, inoltre, l'affido esclusivo del minore presso la madre.
Il padre del bambino proponeva reclamo presso la Corte d'Appello, la quale, però,
lo rigettava.
Ancora, il
ricorrente riteneva che la Corte d'Appello adita non avesse debitamente tenuto
conto nemmeno della totale inesistenza di rapporti tra padre e figlio, nonché la sua assoluta inidoneità all'esercizio
della responsabilità genitoriale., circostanza, questa, confermata dal fatto che
fosse stato disposto l’affido esclusivo in
capo alla madre.
Ciononostante, la Suprema Corte dichiarava il ricorso inammissibile.
I giudici di legittimità, infatti, rilevavano come
la decisione di merito fosse del tutto conforme alla costante giurisprudenza di
legittimità, secondo cui, in tema di attribuzione giudiziale del cognome al figlio
nato fuori del matrimonio e riconosciuto in maniera non contestuale dai genitori,
"i criteri di individuazione del cognome
del minore si pongono in funzione del suo interesse, che è quello di evitare un
danno alla sua identità personale, intesa anche come proiezione della sua personalità
sociale, avente copertura costituzionale assoluta; la scelta, anche officiosa,
del giudice è ampiamente discrezionale e deve avere riguardo al modo più conveniente
di individuare il minore in relazione all'ambiente in cui è cresciuto fino al
momento del successivo riconoscimento, non potendo essere condizionata
dall'esigenza di equiparare il risultato a quello derivante dalle diverse
regole, non richiamate dall'art. 262 c.c., che presiedono all'attribuzione del cognome al figlio nato nel matrimonio"
(Cass. Civ., n. 12640/2015).
Come già più volte evidenziato dalla Cassazione,
infatti, "Il giudice è investito
dall'art. 262 commi 2 e 3, c.c. del potere-dovere di decidere su ognuna delle
possibilità previste da detta disposizione avendo riguardo, quale criterio di
riferimento, unicamente all'interesse del minore e con esclusione di qualsiasi automaticità,
che non riguarda nè la prima attribuzione, essendo inconfigurabile una regola
di prevalenza del criterio del prior in tempore, nè il patronimico, per il quale
non sussiste alcun favor in sè nel nostro ordinamento" (cfr. Cass.
Civ., n. 18161/2019; Cass. Civ., n.2644/2011).
Secondo i giudici di legittimità, dunque, la
decisione presa dai giudicanti di merito è perfettamente coerente con il principio
di diritto per cui "in tema di
minori, è legittima, in ipotesi di secondo riconoscimento da parte del padre, l'attribuzione del patronimico, in aggiunta
al cognome della madre, purché non gli arrechi pregiudizio in ragione della
cattiva reputazione del padre e purché non ne sia lesivo dell'identità
personale, ove questa si sia definitivamente consolidata con l'uso del solo matronimico
nella trama dei rapporti personali e
sociali" (Cass. Civ., n.
26062/2014).
Pertanto, secondo gli Ermellini, la Corte
territoriale aveva disposto del tutto legittimamente l'attribuzione al minore
del cognome paterno, in aggiunta a quello materno. I giudici di merito, infatti, avevano
preliminarmente individuato il relativo concreto interesse del minore, nonché
evidenziato l'auspicabile evoluzione positiva del rapporto con il genitore, anche
per effetto dell'assunzione dell'ulteriore cognome, oltre all'interesse del
fanciullo a stabilire un legame con gli altri figli del padre e ad affermare e palesare
la propria appartenenza alla famiglia paterna.
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Tribunale di Modena: il cittadino straniero ha diritto al ricongiungimento col partner italiano
Il cittadino straniero ha diritto di fare ingresso nel nostro Paese e di ricongiungersi col partner italiano se intrattiene con quest'ultimo una relazione stabile, anche se non registrata, purché debitamente attestata da documentazione ufficiale . Pertanto, va riconosciuto carattere di ufficialità all'accordo di convivenza sottoscritto dallo straniero e dal partner italiano di fronte all'avvocato, ai sensi dell'art. I, co. 50 e 51 della Legge 76/2016 con disposizione di iscrizione anagrafica del partner straniero privo di autonomo titolo di soggiorno ai fini del mantenimento dell'unità familiare.
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Cassazione penale: no alla compensazione tra obbligo di mantenimento e credito con l'ex coniuge
La sentenza n. 9553 del 10.03.2020 della VI sezione penale della Corte di Cassazione stabilisce che la concezione penalistica dell'obbligo di mantenimento esclude la compensabilità del proprio debito di mantenimento con un credito pregresso nei confronti dell'ex coniuge.
Dopo una condanna in Corte di
Appello per il reato di cui all’art. 570 c.p., l’imputato ricorreva in
Cassazione, deducendo, in particolare, di aver operato la compensazione tra debito di mantenimento e un suo precedente credito con controparte poiché in
ogni caso, a differenza dei crediti alimentari, per i crediti di mantenimento
(compreso quello del figlio minore) non opera il divieto di cui
all'articolo 477 c.c., se a porre la compensazione è il beneficiario.
Gli Ermellini rigettavano il ricorso con le seguenti
motivazioni:
a) dalla lettura della documentazione istruttoria non risultava
pacifico che fosse stata l'ex moglie dell’imputato a chiedere la compensazione;
b) La definizione penalistica dell’obbligo di mantenimento
differisce da quella civilistica. Quest’ultima indica l’obbligo di corrispondere
le somme indicate nel provvedimento come mantenimento; la definizione penalistica
afferisce invece al dovere di non fare mancare ai beneficiari i mezzi di sussistenza. Non
è pertanto possibile escludere la configurabilità dell’art. 570 cp attraverso
la compensazione del debito da mantenimento con un credito pregresso, avendo l’obbligato
il preminente dovere di sopperire, comunque, allo stato di bisogno dei
figli minorenni e del coniuge soddisfacendone le esigenze primarie;
c) lo stato di bisogno della ex coniuge era inoltre ravvisabile nel pignoramento di un terzo dello stipendio effettuato per pagare il mutuo stipulato per l'acquisto della casa, nella vendita degli oggetti in oro, nella richiesta al datore di lavoro di un parziale anticipo del Tfr e nel riscatto di polizza assicurativa. Per i figli minorenni lo stato di bisogno è invece presunto.
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Integra il reato di atti persecutori tormentare la propria ex con la richiesta continua e pretestuosa di vedere il figlio
Tribunale e Corte d’Appello avevano infatti condannato un uomo per il delitto in parola, poiché aveva perseguitato l'ex compagna con la scusa di esercitare il suo diritto di padre, chiamandola in continuazione a ogni ora del giorno e della notte e arrivando a danneggiare la sua automobile.
L'imputato adiva così la Cassazione, sostenendo che le sue condotte fossero scriminate ex art. 51 c.p. dalla sua volontà di esercitare il proprio diritto di visita al figlio minorenne avuto durante la relazione con la vittima.
La Suprema Corte accoglieva il ricorso ma solo limitatamente al mancato riconoscimento del vincolo di continuazione.
Relativamente alla configurazione del reato, gli Ermellini hanno evidenziato come non rientri tra i loro poteri quello di eseguire una sostanziale rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione di merito, con la conseguenza che una richiesta formulata in tal senso è sempre da ritenere inammissibile (cfr. Cass. Pen., n. 15977/2015).
La Suprema Corte ha poi osservato che giudici di merito non avevano assolutamente errato nell'escludere la configurabilità della scriminante ex art. 51 c.p., poiché le chiamate, le minacce e i pedinamenti da parte dell'imputato non potevano ritenersi finalizzati ad incontrare il figlio.
In ultimo, gli Ermellini hanno accolto la contestazione sull'esclusione del vincolo continuativo. La Corte d’Appello si era infatti limitata ad escluderlo sostenendo che non fosse sufficiente l'allegazione della sentenza per vedersi riconosciuta la continuatività.
Al contrario, secondo gli Ermellini,i giudici di merito ben avrebbero potuto valutare un vincolo di continuazione tra i fatti di cui alla precedente sentenza e quelli attuali.
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Coronavirus e genitori divorziati residenti in Comuni diversi: il Tribunale di Roma modifica temporaneamente il regime di affido condiviso per garantire salute e bigenitorialità.
A fronte dell'emergenza sanitaria da pandemia di covid-19, con una soluzione di compromesso, la Sezione Famiglia del Tribunale di Roma ha modificato temporaneamente le condizioni di affidamento condiviso tra due genitori divorziati residenti in Comuni diversi, piuttosto che limitarsi a riaffermare la validità del regime vigente o a sospenderlo per il genitore non collocatario prevalente.
Con Decreto n. 7852
del 17.04.2020, la Sezione I Civile del
Tribunale Ordinario di Roma ha modificato un proprio provvedimento inaudita
altera parte del 30.03.2020 con cui aveva ordinato a un uomo di riaccompagnare i figli
presso l’ex moglie, secondo quanto previsto dalle modalità di affidamento
condiviso.
Tale provvedimento aveva accolto un ricorso ex art. 700 cpc presentato dalla
donna, collocataria principale dei minori, dopo che l’ex marito aveva mancato
per giorni di ricondurre i bambini al domicilio materno. Nello specifico, all’entrata
in vigore su suolo nazionale delle misure d’emergenza anti-coronavirus, l’uomo stava
trascorrendo il regolare periodo di spettanza con i figli presso la sua
residenza, in un Comune diverso da quello della madre. Data la situazione, il
padre aveva deciso – secondo le parole del Collegio - di “sottoporre a
quarantena” presso di sé i minori fino al concludersi dell’emergenza
sanitaria, anche offrendosi di ospitare controparte, ritenendo la propria abitazione
in campagna più salubre rispetto al contesto urbano in cui ella risiedeva.
Il Decreto in esame, dopo aver ritenuto il ricorso riconducibile al modello ex
art. 709 ter cpc, pur considerando arbitraria la decisione dell’uomo poiché “non
è risultata suffragata da alcun consulto medico ed ha integrato, pertanto, la
violazione delle modalità di affido condiviso stabilite”, non si è limitato a confermare le modalità
di affido condiviso o a sospenderle nei confronti del padre, ma le ha
provvisoriamente modificate, disponendo una cadenza settimanale per alcuni mesi
e quindicinale per i successivi.
Inoltre, il Decreto in parola ha statuito il mantenimento diretto dei
minori e ha rinviato, per la trattazione del procedimento principale di
modifica delle condizioni di divorzio, a una ulteriore udienza fissata per un periodo (sperabilmente)
successivo alla fine dell’emergenza sanitaria.
Nel fare ciò, il Collegio ha tenuto conto della “contingente situazione di emergenza epidemiologica, durante la quale i minori sono a casa per la sospensione dell’attività scolastica, presumibilmente fino al prossimo settembre” e ha ritenuto “necessario superare la fase emergenziale in atto, la quale altera la modalità ordinaria di permanenza dei genitori con i figli, per addivenire alla modifica definitiva delle condizioni della separazione [sic] solo all’esito della sopra richiamata emergenza epidemiologica”, anche in ragione del fatto che “in concomitanza delle restrizioni governative adottate in ragione della emergenza epidemiologica da covid-19, il dissidio tra le parti si è manifestato chiaramente nella incapacità di gestire i tempi di permanenza dei minori presso ciascun genitore, la quale ha causato ulteriore tensione tra le parti in danno della prole”.
TRIBUNALE ORDINARIO DI ROMA
SEZIONE PRIMA CIVILE
DECRETO
Rilevato che le parti hanno formulato istanza di modifica delle condizioni di affidamento e di mantenimento dei figli minori, lamentando reciprocamente condotte dell’altro genitore tali da compromettere l’equilibrio dei figli e da ingenerare discredito della figura dell’altro genitore agli occhi della prole;
Rilevato che il Collegio preso atto della elevatissima conflittualità,
della incapacità di comunicare e del possibile pregiudizio che tali condotte
possono arrecare al benessere dei figli ha disposto CTU per verificare la
condizione dei minori, con espressa delega a procedere al loro ascolto, per
valutare le capacità genitoriali delle parti e per verificare la situazione dei
figli in ambito scolastico e nelle relazioni con gli altri componenti della famiglia
allargata (in particolare con l’attuale marito della resistente, convivente con
i minori);
Rilevato che la CTU ha concluso suggerendo che “il collocamento dei bambini rimanga prevalente presso la mamma. La
frequentazione padre figli può essere così organizzata. Frequentazione
ordinaria: a weekend alterni dal giovedì (uscita di scuola) al lunedì mattina
(a scuola). Mentre nella settimana senza il weekend dal martedì (uscita di
scuola) fino al giovedì mattina (a scuola). Settimana di Ognissanti (finché i
bambini saranno alla scuola ...) 11 gg. divisa a metà, sempre 5 alla madre
e 6 al padre. Natale dal 20.12 al 25.12 entro le ore 12.00 alternato - dal 25.12 al 31.12 mattina entro le ore
12.00 alternato – dall’01.01 al 07.01 (a scuola)
alternato. Pasqua e Pasquetta: alternate da fine scuola per 4 giorni ogni
genitore (compleanno M… alternato) Ponti alternati Settimana Bianca alternata
Estate dalla fine delle scuole a settimane alterne dal lunedì pomeriggio al
lunedì pomeriggio successivo una settimana con un genitore e una con l’altro.
Dall’01.07 al 16.07 con un genitore dal 16.07 al 31.07 con altro, dal 31.07 al
16.08 con un genitore e dal 16.08 al 31.08 con l’altro genitore. Settembre regime ordinario. I compleanni dei bambini
si festeggeranno a rotazione nell’anno, uno con la madre, uno con il padre. Compleanno e Festa della mamma con
la mamma. Compleanno e Festa del papà con il papà.: Si suggerisce che i
genitori si facciano aiutare mediante un percorso di sostegno alla
genitorialità, che li aiuti a rispondere alle richieste dei bambini, ovvero
maggiore comunicazione, minori ambiguità, abbassamento dell’aggressività
mascherata e diminuzione del conflitto”.
Rilevato che dagli atti di causa nulla risulta in merito al percorso
psicologico intrapreso dalle parti, nell'interesse preminente della prole,
come suggerito dal CTU;
Rilevato che all'esito della CTU ed in concomitanza delle restrizioni
governative adottate in ragione della emergenza epidemiologica da covid-19, il
dissidio tra le parti si è manifestato chiaramente nella incapacità di gestire
i tempi di permanenza dei minori presso ciascun genitore, la quale ha causato
ulteriore tensione tra le parti in danno della prole, e l’apertura di un
procedimento incidentale su richiesta di parte resistente finalizzato di
ordinare allo S… di riaccompagnare i figli minori presso il domicilio materno,
dopo 25 giorni di permanenza non autorizzata dei minori presso il padre;
Rilevato che il Tribunale con provvedimento d’urgenza
inaudita altera parte del 30.3.2020 ha accolto il ricorso d’urgenza di parte resistente;
Ritenuto che tale provvedimento si è reso necessario in quanto, a prescindere dalla forma del ricorso impropriamente denominata ex art. 700 cpc, anziché ex art. 709 ter cpc la domanda di parte resistente è risultata fondata e suffragata dalla documentazione in atti attestante il rifiuto dello S… di riaccompagnare i figli dalla madre, al pari del verosimile pregiudizio subito dalla prole impossibilitata a ricongiungersi con la madre;
Ritenuto che la decisione dello S… del tutto unilaterale di sottoporre a quarantena a ... (Provincia di ...) i propri i figli minori, ritenendo che tale luogo fosse più salubre alla salute dei medesimi e pretendendo inoltre che fosse la madre a doversi recare a casa sua in campagna, per eventualmente soggiornarvi anch’ella fino alla fine della quarantena, non è risultata suffragata da alcun consulto medico ed ha integrato, pertanto, la violazione delle modalità di affido condiviso stabilite;
Rilevato che nelle note da ultimo depositate dalle parti si evince la volontà comune di mantenere l’affidamento dei minori in via alternata per quindici giorni consecutivi;
Ritenuto che la richiesta di cui sopra appare condivisibile in considerazione della contingente situazione di emergenza epidemiologica, durante la quale i minori sono a casa per la sospensione dell’attività scolastica, presumibilmente fino al prossimo settembre, mentre non può concretarsi nella modifica definitiva delle condizioni di affidamento e collocamento dei minori, stante le risultanze della CTU come sopra riportate;
Ritenuto pertanto necessario superare la fase emergenziale in atto, la quale altera la modalità ordinaria di permanenza dei genitori con i figli, per addivenire alla modifica definitiva delle condizioni della separazione solo all’esito della sopra richiamata emergenza epidemiologica;
Ritenuto peraltro necessario che le parti intraprendano il percorso di sostegno alla genitorialità suggerito dalla CTU, e che le medesime ne diano conto alla prossima udienza fissata per le conclusioni;
1) Conferma il provvedimento adottato in data 30.3.2020;
SI COMUNICHI
ALLE PARTI.
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Solo circostanze eccezionali, e tra queste non sussiste la notorietà, possono consentire alla moglie di mantenere il cognome dell'ex marito dopo il divorzio.
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Non coercibile il dovere del genitore non collocatario di frequentare il figlio minore.
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Screditare il padre: conseguenze giuridiche.
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L’inadempimento all'obbligo alimentare ripetuto nel tempo può comportare la revoca dell’affidamento condiviso.
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L’inadempimento all'obbligo alimentare ripetuto nel tempo comporta la revoca dell’affidamento condiviso.
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Legittima l'ttribuzione del cognome del padre in aggiunta a quello della madre purché non arrechi pregiudizio al minore.
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Niente assegno divorzile se l'ex coniuge lavora in nero.
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Il figlio dottorando di ricerca non è economicamente indipendente e il genitore deve versargli il mantenimento.
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Separazione: per l'addebito basta una foto che ritrae il coniuge in atteggiamenti intimi con un'altra persona.
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L'onere probatorio per l'assegno alimentare provvisorio ricade sulla parte che ne fa richiesta.
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L'accordo di separazione relativo ad attribuzioni patrimoniali, dopo l'omologazione, è titolo per la trascrizione.
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Il cognome paterno è attribuito al figlio tardivamente riconosciuto solo se rientra nel suo superiore interesse.
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La negoziazione assistita tra coniugi in sede di separazione o divorzio va autenticata dal notaio se è previsto anche il trasferimento di un immobile
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Rifiuto del padre di sottoporsi ad indagini ematologiche per l'accertamento della paternità naturale.
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Riconoscimento della sentenza straniera di adozione legittimante.
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Figli minori non residenti in Italia.
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Saranno le Sezioni unite a stabilire se il trasferimento immobiliare tra coniugi ed ex coniugi è valido anche senza il Notaio.
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Assegno di mantenimento: per la Cassazione non è reato versare di meno.
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Sezioni Unite: sì ad adeguata remunerazione per i medici specializzandi tra il 1982 e il 1990
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Danno da mancato consenso informato risarcibile anche nel caso di intervento correttamente eseguito
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Stalking: la querela è revocabile solo se le minacce non sono gravi.
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L'ex moglie abbia declinato offerte di lavoro: non è decisivo ai fini dell'esclusione dell'assegno di divorzio.
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Trascorsi i tre anni successivi al matrimonio, il matrimonio non è annullabile.
(Cass. civ. Sez. VI - 1 Ord., 26/11/2019, n. 30900)
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Separazione: chi paga l'IMU se l'immobile è di proprietà di terzi?
15/01/20
Assegno di divorzio fondato sul criterio del tenore di vita godibile durante il matrimonio.
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Assegno di divorzio fondato sul criterio del tenore di vita godibile durante il matrimonio.
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Affido temporaneo etero familiare.
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La prova della simulazione mediante interrogatorio formale ed escussione di testimoni
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Violazione degli obblighi di assistenza familiare.
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Vishing: attenzione alla truffa telefonica.
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Ecografista responsabile anche se l'esame non mostra la malformazione del feto.
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Se l'autovelox è posizionato sul senso di marcia sbagliato la multa è nulla.
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A chi usufruisce dei permessi per l'allattamento spetta il diritto ai buoni pasto?
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In caso di morte di un cane di razza per errore diagnostico dei medici veterinari non spetta al padrone il risarcimento del danno non patrimoniale.
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Nella valutazione degli interessi, anche economici e patrimoniali, dei minori il giudice può assumere la prova d'ufficio.
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Affido temporaneo di minori: il Giudice deve preferire i nonni.
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Conflitto di competenza tra il Tribunale ordinario ed il Tribunale per i minorenni per l'affidamento condiviso del minore.
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L'obbligo di mantenere il figlio si protrae se risulta ancora dipendente dai genitori.
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Azione di disconoscimento della paternità e diritto al mantenimento del cognome paterno.
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Responsabilità medica: la rivalsa delle strutture sanitarie nei confronti dei sanitari direttamente coinvolti.
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Niente provvedimenti ex art. 709-ter c.p.c. se il figlio rifiuta di vedere il padre per sua scelta.
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Responsabilità del medico specializzando.
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La domanda di addebito della separazione può essere introdotta nella memoria ex art. 709 c.p.c.
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La violenze, le minacce, l'abbandono della casa coniugale e la relazione extra-coniugale non solo non sono giustificati da una presunte gelosia e indifferenza del coniuge, ma determinano l'addebito della separazione.
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Tenore di vita familiare e il nuovo orientamento delle Sezioni Unite.
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Raggiungimento della maggiore età durante il procedimento per la dichiarazione di decadenza della responsabilità genitoriale.
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La bigenitorialità non fa scattare il diritto per ciascun genitore a passare lo stesso tempo con il figlio.
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La Cassazione apre all'adozione di minori anche ai single e alle coppie di fatto.
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Il mancato esame delle risultanze della CTU può essere fatto valere nel giudizio di Cassazione.
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Affido condiviso del cane a settimane alterne anche per il benessere dell'animale stesso.
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Assegno alla ex moglie se le foto del detective non sono idonee a dimostrare una stabile convivenza con il nuovo compagno.
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Sale l'assegno in favore dei figli se viene a mancare il nonno che contribuiva al mantenimento.
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Revoca dell'assegnazione della casa coniugale qualora la figlia del genitore collocatario si trasferisce.
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E' reato non versare l'assegno di mantenimento al figlio anche se nato fuori dal matrimonio.
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Il marito non versa integralmente il mantenimento alla moglie rischia la condanna per la violazione degli obblighi di assistenza familiare.
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Opposizione a precetto relativo a credito per assegno di mantenimento fissato in sede di separazione.
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L'attribuzione giudiziale del cognome al figlio naturale riconosciuto non contestualmente dai genitori.
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Squilibrio economico tra le parti e alto livello reddituale dell'ex coniuge
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Comunione legale dei coniugi: espropriazione di un bene comune per crediti personali di uno solo dei coniugi.
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Accertamento dello stato di adottabilità e assistenza legale del minore.
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I figli sfrattano il padre, ma il Tribunale di Roma dichiara in suo favore l'intervenuto acquisto per usucapione dell'immobile.
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Affido esclusivo non può fondarsi solo sulla diagnosi della PAS.
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Educazione religiosa del minore in caso di conflitto tra i genitori.
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Casa familiare al coniuge solo se il figlio maggiorenne convivente dimora stabilmente presso di essa
Con Ordinanza n. 16134/19
del 17 giugno 2019, la Sezione VI Civile della Suprema Corte di Cassazione ha
chiarito che la nozione di convivenza, rilevante ai fini dell’assegnazione
della casa familiare ex art. 337 sexies c.c., implica la stabile dimora del
figlio maggiorenne presso di essa.
Il requisito di “stabile dimora”, afferma la Corte, non impedisce che il figlio
maggiorenne si allontani sporadicamente e per brevi periodi dalla casa
familiare, purché egli vi faccia ritorno appena possibile e vi sia
effettivamente presente per un arco temporale prevalente in relazione a una
determinata unità di tempo (anno, semestre, mese).
Esso è, al contrario, escluso qualora il maggiorenne ritorni all’abitazione
solo raramente, poiché in tal caso sussisterebbe un mero rapporto di
ospitalità, anziché di convivenza.
In altre parole, perché la casa familiare sia e continui ad essere assegnata
deve sussistere un collegamento stabile del figlio con l’abitazione del
genitore.
Nel caso concreto, la Suprema Corte ha confermato il decreto di revoca
dell’assegnazione della casa coniugale sulla base dei rientri per pochi giorni della
figlia - iscritta all’università in un’altra città - durante le sole vacanze
natalizie, pasquali ed estive.
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Al minore deve essere garantito il mantenimento dei legami affettivi con il “genitore sociale”.
La sentenza n.
506/2019 del Tribunale di Como affronta un tema delicato come quello del
“genitore sociale”. Nello specifico, il caso vede coinvolti una
bambina in minore età, la madre biologica e il “padre sociale”.
La decisione in
argomento si segnala perché il “genitore sociale” viene addirittura
privilegiato a quello biologico nella scelta del collocamento. Avendo le
consulenze, espletate in corso di causa, rivelato delle fragilità psichiche
della signora e adeguate risorse genitoriali per il marito, il Tribunale ha
infatti affidato la bimba ai servizi sociali disponendo che abiti con il papà,
ciò con l’obiettivo di “tutelare il legame da lui positivamente instaurato
con la piccola, legame consolidato nel tempo che ha per così dire compensato le
carenze dell’altro genitore, assicurando alla minore (collocata presso di lui
sin dal 2014) benessere psicologico e serenità nel suo percorso di crescita; né
costituisce valore di rilevanza costituzionale assoluta la preminenza della
verità biologica rispetto allo status di figlio (cfr. Cass. 5653/12)”.
L’ultimo aspetto di
interesse, oltre che un po’ sorprendente, è che al genitore sociale è fatto
obbligo di mantenere direttamente la bimba, mentre alla madre soltanto di
concorrere al 50% delle spese di cura, istruzione ed educazione.
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Suicidio assistito: la Consulta ritiene non punibile chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio.
Ha fatto molto discutere la sentenza del
24.9.2019 della Consulta con la quale “La Corte ha ritenuto non punibile ai
sensi dell’articolo 580 del codice penale, a determinate condizioni, chi
agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente
formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e
affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e
psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere
decisioni libere e consapevoli”.
La Corte subordina la possibilità di ricorrere
alla “morte a comando” “al rispetto delle modalità previste sul consenso
informato, sulle cure palliative e sulla sedazione profonda continua”, nonché
“alla verifica sia delle condizioni richieste che delle modalità di esecuzione
da parte di una struttura pubblica del Servizio sanitario nazionale, sentito il
parere del comitato etico territorialmente competente”.
Queste ultime condizioni, precisa la Consulta,
si sono rese necessarie “per evitare rischi di abuso nei confronti di persone
specialmente vulnerabili, come già sottolineato nell’ordinanza 207 del 2018”.
Pur ormai con questi vincoli, la Corte continua ad auspicare “un indispensabile
intervento del legislatore”.
Immancabili, vista la
delicatezza del tema, le reazioni alla predetta sentenza, che non accennano ad
attenuarsi. Secondo la Conferenza episcopale italiana “Si può e si deve respingere la tentazione - indotta anche da mutamenti
legislativi – di usare la medicina per assecondare una possibile volontà di
morte del malato, fornendo assistenza al suicidio o causandone direttamente la
morte con l’eutanasia”.
Di parere contrario rispetto alla Conferenza episcopale italiana è invece Marco Cappato, il tesoriere
dell’associazione radicale Luca Coscioni che aveva dato vita al procedimento,
il quale, nel febbraio del 2017, aveva accompagnato in una clinica svizzera che
eroga il suicidio assistito Fabiano Antoniani, cieco e tetraplegico a seguito
di un incidente stradale. Ed era stato sempre lui, una volta ritornato a
Milano, ad autodenunciarsi ai Carabinieri per creare il caso giuridico e
mediatico. “Ora siamo tutti più liberi”, è il suo commento a caldo.
Forti perplessità
anche tra i medici. Il presidente della Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli
odontoiatri (Fnomceo), Filippo
Anelli, dichiara "Quello che chiediamo ora al Legislatore è che chi
dovesse essere chiamato ad avviare formalmente la procedura del suicidio
assistito, essendone responsabile, sia un pubblico ufficiale rappresentante
dello Stato e non un medico".
Secondo la Senatrice Binetti, poi, "Il rischio è che una narrazione
molto giocata sui casi pietosi, che meritano tutta la nostra sensibilità,
diventerà una prassi che servirà a inaugurare un'epoca in cui sarà possibile
aggirare i criteri dettati dalla Corte".
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Responsabilità medica: la ragionevole, umana certezza.
La Corte di Cassazione
nella sentenza numero 37767/2019 ribadisce le modalità attraverso le quali
svolgere l’accertamento di nesso causale tra il danno lamentato da un paziente
e il comportamento del medico: la regola di giudizio da seguire è quella della
ragionevole, umana certezza. Ricordiamo i due parametri per procedere
all’accertamento: 1- la probabilità statistica e 2-le contingenze nel caso
concreto. La condanna, quindi, può essere pronunciata solo se "il dato
probatorio acquisito lasci fuori soltanto eventualità che, pur astrattamente
formulabili e prospettabili come possibili in rerum natura, siano remote".
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Responsabilità medica: grava sulla clinica l’onere di provare la colpa del medico.
La Corte di Cassazione,
nella recentissima sentenza numero 24167/2019, afferma che la clinica convenuta
in giudizio da un paziente per risarcimento del danno, ed essendo responsabile
in solido con il medico di cui intende far valere la responsabilità, ha l’onere
di provare che quanto accaduto, sia riconducibile esclusivamente all’imperizia
del sanitario. Il caso prevedeva l’azione di regresso di una clinica nei
confronti di un medico chirurgo, e la Corte D’Appello aveva posto in capo al
sanitario di provare la corresponsabilità della clinica, violando così il
principio dell’onere della prova.
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E’ nullo il licenziamento ritorsivo per la prolungata assenza del lavoratore per malattia.
La Corte di Cassazione
sez. Lav. Con sentenza n. 23583 del 23 settembre 2019 ha stabilito che è nullo
il licenziamento intimato per ritorsione al lavoratore che si sia assentato per
un lungo periodo, ma occorre che l’intento ritorsivo datoriale abbia avuto
efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di
lavoro dovendosi escludere altri fattori idonei a giustificare il
licenziamento.
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Responsabilità indiretta dell’imprese di assicurazioni.
La Corte di Cassazione,
sez. III, con sentenza n. 23973 del 26 settembre 2019 ha sostenuto che la
responsabilità indiretta dell’impresa di assicurazioni per l’atto illecito del
sub-agente ricorre quando il suo inserimento nell’impresa abbia agevolato o
reso possibile tale attività e sia stata realizzata nell’ambito e coerentemente
alle finalità dell’incarico conferito, in modo da far ritenere al terzo in
buona fede che l’attività posta in essere per la consumazione dell’illecito,
rientrasse nell’incarico affidato alla società mandante.
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Ricettazione compatibile con la causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di cronaca
La Corte di Cassazione
con sentenza 17 settembre 2019, n. 38277 ha affermato che la causa di
giustificazione di cui all’art 51 c.p. è compatibile con il diritto di ricettazione,
accogliendo la tesi difensiva secondo cui erroneamente i giudici di merito non
avevano riconosciuto la causa di giustificazione dell’esercizio di un diritto
di due giornalisti, ritenuti colpevoli del reato di ricettazione di un CD rom
contenente telefonate illecitamente registrate ed utilizzate per un servizio
giornalistico, nonostante l'unico fine fosse la pubblicazione di un articolo.
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Separazione e assegno di mantenimento: l’apprezzamento di fatti e prove è sottratto al sindacato di legittimità.
La Cassazione civile con
ordinanza del 26 settembre 2019 n. 23999 ribadisce che la deduzione di un vizio
di motivazione della sentenza impugnata con ricorso in Cassazione conferisce al
giudice di legittimità la sola facoltà di controllo circa la correttezza
giuridica e la coerenza logico-formale, non il potere di riesaminare l’intera
vicenda processuale sottoposta al suo vaglio.
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La risoluzione è l'unico strumento con il quale i creditori possono liberarsi di tutti gli effetti prodotti dal concordato.
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Il patto di compensazione è opponibile indipendentemente dal fatto che il debito dell'istituto di credito sia divenuto liquido ed esigibile dopo la domanda di concordato.
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La prededuzione dei crediti opera anche tra procedure concorsuali consecutive.
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IVA: data a decorrere dalla quale si può emettere la nota di credito in presenza di un concordato preventivo con continuità aziendale.
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Non riconosciuta la deducibilità degli oneri se il contribuente non provvede a trasmettere la dichiarazione di esecuzione delle opere con attestazione del loro costo.
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Il ritardo del conduttore nella riconsegna della cosa locata legittima soltanto la condanna generica al risarcimento del danno da occupazione.
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In caso di pluralità di locatori il singolo può agire al fine di ottenere il rilascio dell'immobile.
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Il pignoramento delle quote di proprietà dell'immobile determina l'automatica cessazione di efficacia del contratto di locazione.
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Anche il condomino danneggiato dalle infiltrazioni d'acqua paga pro quota i lavori di riparazione.
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Sequestro dei beni intestati a persona estranea al reato.
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Conferimento d'azienda e successiva cessione totalitaria delle partecipazioni.
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Il diritto di difesa dei genitori nel procedimento di dichiarazione di stato di adottabilità verso le relazioni degli assistenti sociali.
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Sequestro preventivo annullabile solo in caso di sgravio dell'Amministrazione finanziaria
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Il procedimento di adottabilità in cui il minore non sia assistito da un legale è nullo.
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Il diritto di impugnazione della delibera assembleare del rappresentante comune.
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Coppie coniugate e coppie conviventi sono equiparate anche nel caso del ricongiungimento familiare.
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Domanda di scioglimento dell'unione civile e mancato invio della raccomandata e della formale dichiarazione innanzi all'Ufficiale dello Stato Civile.
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La formazione di una famiglia di fatto.
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Il rifiuto della moglie ad intrattenere rapporti intimi con il marito e l'addebito della separazione.
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Linea guida per l'assegno di divorzio.
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IL RISARCIMENTO DEL DANNO DA DIFFAMAZIONE.
Il nostro codice penale parla di “diffamazione”
all’art 595, dicendo che per diffamazione si intende una condotta che mira ad
offendere l’altrui reputazione, bene giuridico tutelato dal nostro ordinamento.
Il reato di ingiuria prevede sempre l’offesa alla reputazione di qualcuno ma,
al contrario della diffamazione, vi è una minore offensività del fatto poiché
la persona offesa è presente e quindi può difendersi. L’insulto della
diffamazione invece è molto più subdolo poiché si consuma in assenza della
persona offesa, pertanto la pena sarà maggiore.
La “Diffamazione a mezzo stampa” ex art 595.3 c.p.
costituisce la forma aggravata del reato di diffamazione, tenendo conto della
notevole diffusività del mezzo, l’offesa è condotta a un numero indeterminato
di soggetti, la norma prende in considerazione la stampa periodica (giornali,
settimanali ecc), quella non periodica (libri ecc.) e quella clandestina.
Ma al reato di diffamazione a mezzo stampa, si accosta
il “diritto di cronaca e di critica” sancito dall’art 21 della Costituzione. La
Sentenza n.5259/1984 della Corte di Cassazione “Il decalogo del giornalista”
disciplina l’esercizio di questo diritto rispettando nel contempo il bene
giuridico della reputazione. Infatti, affinchè il diritto di cronaca non
integri il reato di diffamazione occorrono tre condizioni:
1) la verità della notizia pubblicata= i
fatti come sono accaduti e i fatti come sono narrati.
2) l’interesse pubblico alla conoscenza del fatto (c.d. pertinenza) =
impone che notizie e fatti riportati abbiano un concreto interesse per
l’opinione pubblica, non necessariamente intesa nella sua totalità.
3) la correttezza formale nella esposizione (c.d. continenza) = consiste
nella forma civile dell’esposizione dei fatti e della loro valutazione, cioè
non eccedente rispetto allo scopo informativo da conseguire.
Come agire in caso di lesione da diffamazione?
Dopo la sentenza sopracitata è stato riconosciuto ai
soggetti diffamati il diritto di tutelare la propria reputazione in sede civile
senza necessità di attivare l’azione penale. Il soggetto offeso ha il diritto al risarcimento del
danno, a prescindere dalla circostanza che il fatto lesivo integri o meno un
reato, poiché ai fini risarcitori è del tutto irrilevante che il fatto sia
stato commesso con dolo o con colpa. La condotta in questo caso integrerà
l’illecito civilistico di cui. all’art. 2043 c.c e quindi si
risolverà in un’attività che ha causato un danno ingiusto: bisogna specificare
però che costituisce illecito civile ove la lesione del diritto all’identità
personale avviene mediante distorsione dell’effettiva identità personale o
alterazione, travisamento, offuscamento del patrimonio intellettuale, politico,
sociale, religioso, ideologico, professionale, mentre si ritiene sussistente
il reato di diffamazione ex art 595 c.p. quando,
invece, alla lesione si pervenga mediante offesa alla reputazione.
Liquidazione del danno.
L’Osservatorio sulla Giustizia Civile di Milano, ha
pubblicato, i criteri orientativi per la liquidazione del
danno che sono:
-la notorietà
del diffamante, carica pubblica o ruolo
istituzionale o professionale ricoperto dal diffamato;
-la natura della
condotta diffamatoria condotte reiterate, intensità
dell’elemento psicologico in capo all’autore della diffamazione (se
vi sia animus diffamandi, se il dolo sia eventuale);
-il mezzo con cui è stata perpetrata
la diffamazione e relativa diffusione, eventualmente
anche con edizione on line del giornale
-la risonanza mediatica suscitata
dalle notizie diffamatorie imputabile al diffamante(es.
falso scoop con la consapevolezza di avvio di campagna stampa diffamatoria,
ovvero notizia data ad agenzia tipo Ansa che la diffonde universalmente),
natura ed entità delle conseguenze sull’attività professionale e sulla
vita del diffamato, se siano evidenziati profili concreti di danno o meno,
reputazione già compromessa (es. ampio coinvolgimento in procedimento
penale), limitata riconoscibilità del diffamato (es. foto di spalle,
mancata indicazione del nome), ampio lasso temporale tra fatto e domanda
giudiziale, rettifica successiva e/o spazio dato a dichiarazioni
correttive del diffamato o rifiuto degli stessi, pubblicazione della
sentenza.
L’Osservatorio sulla Giustizia Civile di Milano ha in
sostanza, individuato, cinque tipologie di diffamazione a cui ha
parametrato la liquidazione equitativa del danno:
·
Diffamazione di tenue gravità,
con un danno liquidabile nell’importo da euro 1.000,00 ad euro 10.000,00:
la diffamazione di tenue gravità si ha in presenza dei seguenti elementi:
limitata/assente notorietà del diffamante, tenuità dell’offesa considerata nel
contesto fattuale di riferimento, minima/limitata diffusione del mezzo
diffamatorio, minimo/limitato spazio della notizia diffamatoria, assente
risonanza mediatica, tenue intensità elemento soggettivo, intervento
riparatorio/rettifica del convenuto.
·
Diffamazione di modesta gravità,
con danno liquidabile da euro 11.000,00 ad euro 20.000,00. La
diffamazione di modesta gravità, ricorre in presenza dei seguenti elementi: limitata
notorietà del diffamante, limitata diffusione del mezzo diffamatorio, modesto
spazio della notizia diffamatoria.
·
Diffamazione di media gravità,
con danno liquidabile da euro 21.000,00 ad euro 30.000,00. La
diffamazione di media gravità, ricorre in presenza dei seguenti elementi: media
notorietà del diffamante, significativa gravità delle offese attribuite al
diffamato sul piano personale/professionale, uno o più episodi diffamatori,
media/significativa diffusione del mezzo diffamatorio, eventuale pregiudizio al
diffamato sotto il profilo personale e professionale, natura eventuale del
dolo.
·
Diffamazione di elevata gravità,
con danno liquidabile da euro 31.000,00 ad euro 50.000,00.La diffamazione
di elevata gravità, elevata notorietà del diffamante, ricorre in presenza dei
seguenti elementi: uno o più episodi diffamatori di ampia diffusione
(diffusione su quotidiano/trasmissione a diffusione nazionale), notevole
gravità del discredito e eventuale rilevanza penale/disciplinare dei fatti
attribuiti al diffamato, eventuale utilizzo di espressioni
dequalificanti/denigratorie/ingiuriose, elevato pregiudizio al diffamato sotto
il profilo personale, professionale e istituzionale, risonanza mediatica della
notizia diffamatoria, elevata intensità elemento soggettivo.
·
Diffamazioni di eccezionale gravità,
con un danno liquidabile in importo superiore ad euro 50.000,00.
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LE QUOTE DI PROPRIETÀ DI UN IMMOBILE SOTTOPOSTE A PIGNORAMENTO DETERMINANO LA CESSAZIONE DEL CONTRATTO DI LOCAZIONE
La Corte
di Cassazione con sentenza del 19.07.2019 n 19522 ha precisato che la volontà
comune dei comproprietari locatori, si sarebbe dovuta necessariamente formare
previa autorizzazione del giudice dell'esecuzione per consentirne l’eventuale
rinnovazione in caso di pignoramento di alcune quote di proprietà
dell’immobile.
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DEQUALIFICAZIONE PROFESSIONALE DEL LAVORATORE E VALUTAZIONE EQUITATIVA DEL DANNO
La Corte
di Cassazione in una recente ordinanza n.16595 20.6.2019, cassando con rinvio
la pronuncia impugnata, ha ribadito che in sede di determinazione del danno da
dequalificazione professionale del lavoratore, i criteri di valutazione
equitativa, scelti dal giudice, devono consentire una valutazione adeguata e
proporzionata, in modo tale da ristorare il pregiudizio effettivamente subito
dal danneggiato.
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LA MAGGIORE ETÀ DELL’ADOTTANDO
Se durante
il procedimento per l’adottabilità l’adottando raggiunge la maggiore età, il
processo si estingue per cessazione della materia del contendere perché il
risultato del procedimento non è più conseguibile.
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LEGITTIMAZIONE AL RISARCIMENTO DEL DANNO
L’art. 82
GDPR dispone che il risarcimento del danno riguardi i danni
"materiali e immateriali",ricalcando la formulazione inglese
“material or non-material damage” e richiamando il concetto di “danno
patrimoniale” e “danno non patrimoniale”. Questo articolo prevede che il
legittimato passivo sia in primo luogo il titolare del trattamento coinvolto
nelle operazioni di trattamento, ma l’elemento innovativo concerne il
riconoscimento della legittimazione passiva anche in capo al responsabile del
trattamento. Bisogna specificare però che il responsabile è tenuto al
risarcimento quando: 1) ha agito in modo difforme o contrario alle istruzioni
impartite dal titolare del trattamento violando l’obbligo contrattuale, 2)
quando il titolare ha violato gli obblighi posti a suo carico dal GDPR.
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Le quote di proprietà di un immobile sottoposte a pignoramento determinano la cessazione del contratto di locazione.
La Corte di Cassazione
con sentenza del 19.07.2019 n 19522 ha precisato che la volontà comune dei
comproprietari locatori, si sarebbe dovuta necessariamente formare previa
autorizzazione del giudice dell'esecuzione per consentirne l’eventuale
rinnovazione in caso di pignoramento di alcune quote di proprietà
dell’immobile.
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Dequalificazione professionale del lavoratore e valutazione equitativa del danno.
La Corte di Cassazione in
una recente ordinanza n.16595 20.6.2019, cassando con rinvio la pronuncia
impugnata, ha ribadito che in sede di determinazione del danno da
dequalificazione professionale del lavoratore, i criteri di valutazione
equitativa, scelti dal giudice, devono consentire una valutazione adeguata e
proporzionata, in modo tale da ristorare il pregiudizio effettivamente subito
dal danneggiato.
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Assegno divorzile: pur in presenza di un evidente divario economico tra i coniugi non sussiste il diritto all’assegno qualora tale disparità non possa essere ricondotta ad alcun apprezzabile sacrificio compiuto dalla richiedente durante la vita matrimonia
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Alienazione parentale.
L’alienazione
parentale (anche detta Sindrome da alienazione parentale PAS) secondo il Dott.
Richard Gardner, è il risultato di una programmazione dei figli da parte di uno
dei due genitori (genitore alienante) che porta i figli a rappresentare un
rifiuto nei confronti dell’altro genitore (genitore alienato). È una dinamica
psicologica disfunzionale che si manifesta nei figli minori durante le
separazioni dei genitori caratterizzate da conflittualità, ed è inoltre un
concetto molto usato nei contenziosi legali di separazione. Questa condotta ha
lo scopo di lacerare il rapporto con l’altro genitore, facendo leva sulla
limitata capacità di discernimento del minore, ed è in netto contrasto con
l’art 337 ter c.c. che così recita “Il figlio minore ha il diritto di mantenere
un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere
cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare
rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo
genitoriale (…) La responsabilità genitoriale è esercitata da entrambi i
genitori. Le decisioni di maggiore interesse per i figli relative
all'istruzione, all'educazione, alla salute e alla scelta della residenza
abituale del minore sono assunte di comune accordo tenendo conto delle
capacità, dell'inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli.”
L’alienazione parentale però è compiuta anche attraverso la strumentalizzazione
del diniego del figlio e la costruzione di “realtà virtuali familiari”. Tale
condotta ostruzionistica protratta conduce a recidere il rapporto con l’altra
figura genitoriale, la cui presenza è fondamentale per la crescita ed
educazione del minore. Sia la figura materna che quella paterna possono
rappresentare il “genitore alienante” ma l’Avvenire in un articolo dell’anno
2017 sostiene come nel 90 per cento dei casi siano i padri a subire
l’alienazione da parte delle madri. Al momento della separazione genitoriale si
tende ad affidare i figli ad entrambi i genitori, si parla infatti di
bigenitorialità, introdotta con L. n. 54/2006, che prevede il mantenimento
economico e morale del figlio da parte di entrambi i genitori. Il genitore
alienante può incorrere in varie conseguenze giuridiche se disattende i
provvedimenti definiti dall’autorità giudicante: infatti vi è la possibilità
che vengano modificate le condizioni riguardanti il collocamento del figlio e
nei casi più gravi può essere disposto l’affidamento esclusivo presso il
genitore alienato e il risarcimento del danno subito. Inoltre il genitore
alienante può essere condannato ai sensi dell’art 388, 2 c.p. per mancata
esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice e ai sensi dell’art 572 c.p.
per maltrattamenti contro familiari o conviventi.
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In fase di attuazione di un piano urbanistico, il vicino può fare ricorso per bloccare i lavori..
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La figura dell'Avvocato Istruttore.
La
figura dell’Avvocato Istruttore è una novità che potrebbe avere un effetto
incisivo nel processo civile infatti è deputato a raccogliere confessioni e
dichiarazioni in fase di negoziazione assistito, con la possibilità di
utilizzare tali mezzi di prova nel successivo giudizio. È una figura volta ad
alleggerire il carico di lavoro del giudice ma non è apprezzato
dall’Associazione nazionale magistrati poiché si vedrebbero privati di questo
compito. L’Anm infatti sostiene che l'attività di ammissione ed espletamento
dei mezzi di prova è ineliminabile infatti è una parte dell'attività
giurisdizionale che ha ad oggetto l'accertamento dei fatti che concorrono alla
decisione e che, pertanto, devono poter essere governati dal giudice terzo ed
imparziale sin dalla loro preliminare selezione in punto di ammissibilità e
rilevanza.
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Il coniuge superstite non ha diritto di abitazione se separato.
L’art.
540, comma 2, sancisce che “al coniuge del defunto sia riservato il diritto di
abitazione sulla casa adibita a residenza familiare, nonché quello di uso sui
mobili che la corredano, se di proprietà del defunto o comuni.” Ma la Corte di
Cassazione, seconda sezione civile, nell’ordinanza n. 15277/ 2019 ha ritenuto questo
diritto non spettante al coniuge superstite qualora sia precedentemente
intervenuta una separazione legale dal de cuius: infatti non vi è un’effettiva
esistenza, al momento dell'apertura della successione, di una casa adibita ad
abitazione familiare, evenienza che non ricorre allorché sia cessato lo stato
di convivenza tra i coniugi dopo la separazione.
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Principio di continuità affettiva.
La
Corte Costituzionale con ordinanza n. 4524/ 2019 ha stabilito che non è
impugnabile con ricorso in Cassazione, il provvedimento tramite il quale il
Tribunale per i Minorenni regolamenta gli incontri tra gli affidatari e i
minori adottandi abbinati ad altra coppia in violazione del principio di
continuità affettiva. Questo principio
infatti pone al centro il minore e il rapporto affettivo continuato e stabile
nel tempo è un bene prezioso che il legislatore non può non tutelare.
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Art 2477 c.c. in tema di SRL
L’art
2477 modificato ex art. 2-bis, D.L.18 aprile 2019, n. 32, convertito in L. 14
giugno 2019, n. 55, dice che la nomina dell’organo di controllo o del revisore
è obbligatoria se la società:
a) è tenuta alla redazione del
bilancio consolidato;
b) controlla una società obbligata alla revisione
legale dei conti;
c) ha superato per due esercizi
consecutivi almeno uno dei seguenti limiti: 1) totale dell'attivo dello stato
patrimoniale: 4 milioni di euro; 2) ricavi delle vendite e delle prestazioni: 4
milioni di euro; 3) dipendenti occupati in media durante l'esercizio: 20 unità.
L'obbligo
di nomina dell'organo di controllo o del revisore di cui alla lettera c) del
secondo comma cessa quando, per tre esercizi consecutivi, non è superato alcuno
dei predetti limiti.
L'assemblea
che approva il bilancio in cui vengono superati i limiti su indicati deve
provvedere, entro trenta giorni, alla nomina dell'organo di controllo o del revisore.
Se l'assemblea non provvede, alla nomina provvede il Tribunale su richiesta di
qualsiasi soggetto interessato o su segnalazione del conservatore del registro
delle imprese.
Si
applicano le disposizioni dell'art. 2409 c.c. (denunzia al Tribunale) anche se
la società è priva di organo di controllo.
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Separazioni e divorzi: agevolazioni e esenzioni fiscali.
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Gli atti di nascita formati all'estero di minori nati da surrogacy non sono trascrivibili nel nostro ordinamento.
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È legittima l'assegnazione della casa familiare nella quale la famiglia non vi abbia abitato in precedenza.
19/06/19
E' ammissibile la prova per testimoni per dimostrare l'esistenza di un testamento smarrito?
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E' ammissibile la prova per testimoni per dimostrare l'esistenza di un testamento smarrito?
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Fornitura di gas interrotta. L'amministratore è responsabile se non agisce contro i condomini morosi.
Non basta la morosità di alcuni condomini per escludere la responsabilità dell'amministratore verso il condominio in caso di interruzione della fornitura di gas condominiale. L'amministratore, per andare esente da responsabilità, deve, infatti, dimostrare la mancanza in cassa del denaro per corrispondere quanto dovuto all'azienda fornitrice del gas e di essersi attivato tempestivamente, anche per via giudiziale, per il recupero degli oneri condominiali non pagate, in base ai poteri che la legge gli conferisce.
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Responsabilità civile derivante da sinistro stradale: quando il conducente è persona diversa dal proprietario del veicolo.
A norma dell’art. 2054 c.c. “Il conducente di un veicolo senza guida di rotaie è obbligato a risarcire il danno prodotto a persone o a cose dalla circolazione del veicolo se non prova di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno.”. Il terzo comma dell’articolo citato prevede poi che “Il proprietario del veicolo (..) è responsabile in solido col conducente, se non prova che la circolazione del veicolo è avvenuta contro la sua volontà.” Dunque la responsabilità civile derivante da sinistro stradale prevede l’obbligo di risarcire il danno prodotto a persona o cosa dalla circolazione del veicolo, ad eccezione che non si provi di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno. La norma prosegue definendo la responsabilità del conducente e del proprietario del veicolo come solidale, salvo che quest’ultimo dimostri che la circolazione sia accaduta senza il suo consenso. Invero, per escludere la responsabilità solidale del proprietario, è necessario che lo stesso dimostri che la circolazione sia avvenuta contro la sua volontà. In particolare, non è sufficiente dimostrare che la condotta sia avvenuta semplicemente a sua insaputa. “Tale volontà contraria deve desumersi da un concreto ed idoneo comportamento ostativo, specificamente inteso a vietare ed impedire la circolazione del veicolo ed estrinsecatosi in atti e fatti rivelatori della diligenza e delle cautele allo scopo adottate”[1] [2]. A tal proposito al proprietario che non voglia incorrere nella responsabilità da sinistro stradale condotto da terzo, è richiesto l’utilizzo di alcune misure in grado di prevenire ed impedire concretamente la circolazione del veicolo a terzi quale ad esempio l’attenta custodia delle chiavi. La Suprema Corte, chiamata a pronunciarsi su di un caso analogo a quello descritto, ha ritenuto non potersi escludere la responsabilità del proprietario in solido con il conducente, poichè il proprietario dell’autovettura custodiva le chiavi in luogo noto e pertanto accessibile a tutti[3].
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L'assegno divorzile nella nuova sentenza del 23 Aprile 2019 n. 11178 della Corte di Cassazione.
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L'audizione del minore nei procedimenti di famiglia secondo Giuseppe Buffone (Magistrato).
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Assegno di divorzio all'ex secondo equità.
La Corte di Cassazione, prima sezione civile, con la sentenza n. 13415/2019 ha respinto il ricorso della ex moglie che aveva contestato l'ammontare dell'assegno come fissato dal giudice di merito. In particolare, l'assegno era stato determinato dalla Corte territoriale in via equitativa in ragione di una serie di parametri, ovvero: del disequilibrio dei redditi delle parti e dell'incapacità della donna, coniuge più debole, di continuare a godere del tenore di vita su cui si fondava l'unione matrimoniale; della percezione da parte della ricorrente di una retribuzione mensile di 700 euro; della cessazione del godimento della ex casa familiare; dell'eta dei coniugi; della durata del matrimonio e del contributo dato della richiedente alla famiglia.
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Niente mantenimento se la ex è giovane e il matrimonio dura poco.
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L'infedeltà e l'abbandono del tetto coniugale non sono sufficienti a far scattare l'addebito se il partner che lo richiede non dimostra che hanno determinato la crisi di coppia.
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L'ex perde l'assegnazione della casa familiare se la figlia torna solo nel weekend.
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Tribunale di Rieti: divieto alla nuova partner di un padre divorziato di condividere sui social network le foto dei figli di quest’ultimo senza il consenso dei genitori.
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Responsabilità medica: la Cassazione affronta il tema della prova del danneggiato e del danneggiante.
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Contratto di locazione: valida la clausola con cui il conduttore si obbliga a farsi carico di ogni tassa, imposta ed onore.
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Parental sharing: giurisprudenza in tema di suddivisione paritetica della frequentazione tra genitori separati e figli minori.
In tema di separazione e divorzi, è sempre più voga il
termine “parental sharing”, ovverosia
suddivisione paritetica della frequentazione tra genitori separati e figli
minori, in luogo del collocamento prevalente presso il padre o presso la madre.
Di recente il Tribunale di Catanzaro ha avuto modo di
trattare, in modo articolato, la questione, dapprima esaminando i provvedimenti
in tema di collocamento paritario dei minori e la lettura scientifica
sull’argomento e poi ripercorrendo il percorso della legislazione e della
giurisprudenza in materia.
In particolare, il Decreto n.443/2019 ha dato atto che
la giurisprudenza italiana dell’ultimo decennio ha preferito la formula
dell’affido condiviso della prole, ma con una tendenza a prevedere il
collocamento prevalente presso uno dei due genitori, in barba alla riforma
apportata dalla L. n.56/2006. A fronte di una shared legal custody, quindi, permane – di fatto - una sole physical custody.
Concludendo, il Tribunale di Catanzaro afferma che il collocamento dei figli presso entrambi i genitori con tempi paritetici è preferibile laddove ve ne siano le condizioni di fattibilità, tenendo sempre in considerazione le caratteristiche del caso concreto.
Indietro<!--#4DTEXT ad_dataCreazioneL{al_IDArticolo}--> : Undefined
Assegno di divorzio: dietrofront della Cassazione che ritorna al principio del “tenore di vita”
Con l’ordinanza n. 4523 del 14 febbraio 2019 la Prima sezione della Corte di Cassazione ha stabilito che ai fini della determinazione dell’assegno di divorzio in favore dell’ex moglie deve applicarsi il principio del “tenore di vita goduto in costanza di matrimonio”.
Con questa ordinanza, infatti, la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza della Corte di Appello di Catania che a sua volta aveva confermato la sentenza di primo grado in cui era stato liquidato un assegno di divorzio in favore della moglie guardano alle concrete condizioni personali della resistente che si trovava alla soglia dei sessanta anni, priva di attività lavorativa e di possibili prospettive lavorative future visto l’attuale mercato del lavoro e sprovvista altre fonti di reddito.
Con tale pronuncia la Cassazione si distanzia dalla nota sentenza 11504 del 2017 in cui aveva abbracciato il principio secondo cui l’assegno di divorzio deve prescindere dal tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.
Indietro<!--#4DTEXT ad_dataCreazioneL{al_IDArticolo}--> : Undefined
Anche in caso di convivenza more uxorio si deve applicare l’azione di arricchimento dell’art. 2041 cc.
Con l’ordinanza n. 4659 del 15 febbraio 2019 la Sesta Sezione della Corte di Cassazione ha confermato la sentenza della Corte di Appello di Torino che aveva condannato un uomo alla restituzione della somma di € 25.000,00 che la ex convivente aveva investito in un immobile intestato al solo convenuto e costruito con il notevole contributo economico dell’attrice.
In tale ordinanza si richiamano espressamente altri precedenti giurisprudenziali che già avevano chiarito che si configura “l’ingiustizia dell’arricchimento da parte di un convivente “more uxorio” nei confronti dell’altro in presenza di prestazioni a vantaggio del primo esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza - il cui contenuto va parametrato sulle condizioni sociali e patrimoniali dei componenti della famiglia di fatto - e travalicanti i limiti di proporzionalità e di adeguatezza (Cass. n. 11330/2009; cfr. anche Cass. n. 1277/2014 e Cass. n. 14732/2018)”.
Indietro<!--#4DTEXT ad_dataCreazioneL{al_IDArticolo}--> : Undefined
I potenziali incrementi di reddito incidono anche sulla somma di mantenimento per i figli
Con l’ordinanza n. 5449 del 25 febbraio 2019 la Sesta sezione della Corte di Cassazione ha nuovamente confermato che l’incremento dei redditi di un professionista genitore non affidatario consente una rideterminazion dell’assegno di mantenimento in favore della prole.
Infatti, secondo quanto previsto dall’art. 147 c.c., i figli conservano il diritto a mantenere un tenore di vita il più possibile corrispondente a quello vissuto in famiglia prima della separazione o del divorzio.
Il giudice di merito dovrà quindi prima analizzare le risorse che la famiglia ha destinato ai figli e, successivamente, il singolo apporto che ciascun genitore potrà e dovrà fornire ai figli a seguito della separazione o del divorzio.
Indietro<!--#4DTEXT ad_dataCreazioneL{al_IDArticolo}--> : Undefined
Affidamento condiviso dell'animale domestico.
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La volontà della figlia di non incontrare il padre è irrilevante ai fini dell’assegno di mantenimento.
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Illecito (disciplinare) sportivo e reato: dare una testata all’avversario durante la partita di calcetto è reato se il gioco è fermo.
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L'ascolto del minore.
Il
termine ascolto risale al XV secolo: ascoltare, significa: porgere,
prestare, dare attenzione, dare retta. La nozione è il mondo giuridico è nuova
perché l’adempimento era guardato con sospetto in quanto si riteneva che l’audizione
fosse traumatizzante ed eccessivamente responsabilizzante per il minore, che
era considerato per di più inattendibile, in quanto il suo racconto, spesso
alterato da fantasie, può essere condizionato dagli adulti e dalle dinamiche
affettive. Solo le nuove acquisizioni delle scienze umane, trafuse poi in
importanti documenti internazionali, hanno posto l’ascolto tra i bisogni
primari del bambino, anche nei procedimenti giudiziali.
Secondo
i nuovi principi il minore ha ora il diritto di essere informato, per quanto
possibile, di ogni passaggio procedimentale, perché possa rendersi conto di ciò
che accade intorno a lui ed esprimere, entro i suddetti limiti, la sua
opinione, così partecipando alla elaborazione di decisioni che incidono
profondamente sulla sua vita e sulle sue relazioni familiari.
Alcuni
riferimenti alla necessità dell’ascolto del minore erano già presenti nelle
leggi : Convenzione europea sul rimpatrio
dei minori, sottoscritta all’Aja nel 1970; nella Convenzione europea sul riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni
in materia di affidamento dei minori e di ristabilimento dell’affidamento,
Lussemburgo 1980; nella Convenzione sugli
aspetti civili della sottrazione internazionale di minori, Aja 1980.
Ancora, il principio dell’ascolto è stato formalmente introdotto e solennemente
proclamato da alcune importanti convenzioni internazionali: la fondamentale Convenzione ONU di New York del 1989; Convenzione europea sull’esercizio dei
diritti dei fanciulli, Strasburgo 1996; Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione di Nizza del 2000; Carta dei diritti fondamentali della UE,
Strasburgo 2007.
La
legislazione italiana si è progressivamente adeguata al principio
sovranazionale dell’ascolto, fino a recepirlo pienamente con le novelle del
2012 e 2013. Nell’ordinamento italiano
le norme cardini in merito all’ascolto sono gli artt. 315bis c.c. e 336 bis
c.c.
Grande
rilievo sul tema assume la Carta di Noto. Premettendo che si rende necessario
valutare la capacità del minore di elaborare le informazioni, il contesto di
relazioni familiari ed extrafamiliari, con opportuno aiuto di scienze
pedagogiche, psicologiche e sessuologiche al fine di poter parlare di attendibilità.
La
sopra menzionata Carta di Noto, aggiornata nel 2017, espone le linee guida per
l’esame del minore. Il punto 8 di tale Carta riporta: “Durante l’intervista va verificato se il minore ha raccontato in
precedenza i presunti fatti ad altre persone e con quali modalità.”.
Il
punto 14 invece riporta: “In sede di
accertamento dell’idoneità è necessario chiarire e considerare le circostanze e
le modalità attraverso cui il minore ha narrato i fatti a familiari, operatori
sociali, Polizia Giudiziaria ed altri soggetti”.
La
Carta di Noto evidenzia la necessità di analizzare le dichiarazioni rese dal
minore considerando le modalità attraverso le quali il medesimo ha narrato i
fatti ai familiari, alla Polizia Giudiziaria, all’Autorità Giudiziaria e ad altri
soggetti, tenuto conto di sollecitazioni e modalità di racconto, se la
narrazione fosse spontanea o sollecitata e fino a che punto sollecitata da
parte di figure di rilievo come un genitore o un parente, nonché dal contenuto
delle primissime dichiarazioni rilasciate.
Al
punto 18 invece, la Carta di Noto riporta: “Non
esistono segnali psicologici, emotivi e comportamentali validamente assumibili
come rilevatori o “indicatori” di una vittimizzazione. Non è scientificamente
fondato […]”.
Infine
al punto 19: “Non è possibile
diagnosticare un disturbo post-traumatico da stess o un disturbo
dell’adattamento ricavandone l’esistenza dalla sola presenza di sintomi, i
quali potrebbero avere altra origine”.
Possono
influire sulle dichiarazioni dei minori altre circostanze, ovvero:
-
Allarmi generati solo dopo l’emergere di
un’ipotesi di abuso;
-
Fenomeni di suggestione e di “contagio
dichiarativo”;
-
Condizionamenti o manipolazioni anche
involontarie.
Nonostante
il giudice possa trarre il proprio convincimento in ordine alla responsabilità
penale anche unicamente dalle dichiarazioni rese dalla persona offesa, sempre
che sia sottoposta al vaglio positivo la sua attendibilità, senza la necessità
di applicare le regole probatorie di cui all’art. 192 co. 3 e 4, c.p.p., è stato
tuttavia precisato che nel caso di parte offesa dei reati sessuali di età
minore è necessario che l’esame della credibilità sia onnicomprensivo e tenga
conto di più elementi.
Benchè,
il divieto di porre domande suggestive non operi a proposito delle domande
poste dal giudice, non possono comunque essere poste domande nocive, dovendo
essere salvaguardata la genuinità delle dichiarazioni e non compromessa
l’attendibilità della loro fonte. Si deve inoltre tenere conto della
problematicità connessa alla distanza cronologica tra il momento di
verificazione dei fatti e quello in cui le persone offese vengono esaminate,
con il conseguente onere per il giudice di una motivazione rafforzata che dia
conto della inidoneità del distacco temporale ed incidere sull’attendibilità di
tali dichiarazioni, in particolare in presenza di fattori di disturbo o
comunque in grado di alterare il corretto ricordo dei fatti.
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Modificabilità delle condizioni di separazione: i "giustificati motivi".
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Effetti dello scioglimento dell'unione civile.
Un
primo profilo di particolare interesse, attiene alla possibilità di prevedere,
in caso di scioglimento dell’unione civile, un assegno a titolo di contributo
per il mantenimento del partner cd. “debole”, in virtù al principio della cd.
Solidarietà post coniugale. Il comma 25 dell’art. 1 della legge n. 76 del 2016,
si occupa delle possibili conseguenze di natura personale ed economica connesse
alle reciproche aspettative che possano sorgere dopo la fine dell’unione
civile.
Al
partner più debole potrebbe essere
riconosciuto, ove ne ricorrano le condizioni, esclusivamente il diritto agli
alimenti a carico dell’altro, e non anche un più ampio diritto al mantenimento,
oltre all’assegnazione della casa familiare.
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Ipotesi di scioglimento dell'unione civile.
La
prima ipotesi di “scioglimento automatico” dell’unione civile è quella della
morte o dichiarazione di morte presunta di una delle parti, prevista all’art.
1, comma 22, della legge n. 76/2016. Il comma 22 equipara espressamente
all’evento morte la dichiarazione di morte presunta ai fini dello scioglimento
automatico dell’unione civile. Va sottolineato che non si avrà causa di
scioglimento dell’unione civile in caso di scomparsa di una delle parti né in
caso di assenza dichiarata giudizialmente. Affinchè si abbia scioglimento,
occorre che l’assenza segua la dichiarazione di morte presunta dell’assente.
Solo in tale ipotesi, la parte successivamente, potrà contrarre nuova unione
civile o matrimonio, avendo riacquistato il requisito della libertà di stato.
Le
altre ipotesi di “scioglimento automatico dell’unione civile” riprendono la
normativa in materia di divorzio. Ai sensi del comma 23, infatti, l’unione
civile si scioglie anche nei casi previsti dall’art. 3, n. 1 e n.2, lettere a),
c), d9 ed e), della legge n. 898 del 1970.
Il
comma 24 dell’art. 1 disciplina lo scioglimento dell’unione civile per “volontà
dichiarata” manifestata anche disgiuntamente dai suoi componenti. Il comma 24
prevede che gli uniti civilmente possono sciogliere la loro unione solo dopo
che siano trascorsi almeno tre mesi dalla cd. Manifestazione delle volontà di
scioglimento, espressa o dinnanzi all’ufficiale dello stato civile del Comune
di residenza, ovvero del Comune di iscrizione della costituzione dell’unione
civile. Il termine di tre mesi serve per consentire agli uniti di meditare
sulla loro reale volontà di scioglimento dell’unione; sino a quando non sarà
terminato l’iter previsto dalla
normativa, infatti, vi sarà sempre spazio per un ripensamento o una
conciliazione.
In
caso di mancato accordo sullo scioglimento, la parte che intende sciogliere
l’unione lo dovrà preventivamente comunicare all’altra parte, a mezzo lettera
raccomandata con avviso di ricevimento, ovvero con altra forma di comunicazione
parimenti idonea. Solo successivamente a questo adempimento la parte dovrà
recarsi innanzi all’ufficiale di stato civile del comune ove l’unione è stata
costituita per consegnare, da un lato, la prova dell’avvenuta previa
comunicazione e dall’altro, per manifestare nuovamente in tale sede la sua
volontà di procedere allo scioglimento dell’unione.
Al
termine di tale procedura, e decorso un tempo minimo non inferiore a tre mesi,
le parti potranno proporre disgiuntamente domanda di scioglimento utilizzando
una delle seguenti procedure: giudiziale, innanzi al Tribunale ordinario, ai
sensi della legge n. 898 del 1970 sul divorzio; amministrativa, innanzi
all’ufficiale di Stato civile, ai sensi dell’art 12 della legge n. 162 del
2014; con negoziazione assistita dagli avvocati, ai sensi dell’art. 6 della
legge n. 162 del 2014.
Detto
ciò sembra potersi concludere che la dichiarazione di cui al comma 24 abbia
effetti di natura meramente procedimentale e non anche di natura sostanziale.
La mera dichiarazione infatti, non appare idonea a far venir meno il vincolo
dell’unione civile, né la comunione legale tra gli uniti.
Gli
uniti civilmente, possono concordemente e volontariamente concludere un accordo
di scioglimento anche innanzi al Sindaco, quale ufficiale di stato civile del
comune di residenza di uno di loro o del comune presso cui è stata costituita
unione civile. In tal caso l’assistenza di un avvocato sarà meramente
facoltativa. Tale procedura potrà essere utilizzata anche per concludere un
accordo di modifiche delle condizioni di scioglimento dell’unione civile.
Questo accordo non potrà però contenere patti di trasferimento patrimoniale,
sarà invece possibile provvedere in tale sede un assegno di mantenimento a
favore di una delle parti, quando ne ricorrano i presupposti di legge.
L’ufficiale
di stato civile, quindi, in caso di accordo, riceverà da ciascuna delle parti
personalmente la dichiarazione contenente la volontà di scioglimento della
unione civile e provvederà alla relativa trascrizione nei registri dello stato
civile; inoltre, in accordo con le parti, fisserà la data dell’atto e quella
della sottoscrizione della conferma dell’accordo di scioglimento. Il periodo
intercorrente tra le due date, non potrà essere inferiore a 30 giorni, durante
i quali il sindaco dovrà svolgere idonei controlli sulla veridicità delle
dichiarazioni ricevute. Raccolta la conferma dell’atto di scioglimento da parte
degli uniti civilmente, procederà con gli adempimenti previsti dalla legge,
compresa la comunicazione di variazione dello stato civile al comune di
residenza delle parti. Qualora le parti o una di esse non si presenti il giorno
fissato per la conferma dell’accordo di scioglimento, tale comportamento cd
“diritto al ripensamento”, verrà inteso quale mancata conferma dell’accordo e
di tale evento si prenderà atto mediante annotazione nei registri dello stato
civile.
È
necessario precisare che l’accordo di scioglimento concluso dalle parti innanzi
all’ufficiale di stato civile produce gli stessi effetti dei provvedimenti
giudiziali in materia. Nel caso in cui, al contrario, la dichiarazione di cui
all’art. 1 co. 24 della legge n. 76/2016 sia unilaterale il sindaco potrà
procedere con l’iscrizione solo nel caso in cui il dichiarante dia prova di
aver informato l’altra parte della sua volontà di scioglimento mediante lettera
raccomandata a.r., o altra forma di
comunicazione parimenti idonea, inviata all’indirizzo di residenza, o in
mancanza all’ultimo indirizzo noto.
Infine,
nel caso di manifestazione di volontà di entrambi gli uniti ma in forma
disgiunta, ai sensi dell’art 63 d.P.R. n. 396 del 2000, ai fini del computo dei
termini dei tre mesi, decorsi i quali sarà possibile proporre domanda di
scioglimento innanzi al tribunale competente, rileverà la dichiarazione
previamente iscritta in seguito a valida informativa all’altra.
La
volontà unilaterale di scioglimento dell’unione, rappresenta una “nuova”
ipotesi di divorzio, in presenza della quale il giudice potrà solo prenderne
atto, ferme restando le sue competenze ad adottare i provvedimenti susseguenti
necessari.
Altra
modalità per giungere allo scioglimento
dell’unione è l’utilizzo della negoziazione assistita per volontà delle
parti, di cui alla legge n,162 del 2014, nel verbale della quale gli avvocati
sono tenuti a dar atto di aver tentato di conciliare le stesse; in caso di
mancata conciliazione una copia dell’accordo di scioglimento dell’unione -
preventivamente trasmessa al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale
competente il quale, quando non ravvisi la irregolarità, abbia comunicato agli avvocati
delle parti il nulla osta – dovrà essere trasmessa, entro il termine perentorio
di 10 giorni, all’ufficiale dello stato civile del comune davanti al quale era
stata formulata la dichiarazione costitutiva dell’unione, in modo che si
proceda alla relativa annotazione e
trascrizione nei registri dello stato civile. L’accordo raggiunto dalle parti
inseguito a negoziazione assistita, produce gli effetti e tiene luogo dei
provvedimenti giudiziali in materia.
Lo
scioglimento dell’unione civile si può ottenere, anche tramite ricorso
presentato innanzi al Tribunale del luogo in cui si trova l’ultima residenza
comune degli uniti civilmente o, in mancanza, del luogo in cui il partner convenuto ha residenza o
domicilio. La domanda di scioglimento, può essere presentata, con ricorso,
anche disgiuntamente; al ricorso andrà allegata copia autentica della
dichiarazione dio voler sciogliere l’unione civile iscritta nei registri dello
stato civile.
In
caso di domanda proposta da una sola parte nei confronti dell’altra, il ricorso
deve contenere l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali la
domanda è fondata. Il Presidente del Tribunale fisserà con decreto la data di
comparizione delle parti innanzi a sé stesso e durante tale udienza esperirà il
tentativo di conciliazione obbligatorio. Se quest’ultimo non ha esito positivo,
il Presidente pronuncerà con ordinanza i provvedimenti temporanei ed urgenti
che reputa necessari nell’interesse di entrambi i partner, li autorizzerà a vivere separati, nominerà il giudice
istruttore e fisserà l’udienza di comparizione innanzi a quest’ultimo.
Il
processo si conclude con sentenza che scioglie il vincolo dell’unione. La
sentenza costitutiva dello scioglimento produce i suoi effetti con il passaggio
in giudicato e deve essere annotata nei registri dello stato civile
dall’ufficiale del comune in cui l’unione fu trascritta.
Un
particolare caso di scioglimento automatico è presentato dall’art. 1 comma 26,
in base al quale si può avere scioglimento per intervenuta sentenza di
rettificazione di attribuzione di sesso di una delle parti. Il comma 27 invece,
disciplina la cd. Conversione del vincolo matrimoniale in unione civile,
attribuendo ai coniugi la facoltà di optare per la trasformazione del vincolo
giuridico in seguito a rettificazione del sesso di uno di essi. Da come si può
notare, sussiste una disparità di trattamento tra unione civile e matrimonio
dovuta al fatto che mentre i coniugi possono optare per una conversione del
loro rapporto in unione civile nel caso di cambiamento di sesso di uno di essi,
non è prevista l’ipotesi inversa per gli uniti civilmente.
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Lo scioglimento dell'unione civile.
Il
riconoscimento giuridico delle coppie same
sex nel nostro ordinamento ha comportato, l’emersione di un sistema
dualistico che vede, accanto al matrimonio, l’affermazione dell’istituto
dell’unione civile. Inevitabile il raffronto con il matrimonio, che rappresenta
il modello da cui per prossimità o per differenza l’unione civile si taglia,
marcando peculiarmente i suoi contorni.
Molteplici
e significative appaiono le dissonanze tra matrimonio e unione civile con
riferimento alla fase della cessazione della vita comune. Basti pensare che nel
caso di crisi dell’unione non è previsto l’istituto della separazione:
svanisce, la struttura bifasica dello scioglimento del rapporto matrimoniale.
L’unico rimedio previsto per la crisi dell’unione civile è il divorzio.
La
legge n.76/2016, realizza ciò che non si era riusciti a fare con la legge
n.55/2015 sul cd. Divorzio breve.
Importante
è la circostanza in base alla quale l’unione civile si scioglie per “volontà
dichiarata” manifestata anche disgiuntamente. Il procedimento tracciato dal
comma 24, appare particolare, atteso che: la procedura di scioglimento può
avviarsi “decorsi tre mesi dalla data di manifestazione di volontà di
scioglimento dell’unione”. Si materializza una sorta di “divorzio immediato” in
cui non è previsto alcun dovere di motivazione: in particolare, non va dedotta
la intollerabilità della convivenza.
Non
solo “dissonanze” ma anche qualche “assonanza”. A tal proposito, gli effetti
patrimoniali del divorzio delle coppie dello stesso sesso sono gli stessi
previsti dalla legge per coniugi. Pertanto dopo lo scioglimento al partener
spetta l’assegno divorzile, assistito dalle garanzie di legge e modificabile al
sopravvenire di giustificati motivi, la pensione di reversibilità una quota
dell’indennità di fine rapporto.
Anche
in materia di unione civile, la violazione dei doveri di lealtà ed assistenza
morale e materiale potrà comportare un danno ingiusto risarcibile ex artt. 2043
e 2059 c.c. Diversamente dai coniugi, per gli uniti civilmente, la mancata
previsione del dovere di fedeltà, determina l’impossibilità di chiedere un
risarcimento del danno endofamiliare
basato su tale violazione.
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Delitti contro la morale familiare
L’art. 564 c.p. sancisce il delitto di incesto. Fattispecie posta al centro di una grande disputa. Da un lato, vi sono coloro che ne chiedono l’abrogazione o almeno la depenalizzazione, e dall’altro lato, vi è chi la difende quale presidio dell’istruzione familiare nel suo complesso.
Questa fattispecie si trova ad affrontare la sfida della mutata natura del fare famiglia. Non solo per il sentire sociale ma anche per il legislatore: se cambia la famiglia, cambia inevitabilmente anche la morale familiare da preservare quale oggetto di tutela.
La fattispecie in oggetto ha subito gli effetti delle recenti modifiche in tema di diritto di famiglia. Di rilievo nella rinnovata materia civilistica risulta essere il riconoscimento dei figli incestuosi. Dapprima con la legge 10 dicembre 2012, n. 219 e poi con il d. lgs 28 dicembre 2013, n. 154, è, infatti, stato modificato l’art. 251 c.c., con l’obiettivo di rendere la riconoscibilità dei figli nati da rapporti incestuosi non più un’ipotesi, ma la regola generale.
Occorre a questo punto interrogarsi sul rapporto tra riconoscimento del figlio incestuoso e responsabilità penale dei relativi genitori. Il genitore che chiede il riconoscimento del figlio finisce, per auto-accusarsi, esponendosi al rischio di un rimprovero penale, laddove dovesse ritenersi che la dichiarazione resa alle competenti autorità sia sufficiente ad integrare la predetta condizione.
Chi, ritiene che si tratti di elemento costitutivo del reato, non considera sufficiente la conoscenza all’esterno del rapporto, ma richiede che la conoscenza esterna della relazione derivi da un comportamento colpevole dei soggetti coinvolti, così escludendo che il mero riconoscimento, possa determinare l’avverarsi della condizione e quindi il presupposto per l’incriminazione.
Quanto infine, al rapporto tre le fattispecie in esame e le nuove forme di aggregati familiari che si vanno via via sempre più diffondendo nel tessuto sociale, va ricordato come l’incesto sia un esempio di reato proprio, potendo essere commesso solamente dai soggetti indicati in modo tassativo nell’art. 564 c.p.
Ne rimangono, quindi, esclusi tutti i rapporti nascenti dalle famiglie di fatto, sempre che non coinvolgano rapporti diretti di discendenza.
La punibilità dei coniugi protagonisti di una relazione incestuosa è subordinata al verificarsi del cd. Pubblico scandalo. Solo dove la relazione incestuosa sia di pubblico dominio si ritiene giustificabile l’intervento dell’Autorità Giudiziaria, lasciando invece impunite tutte quelle relazioni che rimangono nel segreto delle mura domestiche. Questa limitazione trova per i più giustificazione nella necessità di tutelare l’immagine esteriore della famiglia, evidentemente ormai già compromessa dalla diffusione delle voci popolari circa la relazione incestuosa: laddove invece, tali voci non si diffondano, sarà preferibile lasciare impuniti i colpevoli onde evitare gli effetti ancora più deleteri che sull’aggregato familiare genera il coinvolgimento in un procedimento penale. Ovviamente la valutazione circa il configurarsi del “pubblico scandalo” è rimessa all’interprete nel caso concreto.
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Il delitto di infanticidio
Il Codice Rocco tutela il bene della vita umana fin dal suo momento iniziale attraverso i delitti dell’omicidio e dell’infanticidio. Quest’ultima figura criminis, assurge a fattispecie criminosa autonoma in presenza dell’elemento specializzante delle condizioni.
La condotta prevista dall’art. 578 c.p. si realizza dal momento del distacco, naturale o indotto, del feto dall’utero materno, durante il parto se si tratta di un “feto!” o immediatamente dopo il parto se si tratta di un neonato. Si presuppone quindi, un dato cronologico: l’uccisione deve avvenire nella fase di passaggio tra il distacco del feto dall’alveo materno e il momento in cui il concepito acquista vita autonoma, oppure “immediatamente” dopo, fin quando però durino le condizioni di abbandono connesse al parto.
Qualora la condotta diretta a sopprimere il prodotto del concepimento sia posta in essere dopo il distacco del feto dall’utero materno, il fatto, in assenza dell’elemento specializzante delle condizioni di abbandono materiale e morale della madre, sancito dall’art. 578 c.p., configura il delitto di omicidio volontario di cui agli artt. 575 e 577, n.1, c.p.
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Ai fini del calcolo dell’assegno di mantenimento, vale il reddito netto o lordo?
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Riconoscimento del minore infrasedicenne.
Sul tema si è espressa la
Suprema Corte con sentenza N.14/2003.
La Cassazione riporta: “In tema di riconoscimento di figlio
naturale, l’art.250 cod. civ. che, nell’ipotesi di minore infrasedicenne,
subordina la possibilità del secondo riconoscimento al consenso del genitore
che detto riconoscimento ha già effettuato, dispone altresì che al compimento
del sedicesimo anno il minore divenga titolare di un autonomo potere di
incidere sul diritto del secondo genitore al riconoscimento stesso. Ne consegue
che il raggiungimento da parte del minore della “maggiore età” ritenuta dal
legislatore adeguata ad esprimere un mediato giudizio determina il venir meno
della necessità del consenso del primo genitore al riconoscimento da parte
dell’altro genitore e, in difetto, dell’intervento del giudice. (Nel caso di
specie S.C., preso atto del compimento del sedicesimo anno del minore, ha
dichiarato la cessazione della materia del contendere ed ha cassato senza
rinvio la sentenza impugnata).”
Ad oggi, la legge n.219
del 10.12.2012, ha modificato il comma 2 dell’art. 250: “il riconoscimento del figlio che ha compiuto quattordici anni non
produce effetto senza il suo assenso”. Si evince come il tetto di età sia
stato abbassato e come il principio giurisprudenziale abbia ceduto il passo
alla legge.
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Il diritto di pernottamento del figlio con il padre
Con decreto datato il 5 settembre 2018 dal Tribunale di Trieste si era preso in considerazione il caso di una richiesta da parte del padre di pernottamento del figlio di tenera età presso di lui.
Nonostante la madre del bambino non fosse d’accordo con tale richiesta poiché reputava il figlio troppo piccolo e che potesse pernottare con il padre solo dopo aver compiuto il terzo anno di età, il Tribunale di Trieste con il provvedimento sopra citato ha deciso di accogliere la richiesta del padre ritenendo appunto che non ci siamo elementi di inadeguatezza dello stesso ad occuparsi del figlio anche se molto piccolo.
Richiesta questa che fu accolta tendendo conto comunque degli impegni lavorativi di entrambi i coniugi.
Nel caso in esame non avendo quindi le parti contestato le rispettive capacità genitoriali è stato ritenuto pacifico disporre l’affido condiviso del minore.
È stata presa questa decisione da parte del Tribunale ritenendo che il pernotto con entrambi i genitori favorisce e tutela il minore e il suo legame con gli stessi indipendentemente dalla separazione della coppia. Principio questo ribadito anche dall’art. 337-ter c.c in base al quale il figlio minore ha diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi. Tali provvedimenti sono presi quindi dal giudice nell’esclusivo interesse morale e materiale della prole.
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Il diritto al risarcimento del danno al coniuge sopravvissuto.
La perdita del coniuge rappresenta uno strazio morale, portando anche se non sempre con se, un danno patrimoniale. Si presume che ci sia tra moglie e marito quel legame affettivo che se rotto crea un danno. Ma ciò rappresenta una presunzione che può essere superata dal fatto che i coniugi sono separati.
Il coniuge superstite deve dimostrare in qualche modo di aver subito tale patimento.
Questo tema è stato affrontato dalla Suprema Corte di Cassazione con sentenza 31950/2018, dove il giudice, decidendo in riferimento ad un sinistro stradale tra l’autovettura condotta da Tizia, deceduta in seguito al sinistro ed il mezzo agricolo non assicurato condotto da Caio, ha ritenuto sussistente un concorso di colpa tra i due conducenti e ha condannato pertanto l’impresa per il fondo di garanzia per le vittime della strada al risarcimento del danno subito dal padre, dai figli e dai fratelli della vittima. Ha però rigettato l’appello proposto da Tizio, con conseguente respingimento della domanda di risarcimento del danno non patrimoniale subito a seguito del decesso del coniuge.
Il Giudice dell’Appello ha inoltre disposto che, in riferimento alla pari responsabilità dei due conducenti, Caio, che era alla guida del veicolo agricolo, circolava su strada pubblica che versava in condizioni di scarsa visibilità, Tizia invece percorreva la strada senza prestare attenzione all’ostacolo visibile e senza indossare le cinture di sicurezza.
Contro la suddetta sentenza, Tizio proponeva ricorso per cassazione, lamentando che la Corte d’appello, sulla base di una relazione extraconiugale e della nascita di un figlio, abbia ritenuto insussistente il legame affettivo tra i coniugi al momento dell’incidente ed abbia quindi rigettato la richiesta di risarcimento del danno.
Il peso del marito della vittima veniva respinto per infondatezza del motivo, a tal riguardo la corte territoriale ha rilevato che il fatto illecito costituito dalla uccisione di un congiunto appartenente al nucleo familiare genera un danno patrimoniale presunto, dovendosi ritenere sussistente tra detti congiunti un vincolo affettivo ed un progetto di vita in comune. In tal caso solitamente il soggetto danneggiato non ha l’obbligo di provare di aver subito il danno non patrimoniale.
Questa presunzione può essere superata da tali elementi: la separazione legale o l’esistenza di una relazione extraconiugale con conseguente nascita di un figlio tre mesi prima della morte del coniuge. Questi elementi non comportano l’insussistenza del danno non patrimoniale in capo al coniuge superstite, ma impongono allo stesso di provare di aver effettivamente subito tale danno.
A tal riguardo, la corte territoriale ha ritenuto che il tizio non avesse fornito la prova del danno non patrimoniale e ha pertanto rigettato la domanda risarcitoria.
Indietro11/01/19
La Cassazione si pronuncia ancora sul rimborso delle spese straordinarie relative ai figli.
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La Cassazione si pronuncia ancora sul rimborso delle spese straordinarie relative ai figli.
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Il ritiro della licenza del porto d'armi durante una separazione "conflittuale"
Il Tar Firenze ha stabilito che il ritiro della licenza del porto d’armi e il divieto di detenzione delle armi durante un processo di separazione “conflittuale” deve essere stabilito dalla Prefettura soltanto dopo un’indagine accurata.
Dall’indagine devono emergere effettive minacce o atti violenti nei confronti dell’altro coniuge o la sussistenza di una concreta situazione conflittuale tra i due tale da indurre “ragionevoli dubbi sull’affidabilità dell’interessato nel corretto utilizzo delle armi. Diversamente opinando, a fronte di qualunque separazione coniugale sarebbe necessario inibire l’uso delle armi poiché ogni separazione comporta inevitabilmente un certo grado di conflittualità”.
Nel caso di specie l’Amministrazione non aveva assunto nessun elemento concreto relativo a episodi di minacce o di violenza nei confronti della ex compagna e in più la denuncia querela (presentata dalla ex coniuge due anni prima) che aveva dato origine al procedimento di ritiro del porto d’armi era risultata completamente falsa al termine del procedimento penale. Il quadro istruttorio è rimasto privo degli elementi univoci idonei a porre in dubbio l’affidabilità del ricorrente nel corretto uso delle armi.
Per tali motivi il Tar Firenze ha annullato il decreto della Prefettura di Livorno con cui era stato predisposto il divieto di detenzione delle armi.
(Tar Firenze, sent. n. 1658/2018, pubblicata il 19/12/2018)
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La donazione ai futuri coniugi.
La comunione della proprietà di una casa tra due
coniugi non è esclusa anche quando la somma di denaro necessaria per acquistare
l’immobile è stata donata dalla madre di uno dei due coniugi.
Infatti quando il donante (la madre di uno dei due coniugi) consente che la casa sia intestata anche alla futura nuora, sta donando a lei il 50% della proprietà dell’immobile stesso.
(Cassazione, VI Sez., Sent. 20532/2018)
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Applicabilità diretta in Italia dell’istituto kafalah.
Trib. Mantova, sez I., decreto giudice tutelare 10
maggio 2018, Est. Alessandra Venturini
Il provvedimento di kafalah – istituto contemplato dalla Convenzione di New York sui
diritti del fanciullo e dalla Convenzione dell’Aja - che consiste nell’affido di
un minore a un soggetto che si impegna a curarlo, educarlo e mantenerlo sino al
raggiungimento della maggiore età senza che il minore entri a far parte della famiglia
dell’affidatario, deve ritenersi direttamente efficace anche nel nostro
ordinamento (ai sensi degli artt. 65 e 66 della legge .218/1995).
Ciò significa che non vi è luogo a provvedere alla
richiesta di nomina di un tutore per il minore, ex artt. 343 ss. c.c., poiché
questo è già stato affidato tramite kafalah
ad un adulto che ne ha già la rappresentanza legale.
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Scioglimento dell'unione civile: secondo il Tribunale di Novara la dichiarazione di scioglimento dell'unione civile non costituisce condizione di procedibilità della domanda.
In tema di scioglimento dell’unione civile, il Tribunale di Novara – in composizione
collegiale - ha stabilito che, ai fini della legittimità della dichiarazione
giudiziale di scioglimento, la c.d. fase amministrativa della dichiarazione di
scioglimento dell'unione civile non costituisce condizione di procedibilità
della domanda.
Più precisamente, il Collegio ha ritenuto che “al ricorrere di determinate
condizioni, che si andranno appresso indicando, il Tribunale adito possa
comunque delibare la domanda di scioglimento dell'unione civile, pur in difetto
di invio della predetta raccomandata e della formale dichiarazione innanzi
all'ufficiale dello stato civile. In particolare, ad avviso del Collegio, nel
caso in cui l'attore abbia notificato ritualmente il ricorso introduttivo del
giudizio al partner, abbia ribadito in sede presidenziale la propria volontà di
sciogliere il vincolo e, tra la fase presidenziale ed il momento in cui viene
emesso da parte del Tribunale il provvedimento definitorio del giudizio, sia
trascorso un lasso di tempo pari o superiore a tre mesi, allora si deve
ritenere che l'omissione della fase amministrativa innanzi all'ufficiale di
stato civile non pregiudichi la valutazione nel merito della domanda”.
Secondo il Collegio, infatti, “l'invocato comma 24, pur stabilendo che la
parte renda la dichiarazione innanzi all'ufficiale di stato civile, non qualifica
espressamente tale dichiarazione come condizione di procedibilità dell'azione,
né fa discendere alcuna conseguenza dall'inadempimento di tale incombente.
Inoltre e soprattutto, come ha avuto modo di precisare la dottrina, da tale
dichiarazione non derivano altre conseguenze se non quella di determinare il
dies a quo per la decorrenza di quel termine di tre mesi al quale i
commentatori hanno pressoché unanimemente riconosciuto il significato di
spatiucm deliberandi, momento di riflessione prodromico alla instaurazione del
giudizio. Tanto chiarito, si può allora agevolmente ritenere che la rituale
notifica del ricorso al partner possa tenere luogo all'invio della lettera
raccomandata, in quanto idonea al raggiungimento dello scopo che la norma si
prefigge, ovvero notiziare in maniera formale il partner della propria volontà
di sciogliere il vincolo. Parimenti si può ben sostenere che la manifestazione
di volontà ribadita innanzi al Presidente del Tribunale possa tenere luogo alla
mancata dichiarazione innanzi all'ufficiale di stato civile. Ed invero, vale la
pena ribadire in proposito che alla dichiarazione resa innanzi all'ufficiale di
stato civile la legge non ha attribuito alcuna conseguenza, ad esempio in
ordine allo scioglimento del regime di comunione legale dei beni eventualmente
in essere, se non quella di fissare la decorrenza del periodo di riflessione di
tre mesi. In definitiva, l'unico scopo attribuito a tale dichiarazione è quello
di cristallizzare in maniera formale il momento in cui il partner manifesta la
propria volontà di sciogliere l'unione al fine di consentire il decorrere del
termine di tre mesi. Stando così le cose, allora, non si rinvengono argomenti
di ordine letterale né sistematico che portino ad escludere la possibilità di
equiparare, quanto a sacralità e formalità, la dichiarazione resa innanzi
all'ufficiale di stato civile a quella resa innanzi al Presidente del Tribunale”.
(Trib. Novara, 05.07.2018)
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Affido condiviso: stessa quantità di tempo da trascorrere con i figli?
Con ordinanza 31902 del 10.12.2018, la Corte di Cassazione ha stabilito che, pur in presenza di un affido condiviso, i genitori separati non hanno diritto a trascorrere la stessa quantità di tempo con i figli, ma passa più giorni con il minore chi è in grado di instaurare un legame affettivo molto forte e di farlo crescere in un ambiente sociale più consono.
Secondo i Giudici di Piazza Cavour, il principio di bigenitorialità si
traduce nel diritto di ciascun genitore a essere presente in maniera
significativa nella vita del figlio nel reciproco interesse, ma ciò non
comporta una proporzione matematica in termini di parità dei tempi di
frequentazione del minore in quanto l'esercizio del diritto deve essere
armonizzato in concreto con le complessive esigenze di vita del figlio e
dell'altro genitore. Infatti, “in tema di affidamento dei figli minori, il
giudizio prognostico che il giudice, nell'esclusivo interesse morale e
materiale della prole, deve operare circa le capacità dei genitori di crescere
ed educare il figlio nella nuova situazione determinata dalla disgregazione
dell'unione, va formulato tenendo conto, in base ad elementi concreti, del modo
in cui i genitori hanno precedentemente svolto i propri compiti, delle
rispettive capacità di relazione affettiva, attenzione, comprensione,
educazione e disponibilità a un assiduo rapporto, nonché della personalità del
genitore, delle sue consuetudini di vita e dell'ambiente sociale e familiare
che è in grado di offrire al minore, fermo restando, in ogni caso, il rispetto
del principio della bigenitorialità, da intendersi quale presenza comune dei
genitori nella vita del figlio, idonea a garantirgli una stabile consuetudine
di vita e salde relazioni affettive con entrambi, i quali hanno il dovere di
cooperare nella sua assistenza, educazione ed istruzione”.
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Case popolari e il vincolo del prezzo massimo di cessione dell'immobile in regime di edilizia agevolata. L'affrancazione.
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Figlio grande ed economicamente non indipendente: l'assegnazione della casa familiare.
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Il datore di lavoro del coniuge inadempiente provvede al pagamento dell'assegno di mantenimento.
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Sì all'affido esclusivo se il minore manifesta il proprio rifiuto nei confronti di un genitore.
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Limitazione del diritto di visita a causa dell'alta conflittualità dei coniugi.
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Danno morale per omesso versamento dell'assegno divorzile.
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Nozze nulle anche se la convivenza che si protrae oltre i tre anni in caso di incapacità di assumere gli obblighi essenziali del matrimonio.
Sentenze ecclesiastiche di nullità, delibazione
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TIRELLI Francesco - Presidente -
Dott. DE CHIARA Carlo - rel. Consigliere -
Dott. TRICOMI Laura - Consigliere -
Dott. LAMORGESE Antonio Pietro - Consigliere -
Dott. NAZZICONE Loredana - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE;
- ricorrente -
contro
P.L., rappresentato e difeso dall'Avv. Aldo Vangi, con domicilio eletto presso il suo studio in Mesagne, Via L. da Vinci n. 34;
- controricorrente -
e nei confronti di:
V.M.L.;
- intimata -
avverso la sentenza della Corte d'appello di Lecce n. 298/2017 depositata il 23 marzo 2017.
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 21 dicembre 2017 dal Consigliere Dott. Carlo De Chiara;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Francesca Ceroni, che ha concluso per la rimessione degli atti alle Sezione Unite e, in subordine, per l'accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo
1. La Corte d'appello di Lecce, su domanda del sig. P.L. e nella contumacia della convenuta sig.ra V.M.L., ha dichiarato, con il parere favorevole del PM, efficace nella Repubblica italiana la sentenza del Tribunale ecclesiastico regionale pugliese di Bari dell'8 dicembre 2015, con la quale era stata dichiarata la nullità del matrimonio concordatario delle parti, celebrato il 21 luglio 1983, per grave discrezione di giudizio circa i diritti e doveri matrimoniali e per incapacità di assumere gli obblighi essenziali del matrimonio, per cause di natura psichica, da parte del marito, che aveva promosso il giudizio di nullità.
La Corte ha negato l'esistenza di ostacoli alla dichiarazione di efficacia derivante da principi di ordine pubblico, in particolare quello della tutela dell'affidamento incolpevole dell'altro coniuge, non invocato dalla parte interessata.
2. Il Procuratore generale presso questa Corte ha proposto ricorso per cassazione con tre motivi.
Si è difeso, con controricorso e memoria, l'intimato sig. P..
Motivi della decisione
1. Va preliminarmente affermata l'ammissibilità del ricorso del Procuratore generale presso questa Corte ai sensi dell'art. 72 c.p.c., commi 3 e 5, per le ragioni indicate, da ultima, da Cass. 2486/2017.
2. Con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione degli artt. 7, 29 e 30 Cost., dell'art. 8 CEDU, dell'art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea (c.d. Carta di Nizza), dell'art. 797 c.p.c., della L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 6 e della L. 25 marzo 1985, n. 121, artt. 8 e ss.. Si richiamano i precedenti delle Sezioni Unite di questa Corte nn. 16379 e 16380 del 2014, secondo cui alla favorevole delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio osta, quale limite di ordine pubblico interno, la convivenza delle parti come coniugi protrattasi per almeno un triennio e si fa presente che dagli atti risulta appunto che i coniugi P. - V. avevano convissuto per circa 27 anni e avevano avuto due figli.
3. Con il secondo motivo, denunciando violazione degli artt. 2, 29 e 30 Cost., degli artt. 167 e 797 cod. proc. civ. e della L. 25 marzo 1985, n. 121, art. 8, si critica tuttavia la statuizione, contenuta nelle suddette sentenze delle Sezioni Unite, secondo cui tale limite di ordine pubblico non sarebbe rilevabile d'ufficio dal giudice, ma esclusivamente su eccezione di parte (eccezione in senso stretto), ravvisando in tale affermazione un contrasto, riguardante la "categoria processuale dell'eccezione in senso stretto con riferimento specifico alla compatibilità con la nozione di ordine pubblico", rispetto alla precedente giurisprudenza di legittimità, che si conforma invece alla regola della rivelabilità d'ufficio delle eccezioni, salvi i casi espressamente previsti dalla legge o nei quali l'iniziativa di parte è strutturalmente prevista quale elemento integrativo della fattispecie difensiva (come nel caso di eccezioni corrispondenti alla titolarità di un'azione costitutiva); contrasto per la risoluzione del quale si chiede quindi rimettersi nuovamente gli atti alle Sezioni Unite.
4. Con il terzo motivo, denunciando violazione degli artt. 6-8 CEDU e degli artt. 291 e 292 cod. proc. civ., si sostiene che la qualificazione del limite di ordine pubblico in questione quale oggetto di eccezione in senso stretto, configura una lesione del diritto al giusto processo del coniuge contumace e si chiede, pertanto, rimettersi gli atti alle Sezioni Unite di questa Corte anche su tale questione, quale questione di massima di particolare importanza, nonché investirsi la Corte di giustizia dell'Unione Europea di un rinvio pregiudiziale, ai sensi dell'art. 267 TFUE, sull'interpretazione del Regolamento n. 2201/2003, artt. 22 ("La decisione di divorzio, separazione personale o annullamento del matrimonio non è riconosciuta... quando è resa in contumacia, ovvero la domanda giudiziale o un atto equivalente non è stato notificato o comunicato al convenuto contumace in tempo utile e in modo tale da poter presentare le proprie difese, salvo che sia stato accertato che il convenuto ha accettato inequivocabilmente la decisione") e 46 ("Gli atti pubblici formati e aventi efficacia esecutiva in uno Stato membro nonché gli accordi tra le parti aventi efficacia esecutiva nello Stato membro di origine sono riconosciuti ed eseguiti alle stesse condizioni previste per le decisioni").
5. I motivi di ricorso possono essere esaminati congiuntamente, attesa la loro connessione, e vanno respinti per le seguenti ragioni.
5.1. Premesso che il Collegio ritiene di conformarsi, condividendone il contenuto, ai richiamati precedenti delle Sezioni Unite nn. 16379 e 16380 del 2014, anche quanto alla non rilevabilità di ufficio del limite di ordine pubblico alla dichiarazione di efficacia della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario costituito dalla convivenza triennale delle parti come coniugi, va osservato che il Collegio neppure ritiene di dover rimettere gli atti alle Sezioni Unite affinché risolvano il contrasto giurisprudenziale denunciato con il ricorso.
Le Sezioni Unite, infatti, nelle più volte richiamate sentenze "gemelle", si sono date carico del consolidato orientamento giurisprudenziale restrittivo in tema di eccezioni in senso stretto, richiamato nel ricorso della Procura generale, concludendo tuttavia motivatamente che l'eccezione relativa alla convivenza triennale come coniugi, ostativa alla positiva delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio, rientra appunto tra quelle che l'ordinamento riserva alla disponibilità della parte interessata; e ciò argomentando sia dalla "complessità fattuale" delle circostanze sulle quali essa si fonda e dalla connessione molto stretta di tale complessità con l'esercizio di diritti, con l'adempimento di doveri e con l'assunzione di responsabilità personalissimi di ciascuno dei coniugi, sia dalla espressa previsione della necessità dell'eccezione di parte nell'analoga fattispecie dell'impedimento al divorzio costituito dall'interruzione della separazione, ai sensi della L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 3.
5.2. Non si ravvisano inoltre ragioni per ritenere che la rilevabilità solo ad eccezione di parte del limite di ordine pubblico in discussione contrasti con il diritto al giusto processo della parte rimasta contumace, considerato il carattere volontario della contumacia stessa, dichiarabile solo in presenza della prova della rituale notifica della domanda giudiziale.
Nè, infine, ricorrono i presupposti per il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell'Unione Europea, ai sensi dell'art. 267 TFUE, sulla interpretazione delle norme del regolamento CE n. 2201/2003 richiamate nel ricorso, per l'assorbente ragione che tale regolamento è "relativo alla competenza, al riconoscimento e all'esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale" adottate in un diverso Stato membro dell'Unione Europea, non delle decisioni dei tribunali ecclesiastici.
6. Il ricorso va in conclusione respinto.
Non vi è luogo a provvedere sulle spese processuali attesa la natura della parte ricorrente.
Poichè dagli atti il processo risulta esente dal contributo unificato, non trova applicazione il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, il 21 dicembre 2017.
Depositato in Cancelleria il 8 ottobre 2018
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Decadenza del diritto al mantenimento dell’altro coniuge che ha formato una nuova famiglia di fatto.
Trib. Como, Sent. n. 19800 del 30.5.2018
Nonostante il persistente status di separazione, il
diritto al mantenimento dell’altro coniuge decade quando quest’ultimo ha
formato una nuova famiglia di fatto, pur non convivendo con il nuovo partner.
Tale atto è espressione di una scelta di vita esistenziale e consapevole e
rescinde ogni collegamento con il tenore e il modello di vita legati al coniugio
e quindi esclude la solidarietà post-matrimoniale.
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Pensione di reversibilità: il requisito della titolarità dell'assegno dell'assegno divorzile.
Ai fini del riconoscimento della pensione di
reversibilità, in favore del coniuge nei cui confronti è stato dichiarato lo
scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, ai sensi
dell’art. 9 della legge 1 dicembre 1970 n. 898 (così come modificato dall’art.
13 della legge 6 marzo 1987 n. 74) la titolarità dell’assegno, di cui all’art.
5 della stessa legge 1 dicembre 1970 n. 899, deve intendersi come titolarità attuale e concretamente fruibile dell’assegno divorzile, al momento della
morte dell’ex coniuge, e non già come titolarità astratta del diritto
all'assegno divorzile che è stato in precedenza soddisfatto con la
corresponsione in un’unica soluzione.
(Cassazione, Sezioni Unite, Sent. 22434/2018)
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La Corte di Giustizia sul diritto di visita dei nonni nei confronti dei loro nipoti.
Corte di Giustizia, sez. I, sent. 31 maggio 2018 (Valcheva c/ Babanarakis)
La nozione di “diritto di visita”, contenuta all’art.
1, par. 2, lett. a) nonché all’art.2, punti 7 e 10, del regolamento CE n.
2201/2003 del Consiglio, del 27 novembre 2003, relativo alla competenza, al
riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in
materia di responsabilità genitoriale, che abroga il regolamento CE n. 1347/2000,
deve essere interpretata nel senso che essa comprende il diritto di visita dei
nonni nei confronti dei loro nipoti.
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Coniuge divorziato: spetta la pensione di reversibilità?
Cass. S.U. sent. n. 22434/18 del 24.09.2018.
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Riforma affido: alcuni tratti del Disegno di Legge del senatore Pillon.
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Concorso scuola: profili di legittimità costituzionale
La VI Sezione del Consiglio di Stato, con ordinanza n. 5134 pubblicata il 3 settembre 2018, ha sollevato due diverse questioni di legittimità costituzionale per i commi 2 lettera b) e 3 dell’art. 17 del decreto legislativo 59 del 2017 (attuativo della riforma Buona Scuola).
La prima questione riguarda la parte del decreto in cui è stato indetto un concorso riservato ai soli docenti in possesso del titolo abilitante poiché “il possesso, ovvero il mancato possesso, di un’abilitazione all’insegnamento dipende da circostanze non legate al merito, ma soltanto casuali”.
La seconda, invece, sul fatto che, qualora fosse ritenuta legittima la natura straordinaria del concorso – ovvero qualora fosse corretta la previsione che inibisce la partecipazione ai docenti non abilitati –, il decreto non include tra i titoli abilitanti anche il dottorato di ricerca.
In attesa della decisione ha disposto l’ammissione al concorso con riserva dei ricorrenti.
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Vacanze rovinate: fino a 3 anni per chiedere il risarcimento dei danni.
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Chi allontana con un comportamento ostruzionistico i figli dall'altro genitore perde l'affidamento dei figli.
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Responsabilità medica: condizioni di procedibilità della domanda.
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Fondo patrimoniale: debiti contratti per finalità estranee ai bisogni della famiglia.
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Trattamento sanitario: il consenso informato della persona inabilitata.
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Il decreto ingiuntivo non opposto relativo al pagamento dei canoni di locazione arretrati equivale a una sentenza di condanna esecutiva.
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L'efficacia della sentenza straniera di condanna al pagamento degli alimenti al figlio minore.
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I principi di ermeneutica contrattuale sono applicabili al testamento?
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La Corte di giustizia dell'Unione Europea si pronuncia sul riconoscimento dei matrimoni tra persone dello stesso.
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Assegno di divorzio: la decisione delle Sezioni Unite.
Assegno di divorzio
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MAMMONE Giovanni - Primo Presidente -
Dott. SCHIRO' Stefano - Presidente di Sezione -
Dott. CRISTIANO Magda - Presidente di Sezione -
Dott. VIRGILIO Biagio - Presidente di Sezione -
Dott. SCALDAFERRI Andrea - Consigliere -
Dott. FRASCA Raffaele - Consigliere -
Dott. ACIERNO Maria - rel. Consigliere -
Dott. GIUSTI Alberto - Consigliere -
Dott. CIRILLO Francesco Maria - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 23138-2017 proposto da:
C.L., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA XX SETTEMBRE 3, presso lo studio dell'avvocato BRUNO NICOLA SASSANI, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati MARGHERITA BARIE' e FRANCESCA BALDI;
- ricorrente -
C.O., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA QUINTINO SELLA 41, presso lo studio dell'avvocato CAMILLA BOVELACCI, rappresentato e difeso dall'avvocato BRUNELLA BERTANI;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 1429/2017 della CORTE D'APPELLO di BOLOGNA, depositata il 15/06/2017.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/04/2018 dal Consigliere dott.ssa MARIA ACIERNO;
udito il Pubblico Ministero, in persona dell'Avvocato Generale Dott. MATERA MARCELLO, che ha concluso per l'accoglimento, p.q.r., del primo motivo del ricorso, assorbito il secondo motivo;
uditi gli avvocati Bruno Nicola Sassani, Margherita Bariè e Brunella Bertani.
Svolgimento del processo
1. Il matrimonio concordatario tra le parti è stato celebrato nel (OMISSIS). La separazione personale consensuale reca la data del (OMISSIS). Le parti, in questa sede, hanno raggiunto un accordo fondato sul riequilibrio dei loro patrimonio che non prevedeva la corresponsione di alcun assegno da parte di un coniuge il favore dell'altro.
2. La cessazione degli effetti civili del matrimonio è stata pronunciata con sentenza parziale del Tribunale di Reggio Emilia il (OMISSIS). Con sentenza definitiva il Tribunale ha posto a carico dell'ex marito la somma di Euro 4000,00 mensili a titolo di assegno divorzile in favore della ex moglie.
3. La Corte d'Appello, in riforma della sentenza impugnata, ha negato il diritto della ex moglie al riconoscimento di un assegno di divorzio condannandola alla ripetizione delle somme ricevute a tale titolo specifico.
3.1. A sostegno della decisione assunta, la Corte ha applicato l'orientamento espresso nella pronuncia di questa Corte n. 11504 del 2017 secondo il quale il fondamento dell'attribuzione dell'assegno divorzile è la mancanza di autosufficienza economica dell'avente diritto. Nel merito ha escluso che la parte appellata fosse in tale condizione, in quanto titolare e percettrice di uno stipendio decisamente superiore alla media nonchè di un patrimonio mobiliare ed immobiliare molto cospicuo. Ha, pertanto, precisato che l'attribuzione dell'assegno di divorzio si era fondata sull'orientamento, superato da quello più recente cui era stata prestata adesione, fondato sul criterio del tenore di vita, peraltro potenziale, goduto dal richiedente, nel corso dell'unione coniugale, da valutarsi alla stregua delle capacità patrimoniali ed economiche delle parti. Nella specie pur essendovi un'evidente sperequazione delle predette capacità economiche e patrimoniali in favore dell'ex marito, l'agiatezza della ex moglie aveva condotto ad escludere la ricorrenza dei requisiti attributivi dell'assegno, dovendosene escludere il difetto di autosufficienza economica.
4. Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione C.L., con richiesta, accolta con provvedimento del 30 ottobre 2017, di rimessione del ricorso alle Sezioni Unite. Ha resistito con controricorso C.O.. La parte ricorrente ha depositato memoria.
Motivi della decisione
5. Nel primo motivo di ricorso viene dedotta la violazione della L. n. 898 del 1970, art. 5 e successive modificazioni per le seguenti ragioni:
5.1 il criterio dell'indipendenza od autosufficienza economica non trova alcun riscontro nel testo della norma che detta i criteri per l'attribuzione e determinazione dell'assegno di divorzio. Inoltre, non risulta chiaro quali siano i parametri al quale ancorarlo tra le diverse alternative proponibili, ovvero l'indice medio delle retribuzioni degli operai ed impiegati; la pensione sociale; un reddito medio rapportato alla classe economico sociale di appartenenza dei coniugi e alle possibilità dell'obbligato. Nell'ultima ipotesi, peraltro, il tenore di vita verrebbe ripreso in considerazione perchè i mezzi adeguati non potrebbero che essere rapportati alla condizione sociale ed economica delle parti in causa e ai loro redditi;
5.2 la lettura logico sistematica della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6 e successive modificazioni conduce al ripristino del criterio del tenore di vita, tenuto conto che l'art. 5, al comma 9 prevede espressamente la possibilità per il Tribunale, in caso di contestazioni, di disporre indagini sull'effettivo tenore di vita. La stessa Corte Costituzionale con la sentenza n. 11 del 2015 ha ritenuto del tutto legittimo tale criterio, allora costantemente seguito dalla giurisprudenza;
5.3 l'applicazione del criterio dell'autosufficienza economica è foriero di gravi ingiustizie sostanziali, in particolare per i matrimoni di lunga durata ove il coniuge più debole che abbia rinunciato alle proprie aspettative professionali per assolvere agli impegni familiari improvvisamente deve mutare radicalmente la propria conduzione di vita;
5.4 il richiamo, contenuto nella sentenza n. 11504 del 2017, all'art. 337 septies c.c. che fissa il criterio dell'indipendenza economica ai fini del riconoscimento del diritto ad un contributo per il mantenimento dei figli maggiorenni non autosufficienti non risulta condivisibile in quanto le condizioni soggettive rispettivamente dell'ex coniuge e del figlio maggiorenne non autosufficiente non sono comparabili: il figlio maggiorenne ha il compito sociale, prima che giuridico, di mettersi nelle condizioni di essere economicamente indipendente e l'obbligo di mantenimento è definito temporalmente in funzione del raggiungimento dell'obiettivo; il coniuge, specie se non più giovane, che abbia rinunciato, per scelta condivisa anche dall'altro, ad essere economicamente indipendente o abbia ridotto le proprie aspettative professionali per l'impegno familiare si può trovare, in virtù dell'applicazione del criterio dell'indipendenza economica, in una situazione di irreversibile grave disparità. Infine, l'obbligo di mantenimento del figlio maggiorenne non autosufficiente perdura fino a quando non sia raggiunto un livello di indipendenza adeguato al percorso di studi e professionale seguito, mentre all'esito del divorzio per il coniuge che abbia le caratteristiche soggettive sopra delineate, la condizione deteriore in cui versa non ha alcuna possibilità di essere emendata, essendo fondata su una sperequazione reddituale e patrimoniale non più colmabile. Tale è la condizione della ricorrente rispetto al livello economico-patrimoniale molto più elevato dell'ex marito.
5.5 Il nuovo orientamento lede il principio della solidarietà post matrimoniale, sottolineato, invece, dal legislatore sia in ordine al diritto alla pensione di reversibilità che in relazione alla quota del trattamento di fine rapporto spettanti al titolare dell'assegno. Il criterio adottato porta ad una lettura sostanzialmente abrogativa dell'art. 5.
6. Nel secondo motivo viene dedotta la violazione dell'art. 2033 c.c. con riferimento alla condanna alla ripetizione di quanto indebitamente versato. La statuizione della sentenza d'appello non è idonea a configurare un indebito oggettivo perchè dispone per l'avvenire. Inoltre vige, nella specie, il principio dell'irripetibilità, impignorabilità e non compensabilità delle prestazioni assistenziali, del tutto disatteso nella specie.
7. L'esame della questione rimessa alle Sezioni Unite richiede l'illustrazione preliminare del quadro legislativo interno di riferimento, anche sotto il profilo diacronico, dal momento che le modifiche medio tempore intervenute hanno notevolmente influenzato gli orientamenti della giurisprudenza anche di legittimità.
8. IL QUADRO LEGISLATIVO INTERNO. 8.1. Il testo originario della L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 5, comma 6, e gli orientamenti giurisprudenziali relativi.
Il testo originario della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6 della aveva il seguente contenuto:
Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale dispone, tenuto conto delle condizioni economiche dei coniugi e delle ragioni della decisione, l'obbligo per uno dei coniugi di somministrare a favore dell'altro periodicamente un assegno in proporzione alle proprie sostanze e ai propri redditi. Nella determinazione di tale assegno il giudice tiene conto del contributo personale ed economico dato da ciascuno dei coniugi alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di entrambi. Su accordo delle parti la corresponsione può avvenire in una unica soluzione. L'obbligo di corresponsione dell'assegno cessa se il coniuge, al quale deve essere corrisposto, passa a nuove nozze.
Il coniuge, al quale non spetti l'assistenza sanitaria per nessun altro titolo, conserva il diritto nei confronti dell'ente mutualistico da cui sia assistito l'altro coniuge. Il diritto si estingue se egli passa a nuove nozze.
La lettura della norma, già nella sua formulazione originaria, poteva dare luogo ad interpretazioni diverse. Valorizzando la distinzione di significato tra l'espressione "il Tribunale dispone" con la quale si apriva l'elencazione dei criteri di cui si doveva "tenere conto" ai fini del diritto alla corresponsione dell'assegno di divorzio e l'incipit della seconda parte della norma "nella determinazione di tale assegno il giudice tiene conto" emergeva, sul piano testuale una distinzione tra criteri attributivi (le condizioni economiche dei coniugi - profilo assistenziale; le ragioni della decisione - profilo risarcitorio) e determinativi (contributo personale ed economico dato da ciascuno dei coniugi - profilo compensativo).
La dottrina prevalente e la giurisprudenza di questa Corte avevano, tuttavia, ritenuto che l'assegno di divorzio, alla luce della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6 avesse una natura mista senza alcuna diversificazione e graduazione tra i criteri attributivi e determinativi.
In particolare le Sezioni Unite, poco dopo l'entrata in vigore della norma affermarono che l'assegno previsto dalla L. 1 dicembre 1970 n 898, art. 5 aveva natura composita "in relazione ai criteri che il giudice per legge deve applicare quando è chiamato a pronunciarsi sulla richiesta di corresponsione: assistenziale in senso lato, con riferimento al criterio che fa leva sulle condizioni economiche dei coniugi; risarcitoria in senso ampio, con riguardo al criterio che concerne le ragioni della decisione; compensativa, per quanto attiene al criterio del contributo personale ed economico dato da ciascun coniuge alla condizione della famiglia ed alla formazione del patrimonio di entrambi. Il giudice, che pur deve applicare tali criteri nei confronti di entrambi i coniugi e nella loro necessaria coesistenza, ha ampio potere discrezionale, soprattutto in ordine alla quantificazione dell'assegno (S.U. 1194 del 1974; conf. 1633 del 1975).
La coesistenza dei criteri, come espresso efficacemente nella massima, ne evidenziava la equiordinazione e costituiva una prescrizione di primario rilievo per la valutazione che doveva essere svolta dal giudice di merito al quale veniva riconosciuto un ampio potere discrezionale nella determinazione nell'ammontare dell'assegno ma non gli era consentito di considerare recessivo, in astratto ed in linea generale, un criterio rispetto ad un altro, salvo che il rilievo concreto di alcuno di essi non fosse marginale od insussistente. Nella giurisprudenza immediatamente successiva, la formulazione generale del principio venne puntualizzata in relazione a ciascun parametro. In particolare la Corte escluse che l'assegno potesse avere carattere alimentare proprio in relazione allo scioglimento definitivo del vincolo di parentela, dal momento che tale tipologia di obbligazioni postulava la permanenza del vincolo stesso e non la sua cessazione (Cass. 256 del 1975). Venne sottolineato come il fulcro dell'accertamento da svolgere, in questa prima fase storica di applicazione della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, dovesse incentrarsi sulla natura e misura dell'indebolimento della complessiva sfera economico-patrimoniale del coniuge richiedente l'assegno in relazione a tutti i fattori che possano concorrere a determinare questa sperequazione, quali l'età, la salute, l'esclusivo svolgimento di attività domestiche all'interno del nucleo familiare, il contributo fornito al consolidamento del patrimonio familiare e dell'altro coniuge etc. (Cass. 835 del 1975). Gli orientamenti furono certamente influenzati dal contesto socio economico nel quale la L. n. 898 del 1970 si è innestata, in quanto caratterizzato da un modello coniugale formato su ruoli endofamiliari distinti ed eziologicamente condizionanti la posizione economico patrimoniale di ciascuno dei coniugi dopo lo scioglimento dell'unione matrimoniale. Il rilievo paritario attribuito a tutti i parametri venne condizionato dalla vis espansiva del principio di parità ed uguaglianza tra i coniugi così come innovativamente consacrato e reso effettivo dalla riforma del diritto di famiglia.
Il criterio assistenziale, in particolare, assume, già in questa prima fase di applicazione della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, una funzione perequativa della condizione di "squilibrio ingiusto" (Cass. 660 del 1977) che può determinarsi in relazione alla situazione economico-patrimoniale degli ex coniugi, a causa dello scioglimento del vincolo, in particolare quando la disparità di condizioni si giustifica in funzione di scelte endofamiliari comuni che hanno prodotto una netta diversificazione di ruoli tra i due coniugi così da escludere o da ridurre considerevolmente l'impegno verso la costruzione di un livello reddituale individuale autonomo adeguato a quello familiare. Risultava evidente, pertanto, già negli orientamenti degli anni 70 che il profilo strettamente assistenziale si contaminava con quello compensativo, soprattutto in relazione alla durata del matrimonio, così da dar luogo all'inizio degli anni 80 a principi ancora più decisamente ispirati all'esigenza di ristabilire "un certo equilibrio nella posizione dei coniugi dopo lo scioglimento del matrimonio" (Cass. 496 del 1980) da realizzarsi assumendo il parametro relativo alle condizioni economiche dei coniugi non come criterio esclusivo o prevalente ma come elemento di giudizio da porsi in relazione con gli altri concorrenti, in considerazione delle complessive condizioni di vita garantite nel corso dell'unione coniugale e delle aspettative che tali condizioni potevano indurre (Cass. 496 del 1980).
La funzione dell'assegno di divorzio si caratterizza, sempre più, negli anni 80, sotto il vigore del testo originario della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, come strumento perequativo della situazione di squilibrio economico patrimoniale che si sia determinata a vantaggio di un ex coniuge ed in pregiudizio dell'altro. A questo fine i tre criteri contenuti nella norma operano come "presupposti di attribuzione" (Cass. 5714 del 1988) dell'assegno stesso. All'interno di questo orientamento, la funzione dell'assegno si risolve in uno strumento volto ad intervenire su una situazione di squilibrio "ingiusto" non in senso astratto, ovvero fondato sulla mera comparazione quantitativa delle sfere economico-patrimoniali o delle capacità reddituali degli ex coniugi ma in concreto, ponendo in luce la correlazione tra la situazione economico patrimoniale fotografata al momento dello scioglimento del vincolo ed i ruoli svolti dagli ex coniugi all'interno della relazione coniugale. Al riguardo sempre più frequentemente entrava nella valutazione complessiva e paritaria dei criteri ex art. 5, comma 6 il rilievo dell'apporto personale al soddisfacimento delle esigenze domestiche di uno solo dei coniugi (Cass. 3390 del 1985) ed, in particolare, l'effetto negativo sull'acquisizione di esperienze lavorative e professionali che può determinare un impegno versato essenzialmente nell'ambito domestico e familiare (Cass. 3520 del 1983), tanto da far affermare che, anche in relazione all'età, il giudice del merito avrebbe dovuto accertare se fosse in concreto possibile per l'ex coniuge richiedente l'assegno essere competitivo sul mercato del lavoro senza dover svolgere attività lavorative troppo usuranti od inadeguate rispetto al profilo complessivo della persona, (Cass. 3520 del 1983).
Da questi orientamenti emerge l'incidenza del principio costituzionale della parità sostanziale tra i coniugi, così come declinato nell'art. 29 Cost. nella valutazione in concreto dei criteri, ed in particolare di quello assistenziale e compensativo, sempre meno scindibili nel giudizio complessivo relativo al diritto all'assegno. L'interconnessione tra i due parametri viene precisata dall'affermazione contenuta nella pronuncia n. 6719 del 1987, secondo la quale la funzione dell'assegno di divorzio non è remunerativa ma compensativa, essendo preordinata all'obiettivo del "giusto mantenimento" in relazione, non solo all'apporto del coniuge richiedente alla conduzione della vita familiare, ma anche alla formazione del patrimonio comune ed in particolare al rafforzamento della sfera economico patrimoniale dell'altro coniuge.
Deve essere sottolineato come l'applicazione equilibrata dei tre criteri, assistenziale, compensativo e risarcitorio, sia stata ritenuta adeguata alla varietà delle situazioni concrete ed idonea a far emergere l'effettiva situazione di squilibrio (od equilibrio) conseguente alle scelte ed all'andamento effettivo della vita familiare, tenuto conto delle condizioni economico-patrimoniali degli ex coniugi e delle cause, con particolare riferimento a quelle maturate in corso di matrimonio, che hanno concorso a determinarle.
I principi giurisprudenziali illustrati, tuttavia, furono sottoposti a revisione critica dalla dottrina, in particolare per l'eccessiva discrezionalità rimessa ai giudici di merito che l'equiordinazione dei criteri aveva determinato. Si lamentava l'assenza di un fondamento unitario e coerente nella composizione mista dei parametri di attribuzione e determinazione dell'assegno di divorzio. Si sottolineava come l'an ed il quantum dell'assegno fossero stati tendenzialmente stabiliti del tutto discrezionalmente e l'applicazione dei criteri, proprio in quanto composita, fosse stata utilizzata per giustificare ex post la decisione, invece che dettarne le coordinate. Inoltre, vennero poste in luce le profonde mutazioni nella società civile, l'affermazione del principio di autoresponsabilità ed autodeterminazione, da ritenere determinanti anche nelle scelte relazionali, oltre che l'evoluzione del ruolo femminile all'interno della famiglia e nella società. Si gettavano le basi, pur sottolineandosi la funzione complessivamente perequativa dell'assegno di divorzio, per la riforma della norma.
8.2. L'intervento della L. 6 marzo 1987 e la modifica della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6; l'interpretazione del nuovo testo nella giurisprudenza di legittimità.
In questo rinnovato contesto, è stato modificato l'art. 5, comma 6 dalla L. n. 74 del 1987, art. 10 nel modo che segue:
"Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l'obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell'altro un assegno quando quest'ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive. La sentenza deve stabilire anche un criterio di adeguamento automatico dell'assegno, almeno con riferimento agli indici di svalutazione monetaria. Il tribunale può, in caso di palese iniquità, escludere la previsione con motivata decisione. Su accordo delle parti la corresponsione può avvenire in unica soluzione ove questa sia ritenuta equa dal tribunale. In tal caso non può essere proposta alcuna successiva domanda di contenuto economico.
I coniugi devono presentare all'udienza di comparizione avanti al presidente del tribunale la dichiarazione personale dei redditi e ogni documentazione relativa ai loro redditi e al loro patrimonio personale e comune. In caso di contestazioni il tribunale dispone indagini sui redditi, sui patrimoni e sull'effettivo tenore di vita, valendosi, se del caso, anche della polizia tributaria)). L'obbligo di corresponsione dell'assegno cessa se il coniuge, al quale deve essere corrisposto, passa a nuove nozze.
Il coniuge, al quale non spetti l'assistenza sanitaria per nessun altro titolo, conserva il diritto nei confronti dell'ente mutualistico da cui sia assistito l'altro coniuge. Il diritto si estingue se egli passa a nuove nozze.
Il confronto testuale con la formulazione originaria della norma pone immediatamente in luce alcune differenze:
a) il rilievo dell'indagine comparativa dei redditi e dei patrimoni degli ex coniugi, fondato sull'obbligo di deposito dei documenti fiscali delle parti e sull'attribuzione di poteri istruttori officiosi al giudice in precedenza non esistenti in funzione dell'effettivo accertamento delle condizioni economico patrimoniali delle parti, nella fase conclusiva della relazione matrimoniale;
b) l'accorpamento di tutti gli indicatori che compongono rispettivamente il criterio assistenziale ("le condizioni dei coniugi" ed "il reddito di entrambi"), quello compensativo ("il contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune") e quello risarcitorio ("le ragioni della decisione") nella prima parte della norma, come fattori di cui si deve "tenere conto" nel disporre sull'assegno di divorzio;
c) la condizione (che costituisce l'innovazione più significativa, perchè assente nella precedente formulazione della norma) dell'insussistenza di mezzi adeguati e dell'impossibilità di procurarli per ragioni obiettive, in capo all'ex coniuge che richieda l'assegno.
La rigida bipartizione tra criteri attributivi e determinativi, sorta per delineare più specificamente e rigorosamente i parametri sulla base dei quali disporre l'an ed il quantum dell'assegno di divorzio, e la ricerca del parametro dell'adeguatezza/inadeguatezza dei mezzi al di fuori degli indicatori contenuti nell'art. 5, comma 6, novellato, raggruppati nella prima parte della stesso, non costituisce una conseguenza necessaria della nuova formulazione della norma. In primo luogo, come nella versione originaria, il legislatore impone di "tenere conto" dei fattori che compongono i tre criteri, fornendone, rispetto alla formulazione antevigente un'elencazione completa. In secondo luogo nella norma s'introducono, al fine di sottolineare il rilievo indefettibile dell'indagine, poteri istruttori officiosi in capo al giudice del merito in ordine all'accertamento delle condizioni economico-patrimoniali di entrambe le parti, tanto da imporre l'obbligo di produrre la documentazione fiscale fin dagli atti introduttivi del giudizio. Proprio in virtù delle due nuove caratteristiche di questa fase istruttoria (previsione ex lege di produzione della documentazione fiscale e poteri officiosi d'indagine), deve ritenersi che essa costituisca, per tutte le controversie nelle quali si discuta dell'assegno di divorzio, un accertamento ineludibile rivolto ad entrambe le parti, con la conseguenza che la conoscenza comparativa di tali condizioni costituisce, secondo quanto risulta dall'esame testuale della norma, pregiudiziale a qualsiasi successiva indagine sui presupposti dell'assegno. In terzo luogo, il dato testuale dal quale è scaturita l'opzione interpretativa della netta bipartizione tra an e quantum e della individuazione del parametro dell'adeguatezza dei mezzi al di fuori degli indicatori contenuti nella norma, non presenta l'univocità che gli orientamenti, ancorchè contrapposti, in ordine al metro di valutazione dell'adeguatezza dei mezzi, hanno voluto ravvisarvi. La norma stabilisce, nell'ultima parte del primo periodo, che l'obbligo per un coniuge di "somministrare periodicamente a favore dell'altro un assegno (di divorzio n.d.r.)" sorge quando il richiedente non ha mezzi adeguati e non può procurarseli per ragioni oggettive, ma il periodo si apre con la prescrizione espressa e completa dei criteri di cui il giudice deve tenere conto, valutandone il peso in relazione alla durata del matrimonio quando dispone sull'assegno di divorzio.
Al fine di comprendere le ragioni dell'affermazione dell'opzione ermeneutica che ha dato luogo al contrasto di orientamenti su cui si fonda l'intervento delle S.U., deve rilevarsi che il dibattito che ha accompagnato la nascita della novella legislativa, si era incentrato su una netta contrapposizione di posizioni. Da un lato si sosteneva la necessità di ancorare il diritto all'assegno di divorzio esclusivamente all'accertamento di una condizione di non autosufficienza economica, variamente declinata come autonomia od indipendenza economica, od anche capacità idonea a consentire un livello di vita dignitoso, dall'altro si poneva in luce come la comparazione delle condizioni economico-patrimoniali delle parti non potesse dirsi esclusa dall'accertamento rimesso al giudice di merito, essendo una delle novità introdotte dalla novella proprio l'attribuzione di poteri istruttori officiosi all'organo giudicante, oltre al rilievo, del tutto attuale, della sostanziale marginalizzazione degli indici contenuti nella prima parte della norma, ove l'accertamento fosse esclusivamente incentrato sulla condizione economico patrimoniale del creditore. Le S.U. con la sentenza n.11490 del 1990 hanno ritenuto centrali questi ultimi profili, dando vita ad un orientamento, rimasto fermo per un trentennio, fino al mutamento determinato dalla sentenza n. 11504 del 2017. Nella sentenza del 1990 hanno affermato che l'assegno ha carattere esclusivamente assistenziale dal momento che il presupposto per la sua concessione deve essere rinvenuto nell'inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante, da intendersi come insufficienza degli stessi, comprensivi di redditi, cespiti patrimoniali ed altre utilità di cui possa disporre, a conservargli un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio. E' stato però chiarito che non è necessario l'accertamento di uno stato di bisogno, assumendo rilievo, invece, l'apprezzabile deterioramento, in dipendenza del divorzio, delle precedenti condizioni economiche, le quali devono essere tendenzialmente ripristinate, per ristabilire un certo equilibrio. I criteri indicati nella prima parte della norma hanno funzione esclusivamente determinativa dell'assegno, da attribuirsi, tuttavia, sulla base dell'esclusivo parametro dell'inadeguatezza dei mezzi. Ove sussista tale presupposto, la liquidazione in concreto deve essere effettuata in base alla valutazione ponderata e bilaterale dei criteri enunciati dalla legge (condizioni dei coniugi, ragioni della decisione, contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, reddito di entrambi, durata del matrimonio), con riguardo al momento della pronuncia di divorzio.
A questo consolidato orientamento si è di recente contrapposto quello affermato dalla sentenza n. 11504 del 2017 che, pur condividendo la premessa sistematica relativa alla rigida distinzione tra criterio attributivo e determinativo, ha individuato come parametro dell'inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante, la non autosufficienza economica dello stesso ed ha stabilito che solo all'esito del positivo accertamento di tale presupposto possano essere esaminati in funzione ampliativa del quantum i criteri determinativi dell'assegno indicati nella prima parte della norma.
Entrambe le sentenze si sono richiamate ai lavori preparatori della nuova legge. In particolare, la recente sentenza n. 11504 del 2017 ha valorizzato un passaggio contenuto nella relazione accompagnatoria della novella, dal quale poteva desumersi che l'intentio legis fosse quella di limitare l'accertamento sull'an debeatur alle condizioni economico-patrimoniali del creditore-richiedente l'assegno, ma si deve obiettare a questa argomentazione, per un verso, l'intrinseca ambiguità dell'intentio legis e dall'altro che il testo della norma, come ricordato nella sentenza delle S.U. n. 11490 del 1990, ha subito un significativo mutamento rispetto a quello predisposto dalla Commissione Giustizia del Senato, nel quale l'adeguatezza dei mezzi era correlata al conseguimento di un dignitoso mantenimento, disancorato da quello goduto in costanza di matrimonio.
8.2.1. L'interpretazione dell'art. 5, comma 6, novellato, nella giurisprudenza di legittimità.
La lettura del nuovo testo della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, non offre indicazioni applicative univoche, in ordine all'esatta determinazione del sintagma "mezzi adeguati" non essendo espressamente precisato quale sia il parametro di riferimento cui ancorare il giudizio di adeguatezza.
Questa indeterminatezza ha dato luogo a due orientamenti contrapposti, ancorchè entrambi fondati sull'esigenza di limitare la discrezionalità dei giudici di merito, ai quali era lasciata la comparazione, la selezione e, in concreto la graduazione della rilevanza dei tre criteri (assistenziale, compensativo e risarcitorio) contenuti nella norma. In particolare, sia l'orientamento della sentenza n. 1652 del 1990, che legava l'adeguatezza dei mezzi al conseguimento di un'esistenza libera e dignitosa, intesa come autonomia ed indipendenza economica da valutarsi prescindendo dalle condizioni di vita matrimoniale e senza un accertamento comparativo della situazione economico-patrimoniale delle parti al momento dello scioglimento del vincolo, sia l'orientamento opposto (Cass. 1322 del 1989 e 2799 del 1990) fatto proprio dalla sentenza delle S.U. 11540 del 1990, secondo il quale l'inadeguatezza dei mezzi deve riconoscersi quando il richiedente non abbia mezzi adeguati per conseguire un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di rapporto coniugale, partono da un postulato ermeneutico comune dell'art. 5, comma 6 novellato. Entrambi gli orientamenti, forti anche di sostegno dottrinale, ritengono che la norma imponga una distinzione tra il criterio attributivo dell'assegno, di natura assistenziale, e gli altri, meramente determinativi. Il legislatore, avendo condizionato l'obbligo di somministrare periodicamente (od in un'unica soluzione) l'assegno di divorzio all'accertamento sull'inadeguatezza dei mezzi e sull'impossibilità oggettiva di procurarli, avrebbe inteso separare nettamente il piano assistenziale da quello compensativo e risarcitorio.
A questa premessa unitaria si aggiunge, l'ulteriore profilo comune costituito dal rinvenimento del parametro dell'adeguatezza/inadeguatezza al di fuori degli indicatori contenuti nella norma. Entrambi i parametri, il tenore di vita matrimoniale (specie se potenziale) e l'autonomia od indipendenza economica (anche nella nuova versione dell'autosufficienza economica, introdotta dalla sentenza n. 11504 del 2017) sono esposti al rischio dell'astrattezza e del difetto di collegamento con l'effettività della relazione matrimoniale. Tale collegamento diventa meramente eventuale ove si assuma come parametro l'autosufficienza economica ma può perdere di rilievo anche con l'ancoraggio al tenore di vita ove questo criterio venga assunto esclusivamente sulla base della comparazione delle condizioni economico-patrimoniali delle parti e, dunque valutando la potenzialità e non l'effettività delle condizioni di vita matrimoniale.
Le due parti della norma sono state interpretate in modo dicotomico pur essendo legate da un nesso di dipendenza logica testuale che ne impone un esame esegetico unitario. Il giudice dispone sull'assegno di divorzio in relazione all'inadeguatezza dei mezzi ma questa valutazione avviene tenuto conto dei fattori indicati nella prima parte della norma. La scissione tra le due parti della norma e quella conseguente tra i criteri attributivi e determinativi, può condurre ad escludere nella prevalenza dei casi, l'esame degli indicatori la cui valutazione è imposta dall'art. 5, comma 6, oltre che dal contesto costituzionale e convenzionale di riferimento nel quale deve essere inquadrato il diritto all'assegno di divorzio quando ne ricorrano le condizioni.
9. L'ESAME COMPARATIVO DEI DUE ORIENTAMENTI. Esaminati gli aspetti che accomunano i due orientamenti occorre rilevarne le ragioni di forte contrapposizione che li contraddistinguono.
Preliminarmente è necessario evidenziare che l'orientamento fissato nella sentenza n. 11490 del 1990, è stato costantemente seguito dalla giurisprudenza di legittimità e di merito, ancorchè con adattamenti determinati dalle esigenze concrete che di volta in volta si sono prospettate. In particolare, l'astrattezza del criterio del tenore di vita, anche solo potenzialmente, tenuto durante la relazione matrimoniale è stata temperata tanto in funzione della durata del rapporto, (Cass. 7295 del 2013; 6164 del 2015), per cui la estrema limitatezza temporale della relazione coniugale può determinare l'azzeramento del diritto all'assegno, quanto in funzione della creazione di un nuovo nucleo relazionale, caratterizzato dalla convivenza e dalla condivisione della vita quotidiana (c.d. famiglia di fatto), essendo tale circostanza ritenuta, (Cass. 6455 del 2015; 2466 del 2016) fattore definitivamente impeditivo del riconoscimento del diritto dell'assegno.
Tuttavia, nonostante i criteri determinativi possano, in concreto, incidere sull'entità dell'assegno, come fattori limitativi, deve condividersi il duplice rilievo critico che viene mosso al parametro del tenore di vita goduto o fruibile nel corso della relazione coniugale. Il primo rilievo riguarda l'assoluta preminenza della comparazione delle condizioni economico-patrimoniali dei coniugi nel giudizio sul diritto all'assegno. Questa valutazione, ove costituisca il fattore determinante l'an debeatur dell'assegno, non può sottrarsi a forti rischi di locupletazione ingiustificata dell'ex coniuge richiedente in tutte quelle situazioni in cui egli possa godere comunque non solo di una posizione economica autonoma ma anche di una condizione di particolare agiatezza oppure quando non abbia significativamente contribuito alla formazione della posizione economico-patrimoniale dell'altro ex coniuge. I criteri determinativi, ed in particolare quello relativo all'apporto fornito dall'ex coniuge nella conduzione e nello svolgimento della complessa attività endofamiliare, cui il Collegio ritiene di attribuire primaria e peculiare importanza, risultano marginalizzati, con conseguente ingiustificata sottovalutazione dell'autoresponsabilità. Tale aspetto costituisce, invece, uno dei cardini delle scelte individuali e relazionali, sia nelle situazioni analoghe a quella sopradescritta, sia nelle situazioni opposte, caratterizzate da condizioni economico-patrimoniali che presentino uno squilibrio nella valutazione comparativa, nelle quali la situazione di disparità economico-patrimoniale, riscontrabile alla fine del rapporto, sia il frutto esclusivo o prevalente delle scelte adottate dai coniugi in ordine ai ruoli ed al contributo di ciascuno alla vita familiare. In questa peculiare situazione, peraltro molto frequente, il criterio compensativo non può essere esclusivamente un fattore di moderazione, dovendosene tenere conto al pari degli altri elementi alla luce dell'inquadramento costituzionale delle ragioni giustificative del diritto all'assegno di divorzio, così come fattori quali la salute o l'età in relazione alle capacità lavorativo-professionali e di produzione di reddito. Gli indicatori contenuti nella L. n. 898 del 1978, art. 5, comma 6, prima parte, hanno un contenuto perequativo-compensativo che la preminenza assoluta della comparazione quantitativa tra le condizioni economico-patrimoniali degli ex coniugi rischia di offuscare. Tuttavia, il rischio di trascurare del tutto i predetti indicatori, è ancora più incisivo alla luce dell'opposto orientamento, già preesistente e consacrato nella sentenza n. 1564 del 1990 ma, di recente, riaffermato, ed arricchito di rilievi critici e di nuovi elementi di valutazione giuridici e metagiuridici, con la sentenza n. 11504 del 2017.
La ragione di fondo, espressa nella motivazione di quest'ultima pronuncia che ha dato luogo alla modifica del consolidato orientamento giurisprudenziale in ordine al criterio attributivo dell'assegno di divorzio, risiede nell'indicata inattualità del precedente orientamento e nella sua inadeguatezza rispetto ad una mutata valorizzazione delle scelte personali e delle loro conseguenze sotto il profilo dell'autoresponsabilità, da valutarsi nel contesto costituzionale all'interno del quale tali scelte e la loro protezione giuridica si collocano.
L'opzione di fondo della pronuncia coglie un elemento di rilievo ma ne trascura altri. L'autodeterminazione individuale e la libertà di scegliere il percorso da imprimere alla propria esistenza costituisce certamente un valore assiologico portante nel sistema dei diritti della persona, ma è necessario che la declinazione di questo profilo dinamico dell'autodeterminazione sia effettiva ovvero non sia sconnessa dall'altro profilo fondante, quello della dignità personale, atteso che la libertà di scegliere e di determinarsi è eziologicamente condizionata dalla possibilità concreta di esercitare questo diritto. Per questa ragione, i diritti inviolabili della persona sono vivificati nella nostra Costituzione dal principio di effettività che permea l'art. 3 Cost.. Alla luce di tale specifico richiamo, devono essere posti in rilievo alcuni elementi che anche il legislatore, nella composita indicazione di fattori incidenti sull'assegno di divorzio ha inteso valorizzare. In primo luogo deve sottolinearsi che con la cessazione dell'unione matrimoniale si realizza, nella prevalenza delle situazioni concrete, un depauperamento di entrambi gli ex coniugi e si crea uno squilibrio economico-patrimoniale conseguente a tale determinazione.
I ruoli all'interno della relazione matrimoniale costituiscono un fattore, molto di frequente, decisivo nella definizione dei singoli profili economico-patrimoniali post matrimoniali e sono frutto di scelte comuni fondate sull'autodeterminazione e sull'autoresponsabilità di entrambi i coniugi all'inizio e nella continuazione della relazione matrimoniale. Inoltre, non può trascurarsi, per la ricchezza ed univocità dei riscontri statistici al riguardo, la perdurante situazione di oggettivo squilibrio di genere nell'accesso al lavoro, tanto più se aggravata dall'età.
La valutazione svolta nella sentenza n. 11504 del 2017 è rilevante ma incompleta, in quanto non radicata sui fattori oggettivi e interrelazionali che determinano la condizione complessiva degli ex coniugi dopo lo scioglimento del vincolo.
Lo stesso limite dell'incompletezza si deve rilevare in ordine alla ratio posta a sostegno del criterio attributivo dell'assegno di divorzio, individuato nella carenza di autosufficienza economica della parte richiedente. Solo questo parametro viene ritenuto coerente con i principi di autodeterminazione ed autoresponsabilità che permeano la solidarietà post coniugale, su cui, in via esclusiva, si rinviene il fondamento dell'assegno. Il sostegno costituzionale della ratio solidaristica viene desunto dall'art. 2 Cost.e dall'art. 23 Cost.. La garanzia costituzionale della riserva di legge in ordine al prelievo fiscale ed ad ogni forma di obbligo tributario anche inteso in senso lato, risulta del tutto estraneo al contesto giuridico-costituzionale all'interno del quale deve collocarsi la cd. solidarietà post coniugale, riguardando esclusivamente la relazione tra il cittadino-contribuente e l'autorità statuale o pubblica in senso ampio. Essa tuttavia costituisce la premessa coerente del contenuto riduttivo che nella pronuncia si attribuisce al principio di autodeterminazione ed autoresponsabilità, ancorchè formalmente ancorati all'art. 2 Cost.. Della norma costituzionale viene, tuttavia, azzerata la parte, di primaria importanza, che colloca il principio di autodeterminazione all'interno delle formazioni sociali nelle quali si sviluppa la personalità dell'individuo.
La giurisprudenza costituzionale ha, del resto, ancorato proprio all'art. 2 Cost. ed alla dignità costituzionale che assume la modalità relazionale nello sviluppo della personalità umana, il fondamento costituzionale delle unioni e delle convivenze di fatto (Corte Cost. n. 404 del 1988; 559 del 1989) estendendo ad esse, strumenti di tutela propri dell'unione matrimoniale (diritto a succedere nella titolarità del rapporto di locazione etc.) mediante un processo di adeguamento incrementato dalla giurisprudenza di merito e di legittimità (Cass. 12278 del 2011; 9178 del 2018). Lo stesso fondamento costituzionale è stato riconosciuto alle unioni omoaffettive (Corte Cost. n. 138 del 2010; Cass. 2184 del 2012) prima dell'entrata in vigore della L. n. 76 del 2016. La liberta di scelta e l'autoresponsabilità, che della libertà è una delle principali manifestazioni, costituiscono il fondamento costituzionale dell'unione matrimoniale, una delle formazioni sociali che la Costituzione riconosce come modello relazionale-familiare preesistente e tipizzato. Il canone dell'uguaglianza, posto a base dell'art. 29 Cost., può essere attuato e reso effettivo soltanto all'interno di una relazione governata da scelte che sono frutto di determinazioni assunte liberamente dai coniugi in particolare in ordine ai ruoli ed ai compiti che ciascuno di essi assume nella vita familiare. L'uguaglianza si coniuga indissolubilmente con l'autodeterminazione e determina la peculiarità della relazione coniugale così come declinata nell'art. 143 c.c., norma che ne costituisce la perfetta declinazione.
L'autodeterminazione non si esaurisce con la facoltà anche unilaterale di sciogliersi dal vincolo ma preesiste a tale determinazione e connota tutta la relazione ed, in particolare la definizione e la condivisione dei ruoli endofamiliari. Ugualmente l'autoresponsabilità costituisce il cardine dell'intera relazione matrimoniale, su di essa fondandosi l'obbligo reciproco di assistenza e di collaborazione nella conduzione della vita familiare così come tratteggiati nell'art. 143 c.c..
Nella sentenza n. 11504 del 2017, invece, lo scioglimento del vincolo coniugale, comporta una netta soluzione di continuità tra la fase di vita successiva e quella anteriore. L'autodeterminazione e l'autoresponsabilità costituiscono la giustificazione di questa radicale cesura e vengono assunti come principi informatori dei residui, limitati effetti, della cessata relazione coniugale. La previsione legislativa relativa all'assegno di divorzio, alle condizioni previste dalla legge, viene ritenuta prescrizione di carattere eccezionale e derogatorio, in relazione al riacquisto dello stato libero realizzato con il divorzio. All'assegno viene, di conseguenza, riconosciuta una natura giuridica strettamente ed esclusivamente assistenziale, rigidamente ancorata ad una condizione di mancanza di autonomia economica, da valutare in considerazione della condizione soggettiva del richiedente, del tutto svincolata dalla relazione matrimoniale ed unicamente orientata, per il presente e per il futuro, dalle scelte e responsabilità individuali. Si deve osservare, tuttavia, che questa impostazione, pur condivisibile nella parte in cui coglie la potenzialità deresponsabilizzante del parametro del tenore di vita, omette di considerare che i principi di autodeterminazione ed autoresponsabilità hanno orientato non solo la scelta degli ex coniugi di unirsi in matrimonio ma, ciò che è più rilevante ai fini degli effetti conseguenti al suo scioglimento così come definiti nella L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, hanno determinato il modello di relazione coniugale da realizzare, la definizione dei ruoli, il contributo di ciascun coniuge all'attuazione della rete di diritti e doveri fissati dall'art. 143 c.c. La conduzione della vita familiare è il frutto di decisioni libere e condivise alle quali si collegano doveri ed obblighi che imprimono alle condizioni personali ed economiche dei coniugi un corso, soprattutto in relazione alla durata del vincolo, anche irreversibile. Alla reversibilità della scelta relativa al legame matrimoniale non consegue necessariamente una correlata duttilità e flessibilità in ordine alle condizioni soggettive e alla sfera economico patrimoniale dell'ex coniuge al momento della cessazione dell'unione matrimoniale.
Il legislatore è stato largamente consapevole del forte condizionamento che il modello di relazione matrimoniale prescelto dai coniugi può determinare sulla loro condizione economico-patrimoniale successiva allo scioglimento. Per questa ragione ha imposto al giudice di "tenere conto" di una serie d'indicatori che sottolineano il significato del matrimonio come atto di libertà e di auto responsabilità, nonchè come luogo degli affetti e di effettiva comunione di vita. Queste declinazioni del modello costituzionale dell'unione coniugale, incentrata sulla pari dignità dei ruoli che i coniugi hanno svolto nella relazione matrimoniale, non possono entrare in via esclusivamente eventuale nella valutazione che il giudice deve effettuare quando dispone sull'assegno di divorzio. La relazione coniugale è orientata fin dall'inizio dai principi di libertà ed autoresponsabilità ed il legislatore ha inteso valorizzare la funzione conformativa di questi principi nel regime giuridico dell'unione matrimoniale anche in relazione agli effetti che possono conseguire dopo lo scioglimento del vincolo, senza incidere sulla efficacia solutoria di tale determinazione, volta al riacquisto dello stato libero ma anche senza azzerare l'esperienza della relazione coniugale alla quale si dà forte rilevanza nella norma che prefigura gli effetti di natura economica che conseguono al divorzio.
L'immanenza del principio di autoresponsabilità risulta cristallizzata nei criteri fissati nell'incipit dell'art. 5, comma 6, individuati dal legislatore nelle condizioni dei coniugi, nelle ragioni della decisione, nel contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, nel reddito di entrambi, nella durata del matrimonio e, di conseguenza non può essere mai tenuta fuori dall'accertamento del diritto alla corresponsione di un assegno divorzile.
Nell'orientamento affermato dalle S.U. n. 11490 del 1990, la comparazione delle condizioni economico-patrimoniali degli ex coniugi conduceva sia pure in modo riflesso a tenere conto dei criteri determinativi, ma in funzione esclusivamente limitativa dell'astratta quantificazione dell'assegno fondata sul parametro del tenore di vita. Nell'orientamento più recente, tali ultimi criteri, ed in particolare quello, direttamente conseguente dal principio costituzionale della pari dignità dei coniugi, relativo al contributo dato da ciascuno di essi nella conduzione della vita familiare e nella formazione del patrimonio comune e di ciascuno, diventano meramente eventuali prospettandosi sostanzialmente una lettura dell'art. 5, comma 6 abrogatrice della prima parte, in quanto l'opzione ermeneutica prescelta è fondata sul rilievo nettamente preminente se non esclusivo del criterio attributivo dell'assegno.
10. LA SOLUZIONE INTERPRETATIVA ADOTTATA. Le rilevanti modificazioni sociali che hanno inciso sulla rappresentazione simbolica del legame matrimoniale e sulla disciplina giuridica dell'istituto, sia per l'attribuzione a ciascuno dei coniugi del diritto unilaterale di sciogliersi dal vincolo sia per la natura di scelta libera e responsabile che caratterizza la decisione di unirsi in matrimonio, hanno determinato l'esigenza di valutare criticamente il criterio attributivo dell'assegno cristallizzato nella sentenza delle S.U. n. 11490 del 1990, soprattutto in relazione al rischio di creare rendite di posizione disancorate dal contributo personale dell'ex coniuge richiedente alla formazione del patrimonio comune o dell'altro ex coniuge, ed a quello connesso della deresponsabilizzazione conseguente all'adozione di un criterio fondato solo sulla comparazione delle condizioni economico-patrimoniale delle parti. Rimangono fermi, tuttavia, i rilevi formulati alla soluzione radicalmente opposta proposta da Cass. 11504 del 2017.
Al fine d'indicare un percorso interpretativo che tenga conto sia dell'esigenza riequilibratrice posta a base dell'orientamento proposto dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 11490 del 1990 sia della necessità di attualizzare il diritto al riconoscimento dell'assegno di divorzio anche in relazione agli standards europei, questa Corte ritiene di dover abbandonare la rigida distinzione tra criteri attributivi e determinativi dell'assegno di divorzio, alla luce di una interpretazione dell'art. 5, comma 6, più coerente con il quadro costituzionale di riferimento costituito, come già evidenziato, dagli artt. 2, 3 e 29 Cost..
Giova premettere che l'inclusione dell'art.29 Cost. nell'orizzonte in cui deve collocarsi l'interpretazione dell'art. 5, comma 6, deriva anche dalla sentenza della Corte Cost. n. 11 del 2015, sollecitata proprio in sede di denunzia d'illegittimità costituzionale del criterio attributivo dell'assegno di divorzio costituito dal tenore di vita goduto durante il matrimonio.
Questo richiamo diretto al modello costituzionale del matrimonio, fondato sui principi di uguaglianza, pari dignità dei coniugi, libertà di scelta, reversibilità della decisione ed autoresponsabilità sono stati tenuti in primaria considerazione dal legislatore in sede di definizione degli effetti economico patrimoniali conseguenti allo scioglimento del vincolo.
L'art. 5, comma 6 attribuisce all'assegno di divorzio una funzione assistenziale, riconoscendo all'ex coniuge il diritto all'assegno di divorzio quando non abbia mezzi "adeguati" e non possa procurarseli per ragioni obiettive. Il parametro dell'adeguatezza ha, tuttavia, carattere intrinsecamente relativo ed impone una valutazione comparativa che entrambi gli orientamenti illustrati traggono al di fuori degli indicatori contenuti nell'incipit della norma, così relegando ad una funzione residuale proprio le caratteristiche dell'assegno di divorzio fondate sui principi di libertà, autoresponsabilità e pari dignità desumibili dai parametri costituzionali sopra illustrati e dalla declinazione di essi effettuata dall'art. 143 c.c..
L'intrinseca relatività del criterio dell'adeguatezza dei mezzi e l'esigenza di pervenire ad un giudizio comparativo desumibile proprio dalla scelta legislativa, non casuale, di questo peculiare parametro inducono ad un'esegesi dell'art. 5, comma 6, diversa da quella degli orientamenti passati. Il fondamento costituzionale dei criteri indicati nell'incipit della norma conduce ad una valutazione concreta ed effettiva dell'adeguatezza dei mezzi e dell'incapacità di procurarseli per ragioni oggettive fondata in primo luogo sulle condizioni economico-patrimoniali delle parti, da accertarsi anche utilizzando i poteri istruttori officiosi attribuiti espressamente al giudice della famiglia a questo specifico scopo. Tale verifica è da collegare causalmente alla valutazione degli altri indicatori contenuti nella prima parte dell'art. 5, comma 6, al fine di accertare se l'eventuale rilevante disparità della situazione economico-patrimoniale degli ex coniugi all'atto dello scioglimento del vincolo sia dipendente dalle scelte di conduzione della vita familiare adottate e condivise in costanza di matrimonio, con il sacrificio delle aspettative professionali e reddituali di una delle parti in funzione dell'assunzione di un ruolo trainante endofamiliare, in relazione alla durata, fattore di cruciale importanza nella valutazione del contributo di ciascun coniuge alla formazione del patrimonio comune e/o del patrimonio dell'altro coniuge, oltre che delle effettive potenzialità professionali e reddituali valutabili alla conclusione della relazione matrimoniale, anche in relazione all'età del coniuge richiedente ed alla conformazione del mercato del lavoro.
Il richiamo all'attualità, avvertito dalla sentenza n. 11504 del 2017, in funzione della valorizzazione dell'autoresponsabilità di ciascuno degli ex coniugi deve, pertanto, dirigersi verso la preminenza della funzione equilibratrice-perequativa dell'assegno di divorzio. Il principio di solidarietà, posto a base del riconoscimento del diritto, impone che l'accertamento relativo all'inadeguatezza dei mezzi ed all'incapacità di procurarseli per ragioni oggettive sia saldamente ancorato alle caratteristiche ed alla ripartizione dei ruoli endofamiliari. L'accertamento del giudice non è conseguenza di un'inesistente ultrattività dell'unione matrimoniale, definitivamente sciolta tanto da determinare una modifica irreversibile degli status personali degli ex coniugi, ma della norma regolatrice del diritto all'assegno, che conferisce rilievo alle scelte ed ai ruoli sulla base dei quali si è impostata la relazione coniugale e la vita familiare. Tale rilievo ha l'esclusiva funzione di accertare se la condizione di squilibrio economico patrimoniale sia da ricondurre eziologicamente alle determinazioni comuni ed ai ruoli endofamiliari, in relazione alla durata del matrimonio e all'età del richiedente. Ove la disparità abbia questa radice causale e sia accertato che lo squilibrio economico patrimoniale conseguente al divorzio derivi dal sacrificio di aspettative professionali e reddituali fondate sull'assunzione di un ruolo consumato esclusivamente o prevalentemente all'interno della famiglia e dal conseguente contribuito fattivo alla formazione del patrimonio comune e a quello dell'altro coniuge, occorre tenere conto di questa caratteristica della vita familiare nella valutazione dell'inadeguatezza dei mezzi e dell'incapacità del coniuge richiedente di procurarseli per ragioni oggettive. Gli indicatori, contenuti nella prima parte dell'art. 5, comma 6, prefigurano una funzione perequativa e riequilibratrice dell'assegno di divorzio che permea il principio di solidarietà posto a base del diritto.
Il giudizio di adeguatezza impone una valutazione composita e comparativa che trova nella prima parte della norma i parametri certi sui quali ancorarsi. La situazione economico-patrimoniale del richiedente costituisce il fondamento della valutazione di adeguatezza che, tuttavia, non va assunta come una premessa meramente fenomenica ed oggettiva, svincolata dalle cause che l'hanno prodotta, dovendo accertarsi se tali cause siano riconducibili agli indicatori delle caratteristiche della unione matrimoniale così come descritti nella prima parte dell'art. 5, comma 6, i quali, infine, assumono rilievo direttamente proporzionale alla durata del matrimonio. Solo mediante una puntuale ricomposizione del profilo soggettivo del richiedente che non trascuri l'incidenza della relazione matrimoniale sulla condizione attuale, la valutazione di adeguatezza può ritenersi effettivamente fondata sul principio di solidarietà che, come illustrato, poggia sul cardine costituzionale fondato della pari dignità dei coniugi. (artt. 2, 3 e 29 Cost.).
Il parametro dell'adeguatezza contiene in sè una funzione equilibratrice e non solo assistenziale-alimentare. Il rilievo del profilo perequativo non si fonda su alcuna suggestione criptoindissolubilista (l'espressione è stata usata nell'ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale che ha dato luogo alla sentenza n. 11 del 2015), ma esclusivamente sul rilievo che tale principio assume nella norma regolativa dell'assegno. La piena ed incondizionata reversibilità del vincolo coniugale non esclude il rilievo pregnante che questa scelta, unita alle determinazioni comuni assunte in ordine alla conduzione della vita familiare, può imprimere sulla costruzione del profilo personale ed economico-patrimoniale dei singoli coniugi, non potendosi trascurare che l'impegno all'interno della famiglia può condurre all'esclusione o limitazione di quello diretto alla costruzione di un percorso professionale-reddituale.
Ne consegue che la funzione assistenziale dell'assegno di divorzio si compone di un contenuto perequativo-compensativo che discende direttamente dalla declinazione costituzionale del principio di solidarietà e che conduce al riconoscimento di un contributo che, partendo dalla comparazione delle condizioni economico-patrimoniali dei due coniugi, deve tener conto non soltanto del raggiungimento di un grado di autonomia economica tale da garantire l'autosufficienza, secondo un parametro astratto ma, in concreto, di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali ed economiche eventualmente sacrificate, in considerazione della durata del matrimonio e dell'età del richiedente. Il giudizio di adeguatezza ha, pertanto, anche un contenuto prognostico riguardante la concreta possibilità di recuperare il pregiudizio professionale ed economico derivante dall'assunzione di un impegno diverso. Sotto questo specifico profilo il fattore età del richiedente è di indubbio rilievo al fine di verificare la concreta possibilità di un adeguato ricollocamento sul mercato del lavoro.
L'eliminazione della rigida distinzione tra criterio attributivo e criteri determinativi dell'assegno di divorzio e la conseguente inclusione, nell'accertamento cui il giudice è tenuto, di tutti gli indicatori contenuti nell'art. 5, comma 6 in posizione equiordinata, consente, in conclusione, senza togliere rilevanza alla comparazione della situazione economico-patrimoniale delle parti, di escludere i rischi d'ingiustificato arricchimento derivanti dalla adozione di tale valutazione comparativa in via prevalente ed esclusiva, ma nello stesso tempo assicura tutela in chiave perequativa alle situazioni, molto frequenti, caratterizzate da una sensibile disparità di condizioni economico-patrimoniali ancorchè non dettate dalla radicale mancanza di autosufficienza economica ma piuttosto da un dislivello reddituale conseguente alle comuni determinazioni assunte dalle parti nella conduzione della vita familiare.
11. IL QUADRO COMPARATISTICO EUROPEO ED EXTRAEUROPEO. La soluzione prospettata è largamente coerente con il quadro della legislazione dei paesi dell'Unione europea. Il confronto, pur non essendo la materia nè di competenza dell'Unione Europea nè oggetto di diversa disciplina convenzionale, non può essere eluso, in considerazione della natura dei diritti in gioco e della composizione del principio solidaristico ad essi sottesi. La comparazione con alcuni ordinamenti europei (in particolare quello francese e tedesco) evidenzia, in particolare, la natura specificamente perequativo-compensativa attribuita all'assegno di divorzio correlata alla previsione della temporaneità dell'obbligo in quanto prevalentemente finalizzato a colmare la disparità economico patrimoniale determinatasi con lo scioglimento del vincolo. Possono, tuttavia, porsi in luce alcuni principi comuni, posti in luce dai lavori svolti dalla Commissione Europea del diritto di famiglia (C.E.F.L.), sorta al fine di armonizzare i principi che regolano il diritto di famiglia in considerazione della competenza del diritto dell'Unione Europea in ordine alla giurisdizione, al riconoscimento ed alla circolazione delle decisioni in materia di scioglimento dell'unione coniugale e responsabilità genitoriale. Si è riscontrata, in particolare, la tendenziale eliminazione del divorzio per colpa che, anche all'interno del nostro ordinamento, trova riscontro nella progressiva riduzione dell'importanza del c.d. criterio risarcitorio fin dall'accertamento dell'addebito in sede di separazione; la natura consensuale del divorzio e la preminenza del principio di autoresponsabilità anche in sede di regolazione dell'assegno le cui caratteristiche sono da cogliere nell'ancoraggio ad un criterio perequativo-assistenziale in funzione di riequilibrio della posizione dell'ex coniuge più svantaggiato (sistema francese); nel favor verso un sistema di riequilibrio economico-patrimoniale realizzato con la ripartizione pregressa delle risorse e del patrimonio familiare cui consegue l'eccezionalità dell'assegno di divorzio (sistema tedesco) ed infine nella temporaneità della disposizione, in quanto finalizzata alla ricomposizione di un quadro di parità economico patrimoniale.
Sia le linee di tendenza comuni che le differenze di regime giuridico sono ispirate dal medesimo obiettivo della pari dignità degli ex coniugi. In questa priorità si coglie l'esclusivo elemento di continuità tra i postulati costituzionali dell'unione matrimoniali e la finalità dell'assegno di divorzio.
La conferma della centralità del principio di uguaglianza effettiva tra i coniugi anche alla luce dell'esame comparatistico delle legislazioni di paesi occidentali trova riscontro effettivo nel VII Protocollo addizionale alla Convenzione Europea dei Diritti Umani, nell'art. 5. Nella norma viene stabilito che: "I coniugi godono dell'uguaglianza di diritti e di responsabilità di carattere civile tra di essi e nelle loro relazioni con i loro figli riguardo al matrimonio, durante il matrimonio e in caso di suo scioglimento. Il presente articolo non impedisce agli Stati di adottare le misure necessarie nell'interesse dei figli".
Il principio è un'evoluzione di quanto già contenuto nell'art. 16 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani proclamata il 10 dicembre 1948. Nell'articolo è indicato che uomini e donne hanno eguali diritti riguardo al matrimonio, durante il matrimonio e all'atto del suo scioglimento.
Emerge, in conclusione, corrispondenza tra la collocazione dell'assegno di divorzio nell'alveo degli artt. 2, 3 e 29 Cost. con la conseguente preminenza della funzione perequativa ad esso attribuibile ed il quadro europeo e convenzionale di riferimento. Gli elementi che appaiono in contrasto con tale quadro, ovvero l'eccezionalità del ricorso all'assegno e la temporaneità dello stesso non scalfiscono la comune provenienza dal principio di parità effettiva.
In particolare la mancanza di temporaneità trova puntuale correttivo nel meccanismo legislativo della revisione delle condizioni della sentenza di divorzio in presenza di fatti sopravvenuti mentre il riconoscimento dell'assegno per importi poco elevati ed in unzione perequativa riguarda una percentuale molto modesta delle controversie in tema di divorzio. L'attenzione deve rivolgersi, al fine di rendere effettiva la funzione perequativa dell'assegno al rigoroso accertamento probatorio dei fatti posti a base della disparità economico-patrimoniale conseguente allo scioglimento del vincolo, dovendo trovare giustificazione causale negli indicatori contenuti nella prima parte dell'art. 5, comma 6 ed in particolare nel contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e, conseguentemente, alla formazione del patrimonio familiare e personale dell'altro coniuge. Di tale contributo la parte richiedente deve fornire la prova con ogni mezzo anche mediante presunzioni. Del superamento della disparità determinata dalle cause sopraindicate, la parte che chiede la riduzione o la eliminazione dell'assegno posto originariamente a suo carico, deve fornire la prova contraria. La sostanziale assenza di preclusioni, salvo l'allegazione di mutamenti di fatto, nel procedimento di revisione, rende reversibile e modificabile sine die la determinazione originaria in ordine all'assegno di divorzio, escludendo anche sotto tale profilo, i rischi della c.d. cripto indissolubilità.
12. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE. Si ritiene utile, prima di procedere alla decisione riguardante il primo motivo di ricorso, fornire un quadro sintetico conclusivo dei principi relativi alla individuazione dei criteri sulla base dei quali può essere riconosciuto il diritto all'assegno di divorzio.
Si deve premettere una considerazione di carattere fattuale. La determinazione e l'attuazione della scelta di sciogliere l'unione matrimoniale, determinano un deterioramento complessivo nelle condizioni di vita del coniuge meno dotato di capacità reddituali, economiche e patrimoniali proprie.
Il legislatore impone di accertare, preliminarmente, l'esistenza e l'entità dello squilibrio determinato dal divorzio mediante l'obbligo della produzione dei documenti fiscali dei redditi delle parti ed il potenziamento dei poteri istruttori officiosi attribuiti al giudice, nonostante la natura prevalentemente disponibile dei diritti in gioco. All'esito di tale preliminare e doveroso accertamento può venire già in evidenza il profilo strettamente assistenziale dell'assegno, qualora una sola delle parti non sia titolare di redditi propri e sia priva di redditi da lavoro. Possono, tuttavia, riscontrarsi più situazioni comparative caratterizzate da una sperequazione nella condizione economico-patrimoniale delle parti, di entità variabile.
In entrambe le ipotesi, in caso di domanda di assegno da parte dell'ex coniuge economicamente debole, il parametro sulla base del quale deve essere fondato l'accertamento del diritto ha natura composita, dovendo l'inadeguatezza dei mezzi o l'incapacità di procurarli per ragioni oggettive essere desunta dalla valutazione, del tutto equiordinata degli indicatori contenuti nella prima parte dell'art. 5, comma 6, in quanto rivelatori della declinazione del principio di solidarietà, posto a base del giudizio relativistico e comparativo di adeguatezza. Pertanto, esclusa la separazione e la graduazione nel rilievo e nella valutazione dei criteri attributivi e determinativi, l'adeguatezza assume un contenuto prevalentemente perequativo-compensativo che non può limitarsi nè a quello strettamente assistenziale nè a quello dettato dal raffronto oggettivo delle condizioni economico patrimoniali delle parti. Solo così viene in luce, in particolare, il valore assiologico, ampiamente sottolineato dalla dottrina, del principio di pari dignità che è alla base del principio solidaristico anche in relazione agli illustrati principi CEDU, dovendo procedersi all'effettiva valutazione del contributo fornito dal coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio comune e alla formazione del profilo economico patrimoniale dell'altra parte, anche in relazione alle potenzialità future. La natura e l'entità del sopraindicato contributo è frutto delle decisioni comuni, adottate in sede di costruzione della comunità familiare, riguardanti i ruoli endofamiliari in relazione all'assolvimento dei doveri indicati nell'art. 143 c.c.. Tali decisioni costituiscono l'espressione tipica dell'autodeterminazione e dell'autoresponsabilità sulla base delle quali si fonda, ex artt. 2 e 29 Cost. la scelta di unirsi e di sciogliersi dal matrimonio.
Alla luce delle considerazioni svolte, ritiene il Collegio che debba essere prescelto un criterio integrato che si fondi sulla concretezza e molteplicità dei modelli familiari attuali. Se si assume come punto di partenza il profilo assistenziale, valorizzando l'elemento testuale dell'adeguatezza dei mezzi e della capacità (incapacità) di procurarseli, questo criterio deve essere calato nel "contesto sociale" del richiedente, un contesto composito formato da condizioni strettamente individuali e da situazioni che sono conseguenza della relazione coniugale, specie se di lunga durata e specie se caratterizzata da uno squilibrio nella realizzazione personale e professionale fuori nel nucleo familiare. Lo scioglimento del vincolo incide sullo status ma non cancella tutti gli effetti e le conseguenze delle scelte e delle modalità di realizzazione della vita familiare. Il profilo assistenziale deve, pertanto, essere contestualizzato con riferimento alla situazione effettiva nella quale s'inserisce la fase di vita post matrimoniale, in particolare in chiave perequativa-compensativa. Il criterio attributivo e quello determinativo, non sono più in netta separazione ma si coniugano nel cd. criterio assistenziale-compensativo.
L'elemento contributivo-compensativo si coniuga senza difficoltà a quello assistenziale perchè entrambi sono finalizzati a ristabilire una situazione di equilibrio che con lo scioglimento del vincolo era venuta a mancare. Il nuovo testo dell'art. 5 non preclude la formulazione di un giudizio di adeguatezza anche in relazione alle legittime aspettative reddituali conseguenti al contributo personale ed economico fornito da ciascun coniuge alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno ed a quello comune. L'adeguatezza dei mezzi deve, pertanto, essere valutata, non solo in relazione alla loro mancanza o insufficienza oggettiva ma anche in relazione a quel che si è contribuito a realizzare in funzione della vita familiare e che, sciolto il vincolo, produrrebbe effetti vantaggiosi unilateralmente per una sola parte. Il superamento della distinzione tra criterio attributivo e criteri determinativi dell'assegno di divorzio non determina, infine, un incremento ingiustificato della discrezionalità del giudice di merito, perchè tale superamento non comporta la facoltà di fondare il riconoscimento del diritto soltanto su uno degli indicatori contenuti nell'incipit dell'art. 5, comma 6 essendone necessaria una valutazione integrata, incentrata sull'aspetto perequativo-compensativo, fondata sulla comparazione effettiva delle condizioni economico-patrimoniali alla luce delle cause che hanno determinato la situazione attuale di disparità. Inoltre è necessario procedere ad un accertamento probatorio rigoroso del rilievo causale degli indicatori sopraindicati sulla sperequazione determinatasi, ed, infine, la funzione equilibratrice dell'assegno, deve ribadirsi, non è finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale ma soltanto al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall'ex coniuge economicamente più debole alla realizzazione della situazione comparativa attuale.
In conclusione, alla pluralità di modelli familiari consegue una molteplicità di situazioni personali conseguenti allo scioglimento del vincolo. Il criterio individuato proprio per la sua natura composita ha l'elasticità necessaria per adeguarsi alle fattispecie concrete perchè, a differenza di quelli che si sono in precedenza esaminati non ha quelle caratteristiche di generalità ed astrattezza variamente criticate in dottrina.
13. ACCOGLIMENTO DEL PRIMO MOTIVO E PRINCIPIO DI DIRITTO. Alla luce delle considerazioni svolte, deve essere accolto il primo motivo di ricorso. La sentenza impugnata si è fondata esclusivamente sul criterio dell'autosufficienza economica, escludendo dalla propria indagine l'accertamento dell'eventuale incidenza degli indicatori concorrenti contenuti nella L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, ed in particolare quello relativo al contributo fornito dalla richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla conseguente formazione del patrimonio comune e personale dell'altro ex coniuge. Al riguardo nel ricorso alle pagine 14 e 15 viene sottolineato l'omesso esame di tale criterio, unitamente a tutti quelli non riconducibili al profilo strettamente assistenziale dell'autosufficienza economica. Limitatamente a tale specifica violazione dell'art. 5, comma 6, pertanto, il motivo deve essere accolto essendo necessario integrare alla luce delle allegazioni fattuali della parte ricorrente ed in relazione alla comparazione della situazione economico patrimoniale delle parti e della intervenuta suddivisione del patrimonio familiare, se possa riconoscersi il diritto all'assegno diverso in funzione specificamente perequativo-compensativa, così come prospettato in ricorso. L'accoglimento del primo motivo determina l'assorbimento del secondo. Alla cassazione della sentenza impugnata consegue il rinvio alla Corte d'Appello di Bologna che dovrà attenersi al seguente principio di diritto:
"Ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, dopo le modifiche introdotte con la L. n. 74 del 1987, il riconoscimento dell'assegno di divorzio, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, richiede l'accertamento dell'inadeguatezza dei mezzi o comunque dell'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, attraverso l'applicazione dei criteri di cui alla prima parte della norma i quali costituiscono il parametro di cui si deve tenere conto per la relativa attribuzione e determinazione, ed in particolare, alla luce della valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e all'età dell'avente diritto".
P.Q.M.
Accoglie il primo motivo di ricorso nei limiti di cui in motivazione. Dichiara assorbito il secondo. Cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese processuali del presente giudizio alla Corte d'Appello di Bologna in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 10 aprile 2018.
Depositato in Cancelleria il 11 luglio 2018
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Responsabilità medica: l'onere della prova.
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Stalking virtuale
Corte di Cassazione, V Sez. Pen., sent. n. 21693/2018.
È legittima l'applicazione della misura cautelare del divieto di avvicinamento nei confronti dell'ex marito, indagato per stalking nei confronti della moglie: a fondare il provvedimento sono i suoi minacciosi e insistenti messaggi
inviati alla donna sul cellulare e sui social, divenuti ancora più
asfissianti dopo la separazione e la scoperta della nuova relazione di
lei con un altro.
Ininfluente, sotto il profilo degli indizi ex art. 273 c.p.p., il fatto che le minacce siano rimaste puramente "virtuali" senza mai concretizzarsi in reati ulteriori.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, quinta sezione penale, nella sentenza n. 21693/2018 riguardante l'Ordinanza, confermata dal Tribunale
del Riesame, con cui il G.I.P. aveva applicato all'ex marito la misura
cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla moglie.
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Decadenza dalla responsabilità genitoriale quale provvedimento a tutela del minore.
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Il genitore non convivente paga metà delle spese extra anche se non è stato avvisato dall'altro genitore.
Le spese straordinarie per i figli a
carico dovrebbero sempre essere concertate tra gli ex coniugi prima dell’esborso.
Tuttavia, anche quando ciò non avviene, e quindi il genitore “collocatorio”
procede direttamente alla spesa senza chiedere il permesso all’altro, questo ha
diritto a ottenere il rimborso del 50% se la predetta spesa è stata sostenuta
nell’interesse del minore ed era necessaria. È questo l’indirizzo oramai consolidatosi all’interno della
giurisprudenza e ribadito anche dalla Cassazione con una recente sentenza (Cass. sent. n. 4753/17 del 23.02.2017).
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Cassazione: obbligo al mantenimento e agli alimenti in capo agli ascendenti.
L‘obbligo
di mantenimento dei figli minori spetta primariamente e integralmente ai loro
genitori per cui, se uno dei due non possa o non voglia adempiere al proprio
dovere, l’altro, nel preminente interesse dei figli, deve far fronte per intero
alle loro esigenze con tutte le sue sostanze patrimoniali e sfruttando tutta la
propria capacità di lavoro, salva la possibilità di convenire in giudizio
l’inadempiente per ottenere un contributo proporzionale alle condizioni
economiche globali di cosmi.
Dunque,
l’obbligo degli ascendenti di fornire ai genitori i mezzi necessari affinché
possano adempiere i loro doveri nei confronti dei figli va inteso non solo nel
senso che l’obbligazione degli ascendenti è subordinata e, quindi, sussidiaria
rispetto a quella dei genitori, ma anche nel senso che agli ascendenti non ci
si possa rivolgere per un aiuto economico per il solo fatto che uno dei due
genitori non dia il proprio contributo al mantenimento dei figli, se l’altro
genitore è in grado di mantenerli.
Similarmente,
il diritto agli alimenti (di cui all’articolo 433 c.c.), legato alla prova
dello stato di bisogno e dell’impossibilità di reperire attività lavorativa,
sorge solo qualora i genitori non siano in grado di adempiere al loro diretto e
personale obbligo (Cass. 20509/2010).
(Cassazione civile, sez. VI, 2 maggio 2018, Est. De Chiara)
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Corte di Giustizia UE: la nozione di coniuge comprende anche i coniugi omosessuali.
Con la “sentenza Coman e altri” del 5 giugno 2018 (C-673/16), la Corte di Giustizia UE si è pronunciata per la prima volta sulla nozione di «coniuge» ai sensi della direttiva 2004/38 nel contesto di un matrimonio concluso tra due uomini: secondo gli eurogiudici, la nozione di «coniuge» dettata dal diritto UE sulla libertà di soggiorno dei cittadini europei e dei loro familiari comprende i coniugi dello stesso sesso.
Nell'occasione la Corte di Giustizia ha da un
lato riconosciuto la facoltà degli Stati membri di autorizzare o meno il
matrimonio omosessuale, ma dall'altro lato ha precisato che tale
discrezionalità non può arrivare sino ad ostacolare la libertà di soggiorno di
un cittadino UE rifiutando di concedere al suo coniuge dello stesso sesso (cittadino
di un Paese extra-UE) un diritto di soggiorno derivato sul loro territorio.
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L'Europa riconosce il diritto di visita in capo ai nonni.
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La ricerca di relazioni extraconiugali tramite internet giustifica l'abbandono del tetto coniugale.
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GIANCOLA Maria Cristina - Presidente -
Dott. BISOGNI Giacinto - Consigliere -
Dott. DE CHIARA Carlo - Consigliere -
Dott. TRICOMI Laura - rel. Consigliere -
Dott. NAZZICONE Loredana - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
che:
P.Q.M.
Depositato in Cancelleria il 16 aprile 2018.
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Sull'ammissibilità dei trasferimenti immobiliari nell'ambito dei procedimenti di separazione e divorzio.
Verbale
della riunione del 21 dicembre 2017 Art. 47 quater dell'Ordinamento
Giudiziario capo IV punto 35.1 della circolare sulla formazione delle
tabelle.
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Il procuratore generale della Cassazione Marcello Matera ritiene che occorre tornare a valutare il tenore di vita per il calcolo dell’assegno di divorzio"
Nuovo cambio di rotta della Corte di Cassazione; il procuratore generale Marcello Matera ha dichiarato che bisogna tornare a valutare il tenore di vita per il calcolo dell’assegno di divorzio, non considerando quindi esclusivamente l’autosufficienza economica come previsto dal verdetto Grilli.
Secondo il pg della Cassazione, quindi, il tenore di vita va ancora considerato dal momento che “ogni singolo giudizio richiede una valutazione delle peculiarità del caso concreto”. Il tenore di vita quindi non si può escludere a priori altrimenti si rischia di “favorire una giustizia di classe”.
Ascoltando queste parole quindi si potrebbe pensare che la sentenza Grilli non ha apportato alcun cambiamento, ma non è proprio così. Secondo Matera, infatti, è giusto che venga preso come parametro di riferimento l’autosufficienza del coniuge debole, ma allo stesso tempo bisogna tener conto anche di altri criteri stabiliti dalla legge per definire l’importo dell’assegno divorzile, quali appunto “la durata del matrimonio, l’apporto del coniuge al patrimonio familiare, il tenore di vita durante il matrimonio”.
"La premessa è che ogni singolo giudizio richiede necessariamente la valutazione delle peculiarità del caso concreto perché l'adozione di un unico principio di giudizio, come quello stabilito dalla sentenza 'Grilli' corre il rischio di favorire una sorta di giustizia di classe". Lo ha sottolineato il pg della Cassazione, Marcello Matera, nella sua requisitoria davanti alle sezioni unite che discutono della 'messa in soffitta' del criterio del tenore di vita dopo il verdetto 'Grilli' del maggio 2017. "Si può anche convenire sul fatto che il criterio dell'autosufficienza - ha proseguito Matera - può essere preso come parametro di riferimento, ma non si può escludere di rapportarsi anche agli altri criteri stabiliti dalla legge quali la durata del matrimonio, l'apporto del coniuge al patrimonio familiare, il tenore di vita durante il matrimonio".
"Per due volte la prima sezione civile non ha accolto la richiesta di trasmettere gli atti alle unite, sostenendo che l'orientamento sul tenore di vita non fosse più attuale, dopo 27 anni. Invece vi erano evidenti motivazioni - ha rilevato - perché le sezioni unite si pronunciassero, anche alla luce delle ricadute di una questione del genere su un rilevante numero di persone".
Nella requisitoria tenuta dal sostituto procuratore della Corte di cassazione, Marcello Matera, lo stesso ha invitato alla moderazione e a continuare a considerare, accanto al criterio dell’autosufficienza, anche il parametro del tenore di vita goduto durante il matrimonio, insieme agli altri criteri stabiliti dalla legge quali la durata del matrimonio, l’apporto del coniuge al patrimonio familiare.
In ogni caso – ha affermato – è necessario che, per ogni singolo giudizio, si proceda ad una valutazione delle peculiarità del caso concreto “perché l’adozione di un unico principio di giudizio, come quello stabilito dalla sentenza Grilli corre il rischio di favorire una sorta di giustizia di classe”.
Va bene il criterio dell’autosufficienza, ma non solo questo. «Non si può escludere di rapportarsi anche agli altri criteri stabiliti dalla legge quali la durata del matrimonio, l’apporto del coniuge al patrimonio familiare, il tenore di vita» ha aggiunto il procuratore generale della Cassazione.
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Spese condominiali: solidarietà dell'usufruttuario con il nudo proprietario.
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Tribunale di Milano: Nuove Tabelle 2018 e criteri per la liquidazione del danno terminale e di quelli da premorienza, da diffamazione a mezzo stampa e da abuso del processo.
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La negoziazione assistita contrasta con le norme UE
Il Tribunale di Verona, con ordinanza del 27 febbraio 2018, ha dichiarato che la negoziazione assistita va disapplicata perché in contrasto con la normativa europea.
Ritiene il Tribunale che la condizione di procedibilità per determinate cause – quelle relative al recupero crediti fino a 50 mila euro, il risarcimento da incidenti stradali e i contratti di autotrasporto – contrasta con la carta dei diritti fondamentali dell’unione europea. Quest’ultima, in un articolo dedicato al «Diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale» stabilisce infatti che «Ogni persona i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto dell’Unione siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice, nel rispetto delle condizioni previste nel presente articolo.
Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge. Ogni persona ha la facoltà di farsi consigliare, difendere e rappresentare.
A coloro che non dispongono di mezzi sufficienti è concesso il patrocinio a spese dello Stato, qualora ciò sia necessario per assicurare un accesso effettivo alla giustizia».
Non c’è quindi improcedibilità se l’avvocato presenta la domanda giudiziale senza prima esperire la negoziazione assistita obbligatoria. Tra i requisiti richiesti affinché i mezzi di risoluzione alternativa delle liti (cosiddetti ADR) possano essere considerati legittimi vi è l’economicità della procedura, che deve essere gratuita o almeno non generare costi ingenti. Cosa che non succede – secondo la decisione in commento – nel caso della negoziazione assistita non potendo quest’ultima prescindere dall’intervento di un difensore.
Ed era proprio sulla necessaria presenza dell’avvocato – imposta dalla legislazione italiana – che si era già pronunciata la scorsa estate la Corte di Giustizia dell’Ue con riferimento alla mediazione obbligatoria, stabilendo che la stessa, benché condizione preliminare necessaria per adire il giudice, potesse essere intrapresa dal cittadino autonomamente, senza assistenza legale. Simile discorso viene ora riproposto per la negoziazione assistita (ovviamente solo quando obbligatoria): l’assistenza legale infatti «comporta dei costi non contenuti per le parti», visti i criteri attuali di determinazione del compenso di avvocato. Né la questione sarà risolta dal nuovo decreto sui parametri in fase di pubblicazione. Non rileva neanche la possibilità di recuperare i costi dalla parte vittoriosa nel successivo giudizio, perché questi esiti sono incerti. La pronuncia accenna infine alla differenza con le regole per determinare il compenso per i mediatori, regole rivolte a contenere i costi e pertanto compatibili con i principi comunitari.
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Trust e fondo patrimoniale: quali differenze?
Il fondo patrimoniale è un istituto tipico del diritto di famiglia – disciplinato da norme di legge inderogabili – che ha come scopo specifico quello di vincolare determinati beni (immobili, mobili registrati, titoli di credito) al soddisfacimento dei bisogni familiari (art. 167 c.c.).
Il trust, invece, è un istituto mutuato dal sistema di common law, avente struttura e funzione atipica, che può adattarsi a varie esigenze, tra cui quelle inerenti ai bisogni della famiglia. Esso dà vita ad un mero rapporto obbligatorio, la validità del quale dipende dalla possibilità e liceità degli interessi perseguiti dal disponente e non dall’osservanza delle norme che disciplinano il fondo patrimoniale, che, altrimenti, finirebbero per svuotare di ogni utilità giuridica l’istituto in questione.
Parte della giurisprudenza ritiene che ove lo schema negoziale del trust venga utilizzato per regolare rapporti familiari, questo debba risultare aderente e sovrapponibile alla disciplina del fondo patrimoniale. In tal modo, viene esclusa la possibilità di ricorrere all’istituto anglosassone ogni qualvolta sia astrattamente utilizzabile il fondo patrimoniale. Una tale impostazione, però, è stata rifiutata da altra giurisprudenza, che chiamata a pronunciarsi sul tema, ha affermato che i due istituti possono, nell’ambito della famiglia fondata sul matrimonio, concorrere o succedersi al fine di garantire, con maggiore efficacia, il soddisfacimento dei bisogni dei figli minorenni. Una sentenza di qualche anno fa - per superare il limite di durata del fondo patrimoniale, connesso all’esistenza stessa del matrimonio - aveva autorizzato la sua conversione in trust, ritenendo quest’ultimo lo strumento più idoneo per la tutela degli interessi dei beneficiari minorenni, in caso di patologia del rapporto coniugale, ma anche in vista del decesso di uno dei due coniugi.
L’affinità ravvisabile tra fondo patrimoniale e trust risiede unicamente nell’effetto segregativo: la separazione patrimoniale è effetto centrale e indefettibile di entrambi gli istituti. Appartiene, invece, unicamente al trust il c.d. affidamento. Il disponente trasferisce al trustee la posizione soggettiva “segregata”, di cui quest’ultimo diviene titolare esclusivo, pur rimanendo obbligato verso i beneficiari, unici titolari di azioni di responsabilità contro il trustee inadempiente. La segregazione conseguente al trust è specchio della priorità giuridica dell’interesse dei beneficiari: il trustee riceve i beni dal disponente, divenendone titolare, ma da questi non può trarre alcun profitto. Egli si occuperà unicamente della gestione del patrimonio segregato per poi trasferirlo al beneficiario della disposizione fiduciaria. La causa del negozio istitutivo del trust consiste, dunque, nella segregazione di posizioni soggettive per la realizzazione del compito affidato al trustee. Il negozio dispositivo, invece, ha come causa tipica l’attuazione del programma segregativo. A differenza del trust, ove i beneficiari sono individuati espressamente dall’atto istitutivo, nel fondo patrimoniale non è dato individuare dei “beneficiari” in senso tecnico. I figli non possono agire contro i genitori che destinino i frutti a finalità estranee ai bisogni della famiglia, né tantomeno i coniugi, ai quali è affidata l’amministrazione dei beni, sono considerati “fiduciari”. Questi ultimi sono titolari sia della posizione gestoria che di quella dominicale e, pertanto, possono amministrare e disporre discrezionalmente dei beni del fondo. Il fondo patrimoniale è, quindi, “vulnerabile” nei confronti dei coniugi, non soltanto per quanto concerne la gestione dei beni che ne sono oggetto, ma altresì con riferimento alla sua durata. Le cause di estinzione coincidono, infatti, ai sensi dell’art. 171 c.c., con il termine patologico o fisiologico del matrimonio. Solo se vi sono figli minori, la durata del fondo si protrae fino al compimento della maggiore età dell’ultimo figlio. L’atto istitutivo del trust potrebbe, invece, prevedere una durata che prescinda dalle vicende di cui all’art. 171 c.c., garantendo ai familiari una tutela costante nel corso del tempo.
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Il tenore di vita è condizione che permane per i figli
La Corte di cassazione con l'ordinanza n. 3922 della Sesta sezione civile depositata in data 19.2.2018 precisa che il tenore di vita pur non essendo più una condizione da assicurare all'ex moglie in caso di separazione, persiste come diritto dei figli, nei limiti delle possibilità dei genitori.
Nella determinazione del contributo per il mantenimento dei figli la Suprema Corte ha sottolineato la necessità di tener conto di una pluralità di fattori diversi da quelli legati al semplice sostentamento.
Vanno cioè tenuti presente anche esigenze relative all'abitazione, alla scuola, allo sport all'ambito sanitario e sociale “con la precisazione che i figli hanno il diritto di mantenere il tenore di vita loro consentito dai proventi e dalle disponibilità concrete di entrambi i genitori”, quelle condizioni cioè nelle quali i figli avrebbero vissuto se l'unione dei genitori non si fosse interrotta. Indietro<!--#4DTEXT ad_dataCreazioneL{al_IDArticolo}--> : Undefined
No al mantenimento se rapporto non è qualificabile come affectio coniugalis.
No assegno di mantenimento per separazione se matrimonio concordato e fondato su reciproci interessi economici
La Corte di Cassazione, sesta sezione civile, con ordinanza n. 402/2018 ha respinto quanto richiesto dalla ex moglie per l’attribuzione dell’assegno di mantenimento.
I primi due gradi avevano già respinto la richiesta di mantenimento avanzata dalla donna a seguito della separazione dal marito. I giudici rilevavano infatti l’eccessiva brevità del rapporto coniugale.
Le parti, nello svolgimento dei procedimenti, si erano accusate reciprocamente di aver concordato il matrimonio per motivazioni differenti ed altre rispetto all’effettiva unione, nello specifico lui – alto ufficiale dell’esercito USA avrebbe beneficiato di gratifiche economiche conseguenti al matrimonio e lei avrebbe ricevuto assegni pos-datati più un ammontare di contante per 110.000,00 euro.
La Cassazione ha evidenziato come si tratti di una questione “eccezionale”: il rapporto non ha maturato una stabilità tale da essere qualificabile come affectio coniugalis.
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Split Payment
Lo split payment è il meccanismo che prevede nuove regole alla liquidazione dell’IVA da parte della Pubblica Amministrazione.
È un sistema introdotto dalla Legge di Stabilità 2015, ampliato dal DL 50/2017 e verrà modificato con la nuova Legge di Bilancio 2018.
L’art.1 della sopraindicata Legge di Stabilità 2015 prevede, per le pubbliche amministrazioni che acquistano beni e servizi, qualora non siano soggetti passivi dell’IVA, di versare direttamente all’erario l’imposta in oggetto addebitata dai loro fornitori in fattura.
Nel concreto, tale meccanismo permette alle imprese private di incassare quanto dovuto dalla PA al netto dell’IVA. La stessa PA si occuperà di versare direttamente l’imposta a debito sull’operazione.
La platea di soggetti obbligati ad applicare lo Split payment ha incamerato oltre ai principali enti pubblici (Istituti universitari, ASL, Camere di Commercio, enti di previdenza ecc) con la manovra correttiva, dal 1° luglio 2017 tutte le amministrazioni, società controllate dallo Stato. Sempre per effetto del decreto 50/2017 è scattato anche per i professionisti l’obbligo di adottare lo split payment.
Per i contribuenti che applicano la scissione dei pagamenti, è prevista la possibilità che queste operazioni di split payment rientrino nel calcolo di quelle che possono ottenere il rimborso Iva.
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La domanda di addebito della separazione e il comportamento dispotico del coniuge.
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Il mobbing familiare e l'addebito della separazione al coniuge autore del comportamento mobbizzante.
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Il genitore che rifiuta i vaccini e propone cure omeopatiche rischia di vedersi escludere dall’affidamento condiviso.
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Contestazione dei tassi e delle condizioni relative ad un leasing immobiliare.
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La nullità della clausola contenuta in un contratto di factoring che prevede la decadenza dalla garanzia dal rischio di insolvenza.
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Presunzione di condominialità dei canali di scarico: la braga.
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Cessione di unità immobiliare e obbligo di pagamento delle spese condominiali.
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Possibilità di "rettificazione" dell'atto di nascita del minore nato all'estero e figlio di due madri coniugate all'estero.
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Il genitore può rinunziare all’azione di disconoscimento della paternità che ha proposto.
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La relazione di un coniuge con estranei rende addebitabile la separazione.
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Infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 263.
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Legittimità della domanda di revocatoria di cessione di quota immobiliare in adempimento di un obbligo previsto dalla sentenza di divorzio.
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Anche sottotetto e seminterrato fanno diventare la casa di “lusso”.
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Responsabilità del veterinario ex art. 2052 c.c.
Responsabilità del veterinario ex art. 2052 c.c.
L’art. 2052 c.c. tratta del danno cagionato da animali e recita: “Il proprietario di un animale o chi se ne serve per il tempo che lo ha in uso è responsabile dei danni cagionati dall’animale, sia che fosse sotto la sua custodia, sia che fosse smarrito o fuggito, salvo che provi il caso fortuito”.
Pertanto, il veterinario - chiamato ad eseguire un intervento su un animale di cui abbia la custodia - risponde per eventuali danni cagionati dallo stesso.
In altri termini, si ravvisa la responsabilità del veterinario ogniqualvolta l'animale, sottoposto alla sua custodia per ragioni curative, durante l'intervento abbia reazioni violente, improvvise, ma prevedibili da parte dello stesso sanitario.
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Divorzio: per i figli vale sempre il tenore di vita.
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La Cassazione e il risarcimento a titolo di straining.
Si riconosce al dipendente il risarcimento, a titolo di straining, a causa delle azioni ostili o discriminatorie poste in essere dal datore di lavoro anche se sporadiche in quanto lo straining rappresenta una forma di attenuata di mobbing che non richiede il requisito della continuità. L'ampia tutela è stata ribadita dalla Corte di Cassazione, sezione lavoro, nell'ordinanza n. 3977/2018 con cui è stato respinto il ricorso del Ministero dell'Istruzione.
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Risarcimento del danno al coniuge in buona fede indotto in errore sulle qualità personali dell'altro coniuge in caso di nullità del matrimonio.
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I termini di decadenza per la revocazione della donazione da parte del donante.
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Sulla restituzione al marito della metà delle rate del mutuo pagate per intero.
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Non si possono produrre in giudizio foto del coniuge fedifrago senza l'autorizzazione del Garante della Privacy.
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Litisconsorzio necessario: parti necessarie nel giudizio di impugnazione del testamento
Nel giudizio di impugnazione di un testamento olografo per nullità, stante l'unitarietà del rapporto dedotto in giudizio, sussiste litisconsorzio necessario anche nei confronti di tutti gli eredi legittimi, atteso che l'eventuale accoglimento della domanda porterebbe alla dichiarazione di invalidità del testamento ed alla conseguente apertura della successione legittima. (Cassazione civile, sez. II, 07/03/2016, n. 4452)
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Delibazione di sentenza ecclesiastica che scaturisce dal c.d. processus brevior.
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Affido condiviso: i figli restano nella casa familiare e i genitori si alternano
Incardinato un procedimento per separazione giudiziale, accade che spesso la figura paterna venga letteralmente messa alla porta all'indomani del fatidico provvedimento presidenziale che "autorizza i coniugi a vivere separatamente". Occorre invece fare un distinguo, perché ci sono padri che curano e seguono i propri figli nella crescita o semplicemente non sono responsabili della lamentata crisi coniugale.
Di tale delicata questione, si è occupato un recentissimo decreto del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere n. 1054/2017, il cui contenuto è stato mutuato dalla successiva giurisprudenza di merito .
Tale decreto, infatti, merita di essere citato, in quanto conferma l’ insopprimibile diritto della figura paterna alla bigenitorialità nella gestione della prole, intesa come volontà e disponibilità ad alternarsi nella cura dei figli, che non sono merce di scambio e non meritano di subire le conseguenze legate a certe separazioni.
Sulla base della testè citata previsione, infatti, il domicilio dei figli minori viene posto presso la casa coniugale con affido condiviso ad entrambi i genitori e la necessità per questi ultimi di "alternarsi" nella casa stessa, occupandosi dei minori durante il tempo di propria esclusiva permanenza. A fronte degli impegni lavorativi di entrambi, il giudice stabilisce che dal lunedì al venerdì le minori stiano a casa con la madre con diritto di visita del padre, mentre dal venerdì sera al lunedì mattina 2 stiano a casa con il padre con diritto di visita della madre. La novità sta proprio in ciò: i minori non si spostano mai dalla casa, sono solo i genitori a spostarsi da essa, alternandosi.
E' chiaro che si tratta di un provvedimento pregevole ed efficace perché ha risolto il problema del distacco dei figli rispetto al genitore costretto ad allontanarsi da casa. In tal modo, i minori vengono aiutati a superare la crisi familiare che li ha riguardati, abituandosi gradualmente ad un distacco verso il genitore con cui in futuro non convivranno prevalentemente.
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Divorzio.
L'app per gestire i figli senza conflitti
Il tribunale di Modena con la sentenza n. 2259 del 2017 ha accolto, per la prima volta, il ricorso congiunto per lo scioglimento del matrimonio di una coppia che ha aderito al progetto Anthea: si tratta di un sistema che intende aiutare – tramite l’app. “senza conflitti” – i genitori separati e divorziati a gestire tutti gli aspetti che riguardano i figli.
Tale progetto, presentato in Parlamento alla commissione bicamerale per l’infanzia, consiste in un’applicazione per smartphone e tablet che fornisce ai genitori una serie di servizi e permette loro di scambiarsi informazioni e accordi, i quali potranno essere anche scaricati e prodotti in giudizio. Per ogni evento (ad esempio “accompagnare il bambino in piscina”) ci potranno essere feedback di gradimento o di non adesione. Anche l’ingiustificato non utilizzo di tale strumento potrà essere oggetto di valutazione da parte del giudice nel caso di successivi conflitti. Il giudice potrà inoltre valutare in tempo reale il comportamento delle parti.
Nel caso di Modena, il giudice ha sciolto il matrimonio recependo le condizioni concordate dai genitori di adesione al progetto Anthea, prospettate «nell’interesse della prole» e «non contrarie alla legge». I due si sono impegnati ad utilizzare l’applicazione in modo esclusivo per qualsiasi comunicazione che possa riguardare i figli e ben consapevoli che tutte le notizie che «intercorreranno tra essi potranno essere oggetto di produzione documentale rappresentando prova ineludibile ed incontestabile dalle parti». Si legge ancora che il mancato impiego dell’applicazione, «non potrà essere oggetto di giustificazione alcuna e potrà essere liberamente valutato dal magistrato in caso di decisioni che derivino da atti e procedimenti attivati a seguito di insorta conflittualità tra i genitori successivamente».
È evidente che il fine consiste nel tutelare in primis gli interessi dei minori e in secundis consentire ai coniugi una gestione pacifica dei rapporti, lontano dalle aule del tribunale.
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Risarcimento del danno per illecita pubblicazione dell’immagine altrui.
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Donne legate da un rapporto di coppia e procedura di maternità assistita.
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Condominio: Impugnazione della delibera di gestione di un servizio comune
Cassazione civile, sez. II, 09 Novembre 2017, n. 26557. Est. Milena Falaschi.
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UBER deve essere considerato un 'servizio nel settore dei trasporti'.
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Ulteriori precisazioni sui principi enunciati dalla sentenza n. 11504 del 10.05.2017 della Corte di Cassazione.
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Difesa tecnica al clandestino (anche se non è obbligatoria).
L'immigrata irregolare che fa ricorso per restare in Italia dove ha un figlio minore, ha diritto al gratuito patrocinio anche se non è necessaria la difesa tecnica. Infatti, la Cassazione (sentenza 164) accoglie il ricorso di una cittadina nigeriana irregolare, contro la decisione del Tribunale dei minorenni di revocare l'ammissione al patrocinio a spese dello Stato per due ragioni: la donna era clandestina e per la richiesta a rimanere nello Stato (articolo 31 del Dlgs 286/1998), in quanto "affare di volontaria giurisdizione" l'assistenza legale non è obbligatoria.
I giudici ricordano che il gratuito patrocinio riguarda il diritto di difesa tutelato dalla Carta e quindi il concetto di "straniero regolarmente soggiornante" va interpretato in modo estensivo e comprende anche chi ha un procedimento amministrativo o giurisdizionale in corso: la posizione dello straniero diventa irregolare solo con l'espulsione. E il diritto al difensore nel giudizio civile va riconosciuto anche quando la tutela non è obbligatoria perché il non abbiente potrebbe non conoscere i suoi diritti o non essere in grado di autorappresentarsi.
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La responsabilità del medico.
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Azione revocatoria di trust e litisconsorzio necessario rispetto ai beneficiari: la prima pronunzia della Cassazione.
Visto il tenore degli
artt.2901 c.c. e 66, comma 2, l. fall., se non par dubbio che l’azione in esame
debba essere esperita nei confronti del disponente e del trustee ovvero, se il
disponente è fallito, solo contro quest’ultimo, molto si discute se siano,
altresì, legittimati passivi (e dunque litisconsorti necessari) i beneficiari.
In via preliminare, va
rilevata la presenza di fattispecie in cui il problema non è stato posto né
dalle parti né, d’ufficio, dal giudice adito (in certi casi, infatti, l’attore
ha fin dall’inizio convenuto in giudizio anche i beneficiari senza che alcuno
abbia contestato la loro legittimazione passiva. in altri casi è invece
avvenuto l’opposto, cioè i beneficiari non sono stati coinvolti nel giudizio
senza che alcuno affermasse la non integrità del contraddittorio).
La tesi che nega il
litisconsorzio necessario
Secondo un orientamento
il quesito merita risposta negativa, poiché oggetto della domanda revocatoria è
l’atto dispositivo (cui i beneficiari sono estranei) e non l’atto istitutivo
(che è la fonte esclusiva dei diritti dei beneficiari concernenti i beni
destinati): ciò premesso, l’eventuale revoca dell’atto dispositivo, diminuendo
o eliminando i beni destinati, arreca ai beneficiari un pregiudizio non già
giuridico, bensì di mero fatto.
La soluzione contraria al litisconsorzio necessario è stata sostenuta anche
facendo ricorso ad una diversa tesi: quella secondo il quale, essendo tale
istituto posto a presidio non dei soggetti contitolari del rapporto oggetto di
lite, bensì di colui che detta lite promuove, nel caso dell’azione revocatoria
il coinvolgimento dei beneficiari non occorre, poiché l’inefficacia relativa
del negozio sancita dalla sentenza permette al creditore di avviare
l’esecuzione forzata ed essa vede, quali sue controparti, esclusivamente il
debitore nonché – se il negozio ha comportato il trasferimento del bene ad un
trustee – quest’ultimo soggetto ex art. 602 c.p.c. (la tesi in esame si fonda
su quanto la Suprema Corte afferma - cfr Cass. SS.UU. n. 9660/2009, seguita
Cass. n. 2082/2013 e da Cass.n. 26168/2014 - con riguardo alla fattispecie
nella quale un soggetto coniugato in comunione legale abbia acquistato un bene
dal debitore senza che il partner partecipasse all’atto e tale acquisto è poi
oggetto di azione revocatoria).
La tesi che afferma il
litisconsorzio necessario
La tesi in esame, ad oggi
prevalente, fa leva sui seguenti argomenti:
a) i beneficiari sono in ogni caso destinati a subire gli effetti
dell’eventuale sentenza di revoca del negozio destinatario;
b) la più recente giurisprudenza della Suprema Corte tende a ritenere, con
riferimento alla revocatoria del fondo patrimoniale posto in essere da uno solo
dei coniugi ed avviata da un creditore di costui, che anche l’altro coniuge sia
legittimato passivo, appunto perché la pronunzia revocatoria è destinata ad
incidere anche sulla sua posizione giuridica;
c) per ragioni di “simmetria processuale”, la legittimazione passiva dei
beneficiari si impone anche ove la posizione beneficiaria di costoro sia
sottoposta a condizione sospensiva, poiché l’art. 2901, comma 1, c.c. dichiara
legittimati ad esperire l’azione revocatoria anche soggetti il cui credito sia
sottoposto a condizione sospensiva
La tesi (ora fatta propria dalla Cassazione) che distingue a seconda del
contenuto della posizione beneficiaria
Una tesi intermedia, sostenuta da parte della dottrina e della giurisprudenza
di merito afferma invece che la legittimazione passiva del beneficiario
sussiste solo se la sua posizione beneficiaria è certa e definitivamente
acquisita) ed è, invece, da escludere se essa è sottoposta a condizione
sospensiva.
Tale è l’orientamento seguito dalla prima pronunzia della Cassazione sul tema
in esame (cfr Cass. n.19376/2017, la quale costituisce l'ultimo atto della
vicenda iniziata con Trib.Forlì 30.5.2013, in Trust e att. fid., 2015, 80, e
proseguita con App.Bologna 16/1/2015 inedita).
Detta sentenza concerne un'azione revocatoria promossa da una banca nei
confronti di un fondo patrimoniale e di un trust (nel quale erano confluiti gli
immobili oggetto del fondo: di quest'ultimo negozio erano beneficiarie le
figlie minori dei coniugi disponenti.
In primo grado le beneficiarie non erano state coinvolte nel giudizio e la
questione del litisconsorzio necessario rispetto ad esse non era stata
sollevata.
In appello, invece, i coniugi soccombenti hanno sollevato la questione
(all’evidente scopo di invalidare tutto il pregresso giudizio e farlo
ricominciare da capo), ma il giudice l'aveva respinta.
In Cassazione la questione è stata oggetto di specifici motivi di ricorso, il
quale è stato respinto tanto con riguardo alla revocatoria del fondo
patrimoniale [per l'ovvia considerazione che, in tale istituto, non vi sono
beneficiari in senso tecnico,]quanto con riguardo alla revocatoria del trust,
perché (carenze processuali del ricorso a parte) le clausole del negozio non
consentivano – osserva la Suprema Corte – di qualificare i beneficiari né come
attuali beneficiari di reddito con diritti quesiti, né come beneficiari finali
con diritto immediato a ricevere beni del trust. Nel caso di specie, infatti il
riconoscimento della qualità di beneficiari di reddito era rimesso alla
discrezionalità del trustee, mentre i beneficiari finali avrebbero potuto
ricevere dal medesimo, in luogo degli immobili in trust, una somma di denaro).
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Responsabilità del Condominio per danni derivanti dal malfunzionamento dell'impianto di ascensore.
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Accettazione della giurisdizione italiana nel procedimento di separazione personale.
Nel successivo procedimento di modifica delle condizioni della separazione, instaurato per ottenere l’affidamento dei figli minori, non produce effetto l’accettazione della giurisdizione italiana per il giudizio di separazione.
La sentenza n.18510/2017 dalle
Sezioni Unite della Corte di Cassazione, supportata altresì dall’art.12, par.
2, lett. a) del reg. CE n. 2201 del 2003 giustifica quanto testé enunciato
rinvenendo nel procedimento di modifica delle condizioni della separazione un
nuovo giudizio e perché il criterio di attribuzione della giurisdizione fondato
sulla cd vicinanza (principio indicato dalla Corte di Giustizia della UE nell’interesse
superiore del minore) assume una rilevanza tale da comportare l’esclusione della validità del consenso del
genitore alla proroga della giurisdizione.
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Fondo patrimoniale, figli minori e azione revocatoria dell'atto costitutivo del fondo patrimoniale.
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Tribunale di Mantova: non si possono pubblicare foto dei propri figli se uno dei genitori non vuole.
Il Tribunale di Mantova, con sentenza depositata il 19.09.2017, ha ritenuto che l’inserimento delle foto dei figli minori sui social network - nonostante l’opposizione di uno dei genitori - integri violazione dell’art. 10 c.c., che vieta la pubblicazione di foto e immagini senza il consenso dell’avente diritto, nonché degli artt. 4, 7, 8 e 145 del Dlgs. 196/2003, riguardante la tutela della riservatezza dei dati personali, nonché della Convenzione di New York sui Diritti del Fanciullo (Conv. NY 20.11.1989, ratificata dall'Italia con l. 27.5.1991 n. 176) nel punto in cui stabilisce che "nessun fanciullo sarà oggetto di interferenze arbitrarie nella sua vita privata, nella sua famiglia, nel suo domicilio o nella sua corrispondenza e neppure di affronti illegali al suo onore e alla sua reputazione" e che "il fanciullo ha diritto alla protezione della legge contro tali interferenze o tali affronti".
Il Tribunale sottolinea altresì che "L'inserimento di foto di minori sui social network costituisce un comportamento potenzialmente pregiudizievole per essi in quanto ciò determina la diffusione delle immagini fra un numero indeterminato di persone, conosciute e non, le quali possono essere malintenzionate e avvicinarsi ai bambini dopo averli visti più volte in foto on-line, non potendo inoltre andare sottaciuto l'ulteriore pericolo costituito dalla condotta di soggetti che taggano le foto on-line dei minori e, con procedimenti di fotomontaggio, ne traggono materiale pedopornografico da far circolare fra gli interessati, come ripetutamente evidenziato dagli organi di polizia".
Il riconoscimento del pericolo insito nella
pubblicazione sui social network delle foto dei minori, conduce il Tribunale di
Mantova a ritenere ammissibile la pronuncia di una inibitoria con la quale sia
ordinata la rimozione delle foto già postate e ribadito il divieto di
pubblicare nuove foto.
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Ricadute della sentenza De Tommaso della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sull’informativa prefettizia antimafia ex art. 84 d. lgs.159/11.
La
sentenza della CEDU De Tommaso c. Italia depositata nel febbraio 2017 ha
enunciato l’incompatibilità del rapporto di presupposizione tra la pericolosità
generica e l’irroganda misura di prevenzione personale della sorveglianza
speciale.
In altri termini, tale pronuncia ha segnato vigorosamente
la disciplina delle misure di prevenzione personali di cui al Codice antimafia,
giudicando contrastanti con l’art. 2 Prot. 4 add. CEDU le fattispecie di
pericolosità generica in ragione della loro assoluta indeterminatezza.
Sulla base di tale autorevole sentenza, potrebbe essere
sollevata questione di legittimità costituzionale della informativa prefettizia
antimafia generica di cui all’art. 84 comma 4 lett. d) ed e) per
violazione dell’art. 117 Cost. in relazione al parametro interposto di cui
all’art. 1 Protocollo 1 add. CEDU.
Come noto, l’informativa prefettizia costituisce uno dei
principali strumenti di contrasto di tipo preventivo al coinvolgimento di
organizzazioni criminali mafiose nell’ambito dei rapporti economici tra
pubblica amministrazione e privati, determinandone l’interruzione in caso di
tentativi di infiltrazione.
I presupposti applicativi della informativa di cui all’art.
84 comma 4 lett. d) ed e) non sono definiti, bensì vaghi e imprecisati , posto
che essi legittimano la limitazione del diritto di proprietà a
fronte dell’espletamento di “accertamenti disposti dal Prefetto”.
Pertanto, l’assoluta indeterminatezza delle condizioni che
possono consentire al Prefetto di emettere un’informativa antimafia generica
appare davvero poco sostenibile in un ordinamento democratico che rifugga da
antichi spettri di diritto di polizia e che voglia ancorare qualsiasi
provvedimento restrittivo dei diritti fondamentali a basi legali precise e
predeterminate.
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Improcedibilità del reclamo ex art. 708 co. IV cpc in pendenza del procedimento di revoca/modifica innanzi al Giudice Istruttore.
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Stalking con il falso pretesto della cura dei figli.
La questione, ed in particolare gli appostamenti
e le telefonate moleste, erano state presentata dai difensori dell’uomo come
tentativi di convincere la donna a curarsi del figlio con problemi.
Pertanto tale ingerenza ossessiva era
finalizzata al solo sollecito alla madre con lo scopo di renderla edotta e partecipe
delle necessità che questo figlio, rimasto con l’uomo dopo il di lei abbandono
dell’abitazione coniugale, presenta.
Difatti attribuisce la ratio dei
suddetti comportamenti nel di lui risentimento verso la donna che lo aveva
abbandonato e si era costruita un’altra vita con un’altra persona.
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Mancato riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio: diritto al risarcimento del danno.
In
materia di mantenimento del figlio nato fuori dal matrimonio, il diritto al
rimborso "pro quota" delle spese sostenute dalla nascita del figlio,
spettante al genitore che lo ha allevato, e il diritto al risarcimento del
danno non patrimoniale non è utilmente azionabile se non dal momento della
sentenza di accertamento della filiazione, che conseguentemente costituisce il
"dies a quo" della decorrenza ordinaria della prescrizione.
Contrariamente, ammettere la decorrenza della prescrizione prima della
pronuncia accertativa dello status filiationis imporrebbe ammettere la
possibilità di azionare la relativa domanda di risarcimento del danno anche
prescindendo da pregressa sentenza di accertamento giudiziale della filiazione,
con conseguente possibilità per il giudice, eventualmente investito
dell'istanza di risarcimento del danno prima dell'accertamento della
filiazione, di compiere tale accertamento in via incidentale, mentre per
consolidata giurisprudenza: "L'accertamento incidentale relativo ad una
questione di stato delle persone non è consentita dal nostro ordinamento
giuridico, ostandovi nel quadro normativo attuale l'art. 3 cod. proc. pen. e
l'art. 8 d. lgs. 2 luglio 2010 n. 104" (Cass. n. 3934/2012).
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Le Sezioni Unite sull'ammissibilità dei danni punitivi: dalla natura compensativa a quella polifunzionale della responsabilità civile
Con la sentenza 5 luglio 2017 n. 16601, le Sezioni Unite della Suprema Corte pongono fine all’annosa questione relativa all’ammissibilità e al conseguente riconoscimento dei danni punitivi all’interno dell’ordinamento nazionale, previa individuazione della natura della responsabilità civile.
Innanzitutto, occorre muovere dalla esposizione dei filoni giurisprudenziali formatisi in merito alla questione de qua.
L’orientamento prevalso in seno alla Suprema Corte di Cassazione era granitico nel ritenere con fermezza l’incompatibilità della responsabilità civile con la funzione sanzionatoria, essendo demandata a tale responsabilità la sola funzione di restaurare la sfera del soggetto danneggiante.
In altri termini, alla luce della suddetta tesi, la finalità punitiva era pura prerogativa esclusiva della responsabilità penale, il cui paradigma è da rinvenirsi nel principio di legalità e nei suoi corollari, di cui costituiscono espressione gli artt. 25 co. 2 Cost. (divieto di retroattività della legge penale), 27 co. 1 (principio di personalità della responsabilità penale e divieto di responsabilità per fatto altrui) e 27 co. 3 (nella misura in cui esprime lo scopo di rieducazione insito nella pena inflitta).
Il filone giurisprudenziale testè richiamato ha costituito oggetto di profonda revisione critica ad opera della dottrina; revisione critica mutuata dagli orientamenti giurisprudenziali successivi e posta alla base delle motivazioni della sentenza delle Sezioni Unite oggetto del presente commento.
Invero, con la pronuncia in esame il Supremo Consesso ha messo in evidenza che la funzione sanzionatoria del risarcimento del danno non è incompatibile con il sistema della responsabilità civile, pur necessitando di un’apposita previsione legislativa che esprima in modo chiaro lo scopo punitivo della disposizione medesima.
D’altronde, come efficacemente esposto ed argomentato dai Giudici di legittimità, il panorama normativo offre numerosi esempi paradigmatici dell’abbandono della esclusiva funzione compensativo-riparatoria della responsabilità civile, in favore dell’accoglimento altresì della finalità punitivo-sanzionatoria impressa dalla stessa.
Si pensi, ad esempio, al novellato art. 96 co. 3 c.p.c., che consente la condanna della parte soccombente al pagamento di una somma “equitativamente determinata” in funzione sanzionatoria dell’abuso del processo (diposizione, tra l’altro, mutuata anche dall’art. 26 del Codice del processo amministrativo, introdotto dal d. lgs.n. 104/2010). Occorre precisare che sulla natura dell’art. 96 co. 3 c.p.c. si è di recente espressa la Corte costituzionale, interrogata circa la questione di legittimità costituzionale della previsione de qua. Ebbene, la Corte - con la pronuncia n. 152/2016 - ha sancito con granitica certezza la natura altresì sanzionatoria con finalità deflattiva della suddetta disposizione.
Costituisce ulteriore esempio chiarificatore della funzione sanzionatoria della responsabilità civile il decreto legislativo di nuovo conio n. 7/2016, i cui artt. 3-5 hanno abrogato le fattispecie di reato previste a tutela della fede pubblica, onore e patrimonio, prevedendo altresì - in caso di natura dolosa del reato - una sanzione afflittiva pecuniaria da cumulare al risarcimento del danno in favore del danneggiato.
I due esempi appena fatti, che si incardinano in un ben più ampio novero di fattispecie espressive della suesposta finalità della responsabilità civile e che non si intendono qui oggetto di elencazione per chiare finalità di sintesi, confermano il riscontro della cittadinanza nel nostro ordinamento della natura polifunzionale della responsabilità civile.
Pertanto, superato positivamente l’ostacolo dell’ammissibilità della funzione sanzionatoria della responsabilità civile, occorre ora comprendere in che misura possa essere importata nell’ordinamento nazionale una sentenza di condanna per danni punitivi emessa da uno Stato estero, previa verifica della compatibilità di tale trasposizione con l’ordine pubblico.
Preso atto che la nozione di “ordine pubblico” include un ampio sistema di tutele in favore dei cives approntate a livello sovraordinato rispetto alla legislazione primaria, le Sezioni Unite chiariscono che il principio di legalità vigente nell’odierno ordinamento postula che la sentenza straniera di condanna sia emessa nel rispetto di adeguate basi normative, che garantiscano i principi di tipicità e prevedibilità della sanzione.
Alla luce delle suddette argomentazioni, i Giudici di legittimità hanno concluso che alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, essendo interne al sistema sia la funzione di deterrenza che quella sanzionatoria del responsabile civile.
Pertanto, non è ontologicamente incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto di origine statunitense del risarcimento di danni di natura punitiva.
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Verso la stabilizzazione del nuovo orientamento della Cassazione in tema di assegno divorzile.
Alimenti e mantenimento
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL TRIBUNALE DI ROMA
PRIMA SEZIONE CIVILE
così composto:
dott.ssa Franca Mangano - Presidente
dott.ssa Luciana Sangiovanni - Giudice
dott.ssa Stefania Ciani - Giudice, relatore
riunito nella camera di consiglio ha emesso la seguente
SENTENZA
nella causa civile in primo grado iscritta al n. 74536 del Ruolo Generale degli Affari Contenziosi dell'anno 20P3 vertente
TRA
(...), elettivamente domiciliata in Roma presso lo studio degli avv.ti CI.No. e EI.Ba. che la rappresentano e difendono giusta procura speciale in atti;
ricorrente
(...), elettivamente domiciliato in Roma presso lo studio dell'avv. An.Sp. che lo rappresenta e difende giusta procura speciale in atti;
Con l'intervento del Pubblico Ministero.
OGGETTO: scioglimento del matrimonio.
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
Con ricorso ritualmente e tempestivamente notificato unitamente al pedissequo decreto di fissazione d'udienza, (...), premesso che in data 3 settembre 1998 contraeva in Roma matrimonio civile con (...)
che dall'unione nascevano i figli (...), esponeva che con decreti del 5 aprile 2005 il Tribunale di Roma omologava la separazione consensuale dei coniugi alle condizioni ivi indicate, successivamente modificate a seguito di procedimento ex art. 710 c.p.c. , in forza delle quali i figli minori sono affidati alla madre e collocati presso il suo domicilio con possibilità del padre di vederli e tenerli con sé due volte a settimana, per due finesettimana al mese, e per quattro settimane durante le vacanze scolastiche estive, nonché obbligo del padre medesimo di corrispondere per il loro mantenimento la somma mensile di Euro 900,00, oltre al 50% delle spese straordinarie; che da allora non era ripresa la convivenza né si era mai ricostituita la comunione materiale e spirituale, di talché ricorrevano i presupposti per dichiarare lo scioglimento del matrimonio contratto dalle parti aumentando ad Euro 1000,00 mensili la misura del contributo al mantenimento per i figli e ponendo a carico del resistente l'obbligo di corrispondere al coniuge un assegno divorzile pari ad Euro 300,00 mensili o alla diversa somma ritenuta di giustizia.
Si costituiva in giudizio (...) che aderiva alla domanda di scioglimento del matrimonio contratto con la ricorrente, ma contestava le ulteriori istanze chiedendo il rigetto della domanda della ricorrente volta al riconoscimento dell'assegno divorzile in suo favore e la riduzione dell'assegno di mantenimento per i figli posto a suo carico essendo stato nelle more licenziato ed essendo ancora privo di occupazione.
All'udienza presidenziale comparivano personalmente le parti e il Presidente, esperito senza esito positivo il tentativo di conciliazione, preso atto che ambo i coniugi erano, all'epoca disoccupati e che la ricorrente pagava un canone di locazione pari ad Euro 1650,00 mensili, riduceva la misura del contributo per il mantenimento dei figli posto a carico dell'(...) ad Euro 400,00 mensili a far data dall'ottobre 2013, fermo l'obbligo di entrambi i coniugi di contribuire in eguale misura al pagamento delle spese straordinarie e confermava per il resto le condizioni separative.
Acquisita la documentazione complessivamente prodotta dalle parti, all'udienza dell'8 febbraio 2017 il g.i. rimetteva la causa al collegio per la decisione con assegnazione dei termini di cui all'art. 190 c.p.c.
Preliminarmente deve essere disposto lo stralcio della documentazione prodotta dal resistente unitamente alla comparsa conclusionale in quanto tardiva e irrituale.
Nel merito ritiene il Tribunale che ricorrano i presupposti per dichiarare lo scioglimento del matrimonio civile contratto dalle parti in data 3 settembre 1998 atteso che è decorso il termine di legge dal momento in cui i coniugi comparvero dinanzi al Presidente del Tribunale in sede di separazione personale (art. 3 n. 2 lett. b) della L. n. 898 del 1970 e successive modifiche) e non vi è contestazione alcuna in ordine all'impossibilità di ricostituire il consorzio familiare.
Nelle more del giudizio la figlia primogenita delle parti, (...), è divenuta maggiorenne; la stessa, economicamente "non autonoma, vive unitamente al fratello minore presso la madre che nel corso del presente procedimento si è trasferita a Caserta nell'abitazione della di lei madre.
Deve, pertanto, essere disciplinato solo l'affidamento del figlio ancora minore (...) e devono essere rimodulati i tempi di permanenza dello stesso presso il padre in considerazione dell'avvenuto trasferimento della madre, presso cui lo stesso è collocato, da Roma a Caserta.
In argomento il Collegio ritiene che non sussistano ragioni ostative a disporre l'affidamento condiviso di (...) ad entrambi i genitori, come peraltro dagli stessi richiesto, con stabile e prevalente collocamento presso la madre e con possibilità per il padre di vederlo e tenerlo con sé due finesettimana al mese, dal sabato alla domenica, con la precisazione che un finesettimana al mese il padre si recherà a Caserta e un altro finesettimana al mese la madre avrà cura di accompagnare il figlio minore a Roma con oneri di viaggio del minore, in questo secondo caso, a carico del padre il quale, entro la fine di ciascun mese, dovrà comunicare per iscritto alla madre i finesettimana in cui vedrà il minore il mese successivo.
Il padre, inoltre, potrà vedere e tenere con sé il figlio (...) per metà delle vacanze scolastiche natalizie, in modo tale da alternare negli anni le principali festività, per l'intera durata delle vacanze scolastiche pasquali ad anni alterni e per quattro settimane, anche non consecutive, durante le vacanze scolastiche estive, da concordare con la madre entro il mese di maggio di ciascun anno.
Relativamente alla misura del contributo per il mantenimento dei due figli dovuto dal padre, il Collegio rileva che successivamente all'udienza presidenziale, a decorrere dal 7 luglio 2014, (...) è stato assunto con contratti di collaborazione autonoma a progetto successivamente rinnovati anche per il corrente anno 2017, dalla società (...) s.p.a. dietro un corrispettivo lordo mensile di Euro 2916,00 "comprensivo di ogni onere e spesa ... per l'esecuzione dell'incarico", giusta contratto in atti (doc. all n. 1 alla comparsa di costituitone per la fase di merito) da svolgersi nella regione Emilia.
Dagli estratti conto allegati dallo stesso resistente emerge che lo stesso percepisce una retribuzione netta mensile pari, in media, a circa Euro 1900,00/2000,00.
Pertanto, tenuto conto degli oneri economici che lo stesso (...) deve sostenere sia per espletare l'incarico lavorativo che per vedere ed incontrare il figlio in conseguenza della unilaterale decisione della madre di trasferirsi a Caserta, il Tribunale reputa equo porre a carico del medesimo l'obbligo di contribuire al mantenimento dei due figli mediante la corresponsione alla madre, entro il giorno 5 di ogni mese, della somma di Euro 600.00 (Euro 300,00 per ciascun figlio), a decorrere dalla pubblicazione della presente sentenza, fermi restando per il periodo pregresso i provvedimenti presidenziali, con la precisazione che, secondo il Protocollo d'intesa con il Foro sottoscritto il 17 dicembre 2014, sono comprese nell'assegno di mantenimento le seguenti spese: vitto, abbigliamento, contributo per spese dell'abitazione, spese per tasse scolastiche (eccetto quelle universitarie) e materiale scolastico di cancelleria, mensa, medicinali da banco (comprensivi anche di antibiotici, antipiretici e comunque di medicinali necessari alla cura di patologie ordinarie e/o stagionali) spese di trasporto urbano (tessera autobus e metro), carburante, ricarica cellulare, uscite didattiche organizzate dalla scuola in ambito giornaliero, prescuola, dopo scuola e baby sitter se già presenti nell'organizzazione familiare prima della separazione, trattamenti estetici (parrucchiere, estetista, ecc.).
Devono, inoltre, essere poste a carico di entrambe le parti in eguale misura le spese straordinarie mediche scolastiche ed extrascolastiche afferenti i figli (...) con le specificazioni di cui al ridetto Protocollo d'intesa che di seguito si trascrivono: spese straordinarie subordinate al consenso di entrambi i genitori, suddivise nelle seguenti categorie: a) scolastiche: iscrizioni e rette di scuole private e iscrizioni, rette ed eventuali spese alloggiative, ove fuori sede, di università pubbliche e private, ripetizioni, viaggi di istruzione organizzati dalla scuola, prescuola, doposcuola e baby sitter se l'esigenza nasce con la separazione e deve coprire l'orario di lavoro del genitore che li utilizza; b) spese di natura ludica o parascolastica: corsi di lingua o attività artistiche (musica, disegno, pittura), corsi di informatica, centri estivi, viaggi di istruzione, vacanze trascorse autonomamente senza i genitori, spese di acquisto e manutenzione straordinaria di mezzi di trasporto (mini-car, macchina, motorino, moto); c) spese sportive: attività sportiva comprensiva dell'attrezzatura e di quanto necessario per lo svolgimento dell'eventuale attività agonistica; d) spese medico-sanitarie: spese per interventi chirurgici, spese odontoiatriche, oculistiche e sanitarie non effettuate tramite SSN, spese mediche e di degenza per interventi presso strutture pubbliche o private convenzionate, esami diagnostici, analisi cliniche, visite specialistiche, cicli di psicoterapia e logopedia;
spese straordinarie "obbligatorie" per le quali non è richiesta la previa concertazione:
libri scolastici, spese sanitarie urgenti, acquisto di farmaci prescritti ad eccezione di quelli da banco, spese per interventi chirurgici indifferibili sia presso strutture pubbliche che private, spese ortodontiche, oculistiche e sanitarie effettuate tramite il SSN in difetto di accordo sulla terapia con specialista privato, spese di bollo e di assicurazione per il mezzo di trasporto.
Con riguardo alle spese straordinarie da concordare il genitore, a fronte di una richiesta scritta dell'altro, dovrà manifestare un motivato dissenso per iscritto nell'immediatezza della richiesta (massimo 10 giorni) ovvero in un termine all'uopo fissato; in difetto il silenzio sarà inteso come consenso alla richiesta.
Relativamente alla domanda della ricorrente volta al riconoscimento in suo favore e a carico dell'(...) di un assegno divorzile, mette conto evidenziare che a norma dell' art. 5 comma 6 della L. n. 898 del 1970 e successive modificazioni "Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto dalle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l'obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell'altro un assegno quando quest'ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non possa procurarseli per ragioni oggettive".
Al fine di esaminare compiutamente tale domanda è opportuno ripercorrere le principali tappe dell'evoluzione giurisprudenziale in argomento.
La Cassazione, infatti, con orientamento granitico in parte superato dalla recente pronuncia n. 11504 del 2017, ha chiarità che "L'accertamento del diritto all'assegno divorzile si articola in due fasi nella prima delle quali il giudice verifica l'esistenza del diritto in astratto, in relazione all'inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio e che sarebbe presumibilmente proseguito di continuazione dello stesso o quale poteva legittimamente e ragionevolmente configurarsi sulla base di aspettative maturate nel corso del rapporto, mentre nella seconda procede alla determinazione in concreto dell'ammontare dell'assegno, che va compiuta tenendo conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione e del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ognuno e di quello comune, nonché del reddito di entrambi, valutandosi tali elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio. Nell'ambito di questo duplice accertamento assumono rilievo, sotto il profilo dell'onere probatorio, le risorse reddituali e patrimoniali di ciascuno dei coniugi, quelle effettivamente destinate al soddisfacimento dei bisogni personali e familiari, nonché le rispettive potenzialità economiche" (Cass. n. 11870/2015).
Analogamente, secondo Cass. n. 11686/2013, accertamento del diritto all'assegno divorzile va effettuato verificando l'inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso o quale poteva legittimamente e ragionevolmente configurarsi sulla base di aspettative maturate nel corso del rapporto. A tal fine, il tenore di vita precedente deve desumersi dalle potenzialità economiche dei coniugi, dall'ammontare complessivo dei loro redditi e dalle loro disponibilità patrimoniali, laddove anche l'assetto economico relativo alla separazione può rappresentare un valido indice di riferimento nella misura in cui appaia idoneo a fornire utili elementi di valutazione relativi al lettore di vita goduto durante il matrimonio e alle condizioni economiche dei coniugi" (nello stesso senso v. anche: Cass. n. 15610/2007; Cass. n. 4764/2007).
Una svolta e una battuta d'arresto importante è stata segnata dalla Suprema Corte con la sentenza n. 11504 del 2017 con cui la stessa ha affermato i seguenti principi di diritto: "Il giudice del divorzio, richiesto dell'assegno di cui all' art. 5, comma 6, della L. n. 898 del 1970, come sostituito dall' art. 10 della L. n. 74 del 1987, nel rispetto della distinzione del relativo giudizio in due fasi e dell'ordine progressivo tra le stesse stabilito da tale norma: a) deve verificare, nella fase dell'"an debeatur" - informata al principio dell'"autoresponsabilità economica" di ciascuno degli ex coniugi quale "persone singole" ed il cui oggetto è costituito esclusivamente dall'accertamento volto al riconoscimento o n. del diritto all'assegno di divorzio fatto valere dall'ex coniuge richiedente - se la domanda di quest'ultimo soddisfa le relative condizioni di legge (mancanza di "mezzi adeguati" o, comunque, impossibilità "di procurarseli per ragioni oggettive"), con esclusivo riferimento all'"indipendenza o autosufficienza economica "dello stesso, desunta dai principali "indici" -salvo altri rilevanti nelle singole fattispecie - del possesso di redditi di qualsiasi specie e/o di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari (tenuto conto di tutti gli oneri lato sensu "imposti" e del costo della vita nel luogo di residenza dell'ex coniuge richiedente), delle capacità e possibilità effettive di lavoro personale (in relazione alla salute, all'età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo), della stabile disponibilità di una casa di abitazione; ciò sulla base delle pertinenti allegazioni, deduzioni e prove offerte dal richiedente medesimo; sul quale incombe il corrispondente onere probatorio, fermo il diritto all'eccezione ed alla prova contraria dell'altro ex coniuge; b) deve tener conto, nella fase del "quantum debeatur" informata al principio della "solidarietà economica" dell'ex coniuge obbligato alla prestazione dell'assegno nei confronti dell'altro in quanto "persona" economicamente più debole ( artt. 2 e 23 Cost. ), il cui oggetto è costituito esclusivamente dalla determinazione dell'assegno ed alla quale può accedersi soltanto all'esito positivo della prima fase, conclusasi con il riconoscimento del diritto - di tutti gli elementi indicati dalla norma ("(....) condizioni dei coniugi, (...) ragioni della decisione, (...) contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, (...) reddito di entrambi") e valutare "tutti i suddetti elementi anche in apporto alla durata del matrimonio" al fine di determinare in concreto la misura dell'assegno di divorzio; ciò sulla base delle pertinenti allegazioni, deduzioni e prove offerte, secondo i normali canoni che disciplinano la distribuzione dell'onere della prova".
Si legge nella motivazione di tale importante pronuncia che "Una volta sciolto il matrimonio civile o cessati gli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio religioso .... Il rapporto matrimoniale si estingue definitivamente sul piano sia dello status personale dei coniugi, i quali devono perciò considerarsi da allora in poi "persone singole" sia sul piano dei loro rapporti economico-patrimoniali ( art. 191 comma 1 cod. civ. ) e, in particolare, del reciproco dovere di assistenza morale e materiale (art. 143, comma 2 cod. civ. ), fermo, ovviamente, in presenza di figli, l'esercizio della responsabilità genitoriale, con i relativi doveri e diritti, da parte di entrambi gli ex coniugi (...).
Perfezionatasi tale fattispecie estintiva del rapporto matrimoniale, il diritto all'assegno di divorzio condizionato dal previo riconoscimento di esso in base all'accertamento giudiziale della mancanza di "mezzi adeguati" dell'ex coniuge richiedente l'assegno o, comunque, dell'impossibilità dello stesso "di procurarseli per ragioni oggettive".
La piana lettura di tale comma 6 dell'art. 5 - ... - mostra con evidenza che la sua stessa "struttura" prefigura un giudizio nitidamente e rigorosamente distinto in due fasi, il cui oggetto è costituito, rispettivamente, dall'eventuale riconoscimento del diritto (fase dell'an debeatur) e - solo all'esito positivo di tale prima fase - dalla determinazione quantitativa dell'assegno (fase del quantum debeatur).
La complessiva ratio dell'art. 5, comma 6. della L. n. 898 del 1970 .... ha fondamento costituzionale nel dovere inderogabile di "solidarietà economica" (art. 2 in relazione all'art. 23 Cost. ), il cui adempimento è richiesto ad entrambi gli ex coniugi, quali "persone singole", a tutela della "persona" economicamente più debole (cosiddetta "solidarietà postconiugale"): sta precisamente in questo duplice fondamento costituzionale sia la qualificazione della natura dell'assegno di divorzio come esclusivamente "assistenziale" in favore dell'ex coniuge economicamente più debole ( art. 2 Cost.)...sia la giustificazione della doverosità deità sua "prestazione " ( art. 23 Cost.).
Sicché se il diritto all'assegno di divorzio: riconosciuto alla "persona" dell'ex coniuge nella fase dell'an debeatur, l'assegno è "determinato" esclusivamente nella successiva frase dei quantum debeatur, non già "in ragione" del rapporto matrimoniale ormai definitivamente estinto, bensì "in considerazione" di esso nel corso di tale seconda fase ..., avendo lo stesso rapporto ancorché estinto pure nella sua dimensione economico-patrimoniale, caratterizzato, anche sul piano giuridico, per un periodo più o meno lungo della vita in comune ("la comunione spirituale e materiale degli ex coniugi.
.... Il carattere condizionato del diritto all'assegno di divorzio -comportando ovviamente la sua negazione in presenza di "mezzi adeguati" dell'ex coniuge richiedente o delle effettive possibilità "di procurarseli", vale a dire della "indipendenza o autosufficienza economica" dello stesso - comporta, altresì, che, in carenza di ragioni di "solidarietà economica", l'eventuale riconoscimento del diritto si risolverebbe in una locupletazione, illegittima, in quanto fondata esclusivamente sul fatto della "mera preesistenza" di un rapporto matrimoniale ormai estinto ed inoltre di durata tendenziale sine die: il discrimine tra "solidarietà economica" ed illegittima locupletazione sta, perciò, proprio nel giudizio sull'esistenza, o no, delle condizioni del diritto all'assegno, nella fase dell'an debeatur".
Fatte queste premesse, i giudici di legittimità si diffondono sull'interpretazione del sintagma normativo "mezzi adeguati" e "impossibilità di procurarsi mezzi adeguati per ragioni oggettive" al fine di individuare l'indispensabile parametro di riferimento cui rapportare l'adeguatezza-inadeguatezza dei mezzi del richiedente l'assegno e la possibilità-impossibilità dello stesso di procurarseli, ponendo in evidenza che dopo le pronunce delle Sezioni unite nn. 11490 e 11492 del 1990 il parametro di riferimento cui rapportare l'adeguatezza-inadeguatezza dei mezzi il richiedente l'assegno è stato costantemente individuato nel "tenore di vita analogo a quelle avuto in costanza di matrimonio o che poteva legittimamente e ragionevolmente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio stesso; fissate al momento del divorzio".
Tale orientamento è stato, tuttavia, ritenuto dai supremi giudici non più attuale.
Si legge, infatti, nella motivazione della più volte citata pronuncia:
"A) il parametro del "tenore di vita" - se applicato anche nella fase dell'an debeatur - collide radicalmente con la natura stessa dell'istituto del divorzio e i suoi effetti giuridici: ... con la sentenza di divorzio il rapporto matrimoniale si estingue sul piano non solo personale ma anche economico-patrimoniale - a differenza di quanto accade con la separazione personale che lascia in vigore, seppure in forma attenuata, gli obblighi coniugali di cui all'art. 143 cod. civ. - sicché ogni riferimento a tale rapporto finisce illegittimamente con il ripristinarlo - sia pure limitatamente alla dimensione economica del "tenore di vita matrimoniale " ivi condotto - in una indebita prospettiva ... di "ultrattività" del vincolo
matrimoniale.
B) La scelta di detto parametro implica l'omessa considerazione che il diritto all'assegno di divorzio è eventualmente riconosciuto all'ex coniuge richiedente, nella fase dell'an debeatur, esclusivamente come "persona singola" e non già come (ancora) "parte" di un rapporto matrimoniale ormai estinto anche sul piano economico-patrimoniale, avendo il legislatore della riforma del 1987 informato la disciplina dell'assegno di divorzio, sia pure per implicito, ma in modo inequivoco, al principio di "autoresponsabilità" economica pronuncia di divorzio.
C) la "necessaria considerazione" da parte del giudice del divorzio, del preesistente rapporto matrimoniale anche nella sua dimensione economico-patrimoniale (...) è normativamente ed esplicitamente prevista soltanto per l'eventuale fase del giudizio avente ad oggetto la determinazione dell'assegno (quantum debeatur), vale a dire ... soltanto dopo l'esito positivo della fase precedente (an debeatur) conclusasi cioè con il riconoscimento del diritto all'assegno.
D) il parametro del "tenore di vita" induce inevitabilmente ma inammissibilmente ... una indebita commistione tra due fasi del giudizio e tra i relativi accertamenti.
E) Le menzionate sentenze delle Sezioni Unite del 1990 si fecero carico della necessità di contemperamento dell'esigenza di superare la concezione patrimonialistica del matrimonio "inteso come sistemazione definitiva perché il divorzio è stato assorbito dal costume sociale" ... con l'esigenza di non turbare un costume sociale ancora caratterizzato dalla "attuale esistenza di modelli di matrimonio più tradizionali, anche perché sorti in epoca molto anteriore alla riforma" .... Questa esigenza, tuttavia, si è molto attenuata nel corso degli anni, essendo ormai generalmente condiviso nel costume sociale il significato di matrimonio come atto di libertà e di autoresponsabilità, nonché come luogo degli effetti e di effettiva comunione di vita, in quanto tale dissolubile. Non (è) configurabile un interesse giuridicamente o protetto dell'ex coniuge a conservare il tenore di vita matrimoniale. L'interesse tutelato con l'attribuzione dell'assegno divorzile ... non è il riequilibrio delle condizioni economiche degli ex coniugi, ma il raggiungimento della indipendenza economica, in tal senso dovendo intendersi la funzione - esclusivamente - assistenziale dell'assegno
F) Al di là delle diverse opinioni che si possono avere sulla rilevanza ermeneutica dei lavori preparatori della L. n. 74 del 1987(che inserì nell'art. 5 il fondamentale riferimento alla mancanza di "mezzi adeguati" e alla "impossibilità di procurarseli") .... non v'è dubbio che chiara era la volontà del legislatore del 1987 di evitare che il giudizio sulla "adeguatezza dei mezzi" fosse riferito "alle condizioni del soggetto pagante" anziché "alle necessità del soggetto creditore" .... Nel giudizio sull'an debeatur, infatti, non possono rientrare valutazioni di tipo comparativo tra le condizioni economiche degli ex coniugi, dovendosi avere riguardo esclusivamente alle condizioni del soggetto richiedente l'assegno successivamente al divorzio".
Evidenziata la criticità del parametro del tenore di vita e preso atto della necessità di individuare un parametro diverso, i giudici di legittimità affermano che tale parametro cui rapportare il giudizio di adeguatezza-inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente l'assegno e la possibilità-impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, "vada individuato nel raggiungimento dell'"indipendenza economica" del richiedente: se è accertato che quest'ultimo è "economicamente indipendente" è effettivamente in grado di esserlo, non deve essergli riconosciutoci relativo diritto", in forza del principio dell'autoresponsabilità economica valevole anche per i figli.
In coerenza con tali premesse e con la nozione di indipendenza economica, prosegue la Corte, "a) il relativo accertamento nella fase dell'an debeatur attiene esclusivamente, alla persona dell'ex coniuge richiedente l'assegno come singolo individuo cioè senza alcun riferimento al preesistente rapporto matrimoniale; b) soltanto nella fase del quantum debeatur è legittimo procedere ad un "giudizio comparativo" tra le rispettive "posizioni" (lato sensu intese) personali ed economico-patrimoniali degli ex coniugi, secondo gli specifici criteri dettati dall' art. 5 comma 6, della L. n. 898 del 1970 per tale fase di giudizio.
Ciò premesso, il Collegio ritiene che i principali "indici" - salvo ovviamente altri elementi che potranno eventualmente rilevare nelle singole fattispecie - per accertare, nella fase di giudizio sull'an debeatur, la sussistenza, o no, dell'"indipendenza economica" dell'ex coniuge richiedente l'assegno di divorzio - e, quindi, l'"adeguatezza", o no, dei "mezzi", nonché la possibilità o n. "per ragioni oggettive", dello stesso di procurarseli - possono essere così individuati:
1) il possesso di redditi di qualsiasi specie;
2) il possesso di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari, tenuto conto di tutti gli oneri lato sensu "imposti" e del costo della vita nel luogo di residenza ("dimora abituale": art. 43, secondo comma, cod. civ. ) della persona che richiede l'assegno;
3) le capacità e le possibilità effettive di lavoro personale, in relazione alla salute, all'età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo;
4) la stabile disponibilità di tino casa di abitazione.
Quanto al regime della prova della non "indipendenza economica" dell'ex coniuge che fa valere il diritto dell'assegno; non v'è dubbio che, secondo la stessa formulazione della disposizione in esame e secondo i normali canoni che disciplinano la distribuzione del relativo onere, allo stesso spetta di allegare, dedurre e dimostrare di "non avere mezzi adeguati" e di "non poterseli procurare per ragioni oggettive". Tale onere probatorio ha ad oggetto i predetti indici principali, costitutivi del parametro dell'"indipendenza economica " e presuppone tempestive, rituali e pertinenti allegazioni e deduzioni da parte del medesimo coniuge, restando fermo, ovviamente, il diritto all'eccezione e alla prova contraria dell'altro (cfr. art. 4, comma 10, della L. n. 898 del 1970).
In particolare, mentre il possesso di redditi e di cespiti patrimoniali formerà normalmente oggetto di prove documentali soprattutto "le capacità e le possibilità effettive di lavoro personale" formeranno oggetto di prova che può essere data con ogni mezzo idoneo, anche di natura presuntiva, fermo restando l'onere del richiedente l'assegno di allegare specificamente (e provare in caso di contestazione) le concrete iniziative assunte per il raggiungimento dell'indipendenza economica, secondo le proprie attitudini e le eventuali esperienze lavorative".
L'applicazione del canone normativo sopra ricordato unitamente a quanto da ultimo affermato dalla Suprema Corte di Cassazione nella più volte menzionata pronuncia n. 11504 del 2017 induce questo Collegio a ritenere non sussistenti nel caso di specie i presupposti per il riconoscimento dell'assegno divorzile in favore della (...).
Invero costei, laureata in scienze politiche, all'epoca della separazione "libero professionista" con un reddito netto mensile, di circa Euro 2000,00 e nessuna proprietà immobiliare, come dichiarato all'udienza del 29 marzo 2005 dinanzi all'allora Presidente ff nel ricorso introduttivo del presente giudizio ha chiesto il riconoscimento dell'assegno di divorzio "a causa delle mutate - peggiorate - condizioni economiche", sebbene in sede separativa e successivamente fosse previsto che ciascun coniuge avrebbe provveduto autonomamente al proprio mantenimento.
All'udienza presidenziale del presente giudizio divorzile la (...) ha dichiarato di non lavorare, di svolgere saltuariamente docenze e traduzioni per "(...)" e "Ministeri" e di corrispondere un canone di locazione per la casa di Roma ove ella abitava unitamente ai due figli di Euro 1650,00 mensili, oltre spese condominiali, di essere stata aiutata dalla sua famiglia, di aver usato tutti i suoi "fondi", di aver venduto la casa di Roma perché non riusciva più a pagare il mutuo e di aver deciso di vivere nel predetto appartamento in affitto perché vicino alla scuola dei figli e priva dell'automobile, di essere costretta a lasciare Roma e andare a Caserta dalla madre.
Nel corso del giudizio la ricorrente sì è effettivamente trasferita a Caserta unitamente ai due figli presso l'abitazione della di lei madre, come dalla stessa dedotto nella memoria integrativa depositata il 20 ottobre 2014, in cui ha dato atto di essere ancora disoccupata, sebbene impegnata nella ricerca di un'occupazione lavorativa.
Dalla documentazione dalla stessa prodotta emerge, inoltre, che: attualmente la (...) non ha disponibilità economiche o altri fondi accantonati (v. estratti conto in atti); alla fine del 2014 (29 dicembre 2014) ha chiuso la partita IVA, aperta in quanto libero professionista; nel 2011 ha dichiarato un reddito complessivo, afferente il 2010, di Euro 2205,00; nel 2012 ha dichiarato un reddito negativo (-937,00 Euro, afferente il 2011); nel 2013 ha dichiarato un reddito complessivo di Euro 1695,00 (afferente il 2012) e nel 2014 un reddito complessivo negativo di Euro - 5507,00 a (afferente il 2013).
La stessa ricorrente in data 15 novembre 2010 ha alienato l'appartamento site in R. Via (...) composto da cinque camere e servizi, al prezzo complessivo di Euro 570.000,00, giusta atto di compravendita prodotto dal resistente, e, tenuto conto del mutuo gravante sul ridetto immobile ed estinto successivamente alla vendita, ha realizzato una plusvalenza pari ad Euro 200.000,00, circostanza dedotta dall'(...) non contestata ex adverso, di cui non è dato conoscere la destinazione.
Per completezza mette conto evidenziare, inoltre, che pur disponendo di entrate assai esigue, come comprovato dalle dichiarazioni fiscali sopra richiamate, la ricorrente conduceva in locazione un immobile in Roma per cui corrispondeva un elevato canone di locazione, pari ad Euro 1650,00 mensili oltre oneri condominiali, come dalla stessa dichiarato all'udienza presidenziale, ciò che induce fondatamente il Collegio a ritenere che la (...) disponesse di ulteriori entrate.
Nello stesso periodo, inoltre, la (...) riceva dal coniuge un assegno di mantenimento per i due figli delle parti pari ad Euro 900,00 mensili, così rideterminato dalla Corte d'appello di Roma con decreto del 29 dicembre 2009 , dopo aver percepito per circa quattro anni un assegno di mantenimento, per lo stesso titolo, di Euro 1200,00 mensili secondo quanto concordato in sede separativa.
Allo stato e sin dal 2014 la ricorrente unitamente ai figli si è trasferita a Caserta dove vive presso l'abitazione materna secondo la sua prospettazione, è ancora disoccupata.
Sul punto, tuttavia, devesi evidenziare che la stessa non ha dedotto né, a fortiori, provato di essersi attivata per reperire un'occupazione lavorativa consona all'esperienza professionale maturata e al titolo di studi conseguito avendo svolto allegazioni alquanto generiche e non circostanziate sul punto ed avendo articolato un capitoli di prova testimoniale privo di qualsivoglia riferimento temporale e fattuale che correttamente e condivisibilmente il giudice istruttore non ha ammesso.
La ricorrente, inoltre, neppure ha dedotto di essere nell'impossibilità, per impedimento fisico o altro, di svolgere qualsivoglia attività lavorativa, avendo anzi dichiarato ai l'udienza presidenziale di espletare saltuariamente incarichi di docenza e interprete presso l'Università (...) e alcuni Ministeri.
Peraltro la scelta unilaterale di trasferirsi da Roma a Caserta ha consentito alla (...) di usufruire gratuitamente di un'abitazione, quella della madre, nonché di vivere in una città ove il costo della vita è notoriamente meno caro di quello della Capitale, sebbene, per altro verso, il contesto sociale ed economico offra minori possibilità di lavoro, circostanza quest'ultima che non può che ricadere sulla stessa (...) che ha fatto tale scelta di vita.
Per tutte le ragioni sopra esposte, tenuto conto del più recente orientamento della giurisprudenza di legittimità sopra ampiamente illustrato, degli indici, enucleati dalla Suprema Corte, costitutivi del parametro dell'indipendenza economica, indici che operano in via concorrenziale e non già alternativa, e, soprattutto, del mancato assolvimento da parte della (...) dell'onere probatorio della non indipendenza economica nel senso sopra precisato, il Collegio ritiene che la domanda di assegno divorzile dalla stessa spiegata non possa trovare accoglimento.
Le ragioni della decisione, in una con la peculiarità della natura e dell'oggetto della presente controversia e il mutamento, almeno parziale, della giurisprudenza di legittimità in ordine all'assegno divorzile, giustificano l'integrale compensazione delle spese di lite tra le parti.
P.Q.M.
Il Tribunale, definitivamente pronunciando nella causa civile in primo grado iscritta al n. 74536/2013 R.G.A.C., disattesa ogni contraria istanza, deduzione ed eccezione, così decide:
dichiara lo scioglimento del matrimonio contratto in Roma in data 3 settembre 1998 da (...) e (...), trascritto nel registro degli atti di matrimonio di Roma Capitale al n. 1771, parte I, anno 1998, alle seguenti condizioni:
il figlio minore (...) è affidato in modo condiviso ad entrambi i genitori e stabilmente collocato presso la madre ove è fissata la sua residenza;
i genitori eserciteranno la responsabilità genitoriale separatamente limitatamente alle decisioni su questioni di ordinaria amministrazione durante i tempi di permanenza del minore presso ciascuno di loro;
le decisioni di maggior interesse per il figlio afferenti l'educazione, l'istruzione, la salute e la scelta della residenza abituale saranno assunte di comune accordo da entrambi i genitori tenuto conto delle capacità, delle aspirazioni e dell'inclinazione naturale del minore in caso di disaccordo, dal giudice;
salvo diverso accordo tra le parti, il padre vedrà e terrà con sé (...): a) due finesettimana al mése, dal sabato alla domenica, con la precisazione che un finesettimana al mese il padre si recherà a Caserta per incontrare il figlio e uri altro finesettimana al mese la madre avrà cura di accompagnare il figlio minore a Roma con oneri di viaggio riguardanti (...) a carico del padre e con l'ulteriore precisazione per cui il padre entro la fine di ciascun mese comunicherà alla madre i due finesettimana in cui incontrerà e terrà con sé il figlio secondo le modalità descritte; b) per metà della durata delle vacanze scolastiche natalizie, in modo tale da alternare negli anni le principali festività; c) per l'intera durata delle vacanze scolastiche pasquali ad anni alterni; d) per quattro settimane anche non consecutive durante le vacanze scolastiche estive da concordare con la madre entro il mese di maggio di ciascun anno;
il padre corrisponderà alla madre, a titolo di contributo per il mantenimento di (...) e di (...), a far data dalla pubblicazione della presente sentenza ed entro il giorno 5 di ogni mese, la somma mensile di Euro 600,00 da rivalutare annualmente secondo gli indici Istat, fermi restando per il periodo pregresso i provvedimenti presidenziali, con le specificazioni di cui in parte motiva;
pone a carico di ambo le parti in eguale misura le spese straordinarie afferenti i figli con le precisazioni di cui in parte motivaci
rigetta la domanda della (...) volta al riconoscimento dell'assegno divorzile in suo favore.
Dichiara integralmente compensate le spese di lite tra le parti.
Ordina al competente Ufficiale dello Stato Civile di procedere all'annotazione della presente sentenza negli appositi registri e al cancelliere di provvedere agli adempimenti di cui all' art. 10 della L. 1 dicembre 1970, n. 898.
Così deciso in Roma, il 9 giugno 2017.
Depositata in Cancelleria il 23 giugno 2017.
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I principali "indici" per accertare la sussistenza dell'indipendenza economica dell'ex coniuge richiedente l'assegno divorzile.
Cass. civ. Sez. I, 10-05-2017,
n. 11504
L.L.C. c. G.V.
MATRIMONIO
E DIVORZIODivorzio(assegno di divorzio)
I principali "indici" - salvo ovviamente altri
elementi, che potranno eventualmente rilevare nelle singole fattispecie - per
accertare, nella fase di giudizio sull'an debeatur, la sussistenza, o no,
dell'indipendenza economica" dell'ex coniuge richiedente l'assegno di
divorzio - e, quindi, l'adeguatezza", o no, dei "mezzi", nonché
la possibilità, o no "per ragioni oggettive", dello stesso di
procurarseli possono essere così individuati nel possesso di redditi di
qualsiasi specie; nel possesso di cespiti patrimoniali mobiliari ed
immobiliari, tenuto conto di tutti gli oneri lato sensu "imposti" e
del costo della vita nel luogo di residenza ("dimora abituale":
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Sull' "adeguatezza-inadeguatezza" dei mezzi dell'ex coniuge richiedente l'assegno di divorzio.
Cass. civ. Sez. I,
10-05-2017, n. 11504
L.L.C. c. G.V.
MATRIMONIO E DIVORZIODivorzio(assegno di
divorzio)
Il parametro di
riferimento cui rapportare il giudizio
sull'"adeguatezza-inadeguatezza" dei mezzi dell'ex coniuge
richiedente l'assegno di divorzio e sulla possibilità-impossibilità per ragioni
oggettive dello stesso di procurarseli va individuato non più nel "tenore
di vita avuto in costanza di matrimonio", ma nel raggiungimento dell'
"indipendenza economica" del richiedente: se è accertato che
quest'ultimo è economicamente indipendente o è effettivamente in grado di
esserlo non deve essergli riconosciuto il relativo diritto.
FONTI
Quotidiano Giuridico, 2017
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I recenti approdi della giurisprudenza in tema di divorzio: la sentenza della Cassazione.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri
Magistrati:
Dott. DI PALMA Salvatore -
Presidente -
Dott. BISOGNI Giacinto -
Consigliere -
Dott. ACIERNO Maria -
Consigliere -
Dott. DI MARZIO Mauro -
Consigliere -
Dott. LAMORGESE Antonio - rel.
Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 20724/2014 proposto
da:
L.L.C., elettivamente
domiciliata in Roma, Via Donizetti n.9, presso l'avvocato Maggio Assunta,
rappresentata e difesa dall'avvocato Santagata Salvatore, giusta procura in
calce al ricorso;
- ricorrente -
contro
G.V., elettivamente domiciliato
in Roma, Via di Portonaccio n.200, presso l'avvocato Mariotti Daniele, che lo
rappresenta e difende unitamente all'avvocato Favero Ida, giusta procura in
calce al controricorso;
- controricorrente -
avverso la sentenza n.
1670/2014 della CORTE D'APPELLO di MILANO, depositata il 27/03/2014;
udita la relazione della causa
svolta nella pubblica udienza del 10/02/2017 dal cons. LAMORGESE ANTONIO
PIETRO;
udito, per la ricorrente,
l'Avvocato SALVATORE SANTAGATA che ha chiesto l'accoglimento del ricorso;
udito, per il controricorrente,
l'Avvocato IDA FAVERO che ha chiesto il rigetto del ricorso;
udito il P.M., in persona del
Sostituto Procuratore Generale CERONI Francesca, che ha concluso per
l'accoglimento dl ricorso.
Svolgimento del processo
1. - Il Tribunale di Milano ha
dichiarato lo scioglimento del matrimonio, contratto nel (OMISSIS), tra G.V. e
L.L.C. ed ha respinto la domanda di assegno divorzile proposta da quest'ultima.
2. - Il gravame della L. è
stato rigettato dalla Corte d'appello di Milano, con sentenza 27 marzo 2014.
2.1. - La Corte, avendo
ritenuto che il luogo di residenza della L. (convenuta nel giudizio) fosse a
(OMISSIS), ha rigettato l'eccezione di incompetenza territoriale del Tribunale
di Milano, a favore del Tribunale di Roma, ove era la residenza o il domicilio
del ricorrente G., da essa sollevata sul presupposto della propria residenza
all'estero, a norma della L. 1 dicembre 1970, n. 898,art. 4, comma 1; ha ritenuto poi non dovuto
l'assegno divorzile in favore della L., non avendo questa dimostrato
l'inadeguatezza dei propri redditi ai fini della conservazione del tenore di
vita matrimoniale, stante l'incompletezza della documentazione reddituale da essa
prodotta, in una situazione di fatto in cui l'altro coniuge aveva subito una
contrazione reddituale successivamente allo scioglimento del matrimonio.
3. - Avverso questa sentenza la
L. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi, cui si è
opposto il G. con controricorso. Le parti hanno presentato memorie ex art. 378
cod. proc. civ..
Motivi della decisione
1. - Con il primo motivo la
ricorrente ha denunciato la violazione della L. n. 898 del 1970, art. 4, comma 1, per avere la Corte d'appello
affermato la competenza per territorio del Tribunale di Milano, essendo invece
competente il Tribunale di Roma, ove era la residenza o il domicilio del ricorrente
G., essendo la convenuta residente all'estero.
1.1. - Il motivo è infondato.
Premesso che, contrariamente a
quanto sostenuto dal G., la questione della competenza è stata riproposta in
appello e che su di essa, quindi, non si è formato il giudicato, la sentenza
impugnata ha ragionevolmente valorizzato quanto dichiarato dalla L. (convenuta
nel giudizio) nell'atto di appello, e in altri atti giudiziari, circa la sua
residenza a (OMISSIS), che corrispondeva a quanto risultava dalle
certificazioni anagrafiche, giudicando irrilevante la diversa indicazione, resa
all'udienza presidenziale, di essere residente a (OMISSIS), luogo quest'ultimo
rientrante pur sempre nella competenza del Tribunale di Milano; inoltre, ha
adeguatamente argomentato in ordine a(la mancanza di prova della residenza
all'estero della L., ritenendo inidonea a tal fine la mera disponibilità da
parte della medesima di un'abitazione negli Stati Uniti.
La decisione impugnata è,
pertanto, conforme al principio enunciato da questa Corte - che va ribadito -,
secondo cui la domanda di scioglimento del matrimonio civile o di cessazione
degli effetti civili del matrimonio concordatario va proposta, ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 4, comma 1, (nel testo introdotto dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35, art. 2, comma 3-bis, convertito in legge, con
modificazioni, dalla L. 14 maggio 2005, n. 80, art. 1, comma 1), quale risultante a seguito
della dichiarazione di illegittimità costituzionale (sentenza n. 169 del 2008),
al tribunale del luogo di residenza o domicilio del coniuge convenuto, salva
l'applicazione degli ulteriori criteri previsti in via subordinata dalla
medesima norma (Cass. ord. n. 15186 del 2014).
2. - Con il secondo motivo la
L. ha denunciato la violazione e falsa applicazione della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, per avere la Corte milanese
negato il suo diritto all'assegno sulla base della circostanza che lo stesso G.
non avesse mezzi adeguati per conservare l'alto tenore di vita matrimoniale,
dando rilievo decisivo alla riduzione dei suoi redditi rispetto all'epoca della
separazione, mentre avrebbe dovuto prima verificare la indisponibilità, da
parte dell'ex coniuge richiedente, di mezzi adeguati a conservare il tenore di
vita matrimoniale o la sua impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive.
Con il terzo motivo la L. ha
denunciato vizio di motivazione, per avere omesso di considerare elementi
probatori rilevanti al fine di dimostrare la sussistenza del diritto
all'assegno.
Con il quarto motivo la
ricorrente ha denunciato la violazione degli artt. 112 e 132 c.p.c. ,
per avere i giudici di merito escluso il diritto all'assegno, disconoscendo la
rilevanza della sperequazione tra le situazioni reddituali e patrimoniali degli
ex coniugi e dando erroneamente rilievo agli accordi raggiunti in sede di
separazione che, al contrario, indicavano la disparità economica tra le parti e
la mancanza di autosufficienza economica della L..
2.1. - Tali motivi sono
infondati.
Si rende, tuttavia, necessaria,
ai sensi dell'art.
384 c.p.c. , comma 4, la
correzione della motivazione in diritto della sentenza impugnata, il cui
dispositivo - come si vedrà (cfr. infra, sub n. 2.6) - è conforme a diritto, in
base alle considerazioni che seguono.
Una volta sciolto il matrimonio
civile o cessati gli effetti civili conseguenti alla trascrizione del
matrimonio religioso - sulla base dell'accertamento giudiziale, passato in
giudicato, che "la comunione spirituale e materiale tra i coniugi non può
essere mantenuta o ricostituita per l'esistenza di una delle cause previste
dall'art. 3" (cfr. artt. 1 e 2, mai modificati, nonchè la L. n. 898 del 1970, art. 4, commi 12 e 16) -, il rapporto
matrimoniale si estingue definitivamente sul piano sia dello status personale
dei coniugi, i quali devono perciò considerarsi da allora in poi "persone
singole", sia dei loro rapporti economico-patrimoniali ( art. 191
c.c. , comma 1) e, in
particolare, del reciproco dovere di assistenza morale e materiale ( art. 143
c.c. , comma 2), fermo
ovviamente, in presenza di figli, l'esercizio della responsabilità genitoriale,
con i relativi doveri e diritti, da parte di entrambi gli ex coniugi (cfr. art. 317
c.c. , comma 2, e da
artt. 337-bis a 337-octies c.c.).
Perfezionatasi tale fattispecie
estintiva del rapporto matrimoniale, il diritto all'assegno di divorzio -
previsto dalla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, nel testo sostituito dalla L. n. 74 del 1987, art. 10 - è condizionato dal previo
riconoscimento di esso in base all'accertamento giudiziale della mancanza di
"mezzi adeguati" dell'ex coniuge richiedente l'assegno o, comunque,
dell'impossibilità dello stesso "di procurarseli per ragioni
oggettive".
La piana lettura di tale comma
6 dell'art. 5 - "Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la
cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto
delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo
personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla
formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di
entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata
del matrimonio dispone l'obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente
a favore dell'altro un assegno quando quest'ultimo non ha mezzi adeguati o
comunque non può procurarseli per ragioni oggettive" - mostra con evidenza
che la sua stessa "struttura" prefigura un giudizio nitidamente e
rigorosamente distinto in due fasi, il cui oggetto è costituito,
rispettivamente, dall'eventuale riconoscimento del diritto (fase dell'an
debeatur) e - solo all'esito positivo di tale prima fase - dalla determinazione
quantitativa dell'assegno (fase del quantum debeatur).
La complessiva ratio della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, (diritto condizionato
all'assegno di divorzio e - riconosciuto tale diritto determinazione e
prestazione dell'assegno) ha fondamento costituzionale nel dovere inderogabile
di "solidarietà economica" (art. 2, in relazione all'art. 23,
Cost. ), il cui
adempimento è richiesto ad entrambi gli ex coniugi, quali "persone
singole", a tutela della "persona" economicamente più debole
(cosiddetta "solidarietà post-coniugale"): sta precisamente in questo
duplice fondamento costituzionale sia la qualificazione della natura
dell'assegno di divorzio come esclusivamente "assistenziale" in
favore dell'ex coniuge economicamente più debole ( art. 2 Cost. ) - natura che in questa sede va
ribadita -, sia la giustificazione della doverosità della sua
"prestazione" ( art. 23
Cost.).
Sicchè, se il diritto
all'assegno di divorzio è riconosciuto alla "persona" dell'ex coniuge
nella fase dell'an debeatur, l'assegno è "determinato" esclusivamente
nella successiva fase del quantum debeatur, non già "in ragione" del
rapporto matrimoniale ormai definitivamente estinto, bensì "in considerazione"
di esso nel corso di tale seconda fase (cfr. l'incipit del comma 6 dell'art. 5
cit.: "(....) il tribunale, tenuto conto (....)"), avendo lo stesso
rapporto, ancorchè estinto pure nella sua dimensione economico-patrimoniale,
caratterizzato, anche sul piano giuridico, un periodo più o meno lungo della
vita in comune ("la comunione spirituale e materiale") degli ex
coniugi.
Deve, peraltro, sottolinearsi
che il carattere condizionato del diritto all'assegno di divorzio - comportando
ovviamente la sua negazione in presenza di "mezzi adeguati" dell'ex
coniuge richiedente o delle effettive possibilità "di procurarseli",
vale a dire della "indipendenza o autosufficienza economica" dello
stesso - comporta altresì che, in carenza di ragioni di "solidarietà
economica", l'eventuale riconoscimento del diritto si risolverebbe in una
locupletazione illegittima, in quanto fondata esclusivamente sul fatto della
"mera preesistenza" di un rapporto matrimoniale ormai estinto, ed
inoltre di durata tendenzialmente sine die: il discrimine tra "solidarietà
economica" ed illegittima locupletazione sta, perciò, proprio nel giudizio
sull'esistenza, o no, delle condizioni del diritto all'assegno, nella fase
dell'an debeatur.
Tali precisazioni preliminari
si rendono necessarie, perchè non di rado è dato rilevare nei provvedimenti
giurisdizionali aventi ad oggetto l'assegno di divorzio una indebita
commistione tra le due "fasi" del giudizio e tra i relativi
accertamenti che, essendo invece pertinenti esclusivamente all'una o all'altra
fase, debbono per ciò stesso essere effettuati secondo l'ordine progressivo
normativamente stabilito.
2.2. - Tanto premesso, decisiva
è, pertanto - ai fini del riconoscimento, o no, del diritto all'assegno di
divorzio all'ex coniuge richiedente -, l'interpretazione del sintagma normativo
"mezzi adeguati" e della disposizione "impossibilità di
procurarsi mezzi adeguati per ragioni oggettive" nonchè, in particolare e
soprattutto, l'individuazione dell'indispensabile "parametro di
riferimento", al quale rapportare l'"adeguatezza-inadeguatezza"
dei "mezzi" del richiedente l'assegno e, inoltre, la
"possibilità-impossibilità" dello stesso di procurarseli.
Ribadito, in via generale -
salve le successive precisazioni (v., infra, n. 2.4) -, che grava su quest'ultimo
l'onere di dimostrare la sussistenza delle condizioni cui è subordinato il
riconoscimento del relativo diritto, è del tutto evidente che il concreto
accertamento, nelle singole fattispecie, dell'adeguatezza-inadeguatezza"
di "mezzi" e della "possibilità-impossibilità" di
procurarseli può dar luogo a due ipotesi: 1) se l'ex coniuge richiedente
l'assegno possiede "mezzi adeguati" o è effettivamente in grado di
procurarseli, il diritto deve essergli negato tout court; 2) se, invece, lo
stesso dimostra di non possedere "mezzi adeguati" e prova anche che
"non può procurarseli per ragioni oggettive", il diritto deve
essergli riconosciuto.
E' noto che, sia prima sia dopo
le fondamentali sentenze delle Sezioni Unite nn. 11490 e 11492 del 29 novembre
1990 (cfr. ex plurimis, rispettivamente, le sentenze nn. 3341 del 1978 e 4955
del 1989, e nn. 11686 del 2013 e 11870 del 2015), il parametro di riferimento -
al quale rapportare l'"adeguatezza-inadeguatezza" dei
"mezzi" del richiedente - è stato costantemente individuato da questa
Corte nel "tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di
matrimonio, o che poteva legittimamente e ragionevolmente fondarsi su
aspettative maturate nel corso del matrimonio stesso, fissate al momento del
divorzio" (così la sentenza delle S.U. n. 11490 del 1990, pag. 24).
Sull'attuale rilevanza del
"tenore di vita matrimoniale", come parametro
"condizionante" e decisivo nel giudizio sul riconoscimento del
diritto all'assegno, non incide - come risulterà chiaramente alla luce delle
successive osservazioni - la mera possibilità di operarne in concreto un
bilanciamento con altri criteri, intesi come fattori di moderazione e
diminuzione di una somma predeterminata in astratto sulla base di quel
parametro.
A distanza di quasi ventisette
anni, il Collegio ritiene tale orientamento, per le molteplici ragioni che
seguono, non più attuale, e ciò lo esime dall'osservanza dell'art.
374 c.p.c. , comma 3.
A) Il parametro del
"tenore di vita" - se applicato anche nella fase dell'an debeatur -
collide radicalmente con la natura stessa dell'istituto del divorzio e con i
suoi effetti giuridici: infatti, come già osservato (supra, sub n. 2.1), con la
sentenza di divorzio il rapporto matrimoniale si estingue sul piano non solo
personale ma anche economico-patrimoniale - a differenza di quanto accade con
la separazione personale, che lascia in vigore, seppure in forma attenuata, gli
obblighi coniugali di cui all'art. 143
cod. civ. -, sicchè ogni
riferimento a tale rapporto finisce illegittimamente con il ripristinarlo sia
pure limitatamente alla dimensione economica del "tenore di vita
matrimoniale" ivi condotto - in una indebita prospettiva, per così dire,
di "ultrattività" del vincolo matrimoniale.
Sono oltremodo significativi al
riguardo: 1) il brano della citata sentenza delle Sezioni Unite n. 11490 del
1990, secondo cui "(....) è utile sottolineare che tutto il sistema della
legge riformata (....) privilegia le conseguenze di una perdurante (....)
efficacia sul piano economico di un vincolo che sul piano personale è stato
disciolto (....)" (pag. 38); 2) l'affermazione della "funzione di
riequilibrio" delle condizioni economiche degli ex coniugi attribuita da
tale sentenza all'assegno di divorzio: "(....) poichè il giudizio sull'an
del diritto all'assegno è basato sulla determinazione di un quantum idoneo ad eliminare
l'apprezzabile deterioramento delle condizioni economiche del coniuge che, in
via di massima, devono essere ripristinate, in modo da ristabilire un certo
equilibrio (....), è necessaria una determinazione quantitativa (sempre in via
di massima) delle somme sufficienti a superare l'inadeguatezza dei mezzi
dell'avente diritto, che costituiscono il limite o tetto massimo della misura
dell'assegno" (pagg. 24-25: si noti l'evidente commistione tra gli oggetti
delle due fasi del giudizio).
B) La scelta di detto parametro
implica l'omessa considerazione che il diritto all'assegno di divorzio è
eventualmente riconosciuto all'ex coniuge richiedente, nella fase dell'an
debeatur, esclusivamente come "persona singola" e non già come
(ancora) "parte" di un rapporto matrimoniale ormai estinto anche sul
piano economico-patrimoniale, avendo il legislatore della riforma del 1987
informato la disciplina dell'assegno di divorzio, sia pure per implicito ma in
modo inequivoco, al principio di "autoresponsabilità" economica degli
ex coniugi dopo la pronuncia di divorzio.
C) La "necessaria
considerazione", da parte del giudice del divorzio, del preesistente
rapporto matrimoniale anche nella sua dimensione economico-patrimoniale
("(....) il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle
ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno
alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di
quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi
anche in rapporto alla durata del matrimonio (....)") è normativamente ed
esplicitamente prevista soltanto per l'eventuale fase del giudizio avente ad
oggetto la determinazione dell'assegno (quantum debeatur), vale a dire - come
già sottolineato - soltanto dopo l'esito positivo della fase precedente (an
debeatur), conclusasi cioè con il riconoscimento del diritto all'assegno.
D) Il parametro del
"tenore di vita" induce inevitabilmente ma inammissibilmente, come
già rilevato (cfr., supra, sub n. 2.1), una indebita commistione tra le
predette due "fasi" del giudizio e tra i relativi accertamenti.
E' significativo, al riguardo,
quanto affermato dalle Sezioni Unite, sempre nella sentenza n. 11490 del 1990:
"(....) lo scopo di evitare rendite parassitarie ed ingiustificate proiezioni
patrimoniali di un rapporto personale sciolto può essere raggiunto utilizzando
in maniera prudente, in una visione ponderata e globale, tutti i criteri di
quantificazione supra descritti, che sono idonei ad evitare siffatte rendite
ingiustificate, nonchè a responsabilizzare il coniuge che pretende l'assegno,
imponendogli di attivarsi per realizzare la propria personalità, nella nuova
autonomia di vita, alla stregua di un criterio di dignità sociale (...)".
E) Le menzionate sentenze delle
Sezioni Unite del 1990 si fecero carico della necessità di contemperamento
dell'esigenza di superare la concezione patrimonialistica del matrimonio
"inteso come "sistemazione definitiva", perchè il divorzio è
stato assorbito dal costume sociale" (così la sentenza n. 11490 del 1990)
con l'esigenza di non turbare un costume sociale ancora caratterizzato dalla
"attuale esistenza di modelli di matrimonio più tradizionali, anche perchè
sorti in epoca molto anteriore alla riforma", con ciò spiegando la preferenza
accordata ad un indirizzo interpretativo che "meno traumaticamente
rompe(sse) con la passata tradizione" (così ancora la sentenza n. 11490
del 1990). Questa esigenza, tuttavia, si è molto attenuata nel corso degli
anni, essendo ormai generalmente condiviso nel costume sociale il significato
del matrimonio come atto di libertà e di autoresponsabilità, nonchè come luogo
degli affetti e di effettiva comunione di vita, in quanto tale dissolubile
(matrimonio che - oggi - è possibile "sciogliere", previo accordo,
con una semplice dichiarazione delle parti all'ufficiale dello stato civile, a
norma delD.L. 12 settembre 2014, n. 132, art. 12, convertito in legge, con
modificazioni, dalla L. 10 novembre 2014, n. 162, art. 1, comma 1).
Ed è coerente con questo
approdo sociale e legislativo l'orientamento di questa Corte, secondo cui la
formazione di una famiglia di fatto da parte del coniuge beneficiario
dell'assegno divorzile è espressione di una scelta esistenziale, libera e
consapevole, che si caratterizza per l'assunzione piena del rischio di una
eventuale cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua solidarietà
postmatrimoniale da parte dell'altro coniuge, il quale non può che confidare
nell'esonero definitivo da ogni obbligo (cfr. le sentenze nn. 6855 del 2015 e
2466 del 2016). In proposito, un'interpretazione delle norme sull'assegno
divorzile che producano l'effetto di procrastinare a tempo indeterminato il
momento della recisione degli effetti economico-patrimoniali del vincolo
coniugale, può tradursi in un ostacolo alla costituzione di una nuova famiglia
successivamente alla disgregazione del primo gruppo familiare, in violazione di
un diritto fondamentale dell'individuo (cfr. Cass. n. 6289/2014) che è
ricompreso tra quelli riconosciuti dalla Cedu (art. 12) e dalla Carta dei
diritti fondamentali dell'Unione Europea (art. 9). Si deve quindi ritenere che
non sia configurabile un interesse giuridicamente rilevante o protetto dell'ex
coniuge a conservare il tenore di vita matrimoniale. L'interesse tutelato con
l'attribuzione dell'assegno divorzile come detto - non è il riequilibrio delle
condizioni economiche degli ex coniugi, ma il raggiungimento della indipendenza
economica, in tal senso dovendo intendersi la funzione - esclusivamente -
assistenziale dell'assegno divorzile.
F) Al di là delle diverse
opinioni che si possono avere sulla rilevanza ermeneutica dei lavori
preparatori della L. n. 74 del 1987(che inserì nell'art. 5
il fondamentale riferimento alla mancanza di "mezzi adeguati" e alla
"impossibilità di procurarseli") in senso innovativo (come sosteneva
una parte della dottrina che imputava alla giurisprudenza precedente di avere
favorito una concezione patrimonialistica della condizione coniugale) o
sostanzialmente conservativo del precedente assetto (si legga in tal senso il
brano della sentenza delle Sezioni Unite n. 11490/1990 che considerava non
giustificato "l'abbandono di quella parte dei criteri interpretativi
adottati in passato per il giudizio sull'esistenza del diritto
all'assegno"), non v'è dubbio che chiara era la volontà del legislatore
del 1987 di evitare che il giudizio sulla "adeguatezza dei mezzi"
fosse riferito "alle condizioni del soggetto pagante" anzichè
"alle necessità del soggetto creditore": ciò costituiva "un
profilo sul quale, al di là di quelle che possono essere le convinzioni
personali del relatore, qui irrilevanti, si è realizzata la convergenza della
Commissione" (cfr. intervento del relatore, sen. N. Lipari, in Assemblea
del Senato, 17 febbraio 1987, 561a sed. pom., resoconto stenografico, pag. 23).
Nel giudizio sull'an debeatur, infatti, non possono rientrare valutazioni di
tipo comparativo tra le condizioni economiche degli ex coniugi, dovendosi avere
riguardo esclusivamente alle condizioni del soggetto richiedente l'assegno
successivamente al divorzio.
Le osservazioni critiche sinora
esposte non sono scalfite: a) nè dalla sentenza della Corte costituzionale n.
11 del 2015, che ha sostanzialmente recepito l'orientamento in questa sede non
condiviso, senza peraltro prendere posizione sulla sostanza delle censure
formulate dal giudice rimettente, riducendo quella sollevata ad una mera
questione di "erronea interpretazione" della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, e omettendo di considerare
che, in una precedente occasione, nell'escludere la completa equiparabilità del
trattamento economico del coniuge divorziato a quello del coniuge separato,
aveva affermato che "(....) basterebbe rilevare che per il divorziato
l'assegno di mantenimento non è correlato al tenore di vita matrimoniale"
(sentenza n. 472 del 1989, n. 3 del Considerato in diritto); b) e neppure dalle
disposizioni di cui al comma 9 dello stesso art. 5 - secondo cui: "I
coniugi devono presentare all'udienza di comparizione avanti al presidente del
tribunale la dichiarazione personale dei redditi e ogni documentazione relativa
ai loro redditi e al loro patrimonio personale e comune. In caso di
contestazioni il tribunale dispone indagini sui redditi, sui patrimoni e
sull'effettivo tenore di vita, valendosi, se del caso, anche della polizia
tributaria" -, in quanto il parametro dell'"effettivo tenore di
vita" è richiamato esclusivamente al fine dell'accertamento dell'effettiva
consistenza reddituale e patrimoniale dei coniugi: infatti - se il primo
periodo è dettato al solo fine di consentire al presidente del tribunale,
nell'udienza di comparizione dei coniugi, di dare su base documentale "i
provvedimenti temporanei e urgenti (anche d'ordine economico) che reputa
opportuni nell'interesse dei coniugi e della prole" (art. 4, comma 8) -,
il secondo periodo invece, che presuppone la "contestazione" dei
documenti prodotti (concernenti i rispettivi redditi e patrimoni),
nell'affidare al "tribunale" le relative "indagini", cioè
l'accertamento di tali componenti economico-fiscali, richiama il parametro
dell'"effettivo tenore di vita" al fine, non già del riconoscimento
del diritto all'assegno di divorzio al "singolo" ex coniuge che lo fa
valere ma, appunto, dell'accertamento circa l'attendibilità di detti documenti
e dell'effettiva consistenza dei rispettivi redditi e patrimoni e, quindi, del
"giudizio comparativo" da effettuare nella fase del quantum debeatur.
E' significativo, al riguardo, che il riferimento agli elementi del
"reddito" e del "patrimonio" degli ex coniugi è contenuto
proprio nella prima parte del comma 6 dell'art. 5 relativa a tale fase del
giudizio.
2.3. - Le precedenti
osservazioni critiche verso il parametro del "tenore di vita"
richiedono, pertanto, l'individuazione di un parametro diverso, che sia
coerente con le premesse.
Il Collegio ritiene che un
parametro di riferimento siffatto - cui rapportare il giudizio
sull'"adeguatezza-inadeguatezza" dei "mezzi" dell'ex
coniuge richiedente l'assegno di divorzio e sulla
"possibilità-impossibilità "per ragioni oggettive"" dello
stesso di procurarseli - vada individuato nel raggiungimento
dell'"indipendenza economica" del richiedente: se è accertato che
quest'ultimo è "economicamente indipendente" o è effettivamente in
grado di esserlo, non deve essergli riconosciuto il relativo diritto.
Tale parametro ha,
innanzitutto, una espressa base normativa: infatti, esso è tratto dal vigente art. 337-septies, primo comma, cod. civ. - ma era già previsto dall'art.
155-quinquies, comma 1, inserito dalla L. 8 febbraio 2006, n. 54, art. 1, comma 2, - il quale, recante
"Disposizioni in favore dei figli maggiorenni", stabilisce, nel primo
periodo: "Il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei
figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno
periodico".
La legittimità del richiamo di
questo parametro - e della sua applicazione alla fattispecie in esame - sta,
innanzitutto, nell'analogia legis (art. 12, comma 2, primo periodo, delle
disposizioni sulla legge in generale) tra tale disciplina e quella dell'assegno
di divorzio, in assenza di uno specifico contenuto normativo della nozione di
"adeguatezza dei mezzi", a norma dellaL. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, trattandosi in entrambi i
casi, mutatis mutandis, di prestazioni economiche regolate nell'ambito del
diritto di famiglia e dei relativi rapporti.
In secondo luogo, il parametro
della "indipendenza economica" - se condiziona negativamente il
diritto del figlio maggiorenne alla prestazione ("assegno periodico")
dovuta dai genitori, nonostante le garanzie di uno status filiationis
tendenzialmente stabile e permanente ( art. 238
cod. civ. ) e di una
specifica previsione costituzionale (art. 30, comma 1) che riconosce anche allo
stesso figlio maggiorenne il diritto al mantenimento, all'istruzione ed alla
educazione -, a maggior ragione può essere richiamato ed applicato, quale
condizione negativa del diritto all'assegno di divorzio, in una situazione
giuridica che, invece, è connotata dalla perdita definitiva dello status di
coniuge - quindi, dalla piena riacquisizione dello status individuale di
"persona singola" - e dalla mancanza di una garanzia costituzionale
specifica volta all'assistenza dell'ex coniuge come tale. Nè varrebbe obiettare
chel'art. 337-ter c.c. ,
comma 4, n. 2, (corrispondente all'art. 155
c.c. , comma 4, n. 2,
nel testo sostituito dalla citata L. n. 54 del 2006, art. 1, comma 1) fa riferimento al "tenore
di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i
genitori": tale parametro si riferisce esclusivamente al figlio minorenne
e ai criteri per la determinazione ("quantificazione") del contributo
di "mantenimento", inteso lato sensu, a garanzia della stabilità e
della continuità dello status filiationis, indipendentemente dalle vicende
matrimoniali dei genitori.
In terzo luogo, a ben vedere,
anche la ratio dell'art. 337-septies c.c. , comma 1, - come pure quella della L. n. 898 del 1970, art.5, comma 6, alla luce di quanto già
osservato (cfr., supra, sub n. 2.2) - è ispirata al principio
dell'"autoresponsabilità economica". A tale riguardo, è estremamente
significativo quanto affermato da questa Corte con la sentenza n. 18076 del
2014, che ha escluso l'esistenza di un obbligo di mantenimento dei figli
maggiorenni non indipendenti economicamente (nella specie, entrambi
ultraquarantenni), ovvero di un diritto all'assegnazione della casa coniugale
di proprietà del marito, sul mero presupposto dello stato di disoccupazione dei
figli, pur nell'ambito di un contesto di crisi economica e sociale:
"(....) La situazione soggettiva fatta valere dal figlio che, rifiutando
ingiustificatamente in età avanzata di acquisire l'autonomia economica tramite
l'impegno lavorativo, chieda il prolungamento del diritto al mantenimento da
parte dei genitori, non è tutelabile perchè contrastante con il principio di
autoresponsabilità che è legato alla libertà delle scelte esistenziali della
persona (....)".
Tale principio di
"autoresponsabilità" vale certamente anche per l'istituto del
divorzio, in quanto il divorzio segue normalmente la separazione personale ed è
frutto di scelte definitive che ineriscono alla dimensione della libertà della
persona ed implicano per ciò stesso l'accettazione da parte di ciascuno degli
ex coniugi - irrilevante, sul piano giuridico, se consapevole o no - delle
relative conseguenze anche economiche.
Questo principio, inoltre,
appartiene al contesto giuridico Europeo, essendo presente da tempo in molte
legislazioni dei Paesi dell'Unione, ove è declinato talora in termini rigorosi
e radicali che prevedono, come regola generale, la piena autoresponsabilità
economica degli ex coniugi, salve limitate - anche nel tempo - eccezioni di
ausilio economico, in presenza di specifiche e dimostrate ragioni di
solidarietà.
In questa prospettiva, il
parametro della "indipendenza economica" è normativamente equivalente
a quello di "autosufficienza economica", come è dimostrato - tenuto
conto della derivazione di tale parametro dall'art. 337-septies c.c. , comma 1 - dal citato D.L. n. 132 del 2014, art. 12, comma 2, laddove non consente la
formalizzazione della separazione consensuale o del divorzio congiunto dinanzi
all'ufficiale dello stato civile "in presenza (....) di figli maggiorenni
(....) economicamente non autosufficienti".
2.4. - E' necessario
soffermarsi sul parametro dell'"indipendenza economica", al quale
rapportare l'"adeguatezza-inadeguatezza" dei "mezzi"
dell'ex coniuge richiedente l'assegno di divorzio, nonchè la
"possibilità-impossibilità "per ragioni oggettive"" dello
stesso di procurarseli.
Va preliminarmente osservato al
riguardo, in coerenza con le premesse e con la stessa nozione di
"indipendenza" economica, che: a) il relativo accertamento nella fase
dell'an debeatur attiene esclusivamente alla persona dell'ex coniuge
richiedente l'assegno come singolo individuo, cioè senza alcun riferimento al
preesistente rapporto matrimoniale; b) soltanto nella fase del quantum debeatur
è legittimo procedere ad un "giudizio comparativo" tra le rispettive
"posizioni" (lato sensu intese) personali ed economico-patrimoniali
degli ex coniugi, secondo gli specifici criteri dettati dalla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, per tale fase del giudizio.
Ciò premesso, il Collegio
ritiene che i principali "indici" - salvo ovviamente altri elementi,
che potranno eventualmente rilevare nelle singole fattispecie - per accertare,
nella fase di giudizio sull'an debeatur, la sussistenza, o no,
dell'indipendenza economica" dell'ex coniuge richiedente l'assegno di
divorzio - e, quindi, l'adeguatezza", o no, dei "mezzi", nonchè
la possibilità, o no "per ragioni oggettive", dello stesso di
procurarseli possono essere così individuati:
1) il possesso di redditi di
qualsiasi specie; 2) il possesso di cespiti patrimoniali mobiliari ed
immobiliari, tenuto conto di tutti gli oneri lato sensu "imposti" e
del costo della vita nel luogo di residenza ("dimora abituale": art. 43 c.c. , comma 2) della persona che richiede
l'assegno; 3) le capacità e le possibilità effettive di lavoro personale, in
relazione alla salute, all'età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o
autonomo; 4) la stabile disponibilità di una casa di abitazione.
Quanto al regime della prova
della non "indipendenza economica" dell'ex coniuge che fa valere il
diritto all'assegno di divorzio, non v'è dubbio che, secondo la stessa
formulazione della disposizione in esame e secondo i normali canoni che
disciplinano la distribuzione del relativo onere, allo stesso spetta allegare,
dedurre e dimostrare di "non avere mezzi adeguati" e di "non
poterseli procurare per ragioni oggettive". Tale onere probatorio ha ad
oggetto i predetti indici principali, costitutivi del parametro
dell'indipendenza economica", e presuppone tempestive, rituali e
pertinenti allegazioni e deduzioni da parte del medesimo coniuge, restando
fermo, ovviamente, il diritto all'eccezione e alla prova contraria dell'altro
(cfr. L. n. 898 del 1970,art. 4, comma 10).
In particolare, mentre il
possesso di redditi e di cespiti patrimoniali formerà normalmente oggetto di
prove documentali - salva comunque, in caso di contestazione, la facoltà del
giudice di disporre al riguardo indagini officiose, con l'eventuale ausilio
della polizia tributaria ( L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 9) -, soprattutto "le capacità
e le possibilità effettive di lavoro personale" formeranno oggetto di
prova che può essere data con ogni mezzo idoneo, anche di natura presuntiva,
fermo restando l'onere del richiedente l'assegno di allegare specificamente (e
provare in caso di contestazione) le concrete iniziative assunte per il
raggiungimento dell'indipendenza economica, secondo le proprie attitudini e le
eventuali esperienze lavorative.
2.5. - Pertanto, devono essere
enunciati i seguenti principi di diritto.
Il giudice del divorzio, richiesto
dell'assegno di cui alla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, come sostituito dalla L. n. 74 del 1987, art. 10, nel rispetto della distinzione del
relativo giudizio in due fasi e dell'ordine progressivo tra le stesse stabilito
da tale norma:
A) deve verificare, nella fase
dell'an debeatur - informata al principio dell'"autoresponsabilità
economica" di ciascuno degli ex coniugi quali "persone singole",
ed il cui oggetto è costituito esclusivamente dall'accertamento volto al
riconoscimento, o no, del diritto all'assegno di divorzio fatto valere dall'ex
coniuge richiedente -, se la domanda di quest'ultimo soddisfa le relative
condizioni di legge (mancanza di "mezzi adeguati" o, comunque,
impossibilità "di procurarseli per ragioni oggettive"), con esclusivo
riferimento all'"indipendenza o autosufficienza economica" dello
stesso, desunta dai principali "indici" - salvo altri, rilevanti
nelle singole fattispecie - del possesso di redditi di qualsiasi specie e/o di
cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari (tenuto conto di tutti gli oneri
lato sensu "imposti" e del costo della vita nel luogo di residenza
dell'ex coniuge richiedente), delle capacità e possibilità effettive di lavoro
personale (in relazione alla salute, all'età, al sesso ed al mercato del lavoro
dipendente o autonomo), della stabile disponibilità di una casa di abitazione;
ciò, sulla base delle pertinenti allegazioni, deduzioni e prove offerte dal
richiedente medesimo, sul quale incombe il corrispondente onere probatorio,
fermo il diritto all'eccezione ed alla prova contraria dell'altro ex coniuge;
B) deve "tener
conto", nella fase del quantum debeatur - informata al principio della
"solidarietà economica" dell'ex coniuge obbligato alla prestazione
dell'assegno nei confronti dell'altro in quanto "persona"
economicamente più debole ( artt. 2 e 23 Cost. ),
il cui oggetto è costituito esclusivamente dalla determinazione dell'assegno,
ed alla quale può accedersi soltanto all'esito positivo della prima fase,
conclusasi con il riconoscimento del diritto -, di tutti gli elementi indicati
dalla norma ("(....) condizioni dei coniugi, (....) ragioni della
decisione, (....) contributo personale ed economico dato da ciascuno alla
conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello
comune, (....) reddito di entrambi (....)"), e "valutare"
"tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del
matrimonio", al fine di determinare in concreto la misura dell'assegno di
divorzio; ciò sulla base delle pertinenti allegazioni, deduzioni e prove offerte,
secondo i normali canoni che disciplinano la distribuzione dell'onere della
prova ( art. 2697
cod. civ.).
2.6. - Venendo ai motivi del
ricorso, da esaminare congiuntamente alla luce dei principi di diritto poc'anzi
enunciati, essi sono infondati.
La sentenza impugnata,
nell'escludere il diritto, invocato dalla L., all'attribuzione dell'assegno
divorzile, non ha avuto riguardo, in concreto, al criterio della conservazione
del tenore di vita matrimoniale, che pure ha genericamente richiamato ma sul
quale non ha indagato.
In tal modo, la Corte di merito
si è sostanzialmente discostata dall'orientamento giurisprudenziale in questa
sede criticato, come rilevato dal P.G., e tuttavia è pervenuta a una
conclusione conforme a diritto, avendo ritenuto - in definitiva - che l'attrice
non avesse assolto l'onere di provare la sua non indipendenza economica,
all'esito di un giudizio di fatto - ad essa riservato - adeguatamente argomentato,
dal quale emerge che la L. è imprenditrice, ha un'elevata qualificazione
culturale, possiede titoli di alta specializzazione e importanti esperienze
professionali anche all'estero e che, in sede di separazione, i coniugi avevano
pattuito che nessun assegno di mantenimento fosse dovuto dal G..
La motivazione in diritto della
sentenza impugnata dev'essere quindi corretta (come si è detto sub n. 2.1),
coerentemente con i principi sopra enunciati (sub n. 2.5, lett. A).
3. - In conclusione, il ricorso
è rigettato.
Le spese del presente giudizio
devono essere compensate, in considerazione del mutamento di giurisprudenza su
questione dirimente per la decisione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e
compensa le spese del giudizio.
Doppio contributo a carico
della ricorrente, come per legge.
In caso di diffusione del
presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi.
Così deciso in Roma, il 10 febbraio
2017.
Depositato in Cancelleria il 10
maggio 2017
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La Corte europea dei diritti umani condanna la Germania.
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Sentenza n. 4822/2012 mediazione
Diritto alla provvigione nella intermediazione immobiliare.
Anche la semplice attività consistente nel reperimento e
nell’indicazione dell’altro contraente, o nella segnalazione dell’affare,
legittima il diritto alla provvigione, sempre che la descritta attività
costituisca il risultato utile di una ricerca fatta dal mediatore e poi
valorizzata dalle parti. Una volta concluso l’affare - qualora il contratto sia
intervenuto tra le stese parti che il mediatore aveva messo in relazione - è
irrilevante e non consente di escludere il nesso causale tra l’attività del
mediatore e la conclusione dell’affare la circostanza che la trattativa si sia
conclusa a condizioni diverse (nella specie a un prezzo inferiore, rispetto a
quello inizialmente richiesto dal venditore), con l’intervento di altro
mediatore e successivamente alla scadenza dell’incarico.
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Accesso alle origini. L'intervento delle Sezioni Unite.
In tema di parto anonimo (...) sussiste la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio desideroso di conoscere le proprie origini e di accedere alla propria storia parentale, di interpellare la madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata...
Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 25/01/2017, n. 1946.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO
ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI
CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli
Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. RORDORF Renato
- Primo Presidente f.f. -
Dott. SCHIRO'
Stefano - Presidente di Sez. -
Dott. AMOROSO
Giovanni - Presidente di Sez. -
Dott. DIDONE Antonio
- Presidente di Sez. -
Dott. DI IASI
Camilla - Presidente di Sez. -
Dott. PETITTI
Stefano - Presidente di Sez. -
Dott. RAGONESI
Vittorio - Consigliere -
Dott. D'ANTONIO
Enrica - Consigliere -
Dott. GIUSTI Alberto
- rel. Consigliere -
ha pronunciato la
seguente:
SENTENZA
sul ricorso
7475/2016 proposto da:
PROCURATORE GENERALE
PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE;
- ricorrente -
in relazione al
decreto della Corte d'appello di Milano in data 10 marzo 2015 (R.G. 649-2014
V.G.);
Udita la relazione
della causa svolta nella pubblica udienza del 20 dicembre 2016 dal Consigliere
Alberto Giusti;
udito il Pubblico
Ministero, in persona dell'Avvocato generale Dott. FUZIO Riccardo.
Svolgimento del processo
1. - Il Procuratore
generale presso la Corte di cassazione, con atto in data 30 marzo 2016, ha
chiesto a questa Corte, ai sensi dell'art. 363 c.p.c. , comma 1,
l'enunciazione nell'interesse della legge del principio di diritto al quale la
Corte d'appello di Milano, sezione delle persone, dei minori e della famiglia,
avrebbe dovuto attenersi nel decidere, con il decreto in data 10 marzo 2015, il
reclamo proposto dal figlio maggiorenne nato da parto anonimo, il quale aveva
fatto istanza al giudice di verificare, attraverso un interpello riservato, la
persistenza della volontà della madre di non essere nominata.
2. - La richiesta
scaturisce da una nota del Presidente dell'Associazione italiana dei magistrati
per i minorenni e per la famiglia che ha sottoposto alla valutazione
dell'Ufficio del pubblico ministero presso la Corte di cassazione il contrasto
esistente nella giurisprudenza di merito in materia di parto anonimo e ricerca
delle proprie origini da parte dell'adottato a seguito della sentenza della
Corte costituzionale n. 278 del 2013.
Con tale sentenza è
stata dichiarata "l'illegittimità costituzionale della L. 4 maggio
1983, n. 184, art. 28, comma 7, (Diritto del minore ad una famiglia), come
sostituito dal D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 177, comma 2, (Codice
in materia di protezione dei dati personali), nella parte in cui non prevede -
attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima
riservatezza - la possibilità per il giudice di interpellare la madre - che
abbia dichiarato di non voler essere nominata ai sensi del D.P.R. 3 novembre
2000, n. 396, art. 30, comma 1, (Regolamento per la revisione e la
semplificazione dell'ordinamento dello stato civile, a norma della L. 15
maggio 1997, n. 127, art. 2, comma 12) - su richiesta del figlio, ai fini
di una eventuale revoca di tale dichiarazione".
3. - Riferisce il
Pubblico ministero requirente che, rigettando il reclamo del figlio, la Corte
d'appello di Milano ha aderito all'orientamento (seguito anche dai Tribunali
per i minorenni di Milano, di Catania, di Bologna, di Brescia e di Salerno) che
ritiene necessario attendere l'intervento del legislatore per dare corso alla
richiesta del figlio a che il giudice interpelli in via riservata la madre
naturale circa la persistenza della sua volontà di non essere nominata.
Secondo questo
indirizzo, in mancanza di intervento da parte del Parlamento, l'interpello
della madre non potrebbe avvenire con modalità direttamente individuate dal
giudice, in quanto la Corte costituzionale - con l'inciso, che compare nel
dispositivo della pronuncia, "attraverso un procedimento, stabilito dalla
legge, che assicuri la massima riservatezza" - avrebbe istituito una
esplicita riserva di legge per non vanificare la garanzia di segretezza sul
parto riconosciuta dall'ordinamento alla donna.
L'impossibilità di
un'attuazione per via giudiziaria della sentenza della Corte costituzionale
dipenderebbe dalla sua natura di pronuncia additiva di principio, con
contestuale rinvio alla legge per la necessaria disciplina di dettaglio.
L'intervento del giudice si appaleserebbe indebito ed invasivo degli altri
poteri dello Stato, perchè creativo ex novo di un procedimento, tra l'altro di
per sè non risolutivo in caso di indisponibilità, da parte della struttura che
conserva i documenti, a comunicare le informazioni che consentano di risalire
alla identità della madre. Il punto di equilibrio tra i due diritti in gioco -
quello del figlio a conoscere le proprie origini e quello della madre di
mantenere l'anonimato - si realizzerebbe proprio attraverso la disciplina del
procedimento di interpello, in considerazione della pluralità di soluzioni
idonee a ristabilire la legittimità costituzionale, tra loro fungibili poichè
compatibili con il principio che si tratta di attuare attraverso l'esercizio
della discrezionalità legislativa.
Sarebbero
configurabili anche ostacoli di carattere processuale, perchè la piena
attuazione del contraddittorio assicurata alle parti (anche) nei procedimenti
in camera di consiglio, con il diritto di accedere liberamente a tutte le
risultanze istruttorie, confliggerebbe con la necessità della massima
riservatezza di questo procedimento.
4. - Il Procuratore
generale osserva che vi è un'altra parte dei giudici di merito (il Tribunale
per i minorenni di Trieste; il Tribunale per i minorenni per il Piemonte e la
Valle d'Aosta; la Corte d'appello di Catania, sezione della famiglia, della
persona e dei minori) che, in forza dei principi enunciati dalla Corte Europea
dei diritti dell'uomo (nella sentenza 25 settembre 2012 Godelli c. Italia) e
per effetto della sentenza di illegittimità costituzionale del 2013, ammette la
possibilità di interpello riservato anche senza legge.
Secondo questo
orientamento, la norma dichiarata incostituzionale non potrebbe più essere
applicata.
Nell'individuare la
regola per il caso concreto, il giudice, al fine di conoscere la volontà
attuale della madre se intenda mantenere ferma o meno la scelta originaria per
l'anonimato, dovrebbe utilizzare come parametri di riferimento la disciplina
generale sul tema (rinvenibile nella L. n. 184 del 1983, art. 28) e la
normativa in materia di procedimenti in camera di consiglio e di protezione dei
dati personali.
Pur nel perdurante
silenzio del legislatore sulle modalità di interpello della madre biologica
anonima, il giudice non potrebbe sottrarsi dal dare concreta attuazione al
diritto fondamentale del figlio a conoscere la propria identità, nel rispetto
del contrapposto diritto all'anonimato della madre.
5. - Il Procuratore
generale rileva che, in presenza di questi due diversi e contrastanti approdi
interpretativi emersi nella giurisprudenza di merito, talora all'interno della
stessa sede giudiziaria, è configurabile un oggettivo interesse alla
enunciazione di un principio di diritto nell'interesse della legge, per la
indubbia rilevanza generale e sociale del tema che ne è alla base; e segnala
l'opportunità che, su una questione di diritto così delicata, anche la Corte di
cassazione (nella composizione ordinaria o a sezioni unite) aggiunga la propria
voce nel dialogo che si è instaurato tra le Corti.
In particolare, ad
avviso del pubblico ministero, gli aspetti della questione di diritto sottesa
alla richiesta ai sensi dell'art. 363 c.p.c. , comma 1, sarebbero due.
Il primo riguarda il
rapporto tra il diritto di ogni persona a conoscere le proprie origini ed il
"contrapposto" diritto all'oblio della donna che ha partorito
avvalendosi dell'anonimato, e la consequenziale tutela che agli stessi è
riconosciuta nell'ordinamento italiano dopo la sentenza della Corte
costituzionale n. 278 del 2013.
Il secondo investe
l'interpretazione della pronuncia della Corte costituzionale ed il suo
inquadramento nell'ambito delle diverse tipologie decisorie, al fine di
tracciare gli spazi ed i limiti di intervento del giudice comune nell'esercizio
concreto del suo potere giurisdizionale e nel rispetto delle prerogative del
Parlamento.
6. - Il Procuratore
generale ha concluso chiedendo che la Corte di cassazione enunci, in una
prospettiva di orientamento del giudice, il seguente principio di diritto:
"Per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 278 del 2013, va
affermata l'esistenza del diritto dell'adottato (e comunque del) nato da parto
anonimo a conoscere le proprie origini con il limite dell'accertata persistenza
della volontà della madre biologica di mantenere il segreto; l'esercizio del
diritto trova attuazione mediante istanza dell'adottato rivolta al giudice, che
dovrà procedere all'interpello della madre con modalità idonee a preservare la
massima riservatezza nell'assunzione delle informazioni in ordine alla volontà
della donna di mantenere ferma la dichiarazione di anonimato o di
revocarla".
6.1. - A tale
conclusione il pubblico ministero perviene sul rilievo che la sentenza n. 278
del 2013 è di accoglimento ed il suo contenuto non si risolve soltanto nella
addizione di un principio, ma anche nella indicazione di una regola chiara
circa la possibilità di interpello della madre da parte del giudice su
richiesta del figlio. La perdurante inerzia del legislatore non potrebbe
oltremodo giustificare la violazione di un diritto del figlio, il cui
riconoscimento e la cui tutela non trovano più alcun ostacolo normativo nella L.
n. 184 del 1983, art. 28, comma 7, ormai espunto dall'ordinamento.
7. - Data la
particolare rilevanza della questione, il Primo Presidente ha disposto che,
sulla richiesta del Procuratore generale, la Corte si pronunci a sezioni unite.
8. - In prossimità
dell'udienza pubblica del 20 dicembre 2016, il pubblico ministero ha depositato
note illustrative.
Premesso che
l'anonimato è una scelta di sistema che vuole favorire la genitorialità
naturale ed impedisce l'insorgenza di una genitorialità giuridica, ma che la
irreversibilità di questa scelta è stata riconosciuta contrastante con il
diritto del figlio a conoscere le proprie origini in quanto diritto
coessenziale ad ogni persona umana anche se nata da madre legittimata a
rimanere anonima, il Procuratore generale requirente individua i referenti
normativi per le modalità di interpello nell'art. 93 del codice in materia di
protezione dei dati personali e nella stessa L. n. 184 del 1983, art. 28.
Inoltre, l'Ufficio
del pubblico ministero osserva che "l'applicazione diretta" della
sentenza di incostituzionalità è già intervenuta con due recenti pronunce della
1 Sezione civile della Corte di cassazione, le quali hanno statuito che
l'anonimato vale solo per la madre in vita e che, pertanto, dopo la morte della
genitrice biologica che aveva scelto il segreto, il figlio adottato può
conoscerne l'identità (sentenza 21 luglio 2016, n. 15024; sentenza 9 novembre
2016, n. 22838).
Motivi della decisione
1. - La richiesta
sottoposta all'esame di queste Sezioni Unite concerne la materia del parto
anonimo e del diritto del figlio non riconosciuto alla nascita, e adottato da
terzi, ad accedere alle informazioni che riguardano la sua origine naturale.
In particolare, essa
pone la questione se la sentenza della Corte costituzionale n. 278 del 2013 -
che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale, in parte qua, della L. n.
184 del 1983, art. 28, comma 7, - rimetta la sua stessa efficacia ad un
successivo intervento del legislatore recante la disciplina del procedimento di
interpello riservato, in assenza della quale il tribunale per i minorenni,
sollecitato dal figlio interessato a conoscere i suoi veri natali, non potrebbe
procedere a contattare la madre per verificare se intenda tornare sopra la
scelta per l'anonimato fatta al momento del parto; o se, al contrario, il
principio somministrato dalla Corte con la citata pronuncia, in attesa della
organica e compiuta normazione da parte del Parlamento, si presti ad essere per
l'intanto tradotto dal giudice comune in regole sussidiariamente individuate
dal sistema, ancorchè solo a titolo precario.
2. - La Corte
d'appello di Milano, sezione delle persone, dei minori e della famiglia, con il
decreto in data 10 marzo 2015 da cui ha preso avvio la richiesta del
Procuratore generale di enunciazione del principio nell'interesse della legge,
ha ritenuto che la mancanza di disciplina legislativa volta a regolamentare
l'interpello della madre naturale circa la perdurante attualità della sua
scelta di non voler essere nominata, precluda di dare corso alla istanza del
figlio.
Secondo i giudici
del merito, la Corte costituzionale, con la sentenza additiva di principio, ha
affidato la concreta soluzione adeguatrice al legislatore, chiamato a stabilire
quali siano le modalità per colmare il rilevato vuoto normativo. Il rinvio al
legislatore, compenetrato nella stessa dichiarazione di incostituzionalità,
troverebbe spiegazione nel variegato panorama di scelte in concreto praticabili
per dare attuazione al principio dell'interpello riservato della madre anonima.
In mancanza nel nostro ordinamento di una disciplina immediatamente estensibile
al caso di specie e in presenza della espressa previsione, da parte della Corte
costituzionale, di una riserva di legge sul procedimento di interpello
riservato della madre anonima, il tribunale per i minorenni non potrebbe
muoversi, non essendo consentita, in attesa dell'intervento legislativo, un'attività
giurisdizionale surrogatoria rivolta a dare immediata attuazione ai diritti
costituzionali dei soggetti coinvolti. Il dictum della Corte potrebbe trovare
applicazione da parte degli organi della giurisdizione ordinaria solo quando si
sarà trasformato in diritto positivo ad opera di una conforme regola
legislativa.
3. - Il pubblico
ministero presso la Corte di cassazione ritiene che il giudice del merito,
adito in sede di reclamo, avrebbe dovuto invece legittimare l'inoltro riservato
della richiesta alla madre naturale per accertarsi se ella volesse o meno
mantenere il riserbo dell'anonimato di fronte al desiderio del figlio di
conoscere la sua identità naturale. E chiede che la Corte enunci,
nell'interesse della legge, il corrispondente principio di diritto di cui il
giudice del reclamo avrebbe dovuto fare applicazione.
4. - La richiesta
del Procuratore generale è ammissibile, sussistendo i presupposti alla presenza
dei quali l'art. 363 cod. proc. civ. , secondo la lettura datane dalla
giurisprudenza di questa Corte (Cass., Sez. U., 18 novembre 2016, n. 23469),
condiziona l'enunciazione del principio di diritto:
a) l'avvenuta
pronuncia di almeno uno specifico provvedimento non impugnato o non
impugnabile;
b) la reputata
illegittimità del provvedimento stesso, quale indefettibile momento di
collegamento con una concreta fattispecie;
c) l'interesse della
legge, quale interesse generale o trascendente quello delle parti,
all'affermazione di un principio di diritto per l'importanza di una sua
formulazione espressa.
In primo luogo,
infatti, le parti del giudizio a quo non hanno proposto ricorso nei termini di
legge avverso la statuizione di rigetto del reclamo resa dalla Corte d'appello
di Milano con il decreto depositato il 10 marzo 2015. E tanto basta a ritenere
sussistente il requisito di legge, giacchè l'art. 363 c.p.c. , comma 1
richiede che le parti non abbiano proposto ricorso o vi abbiano rinunciato,
ovvero che il provvedimento non sia ricorribile per cassazione e non sia
altrimenti impugnabile; essendo così ultroneo verificare, altresì, se quel
provvedimento - in concreto non impugnato - avrebbe potuto esserlo dinanzi a
questa Corte o se si tratti di un provvedimento non ricorribile per cassazione
ai sensi dell'art. 111 Cost. per la mancanza dei requisiti della
decisorietà e della definitività.
Sussiste anche il
requisito sub b). Nella sua richiesta di enunciazione del principio di diritto,
invero, il Procuratore generale specifica di averla formulata, non in via
astratta o esplorativa, ma con riferimento ad un ben preciso e pertinente caso
della vita venuto all'esame della Corte d'appello di Milano e risolto con
l'adesione ad una interpretazione della disciplina di riferimento opposta a
quella seguita da altri giudici di merito e qui sollecitata dallo stesso requirente
con la denuncia dell'errore e con l'istanza a questa Corte di ristabilire
l'ordine del sistema (cfr. Cass., Sez. U., 11 gennaio 2011, n. 404).
Infine,
l'opportunità di intervenire con l'enunciazione di un principio di diritto è
positivamente ed effettivamente riscontrabile nella fattispecie in esame: sia
per il ravvisato contrasto di tesi tra i giudici di merito e per la mancanza di
pronunce di questa Corte che abbiano affrontato espressamente la questione
della possibilità o meno per il figlio nato da parto anonimo di attivare, nel
contesto scaturito dalla pronuncia della Corte costituzionale, un procedimento
di interpello riservato diretto a verificare la persistenza della volontà della
madre di non essere nominata; sia perchè il tema - che investe valori
costituzionali di primario rilievo reciprocamente connessi nei modi di
concretizzazione - presenta un'oggettiva rilevanza generale, anche per le
implicazioni relative al ruolo di garanzia che la giurisdizione comune è
chiamata a svolgere nel dare seguito, nella decisione dei casi concreti, alla
pronuncia di incostituzionalità, in difetto dell'intervento di regolamentazione
legislativa.
5. - La richiesta
del Procuratore generale è fondata.
6. - Nel quadro di
una disciplina, dettata dalla L. n. 184 del 1983, art. 28, commi 5, 6 e 8,
nel testo sostituito dalla L. n. 149 del 2001 , che attribuisce al
figlio adottivo che abbia raggiunto l'età di venticinque anni il diritto
potestativo di accedere a informazioni che riguardano la sua origine e
l'identità dei suoi genitori biologici (ferma ovviamente l'identità acquistata
con la relazione di genitorialità esclusiva con il padre e la madre adottivi),
e che consente l'esercizio di questo diritto, funzionale alla costruzione della
propria identità, anche prima dei venticinque anni, al figlio che abbia
raggiunto la maggiore età, se sussistono gravi e comprovati motivi attinenti
alla sua salute psico-fisica (prevedendosi che l'istanza di autorizzazione -
non richiesta quando i genitori adottivi sono deceduti o divenuti irreperibili
- deve essere presentata al tribunale per i minorenni del luogo di residenza),
il comma 7 della medesima disposizione stabiliva, come norma di chiusura di
tale sistema, una regola invalicabile per il figlio nato da parto anonimo: "(l')accesso
alle informazioni non è consentito nei confronti della madre che abbia
dichiarato alla nascita di non volere essere nominata ai sensi del D.P.R. 3
novembre 2000, n. 396, art. 30, comma 1".
Il citato art. 28,
comma 7, andava letto in collegamento, appunto, con l'art. 30 del regolamento
per la revisione e la semplificazione dell'ordinamento dello stato civile, in
tema di dichiarazione di nascita, ove è prevista la necessità di rispettare "l'eventuale
volontà della madre di non essere nominata"; e con l'art. 93 del codice in
materia di protezione dei dati personali, che non permette all'interessato
l'accesso al certificato di assistenza al parto o alla cartella clinica,
contenenti le informazioni identificative della madre che abbia dichiarato di
non voler essere nominata al momento della nascita, se non trascorsi cento anni
dalla formazione di quei documenti.
La scelta compiuta
dalla madre al momento del parto si connotava così per l'assolutezza e
l'irreversibilità, proiettandosi su di un arco di tempo eccedente la durata
normale della vita umana: in presenza dell'ostacolo dell'anonimato, il giudice
non poteva fornire alcuna informazione identificativa al figlio.
7. - La disciplina
dell'art. 28, comma 7, aveva superato indenne, nel 2005, il vaglio di
legittimità costituzionale.
Investita, in
riferimento agli artt. 2, 3 e 32 Cost. , di una questione sollevata
nella parte in cui la norma escludeva la possibilità di autorizzare l'adottato
all'accesso alle informazioni sulle origini senza la previa verifica, da parte
del giudice, della persistenza della volontà della madre biologica di non
essere nominata, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 425 del 2005, la
giudicò infondata.
Ritenne la Corte che
l'assolutezza del diritto all'anonimato era "espressione di una
ragionevole valutazione comparativa dei diritti inviolabili dei soggetti della
vicenda", rappresentando la garanzia che il legislatore ha ritenuto
necessaria per assicurare che il parto avvenga "in condizioni ottimali,
sia per la madre che per il figlio", e per "distogliere la donna da
decisioni irreparabili, per quest'ultimo ben più gravi". "L'esigenza
di perseguire efficacemente questa duplice finalità" scrisse in
quell'occasione il giudice delle leggi - "spiega perchè la norma non
preveda per la tutela dell'anonimato della madre nessun tipo di limitazione,
neanche temporale. Invero, la scelta della gestante in difficoltà che la legge
vuole favorire - per proteggere tanto lei quanto il nascituro - sarebbe resa
oltremodo difficile se la decisione di partorire in una struttura medica
adeguata, rimanendo anonima, potesse comportare per la donna, in base alla
stessa norma, il rischio di essere, in un imprecisato futuro e su richiesta di
un figlio mai conosciuto e già adulto, interpellata dall'autorità giudiziaria
per decidere se confermare o revocare quella lontana dichiarazione di
volontà".
7.1. - Nuovamente
investita della questione, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 278 del
2013, ha ribaltato la precedente decisione e dichiarato l'illegittimità
costituzionale, in parte qua, della L. n. 184 del 1983, art. 28, comma 7.
La Corte ha
riaffermato il fondamento costituzionale del diritto all'anonimato della madre,
il quale riposa "sull'esigenza di salvaguardare madre e neonato da
qualsiasi perturbamento, connesso alla più eterogenea gamma di situazioni,
personali, ambientali, culturali, sociali, tale da generare l'emergenza di
pericoli per la salute psico-fisica e la stessa incolumità di entrambi e da
creare, al tempo stesso, le premesse perchè la nascita possa avvenire nelle
condizioni migliori possibili"; e ha ribadito che "la salvaguardia
della vita e della salute sono... i beni di primario rilievo presenti sullo
sfondo di una scelta di sistema improntata nel senso di favorire, per sè
stessa, la genitorialità naturale". Ma ha riconosciuto che "anche il
diritto del figlio a conoscere le proprie origini - e ad accedere alla propria
storia parentale costituisce un elemento significativo nel sistema
costituzionale di tutela della persona", e che "il relativo bisogno
di conoscenza rappresenta uno di quegli aspetti della personalità che possono
condizionare l'intimo atteggiamento e la stessa vita di relazione di una
persona in quanto tale".
Così inquadrati i
valori costituzionali in gioco, la Corte ha censurato la disciplina legislativa
in esame, in precedenza assolta, "per la sua eccessiva rigidità",
dichiarando in contrasto con gli artt. 2 e 3 Cost.
l'"irreversibilità del segreto". L'art. 28, comma 7, infatti,
prefigura una sorta di "cristallizzazione" o di
"immobilizzazione" nelle modalità di esercizio del diritto
all'anonimato della madre: una volta intervenuta la scelta per l'anonimato,
"la relativa manifestazione di volontà assume connotati di irreversibilità
destinati, sostanzialmente, ad espropriare la persona titolare del diritto da
qualsiasi ulteriore opzione; trasformandosi, in definitiva, quel diritto in una
sorta di vincolo obbligatorio, che finisce per avere un'efficacia espansiva esterna
al suo stesso titolare e, dunque, per proiettare l'impedimento alla eventuale
relativa rimozione proprio sul figlio, alla posizione del quale si è inteso, ab
origine, collegare il vincolo del segreto su chi lo abbia generato".
La Corte ha
giudicato irragionevole che la scelta per l'anonimato "risulti
necessariamente e definitivamente preclusiva anche sul versante dei rapporti
relativi alla genitorialità naturale", non essendo legittimo che la
volontà espressa in un dato momento non sia "eventualmente revocabile (in
seguito alla iniziativa del figlio)".
L'"eccessiva
rigidità" sta nella mancata previsione - "attraverso un procedimento,
stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza" - della
possibilità per il giudice di interpellare la madre anonima, su richiesta del
figlio, ai fini di un'eventuale revoca di tale dichiarazione.
Al legislatore, in
conclusione, è fatto carico di "introdurre apposite disposizioni volte a
consentire la verifica della perdurante attualità della scelta della madre naturale
di non volere essere nominata" e, nel contempo, "a cautelare in
termini rigorosi il suo diritto all'anonimato, secondo scelte procedimentali
che circoscrivano adeguatamente le modalità di accesso, anche da parte degli
uffici competenti, ai dati di tipo identificativo".
7.2. - Tra la prima
e la seconda pronuncia della Corte costituzionale è intervenuta, sulla stessa
materia, la Corte Europea dei diritti dell'uomo, con la sentenza 25 settembre
2012 Godelli c. Italia.
Esaminando il caso
della signora G., la quale, nata da parto anonimo, si era vista opporre dai
giudici italiani un rifiuto assoluto e definitivo di accedere alle proprie
origini personali in applicazione della disposizione della L. n. 184 del
1983, art. 28, comma 7, la Corte di Strasburgo ha ricordato che, nel
perimetro della tutela offerta dall'art. 8 della Convenzione Europea per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, rientra anche
la possibilità di disporre dei dettagli sulla propria identità di essere umano,
essendo protetto dalla Convenzione "l'interesse vitale... a ottenere delle
informazioni necessarie alla scoperta della verità concernente un aspetto
importante della propria identità personale, ad esempio l'identità dei propri
genitori".
La Corte Europea ha
quindi affermato che "la normativa italiana non tenta di mantenere alcun
equilibrio tra i diritti e gli interessi concorrenti in causa", ma - in
assenza di meccanismi destinati a bilanciare il diritto del figlio "a
conoscere le proprie origini con i diritti e gli interessi della madre a
mantenere l'anonimato" - dà "una preferenza incondizionata a questi
ultimi"; e ciò a differenza di quanto previsto nel sistema francese
(esaminato nella sentenza della Grande Camera 13 febbraio 2003 Odievre c.
Francia e ritenuto compatibile con la Convenzione), dove è previsto che, su
impulso del figlio dato in adozione, volto a conoscere l'identità della madre
biologica anonima, si possa almeno chiedere a lei se, davanti a quella
richiesta, abbia intenzione di derogare all'anonimato oppure di mantenerlo.
8. - Il Collegio
ritiene di dovere innanzitutto sottolineare che la sentenza n. 278 del 2013
della Corte costituzionale è una pronuncia di accoglimento: non si tratta nè di
una sentenza di inammissibilità per discrezionalità del legislatore o per
mancanza di "rime obbligate", nè di pronuncia di incostituzionalità
accertata ma non dichiarata, ossia di una sentenza di inammissibilità o di
rigetto accompagnata da un'esortazione o da un monito nei confronti del legislatore
affinchè provveda ad una congrua riforma della disciplina.
Trattandosi di una
sentenza di illegittimità costituzionale, essa produce gli effetti di cui all'art.
136 Cost. e L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 30, comma 3, sulla
costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale: la norma
dichiarata costituzionalmente illegittima - nella specie, l'implicita
esclusione di qualsiasi possibilità per il figlio nato da parto anonimo di
attivare, dinanzi al giudice, un procedimento atto a raccogliere l'eventuale revoca,
da parte della madre naturale, della dichiarazione originaria - "cessa di
avere efficacia" e "non (può) avere applicazione dal giorno
successivo alla pubblicazione della decisione".
Poichè la norma che
escludeva l'interpello della madre ai fini dell'eventuale revoca è stata
rimossa dall'ordinamento fin dalla pubblicazione della sentenza della Corte
costituzionale, il giudice non può negare tout court al figlio l'accesso alle
informazioni sulle origini per il solo fatto che la madre naturale aveva dichiarato,
al momento della nascita, di voler essere celata dietro l'anonimato.
Se lo facesse, senza
avere previamente verificato, beninteso con le modalità più discrete e meno
invasive possibili, la volontà della donna di mantenere l'anonimato, egli in
realtà continuerebbe a dare applicazione al testo della L. n. 184 del 1983,
art. 28, comma 7, preesistente alla pronuncia della Corte costituzionale,
negando tutela al diritto del figlio in nome di una assolutezza senza
eccezione: esito, questo, non consentito, giacchè l'ordinamento collega alla
declaratoria di incostituzionalità l'effetto della rimozione della norma
giudicata illegittima.
La perdurante
applicazione della norma dichiarata incostituzionale si risolverebbe, in
definitiva, nel mantenimento del vulnus recato agli artt. 2 e 3 Cost. da
una disposizione - il citato art. 28, comma 7 che trasformava il diritto
all'anonimato della madre naturale in un vincolo assoluto e immodificabile,
indisponibile alla volontà della stessa donna di ritrattarlo, e, non consentendo
di guardare, in una prospettiva diacronica, ad uno scenario temporale e di vita
proiettato oltre la nascita, sacrificava totalmente il diritto del figlio a
conoscere le proprie origini, che "costituisce un elemento significativo
nel sistema costituzionale di tutela della persona", senza che ciò fosse
strettamente necessario per tutelare il diritto all'anonimato della madre. Un
vulnus che la Corte costituzionale non si è limitata ad accertare, ma ha sanato
e rimosso, introducendo in via di addizione il principio che il figlio possa
chiedere al giudice di interpellare la madre ai fini della revoca della
dichiarazione, a suo tempo fatta, di non volere essere menzionata come madre
nell'atto di nascita.
8.1. - Si tratta,
dunque, di una sentenza additiva di principio, o di meccanismo, che dichiara
l'illegittimità costituzionale del citato art. 28, comma 7, "nella parte
in cui non prevede" il diritto del figlio a provocare la possibile revoca
della scelta dell'anonimato: l'addizione normativa ha ad oggetto, appunto, un
principio (opposto a quello che si desumeva dalla disposizione preesistente,
dichiarata incostituzionale) di "possibilità per il giudice di
interpellare la madre - che abbia dichiarato di non voler essere nominata... -
su richiesta del figlio, ai fini di una eventuale revoca di tale
dichiarazione".
Per effetto della
dichiarazione di illegittimità costituzionale, la disposizione dell'art. 28,
comma 7, non è rimasta invariata, ma vive nell'ordinamento con l'aggiunta di
questo principio ordinatore, capace di esprimere e di fissare un punto di
equilibrio tra la posizione del figlio adottato e i diritti della madre. Tale
punto di equilibrio si compendia nella riconosciuta possibilità per il giudice
di interpellare in via riservata la madre biologica per raccogliere la sua
volontà attuale quando c'è un figlio interessato a conoscere la sua vera
origine, ma anche nella preferenza da accordare alla scelta della donna, perchè
il figlio non ha un diritto incondizionato a conoscere la propria origine e ad accedere
alla propria storia parentale, non potendo ottenere le informazioni richieste
ove persista il diniego della madre di svelare la propria identità.
E' esatto che la
sentenza n. 278 del 2013 non solo lascia impregiudicate le movenze del
procedimento di interpello riservato, ma anche specifica, nel dispositivo, che
la possibilità per il giudice di interpellare la madre si deve esplicare
"attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la
massima riservatezza"; e ciò, dopo avere affermato, in motivazione, che
"(s)arà compito del legislatore introdurre apposite disposizioni volte a
consentire la verifica della perdurante attualità della scelta della madre
naturale di non voler essere nominata e, nello stesso tempo, a cautelare in
termini rigorosi il suo diritto all'anonimato, secondo scelte procedimentali
che circoscrivano adeguatamente le modalità di accesso, anche da parte degli
uffici competenti, ai dati di tipo identificativo, agli effetti della verifica
di cui innanzi si è detto".
E tuttavia, la
circostanza che tale pronuncia di incostituzionalità consegni l'addizione ad un
principio, senza introdurre regole di dettaglio self-executing quanto al
procedimento di appello riservato, e si indirizzi espressamente al legislatore
affinchè, previe le necessarie ponderazioni e opzioni politiche, ripiani la
lacuna incostituzionale e concretizzi le modalità del meccanismo procedimentale
aggiunto, non esonera gli organi giurisdizionali, in attesa che il legislatore
adempia al suo compito, dall'applicazione diretta di quel principio, nè implica
un divieto di reperimento dal sistema delle regole più idonee per la decisione
dei casi loro sottoposti.
Per un verso,
infatti, l'affermazione di principio contenuta nel dispositivo di
incostituzionalità non è semplice espressione di orientamento di politica del
diritto, destinata a trovare realizzazione a condizione di un futuro intervento
del legislatore che trasformi la pronuncia della Corte costituzionale in regole
di diritto positivo. Essa è, invece, diritto vigente, capace di valere per
forza propria, in quanto derivante dalla Costituzione: la legge alla quale il
giudice è soggetto per il principio di legalità nella giurisdizione ( art.
101 Cost. , comma 2) è quella che risulta dalla addizione del principio ad
opera della sentenza di illegittimità costituzionale.
Per l'altro verso,
il dialogo privilegiato che, con la citata sentenza, la Corte costituzionale
instaura con il legislatore riguarda la introduzione, da parte di quest'ultimo,
della disciplina generale e astratta attraverso l'esercizio della
discrezionalità politica.
La riserva espressa
della competenza del legislatore si riferisce, evidentemente, al piano della
normazione primaria, al livello cioè delle fonti del diritto: come tale, essa
non estromette il giudice comune, nel ruolo - costituzionalmente diverso da
quello affidato al legislatore - di organo chiamato, non a produrre un quid
novi sulla base di una libera scelta o a stabilire una disciplina di carattere
generale, ma a individuare e dedurre la regola del caso singolo bisognoso di
definizione dai testi normativi e dal sistema, di cui è parte anche il
principio vincolante dichiarato dalla Corte costituzionale con la sentenza
additiva, e così a ricercare, in chiave di effettività, nel momento
applicativo, un punto di saldatura tra quel principio, i diritti dei soggetti
coinvolti e le regole preesistenti.
Agli organi della
giurisdizione il principio dichiarato dalla Corte nel dispositivo di
accoglimento si rivolge, anche con la carica di specificazioni contenute nei
criteri-guida in esso delineate, riguardanti il tipo di attività (interpello
della madre ai fini di una eventuale libera revoca da parte della stessa della
dichiarazione, a suo tempo resa, di voler restare anonima), chi la debba svolgere
(il giudice), quando (su sollecitazione del figlio) e con quali modalità
(rispettando l'assoluta riservatezza della donna); e ne orienta la necessaria
opera di integrazione nella definizione del caso concreto sottoposto al loro
esame.
Si tratta di una
provvista di indicazioni che consente al giudice di assicurare, anche per il
periodo transitorio, una situazione adeguata alla legalità costituzionale,
dando ai soggetti coinvolti la possibilità concreta di esercitare i loro
diritti fondamentali: alla madre, di eventualmente ritrattare, sul versante dei
rapporti relativi alla genitorialità naturale, la scelta per l'anonimato, se è
messa in condizione di cambiarla allorchè il figlio si dichiari interessato a
conoscere le sue origini; al figlio, di accedere alle informazioni sulle sue
origini e di definire così la sua identità naturale, con tutto ciò che sul
piano personale questo può significare, sempre che la portatrice dell'interesse
all'anonimato intenda revocare, per effetto di una scelta rimessa alla sua
valutazione e alla sua coscienza, la dichiarazione iniziale.
8.2. - La soluzione
che ritiene possibile, pur nel perdurante silenzio del legislatore,
l'applicazione in sede giurisdizionale dell'interpello riservato della madre
biologica anonima, trova sostegno nei principi elaborati dalla giurisprudenza
costituzionale con riguardo alle sentenze additive a dispositivo generico.
La Corte
costituzionale ha infatti chiarito, con la sentenza n. 295 del 1991, e ha
successivamente ribadito, con la sentenza n. 74 del 1996, che "la
dichiarazione di illegittimità costituzionale di una omissione legislativa -
com'è quella ravvisata nell'ipotesi di mancata previsione, da parte della norma
di legge regolatrice di un diritto costituzionalmente garantito, di un meccanismo
idoneo ad assicurare l'effettività di questo - mentre lascia al legislatore,
riconoscendone l'innegabile competenza, di introdurre e di disciplinare anche
tale meccanismo in via di normazione astratta, somministra essa stessa un
principio cui il giudice comune è abilitato a fare riferimento per porre
frattanto rimedio all'omissione in via di individuazione della regola del caso
concreto".
Le additive di
principio, infatti, sono pronunce tendenzialmente caratterizzate da una duplice
funzione: da un lato, di orientamento del legislatore, nella necessaria
attività consequenziale alla pronuncia, diretta a rimediare all'omissione
incostituzionale; dall'altro, di guida del giudice nell'individuare, ove
possibile, soluzioni applicative utilizzabili medio tempore, estraendo da quel
principio, e dal quadro normativo generale esistente, la regola buona per il
caso.
9. - L'immediata
applicabilità della sentenza n. 278 del 2013 non trova neppure ostacoli
nell'impossibilità concreta per il giudice di mutuare dall'ordinamento, in
attesa dell'interpositio legislatoris, un meccanismo utile a garantire la
tutela dei diritti nascenti dalla declaratoria di illegittimità costituzionale.
Il procedimento
utilizzabile al fine di rendere l'additiva di principio suscettibile di seguito
giurisdizionale conforme è quello "base", di volontaria
giurisdizione, previsto dalla L. n. 184 del 1983, art. 2, commi 5 e 6,
nel corso del quale è stata sollevata dal giudice a quo la questione di
costituzionalità accolta dalla Corte costituzionale. Si tratta di un
procedimento in camera di consiglio, che si svolge dinanzi al tribunale per i
minorenni del luogo di residenza, dettato per la ricerca delle origini del
figlio adottato, una volta che questi abbia raggiunto la maggiore età, nel caso
in cui la madre non ha fatto la dichiarazione di anonimato. Questo procedimento
camerale - previi i necessari adattamenti, necessari ad assicurare in termini
rigorosi la riservatezza della madre, che si impongono in virtù delle
indicazioni contenute nel principio esplicitato dalla sentenza di illegittimità
costituzionale - ben può adattarsi al caso del figlio che richiede al giudice
di autorizzare le ricerche e il successivo interpello della madre biologica
circa la sua volontà di mantenere ancora fermo l'anonimato, e così
rappresentare il "contenitore neutro" (cfr. Cass., Sez. U., 19 giugno
1996, n. 5629) di un'interrogazione riservata, esperibile una sola volta, con
modalità pratiche nel concreto individuate dal giudice nel rispetto dei limiti
imposti dalla natura dei diritti in gioco, reciprocamente implicati nei loro
modi di realizzazione.
Le modalità del
procedimento trovano un parametro di riferimento anche nell'art. 93 del codice
in materia di protezione dei dati personali. Tale disposizione - consentendo in
ogni tempo la comunicabilità delle informazioni "non identificative"
ricavabili dal certificato di assistenza al parto o dalla cartella clinica,
tuttavia ancorandola all'osservanza, ai fini della tutela della riservatezza
della madre, delle relative "opportune cautele per evitare che
quest'ultima sia identificabile" - detta un criterio utile per il giudice
che, nel procedere all'interpello della madre, dovrà seguire modalità idonee a
preservare la massima riservatezza e segretezza nel contattare la madre per
verificare se intenda mantenere ferma la dichiarazione di anonimato o
revocarla.
Un altro referente
normativo utile ai fini della individuazione della regola del caso concreto è
desumibile dal comma 6 del citato art. 28, il quale prevede che l'accesso per
l'adottato alle notizie sulla sua origine e l'identità dei genitori biologici
avvenga con modalità tali da evitare "turbamento all'equilibrio
psico-fisico del richiedente". Si tratta di un'indicazione normativa che
necessariamente vale per tutte le posizioni coinvolte nella vicenda, non solo
per il figlio ma anche per la madre: il che impone che la ricerca e il contatto
ai fini dell'interpello riservato siano gestiti con la massima prudenza ed il
massimo rispetto, oltre che della libertà di autodeterminazione, della dignità
della donna, tenendo conto della sua età, del suo stato di salute e della sua
condizione personale e familiare.
10. - Il
reperimento, in via giurisprudenziale, dal quadro normativo generale esistente
e dal principio somministrato dalla Corte costituzionale, della regola del caso
suscettibile di permettere un seguito integrativo dell'ordinamento lacunoso in
attesa dell'intervento legislativo, deriva anche dalla necessità di ricercare
una coerenza con la piena attuazione dei diritti di matrice convenzionale e di
interpretare, in quest'ambito, il diritto interno in senso conforme alla CEDU e
alle pronunce della Corte Europea.
Invero, il rispetto
degli obblighi internazionali è uno strumento efficace della tutela dei diritti
fondamentali nella singola fattispecie, e questa richiede una combinazione
virtuosa di esperienze e di attribuzioni, di cui è parte l'obbligo che incombe
sui giudici comuni di dare alle norme interne una lettura conforme ai precetti
convenzionali (Corte cost., sentenze n. 311 e n. 317 del 2009), fermo il
predominio assiologico della Costituzione sulla Convenzione Europea (Corte
cost., sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 e n. 49 del 2015).
Ora, come si è
ricordato retro, sub 7.2., proprio con riguardo alla disciplina della irreversibilità
del segreto, con la sentenza Godelli la Corte Europea dei diritti dell'uomo ha
condannato l'Italia per violazione dell'art. 8 della Convenzione, evidenziando
che la nostra legislazione non stabiliva un bilanciamento fra il diritto della
madre biologica all'anonimato e quello a conoscere la propria identità da parte
del figlio adottato, caratterizzandosi per la mancanza assoluta di un
equilibrio tra gli interessi in gioco, e in tal modo eccedeva dal margine di
valutazione riconosciuto alla stregua del parametro convenzionale.
In questa
prospettiva, il mancato sforzo ermeneutico diretto a cogliere nell'ordinamento,
nell'attesa dell'intervento del legislatore, le condizioni di effettività e di
operatività del principio formulato dalla sentenza additiva della Corte
costituzionale, determinerebbe anche un deficit di tutela riguardo ad un
diritto fondamentale riconosciuto dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo,
risolvendosi nel mantenimento di una situazione di violazione analoga a quella
constatata dalla CEDU, situazione che invece il giudice nazionale deve
prevenire.
D'altra parte,
diversamente opinando, e continuandosi a negare, in attesa di un meccanismo
procedimentale stabilito per legge, la possibilità per il figlio di chiedere al
giudice di interpellare riservatamente la madre anonima, si finirebbe con il
non valorizzare, negli esiti applicativi, la spinta propulsiva che deriva dalla
convergenza di fondo, pur nel diverso percorso argomentativo, tra il precedente
della Corte di Strasburgo e l'esito dell'incidente di costituzionalità.
Infatti, quantunque
la dichiarata illegittimità costituzionale sia dipesa dall'accertato contrasto
con gli artt. 2 e 3 Cost. , con assorbimento del motivo di censura
formulato in riferimento all'art. 117 Cost. , comma 1, dalla stessa
motivazione della sentenza di incostituzionalità si ricava l'espresso
riconoscimento non solo che la sentenza di Strasburgo "invita a
riflettere" sul profilo "diacronico" della tutela assicurata al
diritto all'anonimato della madre", ma anche che "l'eccessiva
rigidità" della disciplina nazionale è censurata "sulla base degli
stessi rilievi, in sostanza, formulati dalla Corte EDU".
11. - I protocolli
in concreto seguiti da quei Tribunali per i minorenni che, dopo la sentenza
della Corte costituzionale n. 278 del 2013, hanno correttamente ritenuto di
dare corso alla istanza del figlio di interpello della madre naturale per
un'eventuale revoca della scelta di rimanere anonima fatta al momento del
parto, dimostrano come le norme di riferimento, arricchite delle indicazioni
contenute nell'addizione del principio, siano suscettibili di essere declinate
in direzioni pratiche dell'attività e del procedimento, capaci di consentire
che, nel terminale del momento applicativo, il contatto con la madre, rivolto a
raccogliere un'insindacabile dichiarazione di volontà, avvenga con modalità non
invasive e rispettose della sua dignità e, nello stesso tempo, cautelando in
termini rigorosi il suo diritto alla riservatezza.
Così, un Tribunale
per i minorenni, una volta ricevuto il ricorso del figlio, forma il relativo
fascicolo, secretato sino alla conclusione del procedimento e anche oltre; alla
luce della visione del fascicolo della vicenda che portò all'adozione, incarica
la polizia giudiziaria di acquisire, presso l'ospedale di nascita, notizie
utili alla individuazione della madre del ricorrente; ove la madre risulti in
vita, incarica il servizio sociale del luogo di residenza di questa (per via
consolare, in caso di residenza all'estero) di recapitare, esclusivamente a
mani proprie dell'interessata, una lettera di convocazione per comunicazioni
orali, indicando diverse date possibili nelle quali le comunicazioni verranno
effettuate, presso la sede del servizio o, ove preferito, al domicilio di
quest'ultima. Le linee guida di quel Tribunale prevedono inoltre che: ove la
madre biologica, in sede di notificazione, chieda il motivo della convocazione,
l'operatore del servizio sociale dovrà rispondere "non ne sono a
conoscenza", osservando in ogni caso il più stretto segreto d'ufficio; il
servizio notificante informa il giudice delle condizioni psico-fisiche della
persona, in modo da consentire le cautele imposte dalla fattispecie; il
colloquio avviene nel giorno e nel luogo scelto dall'interessata, tra quest'ultima
- da sola, senza eventuali accompagnatori - e il giudice onorario minorile
delegato dal giudice togato. A questo punto, secondo le direzioni pratiche,
l'interessata viene messa al corrente dal giudice che il figlio che mise alla
luce quel certo giorno ha espresso il desiderio di accedere ai propri dati di
origine, e viene informata che ella può o meno disvelare la sua identità e può
anche richiedere un termine di riflessione. Se la donna non dà il suo consenso
al disvelamento, il giudice ne dà semplice riferimento scritto al Tribunale,
senza formare alcun verbale e senza comunicare il nome del richiedente; se
invece la persona dà il suo consenso, il giudice redige verbale, facendolo
sottoscrivere alla persona interessata, solo allora rivelando a quest'ultima il
nome del ricorrente.
Le linee guida di
altri Tribunali per i minorenni prevedono la convocazione, da parte del
giudice, del rappresentante dell'Ufficio provinciale della pubblica tutela, che
consegna la busta chiusa contenente il nominativo della madre: il
rappresentante dell'Ufficio della pubblica tutela viene fatto uscire dalla
stanza; il giudice apre la busta e annota i dati della madre, inserendoli in
altra busta, che chiude e sigilla, redigendo un verbale dell'operazione; la
prima busta viene nuovamente sigillata e, siglata dal giudice con annotazione
dell'operazione compiuta, viene riconsegnata al rappresentante dell'Ufficio, a
questo punto fatto rientrare e congedato. Tramite l'Ufficio dell'anagrafe, il
giudice verifica la permanenza in vita della madre e individua il luogo di
residenza. Il fascicolo rimane nell'esclusiva disponibilità del giudice ed è
indisponibile per il ricorrente, che non potrà compulsarlo, essendo abilitato
soltanto a estrarre copia del suo ricorso. Ove la madre sia individuata, il
giudice, avuta nozione delle caratteristiche del suo luogo di residenza,
considerando le caratteristiche personali, sociali, cognitive della donna,
prende contatto telefonico con il soggetto ritenuto più idoneo nel caso
concreto (responsabile del servizio sociale o comandante della stazione dei
carabinieri), senza comunicare il motivo del contatto e chiedendo solo di
verificare la possibilità di un colloquio con la madre in termini di assoluto
riserbo. Solo ove sia concretamente possibile l'interpello in termini di
assoluta riservatezza, viene delegato il responsabile del servizio sociale
(ovvero un giudice perchè si rechi in loco) al contatto della madre e alla
manifestazione a questa della pendenza del ricorso da parte del figlio. Il
responsabile del servizio o il giudice raccolgono a verbale la determinazione
della madre, di conferma ovvero di revoca dell'anonimato; solo ove la madre
revochi la originaria opzione per l'anonimato, il ricorso, sussistendo le altre
condizioni di cui alla L. n. 184 del 1983, art. 28, viene accolto, e il
ricorrente accede al nominativo materno.
12. -
L'ammissibilità dello sviluppo di un seguito giurisprudenziale conforme al
principio formulato nell'addizione e l'esclusione di qualsiasi carattere
"infungibile" dell'intervento del legislatore sono confermate - come
correttamente rilevato dal Procuratore generale nella memoria depositata in
prossimità dell'udienza - dall'orientamento nel frattempo formatasi nella 1
Sezione civile di questa Corte.
Occupandosi del caso
della morte della genitrice biologica che aveva scelto il segreto al momento
della nascita, questa Corte ha infatti affermato, con la sentenza 21 luglio
2016, n. 15024, che sussiste il diritto del figlio, dopo la morte della madre,
di conoscere le proprie origini biologiche mediante accesso alle informazioni
relative all'identità personale della stessa, non potendosi considerare
operativo, oltre il limite della vita della madre che ha partorito in anonimo,
il termine di cento anni, dalla formazione del documento, per il rilascio della
copia integrale del certificato di assistenza al parto o della cartella
clinica, comprensivi dei dati personali che rendono identificabile la madre,
sul rilievo che ciò determinerebbe la cristallizzazione di tale scelta anche
dopo la sua morte e la definitiva perdita del diritto fondamentale del figlio,
in evidente contrasto con la necessaria reversibilità del segreto e
l'affievolimento, se non la scomparsa, di quelle ragioni di protezione che
l'ordinamento ha ritenuto meritevoli di tutela per tutto il corso della vita
della madre, proprio in ragione della revocabilità di tale scelta.
E, con la successiva
sentenza 9 novembre 2016, n. 22838, ha ribadito che il diritto dell'adottato,
nato da donna che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata,
ad accedere alle informazioni concernenti la propria origine e l'identità della
madre biologica, sussiste e può essere concretamente esercitato anche se la
stessa sia morta e non sia possibile procedere alla verifica della perdurante
attualità della scelta di conservare il segreto, non rilevando in senso
ostativo il mancato decorso del termine di cento anni dalla formazione del
certificato di assistenza al parto o della cartella clinica, di cui all'art. 93
del codice in materia di protezione dei dati personali, salvo il trattamento
lecito e non lesivo dei diritti dei terzi dei dati personali conosciuti.
Nel riconoscere il
diritto dell'adottato ad accedere a informazioni sulle proprie origini anche
nel caso in cui non sia più possibile procedere all'interpello della madre
naturale per morte della stessa, entrambe le pronunce mostrano di ritenere che
già adesso il figlio nato da parto anonimo possa chiedere l'interpello della
madre sulla reversibilità della scelta, e che la sentenza di costituzionalità
abbia prodotto l'ulteriore effetto di sistema di rendere flessibile il rigore
dello sbarramento temporale contenuto nel citato art. 93.
13. - In
conclusione, sulla richiesta del Procuratore generale ai sensi dell'art. 363
c.p.c. , comma 1, le Sezioni Unite deliberano di enunciare il seguente
principio di diritto nell'interesse della legge: "In tema di parto
anonimo, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 278 del 2013,
ancorchè il legislatore non abbia ancora introdotto la disciplina
procedimentale attuativa, sussiste la possibilità per il giudice, su richiesta
del figlio desideroso di conoscere le proprie origini e di accedere alla
propria storia parentale, di interpellare la madre che abbia dichiarato alla
nascita di non voler essere nominata, ai fini di una eventuale revoca di tale
dichiarazione, e ciò con modalità procedimentali, tratte dal quadro normativo e
dal principio somministrato dalla Corte costituzionale, idonee ad assicurare la
massima riservatezza e il massimo rispetto della dignità della donna; fermo
restando che il diritto del figlio trova un limite insuperabile allorchè la
dichiarazione iniziale per l'anonimato non sia rimossa in seguito
all'interpello e persista il diniego della madre di svelare la propria identità".
P.Q.M.
La Corte enuncia, ai
sensi dell'art. 363 c.p.c. , comma 1, il seguente principio di diritto
nell'interesse della legge: "In tema di parto anonimo, per effetto della
sentenza della Corte costituzionale n. 278 del 2013, ancorchè il legislatore
non abbia ancora introdotto la disciplina procedimentale attuativa, sussiste la
possibilità per il giudice, su richiesta del figlio desideroso di conoscere le
proprie origini e di accedere alla propria storia parentale, di interpellare la
madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ai fini di
una eventuale revoca di tale dichiarazione, e ciò con modalità procedimentali,
tratte dal quadro normativo e dal principio somministrato dalla Corte
costituzionale, idonee ad assicurare la massima riservatezza e il massimo
rispetto della dignità della donna; fermo restando che il diritto del figlio
trova un limite insuperabile allorchè la dichiarazione iniziale per l'anonimato
non sia rimossa in seguito all'interpello e persista il diniego della madre di
svelare la propria identità".
Così deciso in Roma,
nella Camera di Consiglio, il 20 dicembre 2016.
Depositato in Cancelleria il 25 gennaio 2017