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Carta d’identità dei minori: via libera alla dicitura "genitore" anche per coppie omogenitoriali

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 9216 dell’8 aprile 2025, ha ribadito l’illegittimità del decreto ministeriale del 31 gennaio 2019 che obbligava l’utilizzo esclusivo delle diciture “madre” e “padre” sulla carta d’identità dei minori. Il caso riguarda una coppia di donne, una madre biologica e una madre adottiva, che si sono viste negare la corretta rappresentazione della propria genitorialità sul documento del figlio.

La Suprema Corte ha confermato le decisioni del Tribunale e della Corte d’appello di Roma, ordinando l’utilizzo del termine “genitore” o di un’espressione equivalente che rispecchi lo stato civile del minore. 

Si è ritenuto che il decreto contrastasse con l’art. 3, comma 5, del T.U.L.P.S. e producesse effetti discriminatori. È stato inoltre ricordato che, secondo la Corte Costituzionale, l’adozione in casi particolari crea legami familiari pienamente validi. La Cassazione ha quindi sottolineato che l’identità dei genitori va rappresentata in modo rispettoso della realtà giuridica e della dignità personale, senza forzature linguistiche.

 

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Divorzio parallelo alla separazione: sì alla revoca dell’assegno di mantenimento in via provvisoria e urgente se mancano i presupposti per l’assegno divorzile

Corte di Appello di Firenze, Sez. I, Ord., 17.04.2025

Il giudice del divorzio, nel momento in cui assume i provvedimenti temporanei e urgenti che ritiene opportuni nell’interesse delle Parti, ben può compiere un giudizio prognostico – salva l’istruttoria del merito – sui presupposti (per an e quantum) dell’assegno divorzile ed eventualmente sulla decorrenza della pronuncia sul punto che può essere indicata secondo regola generale al momento della domanda oppure fissata al successivo momento della pronuncia dell’ordinanza medesima, così incidendo, nella sostanza, sulle sorti dell’assegno separativo di mantenimento”.

 

La Corte d’Appello di Firenze ha avuto modo di affrontare un’interessante questione procedurale in materia di rapporti tra giudizio di separazione e di divorzio.

Nel caso di specie, separazione e divorzio erano entrambi pendenti in fase istruttoria. La prima secondo il rito pre-Cartabia, il secondo in base all’attuale rito della famiglia.

Nel giudizio di scioglimento del matrimonio, con provvedimento provvisorio e urgente ex art. 473 bis 22 cpc, il giudice revocava l’assegno di mantenimento disposto in sede di separazione in favore della moglie, sulla base però dei criteri per il riconoscimento dell’assegno divorzile.

Infatti, il Tribunale riteneva – tra le altre cose - che la parte non avesse allegato, se non in via del tutto generica, di avere concretamente sacrificato proprie aspettative professionali ovvero rinunciato a realistiche occasioni professionali e reddituali.          
Inoltre, per il giudice risultavano essere già maturati i presupposti per la pronuncia di divorzio, oltre al fatto che nel giudizio di separazione era stata dispiegata domanda di revoca dell’assegno di mantenimento.

La donna presentava reclamo ex art. 473 bis 24 cpc alla Corte d’Appello di Firenze, lamentando in primo luogo che, in assenza di una pronuncia sullo status di scioglimento, “appariva erroneo che il Tribunale, anziché valutare i presupposti per la permanenza o meno del contributo al mantenimento, avesse invece orientato la propria attenzione sui presupposti dell’assegno divorzile, che sono evidentemente diversi, come diversa è la natura dei due assegni.           

In secondo luogo, la signora denunciava diversi errori nella ricostruzione dei fatti e nella interpretazione delle prove documentali disponibili nella fase sommaria del divorzio.

La Corte d’Appello, nel rigettare la domanda, ha prima di tutto ricordato che – ugualmente alla abrogata impugnazione ex art. 708 c. 4 cpc – il reclamo avverso i provvedimenti provvisori e urgenti non può riguardare fatti o documenti successivi o non sottoposti al giudice di primo grado e potrà essere promosso solo in casi estremi di palese incongruità o erronea motivazione del provvedimento, per consentire alle parti di opportunamente modulare la propria condotta nel tempo immediato e nell’attesa di ulteriori opportuni provvedimenti istruttori.

Nel merito, il Corte ritiene infondata l’eccezione processuale.    
Riportandosi alla giurisprudenza di legittimità più recente (Cass. n 1889/2025., n. 3852/2021) il Collegio ritiene che, in caso di separazione e divorzio paralleli, il giudice del divorzio possa già in fase sommaria ex art. 473 bis 22 cpc modificare i provvedimenti separativi sulla base di un giudizio prognostico riguardo la debenza del diverso assegno di divorzio.        
Ciò non comporta una sovrapposizione di competenze, dal momento che permarrà intatta al giudice della separazione la valutazione finale circa i ratei (e gli eventuali arretrati) di assegno separativo di mantenimento, sulla base dei presupposti che gli sono propri, fino alla indicata decorrenza della pronuncia sull’assegno divorzile.

Chiarito quindi che del tutto legittimamente il Tribunale ha applicato i criteri per l’assegno divorzile, la Corte non ravvisa alcun errore macroscopico nella ricostruzione dei fatti o nella valutazione del materiale probatorio, considerato peraltro che per entrambi i giudizi deve ancora tenersi l’istruttoria.


Corte di Appello di Firenze, Sez. I, ord. 17.04.2025 (provvedimento completo) 

 

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La famiglia che cambia e il diritto che unisce

Il diritto di famiglia come strumento di connessione, tutela e accompagnamento nella trasformazione dei legami familiari

La famiglia contemporanea non è più un modello unico, definito e immutabile, ma un insieme fluido di relazioni, identità e percorsi affettivi in costante trasformazione. Negli ultimi cinquant’anni abbiamo assistito alla crisi della famiglia patriarcale e mononucleare, alla crescita delle famiglie ricomposte, unipersonali, omogenitoriali, e di convivenze affettive che non rientrano nei modelli tradizionali.

In questo scenario, il diritto di famiglia non ha perso di senso, anzi: si è rafforzato nel suo ruolo di strumento di tutela e riconoscimento. La grande riforma del 1975 ha segnato un passaggio decisivo da un’impostazione autoritaria, incentrata sulla figura del marito come capo, a una visione paritaria, in cui i coniugi sono soggetti autonomi, uguali e responsabili.

Il diritto non impone più dall’alto un modello precostituito, ma si fa carico di proteggere le relazioni, accompagnare i cambiamenti e garantire diritti e doveri equilibrati. Obblighi come la fedeltà, l’assistenza morale e materiale, la collaborazione e la coabitazione non sono più meri doveri formali, ma espressione concreta del patto d’amore e del progetto condiviso.

Allo stesso modo, il rapporto con i figli è stato profondamente ripensato, riconoscendo il diritto di ogni bambino a essere educato, amato e ascoltato, indipendentemente dallo stato civile dei genitori. La famiglia, pur nella sua molteplicità, resta un nucleo fondamentale per la coesione sociale, la solidarietà e la crescita delle persone.

In un’epoca segnata dalla frammentazione e dall’individualismo, il diritto di famiglia si conferma come un ponte tra individuo e comunità, tra libertà personale e responsabilità collettiva. Non più gabbia, ma struttura che accoglie, orienta e valorizza i legami. Perché, come scriveva Dworkin, il diritto è anche un atto di fratellanza, un modo per vivere insieme le nostre differenze.

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Coniugi narcisisti: niente delibazione dopo tre anni di matrimonio se la nullità ecclesiastica è solo per fragilità caratteriali

Con la Sentenza n. 2352 pubblicata il 13.04.2025, la Corte di Appello di Roma ribadisce il principio che la sentenza di nullità ecclesiastica del matrimonio durato più di 3 anni può essere riconosciuta nell’ordinamento civile italiano solo in caso di esatta corrispondenza a uno dei motivi di invalidità matrimoniale previsti dall’ordinamento civile.

Non basta che il Tribunale Ecclesiastico abbia annullato il matrimonio ex can 1095 nn 2 e 3 CIC a causa del grave assetto personologico delle parti (narcisista l’uno e dipendente con tratti narcisisti l’altra) per integrare anche il vizio civilistico della incapacità di intendere e di volere ex art. 120 cc.

Per tale causa di invalidità, infatti, sebbene non occorra la totale privazione delle facoltà intellettive o volitive, sono tuttavia necessarie condizioni psichiche grandemente menomate o scemate, al punto da impedire in ogni caso la formazione di una volontà cosciente.     

La Corte capitolina ripercorre la giurisprudenza di legittimità sull’art. 120 cc, stilando un vero e proprio catalogo:              

 demenza senile, il deterioramento cognitivo e una sindrome involutiva", una "patologia psicotica con marcata disabilità neurologica e relazionale necessitante un trattamento farmacologico e psicoterapeutico da parte di uno staff specializzato" (Cass. 21 gennaio 2016, n. 1070), la "sindrome ansioso-depressiva", ma soltanto se sia di "tale gravità da far venire meno la capacità di autodeterminazione del soggetto e da seriamente inibire la sua capacità di valutazione dell'atto" (Cass. 28 ottobre 2014, n. 22836, in tema di dimissioni), "un grave deterioramento mentale con frequenti episodi di disorientamento temporo-spaziale, amnesie... tanto da dover essere coadiuvato dal figlio per eseguire le varie manovre semeiologiche in quanto non comprendeva il significato di ciò che gli veniva detto" (Cass. 3 gennaio 2014, n. 59, sulla donazione), la "demenza arteriosclerotica ingravescente" (Cass. 9 agosto 2011, n. 17130, nonché Cass. 2 dicembre 2022, n. 35466), la "oligofrenia di grado medio-lieve, insorto fin da bambina, con chiaro deficit delle capacità critiche e di giudizio" (Cass. 13 ottobre 2022, n. 29962), l'essere il soggetto "afasico, incapace di provvedere ad atti elementari, inclusa le incombenze della vita domestica e quotidiana e la gestione del denaro, nonché mancante di orientamento spazio-temporale" (Cass. 17 giugno 2021, n. 17381, nella vendita), il "disturbo delirante paranoideo in fase di scompenso" della lavoratrice al momento delle dimissioni (Cass. 13 febbraio 2019, n. 4232), lo "stato soporoso e marasmatico" (Cass. 12 giugno 2020, n. 11272, in tema di procura ad operare sul conto corrente>] (così in motivazione Cass ord. n. 28307/2023)”.

Nel caso di specie, al contrario, la Corte ravvisa solo delle insicurezze associate a vulnerabilità emotiva dei soggetti in questione, ossia quelle "fragilità" che potevano consentire agli interessati di rappresentarsi cognitivamente gli effetti dell’atto, pur sperimentando una mera minorata condizione di autodeterminazione che non è ancora un'incapacità d'intendere e volere.

Infatti, seppur il perito ecclesiastico ha definito grave l’incidenza dello stato psicologico sugli aspetti relazionali ed affettivi, nel valutarne l’incidenza sulla capacità di autodeterminarsi si è invece limitato a sostenere che le parti “non erano sufficientemente libere” per prestare il proprio consenso; e infatti il Tribunale Interdiocesano ha concluso per la nullità per “mancanza di amore autentico” e “incapacità di mettersi in discussione”.

La Corte D’Appello chiarisce inoltre che la delibazione su istanza di una sola parte va introdotta con citazione secondo il rito di primo grado post-riforma Cartabia, mentre segue il rito camerale con ricorso solo in caso di domanda congiunta delle parti.         
Ancora, ricorda che non è possibile richiedere una CTU nel giudizio di delibazione e che la sospensione ex art. 295 cpc non opera in caso di parallela pendenza di un giudizio di divorzio.

Corte Appello Roma, sez. famiglia, 13.04.2025, n. 2352 (download provvedimento)

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Tutela delle minori tra comunità e rientro in famiglia: la scelta del Tribunale di Matera

Accolta la proposta del Curatore Speciale: permanenza temporanea in struttura e progressivo ritorno alla vita familiare, con responsabilità genitoriale limitata e vigilanza dei Servizi Sociali

In una recente decisione del Tribunale di Matera, datata 14 gennaio 2025, è stata confermata la necessità di garantire la tutela di due minori coinvolte in un grave contesto di conflittualità familiare, segnato da inadeguatezza educativa e da ripetute triangolazioni emotive operate dai genitori. Il giudice ha disposto la prosecuzione dell’affidamento delle ragazze ai Servizi Sociali, con permanenza in regime residenziale presso la comunità che già le ospita, ma con l’obiettivo esplicito di una permanenza solo temporanea.

La stanchezza manifestata dalle minori verso l’istituzionalizzazione ha spinto il Tribunale a indicare come termine il completamento dell’anno scolastico, aprendo così a un percorso di reinserimento graduale nel contesto familiare. L’obiettivo è accompagnare le giovani verso una maggiore stabilità emotiva e maturazione personale, mantenendo nel frattempo un sostegno educativo strutturato.

Disattese alcune conclusioni della Consulenza Tecnica d’Ufficio, è stata confermata la linea del Curatore Speciale, la cui nomina è stata prorogata fino alla cessazione della permanenza in comunità. In seguito, è previsto un regime semiresidenziale, con collocamento paritario presso entrambi i genitori, i quali, a causa delle condotte scorrette precedenti, sono stati ammoniti ai sensi dell’art. 473-bis.39 c.p.c.

I genitori dovranno garantire direttamente il mantenimento delle figlie nei periodi di loro competenza, senza assegnazione della casa coniugale. Il Servizio Sociale continuerà a monitorare la situazione, favorendo un ritorno graduale e consapevole alla vita familiare.

 

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RECUPERO SPESE STRAORDINARIE: IL PARERE DEL PROCURATORE GENERALE

In materia di recupero delle spese straordinarie sostenute per i figli, i genitori non sono obbligati a ottenere un nuovo accertamento giudiziale per la loro esistenza e quantificazione, purché tali spese siano preventivabili e anticipate da uno dei genitori nell'interesse dei figli.

In questi casi, è possibile procedere direttamente con l'atto di precetto, allegando il titolo originario, la documentazione di spesa e, se necessario, la prova del consenso dell’altro genitore, quando previsto dal titolo stesso.

Tuttavia, per le spese imprevedibili e imponderabili, non è possibile richiedere il rimborso sulla base del titolo originario. Per tali spese, è indispensabile avviare un nuovo procedimento legale, con la formazione di un autonomo titolo esecutivo. Questo principio sottolinea la distinzione tra spese straordinarie preventivabili e quelle che, invece, richiedono una valutazione giudiziale separata.

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Affidamento SuperEsclusivo alla Madre - Protezione del Minore in Caso di Violenza Domestica

La Corte di Cassazione ha confermato l'affidamento superesclusivo dei figli alla madre, dopo aver accertato comportamenti violenti e aggressivi del padre, che avevano costretto i minori ad assistere a episodi di violenza. In questo contesto, il giudice ha tutelato il diritto del bambino a vivere in un ambiente sano, come stabilito dalla Convenzione di Istanbul, ratificata dall'Italia e vincolante per gli Stati membri dell'UE.

La Convenzione obbliga gli Stati a garantire che la violenza domestica e i suoi effetti sui figli siano presi in considerazione nei procedimenti di affidamento, evitando che il contatto con un genitore violento comprometta la sicurezza e il benessere del minore.

Nel caso specifico, nonostante l'archiviazione della denuncia penale, i fatti accertati in sede civile, come danneggiamenti e aggressioni, sono stati sufficienti per giustificare l'affidamento esclusivo alla madre, che ha svolto un ruolo accudente, mentre il padre ha mostrato comportamenti inadeguati, come l'ostacolo alla relazione tra i figli e la madre e atteggiamenti denigratori verso quest'ultima.

La Corte ha sottolineato che la decisione in materia di affidamento deve sempre tenere conto dell'interesse superiore del minore, evitando che la conflittualità tra i genitori comprometta il suo sviluppo equilibrato e sereno. In tal senso, il giudice ha escluso il padre dalla custodia, ritenendo che non fosse in grado di garantire un ambiente emotivamente stabile per i figli.

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Cumulo di separazione e divorzio: rimessa al Collegio l'intera causa senza celebrare la prima udienza di scioglimento


Con provvedimento del 17.03.2025, la prima sezione del Tribunale di Roma ha gestito il cumulo delle
domande di separazione e divorzio nello stesso processo con una decisione all’insegna della speditezza.

Infatti, una volta pronunciata la sentenza parziale sullo status di separazione, l’originaria udienza di rimessione al Collegio della domanda separativa era stata fissata al 25.09.2024 per poi essere differita al 26.03.2025 per assenza del giudice titolare.

Il nuovo giudice, confermate le decisioni già assunte sulle istanze istruttorie, ha revocato l’udienza del 26.03.2025 e fissato un’unica udienza di rimessione integrale della causa al Collegio al 15.07.2025, concedendo i termini per le memorie conclusionali ex art. 473 bis 28 cpc.

Nel prendere tale decisione, il giudice ha osservato che a mente dell’art. 473 bis 49 cpc, in caso di cumulo di separazione e divorzio, attesa l’unicità del procedimento, una volta emessa la pronuncia separativa sullo status e decorso il termine di legge, sono procedibili la domanda di divorzio e le domande connesse.

Dunque il Tribunale di Roma risolve in favore della speditezza e dell’economia processuale il problema della gestione del cumulo di domande di separazione e divorzio, possibilità introdotta dalla riforma Cartabia ma scarsamente disciplinata dal codice di procedura, con conseguenti dubbi sulla scansione delle fasi processuali.

Infatti, in questo caso il giudice ha riunito la trattazione del merito di separazione e scioglimento del matrimonio, seppur ancora non vi fosse stata l’udienza di comparizione per la domanda di divorzio (né la sentenza parziale di scioglimento) e, dunque, le due domande si trovassero in realtà in due fasi processuali diverse.

Download provvedimento 

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Nuove Regole per i passaporti e documenti d’identità validi per l’espatrio

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Affidamento esclusivo e violenza assistita: la tutela del minore come priorità

La Cassazione conferma l'affidamento esclusivo al genitore vittima di violenza domestica a protezione del benessere dei figli

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Adozione Internazionale: legittima l'adozione dei single

Secondo i Giudici, la disciplina dichiarata illegittima limitava eccessivamente l'interesse dell'aspirante genitore a intraprendere l'adozione, quale istituto fondato sul principio di solidarietà sociale a tutela del minore.

L'interesse a diventare genitori, pur non attribuendo una pretesa a adottare, rientra nella sfera di autodeterminazione individuale e deve essere valutato, insieme agli interessi primari del minore, «nel giudizio sulla non irragionevolezza e non sproporzione delle scelte operate dal legislatore».

La Corte ha quindi ritenuto che le persone singole sono, in astratto, idonee ad assicurare «un ambiente stabile e armonioso» a un minore in stato di abbandono, fermo restando che spetta poi al giudice accertare in concreto l'idoneità affettiva dell'aspirante genitore e la sua capacità di educare, istruire e mantenere il minore, nonché della rete familiare di supporto dell'aspirante genitore. Nonostante le garanzie offerte per la protezione del minore, la Corte ha sottolineato che il divieto assoluto per le persone singole di adottare potrebbe «riflettersi negativamente sulla stessa effettività del diritto del minore a essere accolto in un ambiente familiare stabile e armonioso», specialmente nell'attuale contesto giuridico-sociale caratterizzato da una sensibile riduzione delle domande di adozione.

 


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Separazione e Addebito: Inutilizzabilità delle Chat Acquisite Illegittimamente

In un recente pronunciamento della Cassazione civile, la Prima Sezione ha chiarito un importante aspetto riguardante l'ammissibilità delle prove in un procedimento di separazione giudiziale. 

Nello specifico, la Corte ha sottolineato che, ai fini dell'addebito della separazione, non è possibile considerare come prova le chat acquisite in modo illegittimo da uno dei coniugi, nemmeno se le credenziali per accedere ai dispositivi erano state volontariamente condivise.

Il caso in questione riguarda una separazione tra un marito (A.) e la moglie (O.). Quest'ultima aveva accusato il marito di infedeltà coniugale, supportando la sua richiesta con conversazioni estratte dai dispositivi del marito, senza il suo consenso. Nonostante la difesa di O. che sosteneva la legittimità dell'acquisizione, poiché entrambi i coniugi si scambiavano regolarmente le password, la Cassazione ha ritenuto che tale testimonianza, basata sulle dichiarazioni della testimone amica di O., non fosse sufficientemente valida per legittimare l'acquisizione delle chat.

La Corte ha precisato che la testimonianza de relato actoris, cioè quella riferita da una parte attraverso un terzo che racconta ciò che è stato detto dalla parte stessa, non ha valore probatorio diretto. 

In questo caso, la testimonianza della testimone che affermava di sapere delle password condivise tra i coniugi non poteva essere utilizzata come prova per giustificare l'accesso ai dispositivi del marito. Pertanto, le chat non potevano essere considerate come prova valida di infedeltà.

In sintesi, la Cassazione ha ritenuto illegittima l'uso delle chat acquisite senza il consenso dell'altra parte, confermando che solo prove legittime e comprovate possono essere utilizzate per determinare l'addebito della separazione.

 

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Revoca della Donazione per Ingratitudine: La Condotta Irriguardosa del Convivente

La Cassazione conferma la revoca della donazione a favore di un'ex convivente, ritenendo che il comportamento offensivo nei confronti del donante giustifichi la decisione.

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Esclusa la possibilità di disporre la decadenza dalla responsabilità genitoriale, poiché una tale misura è considerata estrema e va adottata solo in presenza di un danno grave e irreversibile per il minore

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Mantenimento del figlio maggiorenne e onere della prova: le recenti disposizioni giuridiche

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Assegno Divorzile: Nessuna Revoca per la Moglie Malata con Lavoro Part-Time

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Conto corrente cointestato: la Cassazione stabilisce che il denaro non è automaticamente di entrambi i titolari

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Il Non Ascolto del Minore è Legittimo!

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Il Principio di Autoresponsabilità nell'Assegno Divorzile: un Approccio Evolutivo

La recente sentenza del Tribunale di Vicenza ha tracciato una linea evolutiva fondamentale nel riconoscimento dell'assegno divorzile, confermando l'importanza del principio di autoresponsabilità. Secondo i giudici, il criterio del tenore di vita durante il matrimonio, tradizionalmente utilizzato per determinare l'importo dell'assegno, è stato superato a favore di una visione che pone l'accento sulla responsabilità individuale e sulle scelte personali degli ex-coniugi.

In questa ottica, i giudici hanno aderito all'orientamento espresso dalla Suprema Corte, che valorizza l'autodeterminazione dell'individuo all'interno delle sue relazioni sociali, sottolineando come queste scelte siano strettamente legate allo sviluppo della personalità di ciascun soggetto. L'idea centrale è che l'assegno divorzile non debba servire a "livellare" le differenze economiche che esistono tra i coniugi, se tali differenze sarebbero comunque esistite anche in assenza del matrimonio. Se si seguisse un approccio contrario, infatti, si finirebbe per attribuire al matrimonio una funzione che contrasta con la sua stessa natura, incentivando scelte basate esclusivamente su motivazioni economiche e rischiando di giustificare una "locupletazione ingiustificata", già condannata dalla Corte di Cassazione.

Nel caso specifico trattato, il Tribunale ha riconosciuto l'assegno divorzile con una finalità esclusivamente assistenziale. La ricorrente, sessantaduenne, priva di qualifiche professionali e lontana dal mercato del lavoro da anni, non aveva possibilità concrete di trovare un'occupazione stabile che le permettesse di raggiungere un reddito sufficiente per la propria autosufficienza. Tuttavia, la quantificazione dell'assegno è stata contenuta, considerando che la stessa, separatasi dal marito a 48 anni, non aveva adottato misure concrete per inserirsi nel mondo del lavoro né si era attivata per recuperare un immobile di sua proprietà, ceduto al figlio, al fine di metterlo a reddito o venderlo.

 

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Nulla la clausola costitutiva del diritto reale di abitazione invalida in caso di separazione consensuale o divorzio congiunto

È Nulla la clausola contenuta nell’accordo di separazione consensuale o di divorzio congiunto che costituisce un diritto reale di abitazione, qualora siano assenti le dichiarazioni catastali ed urbanistiche previste dall’art. 29, comma 1-bis, della l. n. 52 del 1985, modificato dall’art. 19, comma 14, del d.l. n. 78 del 2010, convertito con modifiche dalla l. n. 122 del 2010. Infatti, l’accordo, redatto nel verbale di udienza da un ausiliario del giudice e destinato a costituire prova di quanto in esso dichiarato, acquisisce la forma di atto pubblico ai sensi dell’art. 2699 c.c. e, implicando la costituzione di un diritto reale su bene immobile, ricade nell’ambito di applicazione del citato comma 1-bis.



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Ascolto minore: volontà e interesse

La Cassazione civile, sez. 1 ordinanza 6 febbraio 2025, n. 2947, accogliendo il ricorso, ha sottolineato che l'interesse del minore deve essere valutato in modo complessivo, tenendo conto di tutti gli aspetti della situazione familiare, inclusi i comportamenti manipolatori da parte di uno dei genitori. La Corte ha quindi precisato che, pur dando valore al desiderio della minore, la decisione deve sempre considerare anche le implicazioni sul diritto alla bigenitorialità, garantendo un ambiente che favorisca il mantenimento di solidi legami con entrambi i genitori.

Famiglia, minori e successioni: il principio della bigenitorialità

In un quadro di rapporti familiari altamente conflittuali, l’interesse del minore non sempre coincide con la sua volontà.

Sebbene le dichiarazioni del minore possano sembrare mature e consapevoli, non sono l’unico criterio per determinare il suo superiore interesse.

In situazioni in cui un genitore adotta comportamenti manipolatori, che ostacolano il diritto dell'altro genitore alla bigenitorialità, le decisioni devono essere prese con attenzione.

In una recente causa, la Cassazione ha affrontato una controversia riguardante la collocazione di una minore, G., dopo la separazione dei genitori.

Il Tribunale aveva inizialmente deciso di collocare la minore presso la madre, con il padre che avrebbe avuto un diritto di visita. Tuttavia, la madre ha manifestato comportamenti che ostacolavano questo diritto, portando il padre a chiedere una modifica.

Il Tribunale ha poi disposto il trasferimento della minore presso il padre, riconoscendo che la conflittualità tra i genitori aveva compromesso la sua capacità di agire nell’interesse della figlia. La decisione è stata confermata dal Tribunale, ma la Corte di Appello, ascoltato il desiderio della minore di vivere a Napoli, ha ordinato il suo ritorno presso la madre. In seguito, T. ha presentato ricorso.

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Va estinto il pignoramento presso terzi se l’avviso di iscrizione a ruolo è depositato oltre la data in citazione, anche se notificato in termini

Con provvedimento del 07.02.2025 la Sezione III del Tribunale di Roma ha estinto un pignoramento presso terzi subito dopo l’udienza di dichiarazione del terzo, tenuta in via cartolare.

Il Giudice dell’Esecuzione, prima di vagliare l’opposizione del debitore, ha preliminarmente rilevato che l’avviso di iscrizione a ruolo era stato notificato entro la data in citazione del 15.07.2024 (ai sensi dell’art. 543 c. 5 cpc) ma era stato depositato il 18.07.2024, dunque tre giorni dopo.


Tanto è bastato per far dichiarare il pignoramento inefficace fin dalla data in citazione, con conseguente estinzione della procedura.


Il Giudice ricorda che è comune sia nella giurisprudenza di merito che in dottrina il convincimento che laddove l’art. 543 cpc allude alla “udienza di comparizione indicata nell’atto di pignoramento” si riferisca (appunto) alla data indicata nell’atto di citazione e non a quella individuata a seguito di un suo eventuale rinvio d’ufficio.


la norma, infatti, “ha lo scopo di rendere edotti i destinatari dell’avvenuta iscrizione a ruolo del pignoramento, giacché in passato non era infrequente la notifica di pignoramenti che poi per varie ragioni — non venivano iscritti a ruolo e a cui, dunque, non seguivano provvedimenti di assegnazione da parte del Giudice dell’esecuzione, lasciando il debitore ed il terzo esecutato nell’incertezza sulle sorti del vincolo, essendo di fatto inattuato l’art. 164 ter Dis. Att. c.p.c.


Trattandosi di termine perentorio, I’adempimento deve essere completato entro tale data, non rilevando in questo frangente il principio della “scissione degli effetti della notifica”.
Non basta, quindi, che il debitore (nella formulazione precedente al cd. “correttivo Cartabia”) e i terzi abbiano appreso dell’iscrizione a ruolo entro la data in citazione. Infatti: “la disposizione opera la equiparazione quoad effectum tra I’omessa notifica nel termine (o la sia pure tempestiva notifica) e l’omesso deposito degli atti nel fascicolo dell’esecuzione”.

D’altronde, argomenta il Tribunale, l’individuazione dell’udienza di comparizione è rimessa ad una scelta del creditore procedente. Dunque è suo onere scegliere una data che gli consenta di attivarsi con solerzia e portare a compimento l’attività processuale richiesta, in modo da non incorrere in decadenza.

Se è vero che il rischio della declaratoria di inefficacia costringe (nei fatti) il creditore a indicare in citazione una data ben più lontana dei 10 giorni minimi previsti dall’art. 501 cpc, è anche vero che tale dilatazione dei tempi è giustificata dal fatto che per debitore e terzi il vincolo pignoratizio sorge per il solo fatto della notifica del pignoramento. D’altro canto, il prolungamento è trascurabile sotto il profilo della ragionevole durata del processo, poiché non idoneo a determinare a carico del creditore un sacrificio del proprio interesse alla tempestiva riscossione coattiva del credito.

Il Tribunale di Roma sposa dunque la linea più dura sull’interpretazione dell’obbligo ex art. 543 c. 5 cpc, escludendo che il deposito tardivo dell’atto ritualmente notificato possa evitare l’estinzione perché consentirebbe comunque al Giudice di verificare per tempo che i terzi siano stati messi a conoscenza dell’iscrizione a ruolo.  

Tribunale di Roma, sez. III, 07.02.2025 (testo completo) 

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Il giudice della famiglia è competente sul rinnovo della carta di identità dei minori

La Prima Sezione Civile del Tribunale di Roma, in seno a un procedimento per la modifica dell’affido di minori nati fuori dal matrimonio, con provvedimento del 23.01.2025 ha deciso su una domanda di autorizzazione al rinnovo delle carte di identità dei figli proposta dalla ricorrente inaudita altera parte.

Infatti, la madre aveva rappresentato che il padre era ormai sparito da molteplici anni, nel corso dei quali lo stesso si era sempre disinteressato dei figli determinando l’impossibilità per i minori di rinnovare i documenti, necessari tra l’altro per partecipare a una gita scolastica.

Si tratta di un esempio del potere di assunzione di provvedimenti indifferibili senza il contraddittorio, attribuito al giudice della famiglia dalla riforma Cartabia.

Download provvedimento

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Accordo tra ex conviventi: validità e forza vincolante in base alle norme sull'interpretazione contrattuale

Il caso in esame

Il Tribunale di Milano ha emesso un decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo, ordinando ad una donna di pagare oltre €380.000,00 al suo ex convivente, sulla base di una clausola contenuta in un accordo privato sottoscritto dalle parti. Tale accordo, definito come una "transazione", riguardava sia gli aspetti economici che quelli relativi alla responsabilità genitoriale sul figlio minore. In seguito alla contestazione dell’importo da parte della donna, il Tribunale ha dato ragione a quest'ultima, evidenziando che l'accordo in questione fosse di natura transattiva, volto a regolamentare le questioni relative all'affidamento e al mantenimento del figlio. Il Tribunale ha dunque dichiarato la risoluzione dell'accordo per grave inadempimento da parte dell’uomo, che non aveva fornito prove sufficienti per dimostrare l’adempimento dei suoi obblighi di mantenimento.

In conclusione, il caso evidenzia come l'interpretazione di accordi tra ex conviventi debba rispettare i principi generali sull'interpretazione dei contratti, applicabili anche agli accordi che non sono direttamente connessi con la separazione o il divorzio ma che comunque incidono sugli aspetti economici e familiari.

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SMS E WHATSAPP: QUANDO LA MOLESTIA INTEGRA IL DIRITTO AL RISARCIMENTO DEL DANNO

Cassazione penale, Sez. I, sentenza 4 dicembre 2024, n. 44477

Pronunciandosi su un ricorso proposto avverso la sentenza con cui il tribunale aveva assolto una donna per il reato di molestia telefonica, ritenendo applicabile la speciale causa di non punibilità di cui all'art. 131-bis, c.p., condannandola al risarcimento del danno in favore della parte civile, liquidato in via equitativa, la Corte di Cassazione penale, Sez. I, con la sentenza 4 dicembre 2024 n. 44477 - accogliendo il ricorso del pubblico ministero e nel contempo, disattendendo la prospettazione difensiva che contestava la configurabilità del reato mediante l'invio di messaggi e si doleva della condanna al risarcimento del danno - ha ribadito che ciò che rileva è il carattere invasivo del mezzo impiegato per raggiungere il destinatario, e non la possibilità per quest'ultimo di interrompere o prevenire l'azione perturbatrice, escludendo o bloccando il contatto o l'utenza non gradita, conseguendone che costituisce molestia anche l'invio di messaggi telematici, siano essi di testo (SMS) o messaggi Whatsapp, aggiungendo, quanto al risarcimento del danno, che il danno conseguente alla indebita invasione della propria sfera di libertà è notorio e insito nella struttura stessa del reato, per cui la sua sussistenza deve ritenersi sufficientemente provata dalla descrizione della condotta molesta.

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DOPO DICIOTTO ANNI SCOPRE CHE LA MOGLIE È NATA UOMO: RESPINTA LA RICHIESTA DI ANNULLAMENTO DEL MATRIMONIO.

Con una recente sentenza del 12 luglio 2024 il Tribunale di Livorno si è trovato ad affrontare una questione interessante: se la rettificazione dell’attribuzione di sesso per persone con disforia di genere costituisca o meno un cambio di identità.
Nel caso specifico una coppia era stata sposata per diciotto anni senza avere figli, a causa dell’infertilità della donna, la quale la attribuiva all’asportazione dell’utero avvenuta in giovane età.
Dopo diciotto anni di matrimonio il marito, nel procedere all’ispezione ipotecaria e catastale dei beni immobili intestati alla moglie, scopriva come la stessa – prima di conoscerlo – fosse stata un uomo, e che dunque i riferiti problemi di infertilità erano in realtà riconducibili a detta circostanza.
Il marito avanzava richiesta di annullamento del matrimonio per errore essenziale sulle qualità personali dell’altro coniuge, sostenendo che non avrebbe contratto matrimonio se avesse saputo la verità sin dall’inizio.
Il Tribunale ha rigetto la domanda sul presupposto che la rettificazione del sesso non costituisce un errore fondamentale ex art. 122 c.c., in quanto non rappresenta un cambio di identità, bensì solo un adeguamento esteriore alla propria identità.
Ed invero, l’annullamento del matrimonio ai sensi dell’art. 122 c.c. può essere accolto solo laddove l’errore cada sull’identità complessiva della persona, e non solo sugli aspetti fisici.
Il marito nel caso suddetto si è unito in matrimonio con la persona che intendeva e riteneva sposare, la quale al momento dell’unione già risultava donna, sia anagraficamente che sotto l’aspetto fisico. Inoltre, la donna aveva già informato l’uomo della propria impossibilità di avere figli, tanto che le parti avevano deciso poi di percorrere la strada dell’adozione, mai conclusa.
Il caso discusso è sicuramente peculiare nella sua unicità, e lascia spazio a molteplici dubbi.

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L’ordine di protezione può vietare anche gli incontri fortuiti e le comunicazioni virtuali

Avv. Lorenzo Mariani 

Con decreto ex artt. 473 bis 14 e 69 cpc pronunciato il 25.11.2024 e pubblicato il 29.11.2024, decidendo su una domanda di ordini di protezione preliminare a un giudizio di regolamentazione dei minori, la Prima Sezione Civile del Tribunale di Roma ha prima di tutto confermato un precedente ordine di protezione emesso inaudita altera parte, il quale prevedeva l’allontanamento del padre dalla casa familiare e il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla ricorrente e dai figli.      
Contestualmente, valutata una istruttoria piuttosto corposa (per un procedimento sommario) il provvedimento ha anche modificato e inasprito il precedente decreto, imponendo l’obbligo di “immediato allontanamento in caso di incontri fortuiti con estensione del divieto anche a comunicazioni virtuali, ad eccezioni di comunicazioni via mail relative ai figli minori”.

Si tratta di una disposizione molto dura, quasi assimilabile agli ordini di allontanamento che può disporre il giudice penale.

               
Inoltre, il decreto ha disposto che gli incontri padre-figli dovranno avvenire col supporto dei Servizi Sociali e ha fissato l’udienza per la prima comparizione nel giudizio di merito con gli adempimenti preliminari del caso.

Si tratta di una pronuncia interessante soprattutto in relazione alla riscrittura del rito di famiglia da parte della riforma Cartabia.

Infatti, sia l’ordine inaudita altera parte che quello successivo sono stati concessi nonostante l’avvenuto allontanamento spontaneo del resistente: circostanza che, fino alla riforma Cartabia, alcuna giurisprudenza considerava motivo di inammissibilità dell’ordine di protezione.

È degno di nota anche il fatto che il giudice assegnatario non abbia disposto un mantenimento per i minori sul presupposto che, quando disposto ex art. 473 bis 71 cpc in un procedimento di ordini di protezione, tale assegno deve basarsi sulla insussistenza di mezzi adeguati in capo alle persone conviventi per effetto dei provvedimenti interdittivi.

Dato che la ricorrente aveva chiesto al giudice di pronunciarsi anche ai sensi dell’art. 473 bis 15 cpc, che consente di anticipare in via cautelare i provvedimenti provvisori su affido, assegnazione della casa e mantenimento, è agevole pensare che il magistrato abbia emesso solo l’ordine di protezione e fissato una ordinaria udienza di merito per ragioni di opportunità temporale, ossia per evitare di dover rimettere l’intera decisione al collegio.        
Infatti, solo col recentissimo “correttivo Cartabia” del 26.11.2024 il giudice monocratico è ora competente sulla conferma o modifica del provvedimento ex art. 473 bis 15 cpc, mentre il provvedimento in esame è stato pronunciato il 25.11.2024.  Peraltro è dubbio che il primo provvedimento inaudita altera parte potesse qualificarsi come ex art. 473 bis 15 cpc.

Tribunale di Roma, Sez. I, 29.11.2024 (testo completo)

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L’ASPETTO EDUCATIVO E L’IMPORTANZA DEL RUGBY: IL NUOVO ULTIMO COMMA DELL’ART. 33 DELLA COSTITUZIONE

Con una recentissima pronuncia del 2024 – la n. 20790 – la Suprema Corte, nel distinguere ed individuare le tipologie di sport che possano essere ritenute pericolose, da quelle non pericolose, ha precisato ed evidenziato l’aspetto educativo intrinseco dello sport in generale, ed in particolare dell’attività del rugby.
Ed invero, sulla scorta del nuovo ultimo comma dell’art. 33 della Costituzione, secondo il quale “la Repubblica riconosce il valore educativo, sociale e di promozione del benessere psicofisico dell'attività sportiva in tutte le sue forme”, la Cassazione ne ha significato l’importanza.
In particolare, ciò che è doveroso evidenziare è il potere dello sport, e ciò che quest’ultimo possa insegnare ai ragazzi, in un percorso cruciale e significativo, come è quella relativo alla loro crescita personale.
Lo sport, ed in particolare il rugby, permette di far comprendere ai giovani l’importanza delle regole, della fiducia nei propri compagni, nonché il rispetto del prossimo, anche in quelle occasioni in cui quest’ultimo sia “avversario”.
Attraverso la metafora dello sport è possibile comunicare ai giovani d’oggi dei concetti fondamentali che li accompagneranno nella loro vita, attraverso un linguaggio leggero, che è quello del gioco.
Sebbene nel nostro ordinamento non possa ancora dirsi esistente un diritto allo sport, l’introduzione nella Carta Costituzionale di un comma che ne ammetta l’importanza, il valore educativo, sociale e di promozione del benessere psicofisico, costituisce senza ombra di dubbio un passo in avanti nella realizzazione di un obiettivo più grande, ovvero quello di riconoscerlo come un vero e proprio diritto.

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Estinzione del PPT per mancata notifica dell'iscrizione a ruolo: è reclamabile al Collegio ex art. 630 c.3 cpc

Avv. Lorenzo Mariani

La Sentenza n. 18188 del 28.11.2024 del Tribunale di Roma ha chiarito che rientra nell'estinzione "tipica" per inattività delle parti, ex art. 630 cpc, la pronuncia di inefficacia del pignoramento presso terzi per asserita violazione dell'obbligo di notifica e deposito dell'avviso di iscrizione a ruolo in capo al creditore, ex art. 543 c.5 cpc.

Pertanto, in tal caso l'ordinanza del Giudice dell'Esecuzione deve essere impugnata con reclamo al Collegio ex art. 630 c. 3 cpc.

Ma proprio ai sensi dell'art. 630 cpc,  il mancato rispetto della norma sull'avviso di iscrizione a ruolo deve essere rilevato dal GE non oltre la prima udienza successiva al verificarsi della violazione.

Considerato che l'articolo 543 c. 5 cpc prevede che notifica e deposito dell'avviso debbano avvenire "entro la data dell'udienza di comparizione indicata nell'atto di pignoramento", l'estinzione andrà pronunciata non oltre la prima udienza del procedimento, quale primo momento utile. L'ordinanza adottata in seguito a una seconda udienza dovrà ritenersi tardiva, in violazione dell'art. 630 cpc.

E infatti, il Tribunale ha accolto il reclamo  sul presupposto che:

"
Nella fattispecie concreta, l’inefficacia del pignoramento per mancata notifica dell’avviso di iscrizione a ruolo alla debitrice, in ragione della notificazione dello stesso avviso eseguita in Cancelleria, è stata rilevata d’ufficio dal giudice dell’esecuzione tardivamente, con l’ordinanza adottata in data 31.07.2024 a scioglimento della riserva assunta nella seconda udienza, tenuta in data 11.01.2024, anziché nella prima udienza tenuta in data 16.10.2023 o, comunque, con l’ordinanza emessa a scioglimento della stessa prima udienza. Per quanto sopra, dunque, il reclamo è da accogliere e l’ordinanza reclamata è da revocare."

La pronuncia contribuisce  a fare chiarezza sulle varie fattispecie di "chiusura anticipata" del processo esecutivo e sulla loro riconducibilità all'estinzione per inattività ex artt. 630 cpc o a cause diverse. Non è problema da poco, considerando che nel primo caso l'impugnazione deve avvenire tramite reclamo al Collegio ex art. 630 c. 3 cpc mentre in tutti gli altri casi dovrà esperirsi opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 cpc come rimedio generale. 

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Identità non binarie - la Corte Costituzionale apre il diritto

In un caso posto di fronte alla Corte Costituzionale la ricorrente, registrata come femmina alla nascita, nel corso della pubertà, realizza di non appartenere al genere femminile e afferma di riconoscersi in un genere non-binario con prevalenza della componente maschile. Chiede, dunque, al tribunale la rettificazione dell'attribuzione di sesso in un genere non-binario. Il tribunale solleva una questione di legittimità costituzionale: se la rettificazione possa avvenire rispetto a un genere di elezione diverso da quelli maschile e femminile. Da un lato, vi è, dunque, il diritto all'identità di genere, ossia il diritto a vedersi riconosciuto un genere di elezione diverso da quello corrispondente al sesso attribuito alla nascita. Secondo la giurisprudenza costituzionale, questo diritto fa parte del diritto all'identità personale, rientrante a pieno titolo nell'ambito dei diritti fondamentali della persona. Inoltre, il diritto all'identità di genere solleva la questione della possibile esistenza di un genere terzo rispetto al binarismo sessuale. Dall'altro lato, vi è il diritto fondamentale alla salute: ogni persona ha il diritto di realizzare, nella vita di relazione, la propria identità sessuale, considerata come aspetto e fattore di svolgimento della personalità, che gli altri membri della collettività sono tenuti a riconoscere, per dovere di solidarietà sociale. La Corte costituzionale, con sentenza del 23 luglio 2024, n. 143, ha dichiarato la questione della possibilità di rettifica verso un genere terzo inammissibile, poiché la materia appartiene alla discrezionalità del legislatore, quale primo interprete della sensibilità sociale. Per la Corte, le implicazioni del superamento del binarismo dei sessi nella nostra legislazione sono tanto articolate e complesse da richiedere l'intervento del Vi è però un aspetto innovativo: la Corte ha chiarito che la percezione dell'individuo di non appartenere né al sesso femminile, né a quello maschile - da cui nasce l'esigenza di essere riconosciuto in una identità altra - genera una situazione di disagio significativa rispetto al principio personalistico cui l'ordinamento costituzionale riconosce centralità (art. 2 Cost.). Inoltre, nella misura in cui può indurre disparità di trattamento o compromettere il benessere psicofisico della persona, questa condizione può sollevare un tema di rispetto della dignità sociale e di tutela della salute, alla luce degli artt. 3 e 32 Cost. L'autonomia conferita dalla Corte all'art. 2, affermato come norma di rilevanza generale, rispetto agli artt. 3 e 32, che sembrano attivabili in caso di disparità di trattamento e di limitazione del diritto alla salute, sembra, quindi, sganciare il discorso sul genere non binario dal racconto medicalizzante che ha caratterizzato, finora, la nostra legislazione e prassi giudiziaria. (cfr. Corte Cost, sent. 23 luglio 2024, n. 143).

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Va sanzionata la madre ostativa ai rapporti tra padre e figlio, ma niente decadenza della responsabilità genitoriale

Lorenzo Mariani 

Cass. civ., Sez. I, Ord.19.11.2024, n. 29690

Per la Cassazione, è corretta La decisione della Corte d'Appello di revocare la decadenza della responsabilità genitoriale materna disposta dal Tribunale: va infatti considerato l'impatto di una misura così drastica sul benessere del minore, ragazzo adolescente che aveva sempre vissuto con la madre fin dai tre anni.

Corretto anche aver disposto in appello l'ascolto del bambino (invece escluso in primo grado) e aver considerato la sua totale opposizione a ogni incontro col padre, confermata anche dall'ultima CTU che aveva escluso l'efficacia di qualunque imposizione o invito a percorsi di recupero del rapporto col padre, al quale ormai non sarebbe rimasto che sperare in un riavvicinamento spontaneo col passare degli anni.

Ha invece errato la Corte di merito nel rigettare anche la domanda di sanzionare la madre ex artt. 709 ter e 614 bis cpc (nel testo pre-riforma Cartabia)  per aver da sempre ostacolato ogni rapporto tra figlio e padre.

Si tratta di misure quali l'ammonimento, il risarcimento del danno in favore del minore o dell'altro genitore, sanzioni amministrative o somme periodiche da versarsi per ogni giorni di ritardo.

Peraltro il rigetto era dovuto alla presunta assenza di "prescrizioni" a cui la madre dovesse attualmente attenersi.

Al contrario della corte d'Appello, gli ermellini ritengono  "comprovato, ed anzi coperto da un giudicato interno, un atteggiamento ostruzionistico della madre ed il condizionamento al corretto svolgimento delle modalità di vista del padre, nonché il disagio, le sofferenze ed i conflitti derivati al minore da tale atteggiamento".

Circostanza oltretutto riconosciuta proprio dalla Corte territoriale, che pur dando torto al padre aveva sottolineato "pervicaci comportamenti... (accertati, nei diversi gradi di merito, anche tramite 4 diverse CTU, sostanzialmente convergenti nelle risultanze)" consistiti "nell'ostacolare l'esecuzione dei diversi provvedimenti nel tempo adottati dal Tribunale per i minorenni e da questa Corte".

La pronuncia della Cassazione è molto interessante anche per gli operatori del diritto: con la profondità e la completezza di una monografia, affronta importanti questioni giuridiche come il diritto alla bigenitorialità, gli effetti sul minore della negazione dei una figura genitoriale, i criteri per disporre e valutare l'ascolto processuale del minore e gli strumenti contro le condotte ostative della bigenitorialità, nell'ordinamento pre e post riforma Cartabia.


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Coppie Omogenitoriali: Spettabilità del diritto alla corresponsione della pensione di reversibilità al coniuge ed al figlio di coppia dello stesso sesso

La questione giuridica trae origine da una complessa vicenda che vede coinvolta una coppia omogenitoriale ed un figlio nato a seguito di procreazione medicalmente assistita negli Stati Uniti.
Invero, a seguito dell’entrata in vigore della legge sulle unioni civili (L. n. 76/2016), in giurisprudenza ci si è trovati ad affrontare la seguente questione: è possibile o meno applicare retroattivamente la suddetta legge, e dunque riconoscere il diritto alla pensione di reversibilità anche in favore del coniuge superstite, deceduto prima dell’entrata in vigore della legge e del figlio della coppia, nato a seguito di Pma, il cui provvedimento di riconoscimento, quanto la trascrizione a margine dell’atto di nascita, sono intervenuti successivamente al decesso.
La vicenda giudiziale è stata alquanto altalenante, in cui quanto se il Giudice di prima istanza ha rigettato la domanda sull’assunto che non sussistevano i requisiti richiesti dalla legge per l’erogazione della pensione indiretta, il Giudice di seconda istanza ha riconosciuto il diritto all’erogazione della pensione di reversibilità sia a favore del coniuge che del figlio, sulla base di un’interpretazione costituzionalmente orientata. Ed invero, il diritto al trattamento pensionistico di reversibilità si ricorda essere oggetto di tutela della Carta Costituzionale e rientra tra i diritti e doveri di assistenza e solidarietà propri di tutte le relazioni affettiva e di coppia. L’obiettivo di tale prestazione infatti è proprio quello di prevenire lo stato di bisogno che può derivare dalla morte del coniuge o del genitore.
Pertanto, nell’attesa di una pronuncia della Suprema Corte, la quale allo stato attuale ha rimesso alla valutazione della Prima Presidente la decisione di sottoporre il caso in esame al vaglio delle Sezioni Unite, restano aperti i dubbi circa la possibilità di poter superare l’irretroattività della legge sulle unioni civili, essendo preminente il diritto costituzionalmente sancito al trattamento pensionistico di reversibilità.

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Rapporto di lavoro subordinato e convivenza more uxorio

L'attività lavorativa e di assistenza svolta in favore del convivente more uxorio costituisce una obbligazione naturale quando sia espressione dei vincoli di solidarietà ed affettività di fatto esistenti, alternativi a quelli tipici di un rapporto a prestazioni corrispettive, quale il rapporto di lavoro subordinato. Non si può, però, escludere che talvolta essa trovi giustificazione proprio in quest'ultimo, del quale però deve fornirsi prova rigorosa.
La Suprema Corte con ordinanza 11.4.2024 n.9776, con riferimento ad una convivenza more uxorio, ha dichiarato la natura subordinata della prestazione lavorativa svolta da una donna nell'esercizio commerciale del convivente more uxorio, evidenziando come "l'accertamento dell'eterodirezione deve essere calato nello specifico contesto del rapporto sentimentale e di convivenza more uxorio, instauratosi ..., alla stregua del quale il concreto apprezzamento della natura subordinata del rapporto deve tenere conto che l'elemento della etero direzione si esprime in forma attenuata, senza necessità di una sua estrinsecazione in ordini specifici e dettagliati essendo sufficiente a sostanziare la natura subordinata del rapporto di lavoro il pieno e stabile inserimento ...nella organizzazione di lavoro ...e l'assenza in capo alla stessa di autonomia gestionale".

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Riequilibrio dello spostamento patrimoniale tra i coniugi

La Prima Sezione della Cassazione con ordinanza n. 18506, depositata l’8 luglio 2024, ha stabilito che in materia di determinazione dell'assegno di divorzio, il principio secondo cui ciascun ex coniuge è tenuto a provvedere al proprio mantenimento può essere derogato nel caso in cui il matrimonio abbia determinato uno spostamento patrimoniale tra i coniugi. Tale squilibrio deve essere rettificato mediante l'attribuzione di un assegno con funzione compensativa e perequativa (Ordinanza del 8 luglio 2024, n. 18506, Cass. Civ., sez. I,).

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Permessi e congedi anche ai genitori dello stesso sesso

Il sistema informatico di ricezione delle domande amministrative predisposto dall'Inps per alcune delle attività ex D. Lgs. n. 151/2001 comporta un’ingiustificata discriminazione a danno dei genitori dello stesso sesso, indicati come tali nei registri di stato civile, nella misura in cui non consente agli stessi di inserire i loro dati e di completare così l’iter informatico per l’accesso alle prestazioni (Ordinanza del 25 gennaio 2024 Trib. Bergamo, sez. Lavoro).

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Locazioni e condomini Annullato il sequestro probatorio di un impianto di videosorveglianza

La Cassazione penale, nella sentenza del 27 marzo 2024, n. 12744, ha annullato il sequestro probatorio di un impianto di videosorveglianza installato su una porta di casa, che riprendeva anche la porta del vicino. La sola presenza della telecamera non è sufficiente a configurare il reato di stalking condominiale. Per giustificare una misura cautelare, è necessario non solo sospettare la commissione del delitto ma anche fornire prove concrete che delineino una specifica ipotesi di reato, in linea con gli obiettivi della restrizione imposta.

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Locazione e condomini Chi è responsabile per le immissioni sonore provenienti da un’immobile condotto in locazione?

Il Tribunale di Messina, con sentenza dell’11 aprile 2024, n. 917, è da ritenersi esclusa la responsabilità del proprietario-locatore dell'immobile per i rumori intollerabili del conduttore ad eccezione dei casi in cui sussista un apporto causale del primo alla realizzazione del fatto dannoso o dei casi in cui il proprietario avrebbe potuto prefigurarsi che il conduttore avrebbe con ragionevole certezza recato danni a terzi, provocando immissioni intollerabili.

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Istanza cautelare nel rito di famiglia: no alla sospensione del titolo esecutivo, sì all'udienza di merito ravvicinata

Avv. Lorenzo Mariani 

Con decreto del 26.07.2024, la Prima Sezione Civile del Tribunale di Roma ha rigettato la domanda cautelare inaudita altera parte ex art. 473 bis 15 cpc di sospendere l'efficacia esecutiva dell'accordo impugnato dal ricorrente, in quanto necessaria "se del caso, l 'attivazione di rimedi in sede esecutiva e/o di eventuale opposizione all’esecuzione o agli atti esecutivi, sussistendone i presupposti di legge".
Il Giudice delegato ha però ritenuto opportuno trattare assieme la domanda di merito e quella cautelare ex art. 473 bis 15 cpc, considerato che quest'ultima, per come è formulata, è volta non solo a sospendere l'efficacia esecutiva dell'accordo ma anche a ottenerne la modifica.

Per questo, il Giudice ha fissato un'unica udienza al 31.10.2024, per la comparizione delle parti e la trattazione della domanda cautelare.


Si tratta di un interessante esempio di prassi applicativa degli strumenti offerti dalla riforma Cartabia.

E infatti, l'art. 473 bis 15 cpc consente di domandare, in un giudizio di diritto di famiglia, provvedimenti indifferibili senza contraddittorio in caso di pregiudizio imminente e irreparabile o quando la convocazione delle parti potrebbe pregiudicare l'attuazione dei provvedimenti. Il decreto di accoglimento o rigetto della domanda cautelare è poi oggetto di contraddittorio in una apposita udienza, in seguito alla quale il giudice conferma, revoca o modifica le statuizioni già prese.

Tale udienza sarebbe comunque antecedente a quella di cd. "prima comparizione delle parti", nella quale si discute solo del merito della causa e dalla quale decorrono a ritroso i termini per le memorie integrative ex art. 473 bis 17 cpc.

Nel caso in esame, una volta scrutinata e in parte rigettata la domanda cautelare, il Giudice ha fissato un'unica udienza per entrambi gli incombenti, sulla base della natura parzialmente "di merito" della domanda 473 bis 15 cpc.

A saltare all'occhio è sicuramente la prossimità della data in questione, considerando che, per le cause prive di domanda cautelare, il Tribunale capitolino può fissare la prima udienza a distanze decisamente maggiori.

Deve ritenersi che da questa udienza decorrano già i termini per le memorie integrative e che il conseguente provvedimento provvisorio e urgente ex art. 473 bis 22 cpc avrà anche la funzione di conferma o modifica della decisione cautelare già presa sulla sospensione dell'efficacia esecutiva. 


Trib. Roma, Sez. I, 26.07.2024 (testo)

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Rilevanza degli accordi “a latere”

Sebbene il giudice non possa intervenire direttamente nel accordo “a latere” operante inter partes, il quale è stato determinato mediante libera trattativa tra le parti, laddove non contiene espressa pattuizione contraria ed è strettamente correlato alle condizioni pattuite nel ricorso. In caso di divorzio congiunto, il giudice ai sensi dell'articolo 9L.898/1970 deve prendere in considerazione tale accordo al fine di esaminare le condizioni finanziarie nel  divorzio.
Sentenza 10 luglio 2024, n. 18843.

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È competente il giudice del divorzio sull'ordine di pagamento del terzo in forza del provvedimento di separazione

Avv. Lorenzo Mariani 


Con Decreto del 04.07.2024 il Tribunale di Roma, Sez. I, ha dichiarato inammissibile un ricorso cautelare ex art. 700 cpc avverso un ordine a terzi di corrispondere il mantenimento ex art. 473 bis 37 cpc, proposto dal genitore onerato.

Il Giudice ritiene non esperibile la tutela ex art. 700 cpc in materia famiglia, in quanto vi sono (anche in questo caso) rimedi impugnatori tipici. L'ordine di pagamento a terzi può infatti essere impugnato davanti al giudice del divorzio già instaurato.


La pronuncia è interessante perché dà una soluzione ma  suscita dei dubbi.

Se è pressoché pacifico che il ricorso ex art. 700 cpc non sia esperibile in diritto di famiglia, è anche vero che l'ordine di pagamento ex art. 473 bis 37 cpc, introdotto dalla riforma Cartabia, è una procedura stragiudiziale che non prevede una specifica impugnazione, a differenza ad esempio dell'opposizione all'ingiunzione ex art. 316 bis cc.

E infatti, nel caso di un inadempimento prolungato, per legittimare la richiesta a un terzo debitore di corrispondere  il mantenimento per il futuro occorre solo un titolo esecutivo e una una semplice diffida nei suoi confronti.
La norma contempla la competenza del giudice dell'esecuzione solo nel caso in cui il credito del terzo sia già soggetto a pignoramento, per cui dovrà tenersi conto della natura della prestazione economica.

Se, come afferma il Tribunale, è possibile contestare l'ordine ex art. 473 bis 37 cpc davanti al giudice del divorzio, allora sarebbe prima necessario introdurre un giudizio in questione, perciò escludendo la possibilità di impugnare solo l'ordine diretto di pagamento per motivi ad esso propri ed esclusivi, come l'inesistenza del titolo o dell'inadempimento o il mancato rispetto della procedura prevista dalla legge.

Anche la coincidenza tra il dettato dell'art. 700 cpc e dell'art. 473 bis 15 cpc non aiuta, perché quest'ultimo strumento cautelare, secondo la giurisprudenza maggioritaria, presuppone comunque la previa introduzione di un giudizio sulla crisi familiare.

Quid juris se ci si vuole semplicemente difendere da un ordine ex art. 473 bis 37 cpc ingiusto?
Per alcuna dottrina, non resterebbe che una azione di accertamento negativo, ma nel frattempo come tutelarsi da un danno irreparabile nelle more del tempo per far valere il proprio diritto? 

Trib. Roma, Sez. I, 04.07.2024 (testo completo)



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Sì alla dichiarazione di adottabilità in caso di inidoneità genitoriale

Una minore, sin dalla nascita, era stata affidata al servizio sociale del Comune a causa della evidente inidoneità genitoriale. Il padre, infatti, era sposato con un'altra donna e non era disponibile ad assumersi alcuna responsabilità nei confronti della figlia, mentre la madre soffriva di psicosi epilettica con gravi disturbi del comportamento, con conseguente riconoscimento di invalidità al 100%.

Dopo il procedimento di ablazione della responsabilità genitoriale, il Tribunale dichiarava lo stato di adottabilità della minore, sentenza successivamente confermata dalla Corte d'Appello. La madre ricorreva in Cassazione, invocando il diritto della bambina di crescere ed essere educata nella propria famiglia e lamentando la mancata attuazione di soluzioni alternative. Il ricorso veniva integralmente respinto. Lo stabilisce la Cassazione civile, sez. 1, con la sentenza del 17 giugno 2024, n. 16/16.

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Neutralizzazione del riscatto degli anni universitari non applicabile per il passaggio da un sistema ad un altro

Con la sentenza del 27 giugno 2024, n. 112, la Corte costituzionale ha dichiarato infondate le questioni di legittimità costituzionale riguardanti l'art. 3 della Costituzione, in riferimento agli artt. 1, comma 13, della L. n. 335/1995 e 1, comma 707, della L. n. 190/2014. Queste disposizioni non prevedono il diritto del pensionato alla neutralizzazione del periodo di riscatto del corso di studi universitari, quando i 18 anni di contribuzione al 31 dicembre 1995, necessari per la liquidazione del trattamento pensionistico con il sistema retributivo, sono stati raggiunti solo grazie al suddetto riscatto. Inoltre, l'applicazione del sistema retributivo, anziché del sistema misto, che sarebbe stato applicato in assenza del riscatto, non comporta un depauperamento del trattamento pensionistico. La richiesta di neutralizzazione non può riguardare la contribuzione derivante dal riscatto, che è stata versata all'inizio dell'anzianità lavorativa e si colloca quindi fuori dal periodo di riferimento della retribuzione pensionabile secondo il sistema retributivo applicabile. Tale richiesta non può essere invocata per ottenere il passaggio da un sistema di calcolo ad un altro.


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Fallimento del Socio illimitatamente responsabile in società di persone che detiene una partecipazione in società di capitali

Nel caso in cui il socio fallito illimitatamente responsabile di una società di persone detenga una partecipazione in una società a responsabilità limitata, la relativa quota sarà acquisita all'attivo fallimentare da parte del curatore, il quale provvederà alla sua vendita in base all'art. 106 della legge fallimentare.
La vendita differisce a seconda che le quote siano o meno liberamente trasferibili in base allo statuto. Se vincolata, la cessione può essere disposta solo con il gradimento delle società o previa offerta in prelazione ai soci.
Nei casi di quote liberamente trasferibili trova applicazione l'art. 107 della legge fallimentare.
Nel caso di quote non liberamente trasferibili trova applicazione l'art. 106 il quale rinvia all'art. 2471 cc.
Quest'ultimo dispone che per la vendita della quota bisogna interpellare dapprima i soci detentori di quote e solamente in caso di mancato accordo tra socio e società si da luogo alla vendita all'incanto. Il prezzo di vendita della quota è dato da una stima.
Il combinato disposto dell'art. 82 e 107 della legge fallimentare impongono al curatore di nominare un esperto per la stima dei beni che non siano di modesto valore e che lo stimatore è nominato dal curatore.

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Un matrimonio breve porta a un mantenimento basso, anche se il Tribunale ha sottostimato la differenza di redditi tra coniugi

Avv. Lorenzo Mariani 

Corte Appello Roma, Sez. Famiglia, 10.06.2024

Inutile reclamare il provvedimento di separazione: la durata del matrimonio (inferiore a cinque anni) incide fortemente sulla quantificazione dell’assegno, sì da dover essere determinata in una misura contenuta, proporzionata al tempo di consolidamento delle aspettative di sostegno economico maturate in costanza di convivenza coniugale.

La riforma Cartabia non ha modificato le regole sulla rivedibilità dei provvedimenti temporanei emessi “in limine litis” solo in ipotesi di manifesta erroneità della decisione adottata dal Giudice monocratico,
dandosi prevalenza alla cognizione piena e agli approfondimenti istruttori propri del giudizio di merito.


Corte Appello Roma, Sez. Famiglia, 10.06.2024 (testo completo)

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La madre ha diritto al rimborso dell’università privata non prevista nell’assegno

Il diritto al rimborso dell'università privata decisa unilateralmente dalla madre potrebbe dipendere da diversi fattori, tra cui la natura dell'assegno e la legge vigente nella giurisdizione pertinente. Se l'assegno era destinato a coprire specifiche spese educative e l'università privata non era stata contemplata, potrebbe sorgere una disputa sulla natura discrezionale della decisione. Tuttavia, se la madre può dimostrare che la scelta era nel migliore interesse del figlio e non violava eventuali accordi o disposizioni legali preesistenti, potrebbe essere legittimata. 

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Niente ordine di protezione se c'è già il braccialetto elettronico

Tribunale di Roma, Sez. I, 14.05.2024

Rigettato l'ordine di protezione avverso l'ex convivente se, dagli atti depositati in giudizio dal PM, risulta che il convenuto sia stato nel frattempo raggiunto da misura cautelare ex artt. 282 bis e 282 ter cpp dell'allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento alla persona offesa con applicazione del c.d. "braccialetto elettronico" e sia stato disposto il rinvio a giudizio immediato.

Testo completo 

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I nonni sono obbligati a mantenere i nipoti se non possono i genitori

Secondo il codice civile "Della responsabilità genitoriale e dei diritti e doveri del figlio" prevede, all'art. 316 bis, in primo luogo, che i genitori devono adempiere i loro obblighi nei confronti dei figli in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo. Ciò riguarda, quindi, anche le coppie non sposate.
La norma, statuisce che, quando i genitori non hanno mezzi sufficienti, gli altri ascendenti, in ordine di prossimità, sono tenuti a fornire ai genitori stessi i mezzi necessari affinché possano adempiere i loro doveri nei confronti dei figli.
La legge, quindi, individua una responsabilità sussidiaria dei nonni, che hanno un dovere di mantenere i nipoti, ma solo nel caso di impossibilità economica dei genitori. 
La Suprema Corte ha specificato che, per ravvisare l'esistenza dell'obbligazione sussidiaria degli ascendenti, non basta l'inadempimento di un genitore, ma occorre che tale inadempimento sia dovuto a una mancanza di mezzi e non alla volontà del genitore di sottrarsi ai propri primari obblighi previsti dall'art. 316-bis, comma 1 del codice civile e, nel contempo, che l'altro genitore non possa far fronte per intero alle esigenze dei figli con le sue sostanze e le sue capacità reddituali.
La Corte di Cassazione, ha altresì specificato che l'obbligo gravante sugli ascendenti ex art. 316-bis c.c. investe contemporaneamente tutti gli ascendenti di pari grado di entrambi i genitori. 

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Inammissibile il reclamo della modifica delle condizioni di separazione se nel frattempo si è pronunciato il giudice del divorzio sulle stesse domande

Avv. Lorenzo Mariani 

La Corte di Appello di Roma, con decreto del 22.04.2024, ricorda che non è ammissibile il reclamo avverso il decreto definitivo di modifica delle condizioni di separazione se, nel frattempo, il giudice del divorzio ha già deciso con ordinanza presidenziale sulle medesime questioni.

Ciò è in analogia col principio per cui l’intervenuta sentenza di divorzio non comporta la cessazione della materia del contendere nel giudizio di separazione e in quello di modifica delle condizioni di separazione dei coniugi, purché sussista ancora un interesse delle parti (ex multis, Cass. Sez. 1, sent. 28.2.2017).

Nel caso specifico, l’interesse al reclamo era venuto meno con l’ordinanza presidenziale di divorzio, tranne che per la diversa domanda di modifica del mantenimento, comunque rigettata nel merito dai giudici di secondo grado.  

La Corte ricorda, poi, che la notifica del decreto conclusivo del primo grado effettuata dal Curatore Speciale del minore deve ritenersi valida ai fini della decorrenza del termine breve di impugnazione, in quanto il Curatore Speciale è rappresentante di una parte necessaria del giudizio; né le sue funzioni cessano con la conclusione del primo grado ma si estendono anche alle eventuali fasi di impugnazione, senza necessità di un nuovo provvedimento di nomina.

Corte di Appello di Roma, Sezione Famiglia, 22.04.2024 (testo completo)

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Incontri protetti: ammonimento per la madre che condiziona la figlia contro il padre e incarico al curatore speciale di cercare una collocazione extra-familiare

Avv. Lorenzo Mariani 

Con provvedimento del 27.03.2024, il Tribunale di Roma, nel decidere su incontri protetti, affido e collocazione di una minore, rilevato che per i Servizi Sociali la madre ha un atteggiamento caratterizzato da chiusura e diffidenza che condiziona negativamente il rapporto padre-figlia, ha ammonito la donna a tenere un comportamento collaborativo volto a favorire gli incontri protetti.


Rigettata la domanda di nominare un tutore da parte del curatore speciale, il Tribunale ha invece incaricato proprio quest'ultimo di esplorare possibili soluzioni di collocamento extra-familiare della minore.

Il giudice ha poi ordinato ai Servizi Sociali di continuare a organizzare gli incontri protetti e relazionare il Tribunale a fine mese.

È interessante l'esempio di attribuzione di poteri e compiti sostanziali al curatore speciale del minore, figura che di solito svolge funzioni di natura processuale.  

Trib. Roma, 27.03.2024 (testo) 

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I nonni sono obbligati a mantenere i nipoti se non possono i genitori

Secondo il codice civile "Della responsabilità genitoriale e dei diritti e doveri del figlio" prevede, all'art. 316 bis, in primo luogo, che i genitori devono adempiere i loro obblighi nei confronti dei figli in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo. Ciò riguarda, quindi, anche le coppie non sposate.
La norma, statuisce che, quando i genitori non hanno mezzi sufficienti, gli altri ascendenti, in ordine di prossimità, sono tenuti a fornire ai genitori stessi i mezzi necessari affinché possano adempiere i loro doveri nei confronti dei figli.
La legge, quindi, individua una responsabilità sussidiaria dei nonni, che hanno un dovere di mantenere i nipoti, ma solo nel caso di impossibilità economica dei genitori. 
La Suprema Corte ha specificato che, per ravvisare l'esistenza dell'obbligazione sussidiaria degli ascendenti, non basta l'inadempimento di un genitore, ma occorre che tale inadempimento sia dovuto a una mancanza di mezzi e non alla volontà del genitore di sottrarsi ai propri primari obblighi previsti dall'art. 316-bis, comma 1 del codice civile e, nel contempo, che l'altro genitore non possa far fronte per intero alle esigenze dei figli con le sue sostanze e le sue capacità reddituali.
La Corte di Cassazione, ha altresì specificato che l'obbligo gravante sugli ascendenti ex art. 316-bis c.c. investe contemporaneamente tutti gli ascendenti di pari grado di entrambi i genitori.

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Versamento diretto di parte del mantenimento al figlio maggiorenne, anche se non l'ha chiesto

Avv. Lorenzo Mariani 

Con la Sentenza n. 9486 depositata il 19.03.2023, la Prima Sezione del Tribunale di Roma ha deciso riguardo un giudizio di divorzio stabilendo - tra le altre cose - un mantenimento per i figli della coppia, una maggiorenne e uno minorenne.

Il contributo complessivo è stato determinato in € 1.000,00 (€ 500,00 per ciascun figlio) da corrispondersi per una parte (€ 300,00) direttamente alla figlia maggiorenne e per i restanti € 700,00 alla madre.

Degna di nota la decisione di corrispondere personalmente alla figlia maggiorenne una porzione del suo mantenimento, in parziale accoglimento della domanda del padre.

Infatti, per la giurisprudenza largamente prevalente è necessario che sia il figlio maggiorenne a chiedere il versamento diretto, intervenendo nel procedimento con una vera e propria domanda giudiziale (Cass. 34100/2021).

In questo caso, la figlia non era intervenuta, né dalla sentenza risulta che abbia chiesto in altro modo l’assegno diretto, ad esempio venendo ascoltata in giudizio.


Trib. Roma, Sez. I, Sent. 19.03.2024 n. 4986 (testo completo)


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Se la minore esprime disagio è illegittimo imporle le visite al padre

L'ascolto del minore di almeno dodici anni, e anche di età minore ove capace di discernimento, costituisce una modalità, tra le più rilevanti, di riconoscimento del suo diritto fondamentale ad essere informato e ad esprimere le proprie opinioni nei procedimenti che lo riguardano, nonché elemento di primaria importanza nella valutazione del suo interesse (In applicazione di detto principio, la Suprema Corte ha cassato la decisione impugnata, che aveva imposto ad una ragazza sedicenne le visite al padre, sebbene la minore avesse manifestato una condizione di disagio per il rifiuto frapposto dalla seconda moglie del genitore). 

Lo stabilisce la Cassazione civile, sez. , ordinanza 12 marzo 2024, n. 6455.

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La Cassazione ammette anche nei procedimenti su domanda congiunta il cumulo di domande di separazione e di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio

A dirimere il conflitto di posizioni creatosi nella giurisprudenza di merito, a seguito dell’entrata in vigore della Riforma Cartabia, circa la possibilità di proporre cumulativamente i procedimenti di separazione e di divorzio, è intervenuta la Suprema Corte, la quale ha stabilito il principio di diritto secondo cui le parti possono proporre cumulativamente, non soltanto il procedimento di separazione giudiziale e quello di divorzio contenzioso, ma grazie ad un’interpretazione estensiva e sicuramente più liberale, dell’art. 473-bis.49 c.p.c., che i coniugi possano adesso proporre cumulativamente anche sia la domanda di separazione consensuale che quella congiunta di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio


Cass. Civ., sez. I, ord. 16 ottobre 2023 n. 28727.

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Niente ordine di protezione se la vittima e l’unico testimone delle violenze non sono credibili per via dei loro comportamenti

Avv. Lorenzo Mariani 

Con provvedimento del 27.02.2024, in un giudizio sulla regolamentazione dell’affido di una bambina, il Tribunale di Roma ha rigettato una domanda di ordine di protezione formulata dalla madre contro l’ex compagno, ritenendola non sostenuta da sufficienti riscontri probatori.

A parere del Giudice, non sarebbero attendibili le sommarie informazioni testimoniali rilasciate da una amica della donna, durante le indagini nei confronti del resistente per il reato di maltrattamenti in famiglia. L’informatrice non ha assistito personalmente ai fatti, ma li ha appresi dalla vittima stessa.        

Inoltre, le parole dell’amica parrebbero comunque incoerenti per via del suo comportamento. Infatti, dopo aver dichiarato di aver soccorso la donna, l’informatrice si è resa a lei irreperibile bloccando il suo contatto telefonico, per ragioni che la ricorrente stessa ha dichiarato di ignorare al curatore speciale della figlia.

Non appaiono credibili nemmeno le allegazioni della ricorrente stessa di essere stata aggredita con calci e pugni dal resistente in plurime occasioni, fin dall’inizio della loro relazione.             
Sono infatti in radicale contrasto con il tenore delle lettere che la stessa ha indirizzato all’ex compagno all’indomani della nascita della bambina, quando la relazione si protraeva già da oltre un anno, in cui il resistente viene definito dalla ricorrente con aggettivi quali “gnagnoso” e “coccolone” che appaiono poco compatibili con la riferita condizione di soggezione psicologica e paura dettata da protratti maltrattamenti, percosse, ingiurie.

Rigettato l’ordine di protezione, il Giudice ha affidato la minore ai Servizi Sociali e assegnato la casa familiare alla madre (che nel frattempo era ospite con la figlia in una casa rifugio) disponendo incontri protetti tra la bambina e il padre.

Inoltre, ha disposto una CTU sulla idoneità genitoriale delle parti.

 

Trib. Roma, Sez. I, 27.02.2024 (testo completo)

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Decade dalla responsabilità genitoriale il padre imputato per tortura verso la sua nuova compagna

Avv. Lorenzo Mariani


Trib. Roma, Sez. I, 23.02.2024

Il Collegio ricorda che il giudice civile può legittimamente porre a base del proprio convincimento non solo le sentenze penali, ma anche i soli atti di indagine del PM se idonei ad offrire sufficienti elementi di giudizio non smentiti dal raffronto critico con le altre risultanze istruttorie.

Le condotte per cui l'uomo è in custodia cautelare, assieme alla pregressa condanna per reati analoghi verso un'altra donna, sono prova del disturbo della personalità antisociale riscontrato dal CTU nel giudizio per la regolamentazione dei minori.

La violenza, il rifiuto di sottoporsi a test tossicologici, il trasferimento volontario in un'altra regione e i comportamenti inappropriati perfino durante gli incontri protetti, giustificano la decadenza dalla responsabilità genitoriale e il divieto di contatti coi figli. 


A carico dell'uomo vanno inoltre poste le spese legali, il compenso del CTU e quello del Curatore Speciale dei minori.

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E' reato non corrispondere l'assegno di mantenimento mensile al coniuge separato

Pronunciandosi su un ricorso proposto avverso la sentenza con cui la Corte d'appello aveva confermato la condanna inflitta dal tribunale ad un uomo per il reato di cui all'art. 570-bis, c.p. per aver omesso di versare per quattro mesi l'assegno di mantenimento mensile alla moglie separata, nonché di contribuire al pagamento delle spese straordinarie per il figlio minore nella misura del 50%, la Corte di Cassazione penale, Sez. VI, con la sentenza 17 gennaio 2024, n. 2098 - nel disattendere la tesi difensiva secondo cui la condotta del soggetto che viola solo gli obblighi di natura economica nei confronti del coniuge separato senza far mancare a questi i mezzi di sussistenza non potrebbe essere considerata attualmente reato - ha invece riaffermato il principio che il reato di cui all'art. 570-bis c.p. sia configurabile anche nel caso in cui l'omesso versamento abbia ad oggetto l'assegno previsto in favore del coniuge separato.

Cassazione penale, Sez. VI, sentenza 17 gennaio 2024, n. 2098

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Responsabilità genitoriale sospesa al padre che svolge attività criminale in ambiente domestico

Ai fini della sospensione della responsabilità genitoriale ex art. 333 c.c. non occorre che la condotta del genitore abbia causato danno al figlio, poiché la norma mira ad evitare ogni possibile pregiudizio derivante dalla condotta (anche involontaria) del genitore, rilevando l'obiettiva attitudine di quest'ultima ad arrecare nocumento anche solo eventuale al minore, in presenza di una situazione di mero pericolo di danno.

Lo stabilisce la Cassazione civile, sez. 1, ordinanza 19 gennaio 2024, n. 2021.

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Separazione senza figli: la moglie nuda proprietaria va allontanata da casa, che resta al marito usufruttuario. Ma non è un'assegnazione

Avv. Lorenzo Mariani 

Con Ordinanza del 16.01.2024 la Sezione I del Tribunale di Roma ha adottato provvedimenti temporanei e urgenti ex art. 473 bis 22 cpc in un giudizio di separazione tra un uomo, usufruttuario della casa coniugale, e la moglie nuda proprietaria in forza di donazione fattale dal marito stesso. 

Nella casa oggetto di donazione, la coppia aveva convissuto per anni assieme al figlio di lei, ora maggiorenne e studente.

Il Giudice ha ritenuto di non poter assegnare la casa a nessuno dei due coniugi, in assenza di figli della coppia.
"Al solo scopo di rendere effettiva la separazione", ha però disposto l’allontanamento dalla casa coniugale della moglie entro 60 giorni dalla comunicazione dell'ordinanza, considerato il titolo del marito in qualità di usufruttuario e stante anche l’età avanzata del predetto. 
E infatti, il Giudice ha ritenuto che: "la signora può più agevolmente trasferirsi e reperire altra sistemazione abitativa".

Inoltre, il Giudice ha ritenuto inammissibile la domanda di revoca della donazione avanzata nel giudizio di separazione e, rigettate tutte le istanze istruttorie, ha onerato il marito di un mantenimento € 300,00 in favore della signora, con decorrenza dal suo allontanamento dalla casa coniugale. 
Il giudicante ha poi fissato udienza per la rimessione in giudizio e un'altra udienza per la trattazione della domanda di divorzio.


Tribunale di Roma, Sez. I, 16.01.2024 (testo integrale) 

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Pignora il conto corrente dove bonifica l’assegno per l’ex moglie: lei non può chiedere il versamento diretto al datore di lavoro dell’ex marito

Va invece revocato retroattivamente il mantenimento al figlio maggiorenne fuori corso che lavora e guadagna bene, anche se ha smesso di studiare per aiutare la madre. Ma ora dovrà rimborsare il padre?

Avv. Lorenzo Mariani


Trib. Roma, Sez. I, 16.12.2023

In un giudizio incidentale di modifica delle condizioni di divorzio, l’ex marito (difeso dal nostro Studio) chiedeva la revoca dell’assegno di mantenimento per il figlio maggiorenne sul presupposto della intervenuta autosufficienza economica dello stesso, specificando che la revoca fosse disposta retroattivamente dal 2017 o dal 2020, con esplicita condanna dell’ex moglie a restituire quanto percepito indebitamente per il figlio.

A tal fine, depositava una comunicazione dell’Agenzia delle Entrate sui redditi del ragazzo dal 2020 al 2022.

Nello stesso procedimento, l’ex moglie rappresentava che l’uomo stava sottoponendo a pignoramento il conto corrente in cui bonificava il mantenimento per lei; pertanto, avanzava una domanda ex art. 156 c. 6 cc di versamento diretto dell’assegno divorzile da parte del datore di lavoro dell’ex marito.

Il giudice riteneva acquisibile e utilizzabile la comunicazione dell'Agenzia delle Entrate, nell’esercizio dei suoi poteri d’ufficio e procedeva ad ascoltare il figlio della coppia.

In tal modo il Tribunale apprendeva che il giovane, lavorando nel mondo dello spettacolo, negli ultimi anni aveva guadagnato un salario di € 700,00 settimanali, poi divenuti 800, oltre ad aver percepito la Naspi nei momenti di disoccupazione per € 1.200,00. Inoltre, aveva guadagnato 30.000 euro nell’anno 2022, a conferma di quanto comunicato dall’Agenzia delle Entrate.

Ancora, il giovane confermava di essere fuori corso all’Accademia delle Belle Arti (pagata interamente dal padre) e che aveva deciso di lavorare per aiutare economicamente la madre e mettere da parte il danaro necessario per terminare gli studi.

Il giudice ha così revocato il mantenimento per il figlio a far data dalla domanda di modifica dei provvedimenti presidenziali (novembre 2022), ritenuto che egli sia ormai definitivamente inserito nel mondo del lavoro ed economicamente autosufficiente, non potendo attribuirsi rilievo alcuno all’assunto che la decisione di svolgere un’attività lavorativa - del tutto confacente ai suoi aspirazioni e studi -  sia stata motivata dall’intento di supportare economicamente la madre e di continuare gli studi che, invero, avrebbe già dovuto terminare anni fa.

Allo stesso tempo, il giudicante ha però rigettato la domanda di condanna della madre a restituire quanto percepito a titolo di mantenimento per il figlio, “rilevata, in via preliminare, la inammissibilità nel presente giudizio di domande di natura restitutoria, siccome esulanti dal thema decidendum del divorzio, in cui è escluso il simultaneus processus tra domande soggette a riti diversi quali quelle restitutorie e/o di condanna al pagamento di somme di danaro, non rientranti tra le ipotesi di connessione qualificata di cui all’art. 40 cpc”.

Ancora, il giudicante ha rigettato la richiesta dell’ex moglie di versamento diretto dell’assegno di mantenimento da parte del datore di lavoro dell’uomo.           
Non è invero contestata la corresponsione da parte dell’obbligato della somma dovuta, ma soltanto la mancata possibilità di utilizzo di tale somma da parte della beneficiaria, in ragione del pignoramento anche degli importi corrispostile a titolo di mantenimento, questione esulante dal procedimento di divorzio e da far valere innanzi al diverso Giudice competente.

E infatti il pagamento diretto ex art. 156 c. 6 cc, nella formulazione anteriore alla riforma Cartabia, presuppone il rischio di futuri inadempimenti dell’onerato sulla base del suo attuale comportamento. Rendere indisponibile il mantenimento corrisposto – mediante un pignoramento del conto corrente – non equivale a non versare l’assegno in sé.

Ma ora il figlio (o la madre per lui) dovrà restituire il mantenimento al padre? L’esonero retroattivo dalla prestazione pecuniaria lascia intendere di sì: perché, altrimenti, riconoscere che il mantenimento non era più dovuto da una data passata se non è possibile riottenere le somme versate?            
La domanda di esplicita condanna alla restituzione, d’altronde, è stata rigettata solo per motivi di incompatibilità processuale col rito di famiglia.

Dunque, nulla esclude il diritto di introdurre un nuovo giudizio per veder riconoscere l’indebito oggettivo o l’ingiustificato arricchimento, come da giurisprudenza di Cassazione anche recente.  

Trib. Roma, Sez. I, 16.12.2023 (testo integrale)

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Morte per emotrasfusione infetta: il danno parentale è presunto e si applicano le tabelle di Roma

Avv. Lorenzo Mariani

Con sentenza n. 18098 dell’11.12.2023, la II Sezione del Tribunale di Roma ha riconosciuto un risarcimento di € 485.000,00, oltre interessi dal 2018, per il danno da perdita del rapporto parentale sofferto dai due ricorrenti difesi dal nostro Studio, figli di una donna deceduta nel 2006 a causa delle complicanze dell’epatite contratta anni prima dopo una emotrasfusione infetta.

Rigettate completamente le doglianze del Ministero della Salute convenuto.

E infatti, l’azione dei ricorrenti non è prescritta stanti le diffide inviate nel 2009, 2012 e 2015.

Ancora, il nesso causale tra malattia e morte della donna è sufficientemente provato dalla CTU svolta in un precedente giudizio che, quand'era ancora in vita, le aveva riconosciuto un risarcimento per danno da emotrasfusione con sentenza passata in giudicato.

Il danno-conseguenza, invece, sussiste anche in assenza di specifiche prove degli attori, in quanto deve ritenersi presunto dalla semplice circostanza della perdita della madre, mentre era onere del convenuto fornire specifici elementi contrari.

In ultimo, per la quantificazione del risarcimento non si applicano le tabelle di Milano ma quelle di Roma, in quanto basate su un sistema “a punti” richiesto dalla giurisprudenza di Cassazione più recente per il danno da perdita del rapporto parentale.


Trib. Roma, Sez. II, Sent. , 11.12.2023 n. 18098 (testo integrale)

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Decadenza della responsabilità genitoriale

La Corte di Appello di Milano, in merito all'impugnazione contro il Decreto del Tribunale per i Minorenni, ha accolto il ricorso della madre, vittima di violenza, decretando la decadenza del padre dalla responsabilità genitoriale. Si dispone l'affido del minore all'Ente competente e il collocamento presso la madre, con l'onere di presa in carico da parte della N.P.I. e del Centro antiviolenza. Si conferma la sospensione dei rapporti tra il padre e il minore, considerando il grave deficit della sua capacità genitoriale. Inoltre, viene imposto all'ex coniuge l'obbligo di contribuire al mantenimento del figlio, nonostante lo stato di disoccupazione, a meno che non dimostri una capacità lavorativa idonea. La Corte mantiene e amplia l'incarico ai Servizi Sociali, confermando la sospensione dei rapporti padre-figlio, considerando le condotte violente accertate e il manifestato deficit genitoriale. 


Cassazione Civile, sez.I, 19 Novembre 2021, n.35710

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I criteri per il riconoscimento dell’assegno divorzile tra il primo e il secondo grado

La Cassazione civile, con ordinanza del 3 novembre 2023, n. 30656, dopo aver ricostruito la propria giurisprudenza consolidata sui criteri per la corresponsione dell'assegno di divorzio, ha precisato, in relazione al caso in esame, che "se in primo grado sia stata formulata la domanda di assegno di divorzio in base al tenore di vita (perché all'epoca vigeva tale l'orientamento giurisprudenziale che vedeva nella corresponsione dell'assegno il rispetto proprio del criterio del tenore di vita), la riproposizione in Appello della medesima domanda, in funzione, questa volta, perequativo/compensativa che quindi tiene conto del recente orientamento della giurisprudenza rappresenta un quid minus rispetto al quid pluris precedentemente richiesto, e, di per sé, non può essere ritenuta inammissibile, poiché la parte chiede sempre il medesimo assegno e si deve tenere conto della variazione interpretativa che guida le ragioni giustificatrici della relativa attribuzione".

Cassazione civile, sez. I, ordinanza del 3 novembre 2023, n. 30656

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NO all’assegnazione della casa familiare a figli indipendenti economicamente

La revoca dell'assegnazione della casa familiare è provvedimento che ha come esclusivo presupposto l'accertamento del venir meno dell'interesse dei figli alla conservazione dell'habitat domestico in conseguenza del raggiungimento della maggiore età e del conseguimento dell'autosufficienza economica o della cessazione del rapporto di convivenza con il genitore assegnatario. In applicazione di tale principio la Suprema Corte ha confermato la decisione dei Giudici di merito che avevano rigetto la richiesta di assegnazione della casa familiare in favore dell'ex moglie, avendo il figlio convivente raggiunto la maggiore età.

Cassazione civile, sez. I, ordinanza 20 novembre 2023, n. 32151

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Il minore vittima di abusi sessuali non è soggetto a vincoli metodologici

Nel caso in cui sia necessaria l'audizione di un minore vittima di abusi sessuali, è importante sottolineare che il rispetto dei protocolli operativi stabiliti dalla Carta di Noto non rappresenta una restrizione metodologica vincolante per il giudice. La mancata aderenza a tali protocolli non comporta automaticamente l'inutilizzabilità della prova così ottenuta. Questi protocolli forniscono semplicemente linee guida mirate a garantire l'affidabilità delle dichiarazioni del minore. Inoltre, si concentrano sulla tutela della protezione psicologica del minore durante la conduzione dell'audizione, utilizzando anche strumenti tecnici e competenze specialistiche. L'obiettivo principale è prevenire la comparsa di fenomeni di vittimizzazione secondaria nei confronti della persona offesa.

Cassazione, III Sez., Pen., Ord. 24 ottobre 2023, n. 43225.

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Il valore della testimonianza del minore abusato

In tema di violenza sessuale nei confronti dei minori, il mancato espletamento della perizia in ordine alla capacità a testimoniare non determina l'inattendibilità della testimonianza della persona offesa non essendo tale accertamento indispensabile ove non emergano elementi patologici che possano far dubitare della predetta capacità. In tema di reati sessuali, la sola età adolescenziale del minore abusato non costituisce in re ipsa circostanza tale da escludere la capacità a deporre in assenza di patologie incidenti su tale capacità. 


Cassazione Penale, Sez. III, Sent., 7luglio 2020, n.20093.

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Adozione - sviluppi evolutivi grazie al mediatore culturale

La normativa sull'adozione di minore prevede il diritto prioritario del minore di rimanere nel nucleo familiare anche allargato di origine, quale tessuto connettivo della sua identità. Il giudice nell'accertare lo stato di adottabilità di un minore deve verificare: l'effettiva ed attuale possibilità di recupero dei genitori, sia con riferimento alle condizioni economico-abitative, senza però che l'attività lavorativa svolta e il reddito percepito assumano valenza discriminatoria, sia con  riferimento alle condizioni psichiche, queste ultime da valutare, se del caso, con una indagine peritale; estendere tale verifica anche al nucleo familiare; avvalersi di un mediatore culturale, non al fine di colmare deficit linguistici, ma di elidere la distanza tra modelli culturali familiari molto differenti, che, se non superata, osta ad un'adeguata valutazione della capacità genitoriale.

Corte di Cassazione, I Sez. Civ., Ord. 8 novembre 2023 n. 31057

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Inammissibile l'intervento del figlio indipendente economicamente nel giudizio di divorzio

Il provvedimento de quo viene emesso dal Tribunale di Pisa nell'ambito di un sub - procedimento aperto in un giudizio di divorzio nel quale, già pronunciata la sentenza sullo status, il padre chiede la revoca del contributo al mantenimento della figlia, maggiorenne, economicamente indipendente e residente in un'altra citta insieme al compagno. A fronte dell'istanza presentata dal ricorrente nei confronti della figlia, intestataria dell'assegno di mantenimento, il Giudice oppone la carenza di legittimazione della stessa all'intervento autonomo o ad adiuvandum. 


Tribunale di Pisa Ord. 4 ottobre 2023

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Test DNA rifiuto - comportamento indiziario

Con ordinanza n. 128444 la Cassazione civile del 12 ottobre 2023 in tema di accertamento giudiziale di paternità, decidendo sul ricorso proposto dal padre di una minorenne avverso la sentenza emessa dalla Corte d'appello di Perugia, che aveva ritenuto accertata la presunta paternità in ragione del rifiuto reiterato opposto alla consulenza genetica disposta in via istruttoria dai giudici di merito, motivato dalla parte opponente per la necessità di acquisire in via preventiva la prova storica dell'esistenza di un rapporto sessuale o di una relazione con la madre del minore, ha dichiarato inammissibile il gravame proposto.

Cassazione civile, sez.1, ordinanza 12 ottobre 2023, n. 128444. 

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Doveri morali e sociali - Unioni di fatto

Le unioni di fatto, quali formazioni sociali che presentano significative analogie con la famiglia formatasi nell'ambito di un legame matrimoniale e assumono rilievo ai sensi dell'art 2 Cost., sono caratterizzate da doveri di natura morale e sociale di ciascun convivente nei confronti dell'altro, doveri che si esprimono anche nei rapporti di natura patrimoniale, sicché le attribuzioni finanziarie a favore del convivente "more uxsorio", effettuate nel corso del rapporto per far fronte alle esigenze della famiglia ( nella specie, versamenti di denaro sul conto corrente del convivente con quindici bonifici  per un importo complessivo di euro 74.000), configurano l'adempimento di una obbligazione naturale ex art. 2034 c.c., a condizionare che siano rispettati i principi di proporzionalità e di adeguatezza, per la cui valutazione occorre tener conto di tutte le circostanze fattuali, oltre che dell'entità del patrimonio e delle condizioni sociali del "solvens".


Corte di Cassazione, Sez.1 -, Ordinanza n. 16864 del 13/06/2023 (Rv. 668005- 01)

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Nullità ecclesiastica delibazione

Dopo 10 anni dalla sentenza delle sezioni unite la direzione è la medesima per la delibazione, la convivenza come coniugi, ove protrattasi per almeno tre anni dalla celebrazione del matrimonio concordatario, integra una situazione giuridica di ''ordine pubblico italiano '', che osta alla dichiarazione di efficacia della sentenza di nullità pronunciata dal Tribunale Ecclesiastico per vizio genetico del ''matrimonio-atto''.

Lo stabilisce la Cassazione civile, sez. I, ordinanza 10 ottobre 2023, n. 28308. 

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Figlio all'estero NON esclude l'affidamento condiviso

All'affidamento condiviso può derogarsi solo ove la sua applicazione risulti pregiudizievoli per l'interesse del minore, con la duplice conseguenza che l'eventuale pronuncia di affidamento esclusivo dovrà essere sorretta da una motivazione non solo in positivo sulla idoneità del genitore, ma anche in negativo nulla inidoneità educativa, ovvero manifesta carenza dell'altro genitore. 

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Delibazione riserva mentale

Con il provvedimento n. 15142 depositata il 30 maggio 2023, la Cassazione ha stabilito che in caso di delibazione di sentenza di nullità del matrimonio concordatario, il convincimento, espresso dal giudice di merito, sulla conoscenza o conoscibilità da parte del coniuge della riserva mentale unilaterale dell’altro costituisce apprezzamento di fatto, che si sottrae al sindacato di legittimità.

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STOP MANTENIMENTO FIGLI MAGGIORENNI !!!

Con l’ordinanza n. 16327 depositata l’8 giugno 2023, la Cassazione mantiene fermo il suo orientamento secondo cui il figlio maggiorenne “non può ostinarsi e indugiare nell’attesa di trovare il lavoro reputato consono alle sue aspettative, non essendogli consentito di fare abusivo affidamento sul supposto obbligo dei suoi genitori di adattarsi a svolgere qualsiasi attività pur di sostentarlo ad oltranza nella realizzazione (talvolta realistico) di desideri ed ambizioni personali”.

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Godimento esclusivo, da parte del coniuge legalmente separato, della casa coniugale acquistata in regime di comunione legale

In materia di comunione del diritto di proprietà, se per la natura del bene o per qualunque altra circostanza non ne sia possibile, ai sensi dell'art. 1102 c.c., un godimento diretto con pari uso da parte dei comproprietari, essi possono deliberarne l'uso indiretto e, in mancanza di tale deliberazione, il comproprietario, che da solo ha goduto del bene, deve corrispondere agli altri partecipanti alla comunione i frutti civili con decorrenza dalla data in cui gli perviene la richiesta di uso turnario o comunque di partecipazione al godimento da parte degli altri comunisti. In applicazione del principio, la S.C. in data 18 Aprile 2023.  ha affermato che, in caso di separazione dei coniugi, l'indennità di occupazione della casa coniugale acquistata in regime di comunione legale non va corrisposta dalla data della separazione, ma da quella in cui il coniuge non occupante manifesti all'altro la richiesta di uso turnario o comunque la volontà di godimento dell'immobile.

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Assegno divorzile: funzione assistenziale e compensativa

Il riconoscimento dell'assegno di divorzio, cui la più recente giurisprudenza di legittimità attribuisce una funzione assistenziale e in pari misura compensativa e perequativa, in virtù dell'articolo 5, comma 6, della legge n. 898/1970, postula l'accertamento dell'inadeguatezza dei mezzi dell'ex coniuge richiedente nonché dell'impossibilità di procurarseli per ragioni di natura oggettiva. Lo stabilisce la Cassazione civile, sez. I, ordinanza 19 giugno 2023, n. 17505. 

Dopo la dichiarazione ufficiale di cessazione degli effetti civili del matrimonio tra i due coniugi, i giudici di merito riconobbero alla donna, sia in primo che in secondo grado, il diritto a percepire l’assegno divorzile. I giudici hanno rilevato che dal raffronto fra le due posizioni emergeva un significativo squilibrio economico sottolineando che la donna in ragione dell'età, del livello professionale e della condizione del mercato del lavoro non era in condizione di migliorare la propria condizione reddituale trovandosi poco al di sopra della soglia di povertà.

Ritenevano quindi, alla luce del fatto che il matrimonio aveva avuto una durata ventennale, allietato dalla nascita di un figlio, dovevano ritenersi sussistenti le condizioni per il riconoscimento di un assegno divorzile. L'uomo ha quindi proposto ricorso per cassazione, che tuttavia è stato rigettato.

In merito all'assegno divorzile, il collegio ha evidenziato che si impone una valutazione comparativa delle condizioni economico patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dall'istante l'assegno divorzile alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune, come pure di quello personale di ognuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e all'età dell'avente diritto. Il Collegio ha osservato che, nella specie, la corte distrettuale aveva analizzato le situazioni patrimoniali di ambedue gli ex coniugi, riscontrando un evidente squilibrio reddituale a vantaggio dell'uomo, rilevando l'incapacità dell'ex moglie di provvedere, in ragione dell'età e del suo livello di professionalità come pure delle attuali condizioni di mercato del lavoro, a migliorare la propria posizione reddituale.

Quindi aveva escluso che gli elementi raccolti in sede istruttoria consentissero di ritenere provato lo svolgimento di una attività lavorativa sommersa spiegando le ragioni poste a base del suo convincimento.

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Responsabilità genitoriale revocabile sulla base delle intercettazioni ambientali

La Corte di cassazione, con sentenza n. 23247 in data 31.07.2023 ha statuito la revocabilità della responsabilità genitoriale per condotte inadeguate dei genitori anche sulla base delle sole intercettazioni ambientali disposte nell'ambito del procedimento a carico degli stessi, aggiungendo che l'ascolto del minore non va disposto quando corre il rischio di una ulteriore vittimizzazione.

Il Pubblico Ministero aveva dichiarato la decadenza dalla responsabilità genitoriale di entrambi i genitori e la Corte di appello, in sede di reclamo, aveva confermato quanto statuito in precedenza a fronte delle svariate condotte lesive degli interessi dei figli (offese ed aggressioni continuative nei loro confronti; bestemmie, clima violento in cui i minori hanno vissuto).

Proposto ricorso in Cassazione, la Prima sezione civile l'ha respinto rimarcando per prima cosa che il provvedimento impugnato è stato emesso a tutela dell'incolumità dei minori per soddisfare l'impellente interesse di sottrarli alle gravi condotte violente ed aggressive dei ricorrenti. Ed aggiungendo che l'accertamento delle "suddette continuative condotte violente, aggressive e altamente diseducative, e dei relativi maltrattamenti nei confronti dei minori, seppure attraverso le intercettazioni ambientali effettuate nella fase delle indagini preliminari nel procedimento penale, nel quale sono state anche emesse misure cautelari nei confronti dei genitori, rende necessario, a tutela degli stessi minori, escludere il loro ascolto nel grado d'appello, che potrebbe costituire un pericolo di ulteriori traumi perché li potrebbe costringere a rivivere i gravi episodi vissuti (cd. "vittimizzazione secondaria")".

In definitiva per la Suprema corte vanno affermati due principi di diritto: in riferimento al primo, relativo alla decadenza dalla responsabilità genitoriale, la Cassazione ha sancito: "In tema di responsabilità genitoriale, continuative condotte violente, fisiche e verbali, e i relativi maltrattamenti nei confronti dei minori, legittimano la pronuncia di decadenza dalla responsabilità genitoriale, anche sulla base di accertamenti giudiziali e verifiche svolte sulla base del solo mezzo istruttorio delle intercettazioni ambientali, effettuate nell'ambito della fase delle indagini preliminari, nell'ambito del procedimento penale promosso nei confronti dei genitori indagati per le suddette condotte". Con riguardo al secondo: "In tema di ascolto del minore maltrattato, il giudice deve sempre operare un bilanciamento tra l'esigenza di ricostruzione del volere e del sentimento del minore, quale principio fondamentale applicabile anche nel procedimento relativo alla decadenza dalla responsabilità genitoriale, e quella della tutela del minore maltrattato, come persona fragile, nel caso in cui l'ascolto possa costituire pericolo di vittimizzazione secondaria per gli ulteriori traumi che il fanciullo che li abbia già vissuto possa essere costretto a riviverli".

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Assegno divorzile: presupposti che ne giustificano l'attribuzione

È ormai consolidato il principio secondo il quale “Al fine di accertare se sussistano i presupposti per il riconoscimento dell'assegno divorzile in funzione compensativo-perequativa del sacrificio sopportato per aver rinunciato a realistiche occasioni professionali o reddituali, ferma l'irrilevanza del pregresso tenore di vita familiare, il giudice deve verificare: a) se tra gli ex coniugi, a seguito del divorzio, si sia determinato o aggravato uno squilibrio economico-patrimoniale prima inesistente (ovvero di minori proporzioni); b) se, in costanza di matrimonio, gli ex coniugi abbiano convenuto che uno di essi sacrificasse le proprie prospettive professionali per dedicarsi al soddisfacimento delle incombenze familiari; c) se, con onere probatorio a carico del richiedente, tali scelte abbiano inciso sulla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi determinando uno spostamento patrimoniale da riequilibrare; d) quale sia lo spostamento patrimoniale, e la conseguente esigenza di riequilibrio, causalmente rapportabile alle determinazioni comuni ed ai ruoli endofmiliari.” (Cass. ord. n. 22738/2021- Rv. 662350-01). Si è quindi avuto modo di osservare che il riconoscimento dell'assegno divorzile in funzione perequativo-compensativa non si fonda sul fatto, in sé, che uno degli ex coniugi si sia dedicato prevalentemente alle cure della casa e dei figli, né sull'esistenza in sé di uno squilibrio reddituale tra gli ex coniugi, essendo invece necessaria un'indagine sulle ragioni e sulle conseguenze della scelta, seppure condivisa, di colui che chiede l'assegno, di dedicarsi prevalentemente all'attività familiare, la quale assume rilievo nei limiti in cui comporti sacrifici di aspettative professionali e reddituali, la cui prova spetta al richiedente (Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 29920 del 13/10/2022, Rv. 666043 - 01). L’insieme di tali principi porta ad escludere che ricorrano i presupposti per attribuire alla moglie un assegno divorzile, ogniqualvolta questo vada ad avere la sola funzione di realizzare una tendenziale equiparazione del livello di vita dei due coniugi.Assegno divorzile: presupposti che ne giustificano l'attribuzione

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Cassazione: carcere per chi stalkera la ex su WhatsApp

Una recente pronuncia della Cassazione ha statuito che integra il reato di atti persecutori ex art. 612-bis c.p. il soggetto che, a mezzo WhatsApp, invia messaggi alla ex contenenti insulti e minacce.

Questo quanto emerge dalla sentenza della Cassazione n. 7821/2023.

Più specificatamente, in sede di appello vedeva confermata la responsabilità dell'imputato per il reato di atti persecutori aggravato dall'uso dei mezzi informatici e per il reato di diffamazione, in danno della ex e lo stesso viene condannato alla pena di 1 anno e 6 mesi di reclusione e al pagamento delle spese del processo.

Nonostante l'imputato abbia tentato di impugnare la decisione il ricorso è stato ritenuto inammissibile dalla Cassazione in virtù dei numerosi messaggi, molti dei quali contenenti insulti, della condotta della persona offesa, delle dichiarazioni dei testimoni e delle ammissioni dello stesso imputato.

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ascolto del minore, per collocamento in struttura

Nei giudizi relativi alla modifica delle statuizioni sull'affidamento o sul collocamento del minore, tenuto conto anche di fattori sopravvenuti quali la modifica della residenza, ove lo stesso sia prossimo alla soglia legale del discernimento e sia stata formulata istanza di rinnovo della audizione, il giudice di secondo grado deve procedere all’ascolto o fornire puntuale giustificazione argomentativa del rigetto della richiesta, non essendo di per sé sufficiente che il minore sia stato sentito nel precedente grado di giudizio. Lo stabilisce la Cassazione civile, sez. I, ordinanza 21 aprile 2023, n. 10788


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diritto ex coniuge a ricevere quota di incentivo alle dimissioni anticipate


Con sentenza n.5644/2009 il Tribunale di Milano pronunciava la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario di due soggetti. 
l'ex moglie, con atto notificato, citava l'ex coniuge a comparire dinanzi al Tribunale di Milano, esponendo che il convenuto aveva, nel 2018, interrotto il rapporto lavorativo con una società per la quale aveva operato in qualità di dirigente nel periodo compreso tra gennaio 2001 e dicembre 2007 ovvero in costanza di matrimonio, e che il convenuto aveva percepito un'ingente somma a titolo di T.F.R., e un'ulteriore domma a titolo di " incentivo all'esodo". chiedeva quindi, tenuto conto che il vincolo matrimoniale si era protratto dal 1996 al 2009, condannarsi il convenuto a corrispondere ai sensi dell'art.12 bis della legge n.898/1970 il 40% di tutto quanto percepito.
Con sentenza n. 5680/2017 il Tribunale accoglieva in parte la domanda attorea e condannava il convenuto a corrispondere l'importo del 40% del solo T.F.R. , reputando il tribunale che non era dovuto all'attrice alcun importo percentuale con riferimento alle somme destinate dal convenuto ad un fondo di " previdenza complementare" nonchè con riferimento alle somme percepite a titolo- sostanzialmente risarcitorio- di " incentivo all'esodo". 
con sentenza n.4725/2019 la Corte di appello di Milano rigettava l'appello principale e compensava integralmente le spese del grado.
Avverso tale sentenza è stato proposto ricorso per Cassazione sulla scorta di due motivi. 
Con il primo motivo la ricorrente principale denuncia ai sensi dell'art.360, comma 1 n.3, cod.proc.civ. la violazione e falsa applicazione dell'art.12 bis della legge n. 898/1970 anche in combinato disposto con gli artt. 2 e 29 Cost., sul presupposto chye la Corte di Milano, allorchè ha escluso dall'alveo del trattamento di fine rapporto il cosiddetto " incentivo all'esodo", ha impropriamente circoscritto la portata dell'art.12 bis cit.
Con il secondo motivo, la ricorrente principale duncia ai sensi dell'art.360, comma 1n.3, cod. proc. civ.la violazione  e la falsa applicazione dell'art.12 bis della legge n. 898/1970 anche in combinato disposto con gli artt. 17 e 19 T.U.I.R, deducendo che il testo unico delle imposte sui redditi ha equiparato il T.F.R. e " l'incentivo all'esodo", in quanto entrambi soggetti a tassazione separata e inoltre assolvano alla stressa funzione.
Per un verso, la Corte di legittimità ha affermato che in caso di divorzio,sono assoggettate le somme corrisposte dal datore di lavoro come incentivo alle dimissioni anticipate del dipendente, atteso che dette somme non hanno natura liberale nè eccezionale ma costituiscono reddito di lavoro dipendente.
nello stesso solco esegetico, è stato affermato che le somme corrisposte dal datore di lavoro, in aggiunta alle spettanze di fine rapporto, come incentivo alle dimissioni anticipate del dipendente, non hanno natura nè liberale nè eccezionale, ma costituiscono redditi da lavoro dipendente assoggettati a tassazione separata ex art.16, comma 1 lett. a), del D:P:R: n. 917 del 1986.
per altro verso la Suprema Corte ha affermato, seppur in epoca meno recente, che la quota dell'indennità di fine rapporto spettante, ai sensi dell'art. 12 bis della legge 1970 n.898, al coniuge titolare dell'assegno divorzile e non passato a nuove nozze, riguarda unicamente quella indennità che, maturando alla cessazione del rapporto di lavoro, è determinata in proporzione della durata del rapporto medesimo e dell'entità della retribuzione corrisposta al lavoratore; non spetta pertanto al coniuge divorziato una parte di altri eventuali importi erogati, in occasione della cessazione del rapporto di lavoro dell'ex coniuge, ma ad altro titolo.


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I NONNI DEVONO MANTENERE I NIPOTI ?

Una recente pronuncia della Corte di Cassazione torna ad affrontare la questione del mantenimento dei nipoti da parte dei nonni. 

" Quando i genitori non hanno i mezzi sufficienti, gli altri ascendenti, in ordine di prossimità, sono tenuti a fornire ai genitori stessi i mezzi necessari affinchè possano adempiere i loro doveri nei confronti dei figli".
nella pratica però, sorgono diverse controversie.
il 16/05/2023 è stata pubblicata l'ordinanza n.13345/2023 della Cassazione, che torna a precisare i presupposti e i limiti dell'obbligo di mantenimento degli ascendenti.
Ebbene, secondo la Cassazione, l'obbligo ( eventuale ) dei nonni non va qualificato come " surroga" di quella che viene chiamata responsabilità sussidiaria: ciò significa che l'obbligo sorgerà solo nel caso in cui le esigenze complessive dei minori non vengano soddisfatte per intero da parte dei soggetti obbligati in via principale e cioè i genitori. 
Dunque la Cassazione giunge alle seguenti conclusioni:
- l'obbligo dei nonni di fornire ai genitori i mezzi necessari affinchè possano adempiere i loro doveri nei confronti dei figli va interpretato, innanzitutto, nel senso che l'obbligazione degli ascendenti è subordinata e quindi, sussidiaria rispetto a quella, primaria, dei genitori
- non si può chiedere un aiuto economico ai nonni per il solo fatto che uno dei due genitori non dia il proprio contributo al mantenimento dei figli, se l'altro genitore è in grado di mantenerli.

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PRESUPPOSTI PER RINNOVARE CTU

Ai sensi dell’art. 8 della L. 24/2017 l'azione civile di risarcimento danni da responsabilità sanitaria
deve essere preceduta, a pena di improcedibilità, dal ricorso per consulenza tecnica preventiva di
cui all'art. 696 bis c.p.c. o, in alternativa, dal procedimento di mediazione ai sensi del D.lgs. n.
28/2010, è invece esclusa la necessità di procedere alla negoziazione assistita di cui all’art. 3 L.
162/20142.
Nel caso di specie, (Corte di appello di Roma, SEZIONE VI civile, 28.03.2023) inizialmente il
giudice non ha accettato la richiesta di rinnovazione della CTU. Dopo l’ATP Conciliativo, il giudice
aveva disposto il mutamento del rito da sommario di cognizione a ordinario, senza però rinnovare la
CTU, ma successivamente la Corte di Appello di Roma ha disposto la rinnovazione della
consulenza tecnica d’ufficio espletata in primo grado.
Sicuramente per quanto concerne il caso di specie, raramente la corte di appello agisce con un
provvedimento di rinnovazione della Ctu, senza entrare dettagliatamente nel merito.
Più nello specifico l’appellata – vittoriosa in primo grado - sosteneva che fosse stata sottoposta ad
un intervento chirurgico, asserendo che la diagnosi di dimissione fosse diversa rispetto l’operazione
effettuata. Nel suo ricorso, in primo grado, la signora assumeva che i trattamenti medici cui si era
dovuta sottoporre fossero imputabili a una esecuzione dell’intervento chirurgico, non conforme alle
regole di prudenza, diligenza e perizia e senza previa consultazione disciplinare e in difetto di
accordo con la paziente, la quale non avrebbe rilasciato il consenso informato.
In udienza, il giudice nominava il CTU e si tentava una conciliazione tra le parti (ex art. 696 bis
c.p.c) che però aveva esito negativo.
Si può osservare, in via preliminare, che, nonostante l’art. 696 bis c.p.c. preveda testualmente che il
consulente “prima di provvedere al deposito della relazione, tenta, ove possibile, la conciliazione
delle parti”, non sembra possa rimettersi ad una valutazione personale del consulente l'opportunità
di procedere con il tentativo di conciliazione. Il consulente deve tentare la conciliazione non avendo
nessun potere discrezionale in tal senso - eccettuati i casi di oggettiva impossibilità - dal momento
che la limitazione del diritto d'azione, connessa all'obbligo di ricorrere al procedimento ex art. 696
bis c.p.c., si giustifica proprio in ragione dello svolgimento e dell'auspicato esito positivo dello
stesso.
In definitiva la CTU, escludeva qualsivoglia responsabilità in capo al medico, ma comunque
condannava lo stesso e l’azienda sanitaria per aver effettuato un intervento invasivo non preferibile.
Per tale ragione il sanitario e la ASL richiesero di provvedere a rinnovare la Ctu, richiesta poi
reiterata in appello e accolta solo in quella sede.
Interessante, poi, il fatto che la Corte D’Appello abbia ritenuto di dover sospendere in prima
udienza ex art. 283 cpc l’efficacia esecutiva della sentenza sulla sola base dell’accoglimento della
domanda di rinnovazione (dunque del solo fumus della domanda cautelare).

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L'ASSENZA DI CONSUMAZIONE DEL AMTRIMONIO, NON PRECLUDE IL RICONOSCIMENTO DELL'ASSEGNO DI MANTENIMENTO

L’assenza di consumazione del matrimonio, pur essendone causa di scioglimento, non preclude il riconoscimento dell’assegno di mantenimento. La Corte di Cassazione con la sentenza 3645/2023 ha evidenziato che, nonostante l’assenza di rapporti sessuali in costanza di matrimonio, il marito dovrà versare all’ex moglie l’assegno divorzile.

Ai fini del matrimonio la non consumazione dello stesso, infatti, non incide sulla validità giuridica del vincolo coniugale né sull’esistenza dello stesso, pertanto, non pregiudica il passaggio in giudicato della sentenza di divorzio né l’applicabilità della normativa in tema di assegno di divorzio stante la natura assistenziale dello stesso.

Nel corso dell’istruttoria era emersa l’assenza di rapporti sessuali tra i coniugi e l’inizio di una nuova relazione da parte della moglie.
In relazione alle doglianze del marito, la Corte non ritiene fondate le censure. Non era stato dimostrato infatti, che la moglie e il terzo avessero un comune progetto di vita, ma solo che la prima provvedeva all’acquisto di beni alimentari per il mantenimento della nuova "famiglia".

Tali prove, per la Corte non sono sufficienti ad affermare l’esistenza di una relazione sentimentale stabile.
Il nuovo legame, infatti, deve essere accertato in modo rigoroso, così come indicato dall’art. 2729 del Codice Civile che richiede di procedere ad una complessiva valutazione degli elementi come la presenza di un conto corrente cointestato, lo stesso domicilio, l’esistenza di figli o la contribuzione economica in famiglia. L’onere probatorio relativo a questo aspetto, ricade su chi contesta il diritto all’assegno di mantenimento.

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DIRITTO PENSIONE REVERSIBILITA'

Cassazione civile, sez. I, ordinanza 18 aprile 2023, n.10291

L'intreccio di interessi patrimoniali eterogenei riconducibili al titolare dell'assegno pensionistico, al titolare dell'assegno divorzile, agli istituti o alle casse previdenziali, e anche all'eventuale altro coniuge superstite, consiglia il necessario accertamento giudiziale della titolarità o meno in capo all'ex coniuge dell'assegno divorzile, come requisito imprescindibile per la liquidazione dell'assegno pensionistico di reversibilità, senza che siano sufficienti meri accordi o intese tra le parti non sottoposte al vaglio giurisdizionale.


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AUTONOMIA SOSTANZIALE E PROCESSUALE TRA SEPARAZIONE E DIVORZIO

CASSAZIONE CIVILE, SEZ. I, ordinanza 5 aprile 2023, n. 9345

In tema di regolamentazione dei rapporti economici tra i coniugi separati nella pendenza del giudizio divorzile, poiché l'assegno di divorzio traendo la sua fonte nel nuovo "status" delle parti ha efficacia costitutiva decorrente dal passaggio in giudicato della pronuncia di risoluzione del vincolo coniugale, i provvedimenti emessi nel giudizio di separazione continuano a regolare i rapporti economici tra i coniugi fino al passaggio in giudicato della sentenza di divorzio, salvo che, pronunciata sullo scioglimento del vincolo sentenza non definitiva, il giudice ritenga con adeguata motivazione ed in relazione alle circostanze del caso concreto di anticipare la decorrenza dell'assegno alla data della domanda, ai sensi dell'art. 4, comma 13, della L. n. 898 del 1970L. 01/12/1970, n. 898, oppure che nella fase presidenziale o istruttoria del giudizio siano emessi provvedimenti provvisori temporanei ed urgenti, che si sostituiscano a quelli adottati nel giudizio di separazione. Il tutto in ragione dell'autonomia, sul piano sostanziale e processuale, dei procedimenti di separazione e di divorzio ma anche della necessità di assicurare sempre continuità all'erogazione del contributo in favore del coniuge economicamente più debole.

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EFFETTI DELLA SEPARAZIONE

CASSAZIONE CIVILE, SEZ. I, ORDINANZA 13 APRILE 2023, N. 9839

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LA CORTE COSTITUZIONALE SUGLI EFFETTI DELLA SENTENZA DI RETTIFICAZIONE DI ATTRIBUZIONE DI SESSO SULL’UNIONE CIVILE PREESISTENTE

La L. n. 76/2016 all’art. 1, comma 27, ha previsto che alla rettificazione di sesso di uno dei coniugi, ove gli stessi abbiano manifestato volontà di mantenere in vita il vincolo di coppia, consegue automaticamente l’instaurazione dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, nel pieno rispetto dell’orientamento della Corte costituzionale, di cui alla decisione 11 giugno 2014, n. 170, con la quale erano stati ritenuti incostituzionali gli artt. 2 e 4, L. 14 aprile 1982, n. 164, nella parte in cui non prevedevano che la sentenza di rettificazione di sesso di uno dei coniugi, avesse consentito, comunque, di mantenere in vita un rapporto di coppia su richiesta dei coniugi stessi. Al contrario, il comma 26 della stessa legge, dispone che nel caso di unione civile, la rettificazione di sesso di una delle parti determina lo scioglimento dell’unione civile, senza alcuna possibilità di una scelta diversa.

Ebbene nella vicenda in esame, sono state sollevate plurime questioni di legittimità costituzionale con riferimento a disposizioni centrali in ordine all’impossibilità di convertire l’unione civile in matrimonio in conseguenza della rettificazione di sesso di uno dei due componenti della coppia.

Nel giudizio principale l’attore, che necessitava di “adeguamento dell’identità fisica a quella psichica”, aveva chiesto anzitutto “l’autorizzazione all’intervento chirurgico strumentale alla riassegnazione del sesso da maschile in femminile” e, quindi la rettificazione dei dati anagrafici riguardanti il sesso e il nome, e l’ordine all’ufficiale dello stato civile di procedere alla iscrizione del suo matrimonio con il partner, con il quale aveva in passato contratto unione civile.  Il giudice a quo ha del tutto obliterato l’esame della domanda dell’attore.

Inoltre il Tribunale ha richiamato gli approdi raggiunti dalla Cassazione e dalla Corte Costituzionale, in virtù dei quali la lettura sinottica delle norme de qua non deve portare a ritenere l’intervento chirurgico pre-condizione necessaria della pronuncia di mutamento di sesso, ma solamente un possibile mezzo strumentale a un pieno benessere psicofisico (Corte cost. n. 221/2015; Cass n. 15138/2015).

Così operando, il giudice ha chiarito che l’attore non aveva effettuato alcun intervento demolitivo-ricostruttivo degli organi sessuali ( ciò che costituiva  l’oggetto della domanda di autorizzazione), ma una terapia ormonale, chiedendo la rettifica dell’attribuzione di sesso nei registri di stato civile, dichiarando di aver acquisito l’identità di genere femminile attraverso un percorso psicologico comprovante la definitività e irreversibilità di tale orientamento, prescindendo dalle caratteristiche anatomiche degli organi sessuali.

Conseguentemente, il Collegio rimettente ha, quindi proceduto alla illustrazione dei propri dubbi di illegittimità costituzionale del plesso normativo evocato ed ha sollevato innanzi alla Corte Costituzionale le relative questioni in via del tutto ipotetica.

Ebbene il Tribunale ha osservato che “l’interdipendenza tra pronuncia di rettificazione e sorti dell’unione civile in precedenza contratta tra persone dello stesso sesso non forma oggetto di lacuna normativa” .

Difatti viene ricordato come l’art. 1, comma 26, della L. n. 76 del 2016 preveda espressamente che “la sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso determina lo scioglimento dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. Differentemente il successivo comma 27, nell’ipotesi inversa di rettificazione di sesso che interessa uno dei due coniugi uniti in matrimonio, stabilisce l’automatica instaurazione dell’unione civile tra persone di pari sesso, ove queste abbiano manifestato la volontà di non sciogliere il matrimonio o di non cessarne gli effetti civili.

Ebbene la Consulta, in tema di rettificazione di attribuzione di sesso, ha avuto modo di affermare che l’interpretazione costituzionalmente adeguata della legge n.164 del 1982 consente di escludere il requisito dell’intervento chirurgico di normoconformazione.

 

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La competenza sul mantenimento dei figli residenti all’estero è italiana

Con la sentenza n. 30903, depositata il 19 ottobre 2022, le Sezioni Unite civili hanno risolto in favore della Autorità giudiziaria italiana la questione di giurisdizione, rimessa dalla Cassazione, sulla domanda di determinazione degli obblighi di mantenimento del figlio residente all’estero in un giudizio di separazione, escludendo che per tali materie operi il criterio determinativo cogente della residenza abituale del minore (Cass. Civ., SS.UU., sent. 19 ottobre 2022, n. 30903).

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Art. 1227 c.c.: può essere attivato anche dalla condotta di chi dovrebbe sorvegliare il minore

Nel 2018, la Cassazione, con le ordinanze “gemelle” n. 248024812482 e 2483, stabilì una regola importante in tema di responsabilità da cose in custodia riguardante la condotta del danneggiato. Come noto, la prova liberatoria prevista dall’art. 2051 c.c. è il caso fortuito. Il fortuito può essere determinato, secondo queste ordinanze, che davano peraltro continuità a un indirizzo giurisprudenziale tutt’altro che minoritario, anche dalla condotta del danneggiato.

Infatti la condotta del danneggiato può avere incidenza causale sull'evento dannoso, valutabile ai sensi dell'art. 1227, comma 1, c.c. Quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l'adozione da parte del danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l'efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno; fino al caso estremo, in cui la sua condotta può assurgere a causa esclusiva del danno.

Il caso in esame è proprio un caso estremo. Un bambino cade, malamente, a causa della presenza di una buca nel marciapiede che si trova vicino alla casa dei nonni, alla cui sorveglianza era stato affidato. I giudici di merito respingono la richiesta risarcitoria, e così anche la Cassazione (cfr. Cass. civ., sez. VI-3, ord. 11/11/2022, n. 33390): la caduta era avvenuta in un luogo ben noto al bambino, in ora serale ma ancora con ottima visibilità; lo stato di sconnessione del marciapiede era noto sia ai genitori che al minore, oltre che, ovviamente, ai nonni; gli effetti della caduta facevano capire che il bambino stesse correndo, il che avrebbe obbligato il nonno a un'adeguata sorveglianza.

In conclusione, il comportamento colposo di chi era tenuto alla sorveglianza era tale da interrompere il nesso di causalità tra la cosa e il danno. La conclusione è condivisibile: il minore, per definizione, è irresponsabile, in tutti i sensi. Pertanto non è possibile pretendere da un bambino una condotta avveduta e prudente, che non è semplicemente in grado di porre in essere. Ma se c’è un adulto che lo sorveglia, il discorso cambia: è costui che ha il compito di far tenere al piccolo una condotta adeguata. L’unica stranezza, se vogliamo, del ragionamento del giudice è che mischia elementi rilevanti per la condotta del bambino (la visibilità, la conoscenza dello stato dei luoghi da parte del bambino stesso) ad elementi propri della condotta del nonno (l’inadeguata sorveglianza e il mancato intervento per impedire che il nipote corresse sullo sconnesso). Il “combinato disposto” delle due condotte ha l’effetto di mandare esente il comune da responsabilità.

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ILLEGITIMO IL DECRETO DEL MINISTERO DELL'INTERNO 31 GENNAIO 2019

Il Tribunale di Roma ha stabilito che il decreto del Ministero dell’Interno del 31 gennaio 2019 in materia di carte di identità viola un “innumerevole elenco di principi e diritti di fonte costituzionale ed internazionale”, è viziato da un evidente eccesso di potere e pertanto che vada disapplicato (Trib. Roma, sez. XVIII civ., ord. 9 settembre 2022).


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violato l’art. 8 CEDU

La Corte europea dei diritti dell’uomo ha riconosciuto all’unanimità la violazione da parte dell’Italia dell’art. 8 CEDU in danno di una madre e dei suoi due figli: nei confronti di questi ultimi, per essere venuta meno ai doveri di protezione e assistenza in occasione degli incontri con il padre, tossicodipendente e alcolizzato, accusato di maltrattamenti e minacce durante gli incontri stessi; nei confronti della madre, per aver assunto la decisione di sospendere la sua autorità genitoriale per l’opposizione mostrata agli incontri tra il padre e i bambini, in ragione di fatti di violenza domestica e della mancanza di sicurezza durante gli incontri. La Corte ha riconosciuto che gli incontri hanno turbato l’equilibrio psicologico dei bambini e sono stati disposti senza considerare il loro interesse superiore; quanto alla decisione di sospendere la responsabilità genitoriale della madre, la Corte ha ritenuto che le autorità nazionali non abbiano esaminato con cura la situazione della donna e le ragioni della sua opposizione agli incontri tra i bambini e il padre (Corte EDU, sez. I, 10 novembre 2022, n. 25426/20).

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RIDUZIONE ASSEGNO DIVORZILE E ONERE DELLA PROVA

Secondo quanto affermato da un’ordinanza del luglio scorso della Suprema Corte, ai fini della riduzione dell’assegno divorzile, il coniuge onerato deve dare prova che il beneficiario abbia concrete possibilità di lavorare. Non basta, quindi, l’ipotetica ed astratta possibilità lavorativa o di impiego del coniuge beneficiario dell’assegno, ma occorre dare la prova che il beneficiario abbia l’effettiva e concreta possibilità di esercitare un’attività lavorativa confacente alle proprie attitudini (Cass. Civ., sez. VI, ord. 20 luglio 2022, n. 22758).

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in vigore in Lombardia il regolamento delle attività di condhotel

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NESSO CASUALE PROVATO DAL PAZIENTE

In tema di responsabilità contrattuale per inadempimento delle obbligazioni professionali (tra le quali si collocano quelle di responsabilità medica, anteriormente alla 


L. n. 24 del 2017), è onere del creditore-danneggiato provare, oltre alla fonte del suo credito (contratto o contatto sociale), il nesso di causalità, secondo il criterio del "più probabile che non", tra la condotta del professionista e il danno lamentato, mentre spetta al professionista dimostrare, in alternativa all'esatto adempimento, l'impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, provando che l'inesatto adempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile, da intendersi nel senso oggettivo della sua inimputabilità all'agente. È quanto si legge nell’ordinanza n. 5808 del 27 febbraio 2023 della Cassazione.

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ADOZIONE - RECISIONE CON LA FAMIGLIA DI ORIGINE

Cass. civ., Sez. I, Ordinanza, 05/01/2023, n. 230

Deve dichiararsi rilevante e non manifestamente infondata in riferimento agli artt. 2330 e 117 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell'art. 27, c. 3 L. n. 184 del 1983 nella parte in cui stabilisce che con l'adozione legittimante derivante dall'accertamento dello stato di abbandono e dalla dichiarazione di adottabilità cessano irreversibilmente i rapporti dell'adottato (e conseguentemente del minore adottabile per effetto della dichiarazione di adottabilità) con la famiglia di origine estesa ai parenti entro il quarto grado (art. 10 c.4 n. 184 del 1983), escludendo la valutazione in concreto del preminente interesse del minore a non reciderli secondo le modalità stabilite in via giudiziale.

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circolazione per " stato di necessità " e ritiro patente

Anche se pare tratta dalla trama di un film comico, questa situazione si è verificata sul serio. Un automobilista, a causa di una positività all’alcooltest, aveva subito la sanzione deritiro della patente. Qualche mese dopo, tuttavia, viene sorpreso alla guida di un autoveicolo.

La giustificazione addotta era di essersi dovuto mettere necessariamente alla guida del suo veicolo dopo essere stato contattato dalla madre della sua compagna, in stato di gravidanza e colta da improvvisi dolori al basso ventre, allo scopo di raggiungere la suddetta e accompagnarla al più vicino Pronto soccorso. Chiedeva, pertanto, il riconoscimento dello stato di necessità, almeno putativo, atteso che il ricorrente si era rappresentato una situazione di pericolo grave alla salute della donna e del nascituro, in ragione di precedenti minacce di aborto che avevano interessato la compagna.

La storia è accattivante, tuttavia la Corte Cass. civ., sez. VI-2, ord. 17/10/2022, n. 30426 rileva che: non era stata depositata alcuna documentazione idonea a dimostrare che il giorno in cui è stata commessa l'infrazione fosse effettivamente in atto la situazione di pericolo prospettata; la documentazione medica attestante le pregresse minacce di aborto risaliva a oltre un anno prima; non vi era alcuna prova di una nuova e concreta minaccia di aborto sussistente anche nel periodo successivo; non era nemmeno dimostrato, a quanto è dato capire, che la compagna del ricorrente fosse effettivamente incinta. Di conseguenza, la patente veniva definitivamente revocata.

Non siamo al livello di quei film comici, in cui la donna si siede vicino al guidatore con un cuscino sotto la camicia per simulare la gravidanza e ottenere la benevolenza della polizia, ma poco ci manca.

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IL CONDOMINIO NON PUO' OSTACOLARE I LAVORI. SUPERBONUS, BONUS FACCIATE E PONTEGGI.

In caso di esecuzione di lavori condominiali, che rientrato nell’agevolazione fiscale del superbonus e bonus facciate, il singolo condomino è obbligato a consentire l'accesso e il passaggio nella sua proprietà per l'esecuzione dei lavori deliberati all'unanimità dall'assemblea condominiale e, in particolare, il montaggio deponteggi sulla rampa carrabile di cui era proprietario. Nel caso di specie, nell’ambito di un equo contemperamento di esigenze, il giudice ha statuito che i ponteggi dovranno essere installati in maniera tale da consentire il passaggio del veicolo del condomino e per il tempo strettamente necessario all'esecuzione dei lavori di rifacimento della facciata laterale prospiciente la suddetta rampa così dnon arrecare un eccessivo e grave pregiudizio allo stesso (Tribunale di Firenze, ordinanza, 19 settembre 2022).

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LE RIPRESE CASALINGHE NON DEVONO INTERFERIRE CON IL VICINATO

Chi vuole posizionare un impianto di videosorveglianza domestico, può farlo liberamente ma il cono di ripresa  delle telecamere deve puntare esclusivamente sulle aree di stretta pertinenza e non devono interferire  con la vita privata di altri soggetti compresi i vicini di casa. Le riprese devono essere no rilegate all'abitazione evitando zone comuni, condominiali, parcheggi, strade pubbliche e vie, e devono anche evitare di riprendere finestre, giardini, terrazzi e porte di altre persone. Questo è quanto espresso dal Garante per la protezione dei dati personali con il parere n. 48950 rilasciato il 16 settembre 2022.

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LA CONVIVENZA STABILE E' SUSCETTIBILE DI COMPORTARE LA CESSAZIONE DELL'OBBLIGO DI CORRESPONSIONE DELL'ASSEGNDO DI MANTENIMENTO

Cass. civ., Sez. I, Ordinanza, 10/06/2022, n. 18862

La convivenza stabile e continuativa, intrapresa con altra persona, è suscettibile di comportare la cessazione o l'interruzione dell'obbligo di corresponsione dell'assegno di mantenimento che grava sull'altro, dovendosi presumere che le disponibilità economiche di ciascuno dei conviventi more uxorio siano messe in comune nell'interesse del nuovo nucleo familiare; resta salva, peraltro, la facoltà del coniuge richiedente l'assegno di provare che la convivenza di fatto non influisce in senso migliorativo sulle proprie condizioni economiche e che i propri redditi rimangono inadeguati.

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La componente compensativa dell'assegno divorzile deve essere dedotta dalla parte che faccia valere il diritto all'assegno

 Cass. Civ., Sez. VI - 1, ord., 8 febbraio 2023, n. 3776

Può venir meno, in conseguenza dell'instaurarsi di una stabile convivenza di fatto tra l'ex coniuge ed altra persona, il diritto alla componente assistenziale dell'assegno di divorzio, ma non anche necessariamente della componente compensativo-perequativa dello stesso, che potrà comportare il riconoscimento dell'assegno laddove alla mancanza di redditi adeguati si associ la prova dell'apporto alla realizzazione del patrimonio familiare e personale dell'ex coniuge.
La sussistenza della componente compensativa dell'assegno divorzile deve, tuttavia, essere specificamente dedotta dalla parte che faccia valere il proprio diritto all'assegno nonostante l'instaurazione di una stabile convivenza "more uxorio" con un terzo.

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La cremazione, se non autorizzata dai parenti, è atto lesivo del diritto di culto

Cass. Civ., Sez. III, Sent., 10 gennaio 2023, n.370

Condizioni per il sorgere del diritto al mantenimento in favore del coniuge cui non sia addebitabile la separazione sono la non titolarità di adeguati redditi propri, ossia di redditi che gli permettano di mantenere un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, e la sussistenza di una disparità economica tra le parti.

Nell'ambito dello svolgimento di siffatto accertamento è necessario non confondere il tenore di vita con la fruizione diretta di particolari beni.

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ILLEGITTIMO IL DECRETO DEL MINISTERO DELL'INTERNO DEL 31 GENNAIO 2019

illegittimo e va disapplicato il decreto del Ministero dell’Interno che obbliga alla dicitura “padre” e “madre” sulle carte di identità per i minorenni

Il Tribunale di Roma ha stabilito che il decreto del Ministero dell’Interno del 31 gennaio 2019 in materia di carte di identità viola un “innumerevole elenco di principi e diritti di fonte costituzionale ed internazionale”, è viziato da un evidente eccesso di potere e pertanto che vada disapplicato (Trib. Roma, sez. XVIII civ., ord. 9 settembre 2022).

Al decreto del Ministero dell'interno del 31 gennaio 2019, così come a quello del 23 dicembre 2015 da esso modificato, la legge assegnava la limitata funzione di definire le caratteristiche tecniche, le modalità di produzione, di emissione e di rilascio della carta d'identità elettronica. In nessun modo l'attribuzione di una tale limitata funzione può però legittimare l'imposizione di modalità di elaborazione del software dedicato all'emissione delle carte di identità, tali da incidere - mediante l'escamotage di una istruzione apparentemente tecnica - su aspetti coperti da norme di grado costituzionale primario, quali il diritto al rispetto della vita privata e familiare e il diritto alla dignità umana. (Nella specie, il Tribunale imponeva al Ministero dell'Interno e per esso al Sindaco di Roma, quale Ufficiale di governo, di indicare - apportando al software e/o all'hardware predisposto per la richiesta, la compilazione, l'emissione e la stampa delle carte di identità elettroniche le modifiche che si rendessero all'uopo necessarie - le qualifiche "neutre" di "genitore" in corrispondenza dei nomi delle due ricorrenti, sulla C.I.E. della figlia minore.)

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No all’integrazione dell’assegno per la perdita dei benefit

Cass. civ., sez. I, ord., 13 gennaio 2023, n.952

Condizioni per il sorgere del diritto al mantenimento in favore del coniuge cui non sia addebitabile la separazione sono la non titolarità di adeguati redditi propri, ossia di redditi che gli permettano di mantenere un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, e la sussistenza di una disparità economica tra le parti.

Nell'ambito dello svolgimento di siffatto accertamento è necessario non confondere il tenore di vita con la fruizione diretta di particolari beni.

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REVOCA ASSEGNO SEPARAZIONE O DIVORZIO, QUANDO E' POSSIBILE RICHIEDERNE LA RESTUITUZIONE

Cass. civ., Sez. I, 11 gennaio 2023, n.4777

solo se l'assegno non era in origine dovuto. 

La restituzione non sarà possibile quando la revoca ( o la modifica ) avvenga in ragione di fatti sopravvenuti.

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IMPUGNABILITA' PROVVEDIMENTI DE POTESTATE PROVVISORI SOLO PER PROVVEDIMENTI CHE INCIDANO IN MODO TENDENZIALMENTE PERMENENTE SUI DIRITTI DEI SOGGETTI IMPLICATI E SULLA VITA DEL MINORE

sulla impugnabilità dei provvedimenti de potestate provvisori. Corte d'Appello di Milano, 9 febbraio 2023

nei casi in cui il provvedimento, lungi dal definire in giudizio, abbia natura strumentale, ovvero risulti finalizzato all'adozione di un futuro provvedimento definitivo, e sia deputato unicamente a neutralizzare, in vista di detta decisione, possibili situazioni pregiudizievoli, tali da vanificare o comprimere l'utilità e la proficuità della decisione finale, l'intervento del giudice di secondo grado deve ritenersi inammissibile, in quanto rischierebbe di travolgere e pregiudicare l'attività istruttoria tuttora in corso dinanzi al TribunaleAi fini di valutare l’ammissibilità del rimedio giurisdizionale avverso i provvedimenti sulla responsabilità genitoriale, occorre verificare se gli stessi  abbiano o meno carattere decisorio, nel senso di incidere con efficacia di giudicato su situazioni soggettive di natura sostanziale. L'impugnabilità è predicabile solo per quei provvedimenti che incidano in modo almeno tendenzialmente permanente sui diritti dei soggetti implicati e sulla vita del minore.


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MODELLO DI CONVENZIONE DI NEGOZIAZIONE ASSISTITA IN MATERIA DI FAMIGLIA

Il Consiglio Nazionale Forense ha approvato nella seduta amministrativa del 24 febbraio 2023 i nuovi modelli, per la conclusione delle convenzioni di negoziazione assistita, come previsto dal comma 7-bis dell'art.2 del decreto legge 132 del 2014 per cui " Salvo diverso accordo, la convenzione di negoziazione assistita è conclusa mediante utilizzo del modello elaborato dal Consiglio nazionale forense in conformità alle disposizioni del presente capo".

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FAMIGLIA DI FATTO

FAMIGLIA DI FATTO E PROTEZIONE COMPLEMENTARE. TRIBUNALE DI BOLOGNA, 2 DICEMBRE 2022

Quanto alla nozione di vita familiare, la Corte Edu le ha conferito un significato più ampio di quello tradizionale, attribuendo agli stati contraenti la facoltà di differenziare, in relazione ai diversi modelli della stessa, le varie forme di tutela, ritenendo tra gli altri l'applicabilità dell'art.8 in presenza di un legame familiare anche solo di fatto, e che anche una vita familiare progettata non debba essere per ciò solo esclusa dal suo ambito di applicazione.

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L'USO DELLA VIOLENZA PER FINI EDUCATIVI NON E' MAI CONSENTITO

Cass. Pen., Sez. VI, sent. 12 dicembre 2022 n. 46924

Esula dal perimetro applicativo della fattispecie incriminatrice dell'abuso di mezzi di correzione o di disciplina in ambito scolastico qualunque forma di violenza fisica o psichica, ancorché sostenuta da "animus corrigendi".
L'elemento differenziale tra il reato di abuso dei mezzi di correzione e quello di maltrattamenti non può individuarsi nel grado di intensità delle condotte violente tenute dall'agente, in quanto l'uso della violenza per fini correttivi o educativi non è mai consentito.

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ASCOLTO DEL MINORE

Cass. civ., Sez. I, Ordinanza, 07/03/2023, n. 6802

In tema di provvedimenti in ordine alla convivenza dei figli con uno dei genitori, l'audizione del minore infradodicenne capace di discernimento costituisce adempimento previsto a pena di nullità, a tutela dei principi del contraddittorio e del giusto processo, in relazione al quale incombe sul giudice che ritenga di ometterlo un obbligo di specifica motivazione, non solo se ritenga il minore infradodicenne incapace di discernimento ovvero l'esame manifestamente superfluo o in contrasto con l'interesse del minore, ma anche qualora opti, in luogo dell'ascolto diretto, per quello effettuato nel corso di indagini peritali o demandato ad un esperto al di fuori di detto incarico, atteso che solo l'ascolto diretto del giudice dà spazio alla partecipazione attiva del minore al procedimento che lo riguarda. 

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ORIENTAMENTO SESSUALE

La giusta causa di licenziamento ex art. 2119 cod. civ. - posta a fondamento del provvedimento di destituzione, unitamente alla previsione regolamentare - integra una clausola generale, che richiede di essere concretizzata dall'interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l'accertamento della ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici e giuridici. La sussunzione della fattispecie concreta nella clausola elastica della giusta causa secondo "standards" conformi ai valori dell'ordinamento, che trovino conferma nella realtà sociale, è dunque sindacabile in sede di legittimità con riguardo alla pertinenza e non coerenza del giudizio operato, quali specificazioni del parametro normativo avente natura giuridica e del conseguente controllo nomofilattico affidato alla Corte di cassazione.

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IMPUGNAZIONE DELLA DONAZIONE FITTIZIA TRA CONIUGI

Durante il matrimonio, anche in regime di separazione dei beni, i coniugi possono decidere di spostare la titolarità di un bene al partner per sfuggire da eventuali creditori. Secondo quanto riportato all’interno del nostro ordinamento non vi sarebbe alcuna limitazione alla possibilità di effettuare una donazione al coniuge, con il semplice spostamento della titolarità del bene qualora la coppia abbia optato per il regime della separazione dei beni. In questo modo il bene viene rapidamente sottratto dalle mani del creditore che non potrebbe più soddisfarsi su di esso con il pignoramento. La disciplina in materia si presenta tale a partire dal 1973, anno di abrogazione dell’articolo 781 del Codice civile da parte della Corte Costituzionale, che vietava le donazioni tra i coniugi.
Ad oggi, quindi, i coniugi possono intestare i beni l’uno all’altro, sia che essi abbiano scelto la separazione dei beni che la comunione, e anche limitatamente ad alcuni beni determinati.
Si tratta di beni di cui il coniuge era proprietario prima del matrimonio, quindi non rientranti nella comunione, beni ricevuti dopo il matrimonio in donazione o testamento, beni personali per l’esercizio dell’attività lavorativa, risarcimenti del danno ricevuti o beni acquistati con il ricavato dalla vendita dei già menzionati beni.

Sul tema si pone, però, il problema del ricorso all’intestazione fittizia all’altro coniuge simulando la stipula di un contratto senza la realizzazione di alcun effetto, dal momento che il proprietario rimane a tutti gli effetti l’amministratore del bene.
Anche se la legge consente di compiere questo atto, tutela coloro che ne potrebbero essere danneggiati, quali creditori o figli di prime nozze, con la sua impugnazione nel termine massimo di dieci anni dalla stipula.

Nell’ipotesi in cui il coniuge donante abbia cambiato idea e voglia far valere l'azione di simulazione, revocando la donazione, ha l’onere di dimostrare con prova scritta l’avvenuto accordo.

I controinteressati, invece, possono fornire la prova con qualsiasi mezzo, appellandosi al modo in cui è stato gestito il bene e verificando che l’uso sia rimasto inalterato anche dopo la donazione.

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DANNO NON PATRIMONIALE

CORTE DI CASSAZIONE CIVILE SEZ. VI, ORD. 16 NOVEMBRE 2022, N. 33797

il danno non patrimoniale, quando ricorrono le ipotesi espressamente previste dalla legge, o sia stato leso in modo grave un diritto della persona tutelato dalla Costituzione, è risarcibile anche quando scaturisca da un inadempimento contrattuale ( Nel caso di specie la S.C. ha confermato la decisione d'appello che aveva ritenuto fondata la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale del successore testamentario nei confronti dell'associazione donataria evidenziando che la mancata realizzazione dello scopo filantropico perseguito dalla donante con la donazione di un immobile di pregio aveva arrecato a questa una delusione ed un patimento, pregiudizio concrettizatosi in sofferenze morali e psichiche, da qualificare in termini di danno morale soggettivo)

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SUCCESSIONE TESTAMENTARIA

CORTE DI CASSAZIONE CIVILE SEZ. II, ORD. 2 DICEMBRE 2022, N. 35461

Se il de cuius ha fatto più donazioni o disposizioni testamentarie, in prima linea sono soggette a riduzione, fino a esaurimento dei beni che ne formano oggetto, le disposizioni testamentarie; successivamente si passa alle donazioni ( art. 555, comma 2, c.c.). Se le disposizioni testamentarie sono più di una la loro riduzione avviene proporzionalmente senza distinguere fra eredi e legatari ( art. 558 c.c. ). In caso di più donazioni queste non si riducono proporzionalmente, come le disposizioni testamentarie ( art. 558 c.c. ), ma cominciando dall'ultima e risalendo via via alle anteriori ( art 559). Le donazioni coeve, per le quali non sia possibile stabilire quale di esse sia anteriore rispetto alle altre, debbono essere ridotte in proporzione al loro valore, come le disposizioni testamentarie.

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REVOCA DEL TESTAMENTO PER SOPRAVVENIENZA DI FIGLI

In tema di revocazione del testamento per sopravvenienza dei figli, la disposizione di cui al comma 1 dell’art. 687 c.c. ha un fondamento più propriamente oggettivo, riconducibile alla modificazione della situazione familiare del disponente rispetto a quella esistente allorquando lo stesso aveva disposto dei suoi beni, con ciò intendendosi - appunto- non già la sopravvenienza di ulteriore prole o discendenza, ma bensì la sopravvenienza di una discendenza prima del tutto inesistente. ( c.c., art 687 )

In tal senso si richiamano gli orientamenti espressi dalla Cass. civ., 21 maggio 2019, n.13680.

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STIPULA DI ACCORDI PATRIMONIALI: VA RICONOSCIUTA L'APPLICABILITA' DELL'ESENZIONE FISCALE NELLA SEPARAZIONE PERSONALE DEI CONIUGI

Con ordinanza n. 26363 depositata il 7 settembre 2022, la Corte di Cassazione ha specificato che ove nell'ambito di una separazione personale sia stato concluso un accordo patrimoniale  tra il contribuente e la coniuge che prevede la cessione di quote societarie, astrattamente generatrice di plusvalenza assoggettabile a tassazione separata, va riconosciuta l'applicabilità dell'esenzione prevista dall'art. 19 della L. n. 74 del 1987, poiché essa si riferisce a tutti gli atti e a tutte convenzioni che i coniugi pongono in essere nell'intento di regolare, sotto il controllo del giudice, i loro rapporti patrimoniali  conseguenti allo scioglimento del matrimonio o alla separazione personale, ivi compresi gli accordi  che contengono il riconoscimento o il trasferimento della proprietà esclusiva di beni mobili ed immobili all'uno o all'altro coniuge (Cass. Civ., sez. VI – 5, ord. 7 settembre 2022, n. 26363).

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LIBERO IL DEBITORE CHE RESTITUISCA IL PRESTITO NELLE MANI DI UNO SOLO DEGLI EX CONIUGI

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la decisione n. 23819/2022, secondo cui la ricezione da parte di uno solo dei coniugi di una somma di denaro in restituzione di un prestito concesso con beni della comunione costituisce un atto liberatorio ex art. 180 c.c. poiché il pagamento è valido se effettuato anche al singolo componente della comunione legale (Cass. Civ., sez. III, sent. 1° agosto 2022, n. 23819).

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L'IMPORTANZA DELLA FUNZIONE COMPENSATIVA DELL'ASSEGNO DIVORZILE - Cass. Civ., Sez.VI-1, ord., 8 febbraio 2023, n. 3776

Può venir meno, in conseguenza dell'instaurarsi di una stabile convivenza di fatto tra l'ex coniuge ed altra persona, il diritto alla componente assistenziale dell'assegno di divorzio, ma non anche necessariamente della componente compensativo-perequativa dello stesso, che potrà comportare il riconoscimento dell'assegno laddove alla mancanza di redditi adeguati si associ la prova dell'apporto alla realizzazione del patrimonio familiare e personale dell'ex coniuge.
La sussistenza della componente compensativa dell'assegno divorzile deve, tuttavia, essere specificamente dedotta dalla parte che faccia valere il proprio diritto all'assegno nonostante l'instaurazione di una stabile convivenza "more uxorio" con un terzo.

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NOTAIO IN ALTERNATIVA AL GIUDICE TUTELARE

Tra i molteplici effetti della riforma Cartabia, i notai diventano primi attori nei procedimenti di volontaria giurisdizione, in base alla quale ci si potrà rivolgere anche al notaio, in quanto pubblico ufficiale, oltre che al giudice tutelare.

A detta di ciò, con la suddetta riforma, il notaio, in quanto pubblico ufficiale, può autorizzare la stipula degli atti pubblici e delle scritture private autenticate nei quali intervenga un minore, un inabilitato, un interdetto o un soggetto beneficiario della misura  dell’amministrazione di sostegno. Ciò può accadere per esempio nel vendere o acquistare un immobile, accettare una eredità oppure tutte quelle situazioni relative ad atti che hanno ad oggetto beni ereditari.

Nello svolgimento di queste attività il notaio può farsi assistere da consulenti, ed assumere informazioni, “ senza formalità, presso il coniuge, i parenti entro il terzo grado e agli affini entro il secondo del minore o del soggetto sottoposto a misura di protezione “ o nel caso di beni ereditari, “ presso gli altri chiamati e i creditori risultanti dall’inventario, se redatto”

Con tale riforma, le parti potranno scegliere se rivolgersi direttamente all’autorità giudiziaria o al notaio per la stipula dell’atto che richiede un autorizzazione. In questo modo si assiste ad un sistema cd. a doppio binario, finalizzato a snellire i tempi della giustizia.  A favore della scelta notarile,  l’autorizzazione rilasciata dal notaio acquista efficacia dopo 20 giorni dalle comunicazioni al Tribunale e al Pubblico Ministero senza che sia stato proposto reclamo.

 

 

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Accesso difensivo ex L 241/90 alla documentazione patrimoniale, reddituale e finanziaria del coniuge

La recente Pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n.19 del 25/09/2020, ha chiarito che in pendenza del giudizio di separazione o di divorzio, l’accesso alla documentazione, reddituale, patrimoniale e finanziaria dell’altro coniuge deve ritenersi oggettivamente utile al perseguimento del fine di tutela ai sensi degli articoli 22 ss. della legge 241 del 1990.

In tal senso gli art. 22 ss. della Legge n. 241/1990, permettono di richiedere documenti, dati e informazioni detenuti da una Pubblica Amministrazione riguardanti attività di pubblico interesse, purché il soggetto richiedente abbia un interesse diretto, concreto e attuale rispetto al documento stesso.

A tal proposito l’Adunanza Plenaria  è intervenuta, nel caso di specie, dopo che l’Agenzia delle Entrate ha negato alla ricorrente  la richiesta per l’accesso alla documentazione reddituale patrimoniale e finanziaria.

Ebbene l’Adunanza Plenaria ha affermato che le dichiarazioni, le comunicazioni e gli atti acquisiti dall’amministrazione finanziaria, contenenti i dati reddituali, patrimoniali e finanziari, e inseriti nelle banche dati dell’anagrafe tributaria compreso anche l’archivio dei rapporti finanziari, costituiscono documenti amministrativi ai fini dell’accesso documentale difensivo ai sensi dell’articolo 22 e ss. della legge 241 del 1990.

Tuttavia, l’accesso agli atti è consentito solo a particolari condizioni.

Innanzitutto è necessaria un’esigenza di tutela concreta, ossia l’onere di dimostrare che il documento al quale si intende accedere è necessario e indispensabile.  Con particolare riferimento, all’art 24, comma 7, L. n. 241/1990, stabilisce che “ deve comunque essere garantito ai richidenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giudici”. Si evince che il principio di tutela prevalga rispetto a quello della riservatezza, sempre prendendo in considerazione e ponendo una particolare attenzione ai dati che possono essere sensibili, ossia dati personali idonei a rilevare lo stato di salute del soggetto interessato.

La L. n. 241/1990, ha inoltre evidenziato che non rileva la circostanza  che la questione dell’accesso agli atti sia stata sollevata anche in sede di giudizio civile.

Gli eventuali strumenti processuali azionati nel processo civile, ai fini dell’accesso degli atti, non incidono sull’ammissibilità di quelli contemplati dalla disicplina dell’accesso di cui alla L n. 241/1990 e tutelati per il tramite del processo amministrativo.

 

In materia di accesso agli atti amministrativi, l’ordinamento amministrativo ha infatti posto delle norme sostanziali, che assicurano, a determinate condizioni, l’accessibilità degli atti amministrativi, affidnado la tutela al giudice amministrativo, prevedendo il rito ad hoc di cui all’art. 116 c.p.a. ai sensi del quale “Contro le determinazioni e contro il silenzio sulle istanze di accesso ai documenti amministrativi, nonché per la tutela del diritto di accesso civico connessa all'inadempimento degli obblighi di trasparenza il ricorso è proposto entro trenta giorni dalla conoscenza della determinazione impugnata o dalla formazione del silenzio, mediante notificazione all'amministrazione e ad almeno un controinteressato. Si applica l'articolo 49. Il termine per la proposizione di ricorsi incidentali o motivi aggiunti è di trenta giorni.”

 

Peraltro, la recentissima pronuncia del Cons. Stato, Sez. II, Sent. 28.03.2023 n. 3160 ha specificato che la qualificazione del carattere difensivo dell’istanza di accesso, stante la concezione ampia del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., postula che il diritto all’accesso non possa essere ostacolato ogni qualvolta sussista la possibilità che dall’ostensione derivi una qualche utilità per la tutela di situazioni soggettive, dovendosi comunque verificare in astratto, e non in concreto, la potenziale utilità.

Sempre una recente sentenza del Consiglio di Stato ha chiarito che le finalità dell’accesso devono essere dedotte e rappresentate dalla parte in modo puntuale e specifico nell’istanza si ostensione e suffragate con idonea documentazione, in modo da consentire all’Amministrazione il vaglio del nesso di strumentalità necessaria tra la documentazione richiesta con la situazione finale controversa. (Cons. Stato Sez. VI, 12.01.2023, n. 413).

Deve dunque escludersi che sia sufficiente un generico riferimento a non meglio definite esigente probatorie e difensive (Cons. Stato, Ad. Plen., 18.03.2021 n. 4).

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Non c’è prova dello stalking se le vittime non hanno paura e denunciano dopo anni

Avv. Lorenzo Mariani

Con Sentenza n. 367 del 30.01.2023-13.02.2023, il Tribunale di Roma, sez. GUP, ha disposto il non luogo a procedere perché il fatto non sussiste nei confronti di un uomo, imputato per atti persecutori continuati (ex art. 81 cpv e 612bis c. 1 e 2 cp) nei confronti dell’ex compagna e del suo attuale partner.

Entrambi avevano denunciato l’uomo sul finire del 2020, dopo che questi aveva depositato alcune foto nel giudizio civile di modifica della regolamentazione dei figli minori avuti con la querelante. Le parti offese consideravano quegli scatti, che ritraevano l’automobile del nuovo compagno di lei, come prova di un pedinamento. Inoltre, asserivano che già nel 2014 l’imputato avesse minacciato l’ex compagna di tenerla sotto controllo, di cacciarla dalla casa familiare e di sottrarle i figli perché non accettava la sua nuova relazione.

Il Giudice per l’Udienza Preliminare proscioglieva l’imputato, assistito dal nostro Studio, in quanto riteneva non provato nessuno degli elementi del reato di atti persecutori ex art. 612bis cp.

E infatti, il giudice ricordava che il reato in questione è integrato da condotte che abbiano ingenerato nella vittima un perdurante e grave stato di ansia o di paura o un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto oppure l’abbiano costretta ad alterare le proprie abitudini di vita.

Proprio i querelanti, escussi a sommarie informazioni testimoniali, avevano dichiarato di non temere per la propria vita e avevano semplicemente lamentato in modo apodittico delle “ripercussioni” o “pressioni” psicologiche, senza indicare esempi concreti. Durante l’ascolto, l’ex compagna dell’imputato aveva anche declinato l’offerta del supporto di uno psicologo.          
Ciò portava il Tribunale ad escludere un primo elemento essenziale del reato.

Ancora, il giudice riteneva contraddittorie e non provate le allegazioni sulle minacce verbali avvenute nel 2014.              
Soprattutto, non poteva non destare dubbi il fatto che le persone offese avessero denunciato l’uomo per fatti risalenti a sette anni prima e, in particolare, che la sua compagna avesse introdotto il giudizio di regolamentazione dei minori ormai da diversi anni senza mai fare menzione di tali condotte, per poi decidere di querelare solo a fine 2020.

La sentenza affronta molte questioni interessanti, come il concetto di “stalking giudiziario”, qui parimenti escluso, e la portata del criterio della “ragionevole previsione di condanna” previsto dal nuovo comma 3 dell’art. 425 cpp come modificato dalla cd. Riforma Cartabia, oltre a ricostruire approfonditamente la struttura del reato di atti persecutori ex art. 612bis cp. 

Trib. Roma, Sez. GUP, 30.01.2023-13.02.2023, n. 367 (testo integrale)

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Cassazione: «Se l'ex rifiuta un lavoro, addio all'assegno di mantenimento»

Secondo la recente sentenza della Cassazione n. 2684/2023, rifiutare una proposta lavorativa seria e stabile in assenza di una valida giustificazione potrebbe compromettere per l’ex coniuge la possibilità di ottenere l’assegno di divorzio. La motivazione risiede nella violazione, che in tal modo si andrebbe a realizzare, dei «doveri postconiugali», che prevedono i principi di «autodeterminazione e autoresponsabilità» di entrambi i componenti della ex coppia, imponendo agli stessi di rendersi autonomi e autosufficienti rispetto all’ex coniuge.

Nello specifico, la sentenza riguarda una ex coppia di Ancona: l’assegno divorzile inizialmente previsto era di 48mila euro annui. L’ex marito aveva chiesto una revoca del mantenimento, sottolineando non solo che la donna avesse da tempo una nuova relazione stabile, ma anche che avesse rifiutato una proposta lavorativa seria - che prevedeva un reddito da 32mila euro annui - oltre alla possibilità di una polizza assicurativa a suo nome per ottenere una pensione integrativa. Per i giudici d’appello, però, la stabilità della nuova relazione non sarebbe stata adeguatamente dimostrata, mentre l’offerta lavorativa è stata considerata «strumentale» a ottenere una riduzione, oppure la revoca, dell’assegno di mantenimento, visto che l’accordo di divorzio prevedeva la possibilità di ricalcolare l’importo se la donna avesse trovato un impiego part-time con uno stipendio mensile superiore ai mille euro.

La Cassazione ha invece dato ragione all’ex marito, annullando la sentenza di secondo grado. Non per quanto riguarda la nuova relazione della donna però, che infatti non è stata considerata un motivo fondato di ricorso statuendo che «In tema di assegno divorzile in favore dell’ex coniuge economicamente più debole, questi, se privo anche nell’attualità di mezzi adeguati e se impossibilitato a procurarseli per motivi oggettivi, conserva il diritto al riconoscimento dell’assegno, in funzione esclusivamente compensativa».

È stato invece ritenuto «fondato» il motivo di ricorso che riguarda il rifiuto dell’offerta lavorativa ricevuta dalla donna, insieme alla polizza assicurativa. Considerate la serietà dell’offerta e la congruità dell’impiego rispetto alla formazione della donna, la Corte ha ritenuto che la ex moglie, rifiutando la proposta, avrebbe violato «i doveri postconiugali». Una nuova modifica ai principi che regolano gli assegni di divorzio, che interviene a poca distanza dall’altra recente sentenza secondo cui l’assegno di mantenimento dopo il divorzio può essere revocato a chi effettua «spese voluttuarie». Oppure a chi invece di lavorare si dedica allo svago, fa acquisti non necessari, e non si impegna nel cercare un’occupazione.

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La Cassazione: «I bambini non devono essere costretti a vedere i nonni»

La Cassazione civile, sez. I, con la sentenza n. 288131/2023 statuisce che il diritto dei nonni a frequentare i nipoti minorenni «non può prevalere sull’interesse dei bambini che manifestano contrarietà a tale relazione». Nonni e zii devono appianare i contrasti e le tensioni con i genitori del minore se vogliono esercitare il loro diritto, non incondizionato, a vedere i nipoti. Non sono infatti i minori a doversi sacrificare per il tornaconto degli ascendenti, in nome di un ipotetico pregiudizio che potrebbe derivare dall’assenza di queste figure nella loro crescita. Partendo da questi presupposti, la Cassazione, accoglie il ricorso di una coppia di genitori, teso ad evitare gli incontri, non graditi dai loro figli minori con i nonni e uno zio paterno, visti gli attriti che avevano addirittura portato un giudice a prescrivere alla nonna paterna l’assistenza di uno psichiatra a causa dell’elevata conflittualità (provvedimento poi revocato). La Suprema corte fa come principio cardine per dirimere la controversia quello dell’interesse superiore del minore, che prevale sia sull’interesse dei genitori che di altri familiari.

Per la Suprema corte infatti, è fuor di dubbio che ciascun minore ha un rilevante interesse a fruire di un legame, relazionale ed affettivo, con i propri familiari. Relazioni che, normalmente, funzionano secondo linee armoniche e spontanee. Ci sono però i casi particolari in cui il risultato di rapporti, d’abitudine tranquilli, generano «situazioni limite che esigono l’intervento giudiziale, quando non sia sufficiente il buon senso a far superare le frizioni».

Secondo la Cassazione non ci può essere infatti alcuna «imposizione "manu militari" di una relazione sgradita e non voluta» soprattutto se si tratta di ragazzi capaci «di discernimento» o che abbiano compiuto 12 anni. Il giudice evidenzia infatti che l’articolo 317-bis del Codice civile, nel riconoscere agli ascendenti un vero e proprio diritto a mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni, non ha un carattere incondizionato «ma ne subordina l’esercizio e la tutela, a fronte di contestazioni o comportamenti ostativi di uno o entrambi i genitori, a una valutazione del giudice avente di mira l‘ “esclusivo interesse del minore”». L’obiettivo è dunque la «realizzazione di un progetto educativo e formativo, volto ad assicurare un sano ed equilibrato sviluppo della personalità del minore, nell’ambito del quale possa trovare spazio anche un’attiva partecipazione degli ascendenti, quale espressione del loro coinvolgimento nella sfera relazionale ed affettiva del nipote». Un fine che può essere realizzato solo grazie alla buona volontà degli adulti.

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Disaccordo tra genitori su scelte di rilevante importanza per i figli: educazione, residenza e salute

Numerose pronunce della Cassazione hanno per oggetto la problematica situazione del contrasto tra coniugi separati su scelte educative e/o di vita importanti relative ai figli minori.

Al riguardo è possibile richiamare l’ordinanza n.21553/2021 con cui la Cassazione, in relazione ad un contrasto dei genitori sorto relativamente alla scelta della scuola, se laica o confessionale, da far frequentare ai propri figli, statuisce che “il contrasto tra genitori (in questo caso separati) va risolto avendo come criterio guida il preminente interesse del minore a una crescita sana ed equilibrata anche quando questo comporti la limitazione, a volte temporanea, di ideali, valori, principi dei genitori pure essi meritevoli di tutela costituzionale.”

Di questo principio la giurisprudenza fa sapiente applicazione anche al di fuori della casistica connessa alla scelta del tipo di scuola da far frequentare ai propri figli. Quest’ultimo acquista rilievo anche nelle questioni relative alle scelte in materia di tutela di salute.

In particolare, la pandemia e la relativa scelta se sottoporre o meno i minori al vaccino anti-Covid, ha generato profondi contrasti all’interno delle famiglie. Una tra le più significative pronunce al riguardo autorizza un padre divorziato “a prestare, senza necessità del consenso materno, l’assenso affinché la figlia possa ricevere vaccinazioni obbligatorie e non, ed effettuare tamponi antigenici e/o molecolari al bisogno”. La lunga e articolata argomentazione della pronuncia in esame, mette in grande evidenza come di fatto la Corte di merito abbia seguito il principio della necessaria priorità dell’interesse del minore aldilà delle convinzioni personali dei genitori.

Infine, occorre richiamare un ultimo caso relativo alla scelta della residenza del minore. Nel caso di genitori separati il problema che si pone è se il genitore collocatario del minore possa autonomamente decidere di cambiare residenza, incidendo inevitabilmente questa sua scelta sulle modalità di esercizio del diritto di visita dell’altro genitore, nonché sulla vita di relazione del minore. Anche in questo caso la corte dava applicazione del principio sopra menzionato statuendo che di fronte a scelte insindacabili, in quanto corrispondenti ad un diritto costituzionalmente garantito, in ordine alla propria residenza compiute da parte dei coniugi separati che però non comportano la perdita dell’idoneità ad essere collocatari dei figli minori, il giudice ha esclusivamente il dovere di valutare se sia più funzionale al preminente interesse dei minori il collocamento presso l’uno o l’altro dei genitori. Il giudice è quindi tenuto a definire la controversia guardando al preminente interesse dei minori ad una crescita sana e ad uno sviluppo armonico della personalità, che si traduce in primis nel mantenere adeguati e costanti rapporti con entrambi i genitori.

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CTU contabile per la madre sospettata di sperperare il mantenimento della figlia

Avv. Lorenzo Mariani 

Il Tribunale di Roma, Sez. I, con Decreto del 10.01.2023, in un procedimento di divorzio giudiziale, ha disposto una CTU contabile sulla situazione patrimoniale e reddituale della resistente, in seguito alle doglianze del ricorrente per cui la donna dissiperebbe l’ingente mantenimento mensile da lui corrisposto per la figlia minore della coppia.

Infatti, l’uomo – difeso dal nostro Studio - allegava che la signora stesse mettendo in pericolo le esigenze della minore: ad esempio aveva rischiato una procedura di sfratto per mancata corresponsione dei canoni di locazione dell’immobile in cui aveva dimorato con la bambina.  
Inoltre, dall’esame dei conti correnti intestati alla resistente, emergeva in modo inequivoco l’utilizzo dell’assegno di mantenimento per la figlia per finalità personali della donna.    
Quest’ultima, peraltro, nonostante l’elevato importo delle somme messe a sua disposizione, si era ripetutamente esposta ad elevato rischio di insolvenza, con annessa segnalazione alla Centrale Rischi e ulteriori costi per interessi e spese legali.

Per tale motivo, oltre all’espletamento di una CTU contabile, l’uomo chiedeva di: “ assumere, ex art. 333 cc, i provvedimenti più idonei per tutelare [la minore] dalle condotte pregiudizievoli della madre, anche con nomina di un curatore speciale con poteri ad acta, stanti gli indebitamenti, lo sperpero delle risorse economiche destinate alla minore, il rifiuto costante della madre di addivenire a un accordo sulla gestione delle stesse, nonché stanti le carenze genitoriali della signora dimostrato dall’andamento scolastico di [minore] nonché la pretesa della signora di decidere unilateralmente sulla vita e le attività di [minore] nonostante la motivata opposizione del padre, come dimostra la vicenda dell’equitazione (…)       
nominare un curatore speciale per la minore, anche con poteri ad acta idonei a intervenire nella gestione delle risorse economiche e in ogni altra questione relativa alla stessa.             
Disporre, ex art. 709 ter c. 2 n. 2 cpc e in via equitativa, un risarcimento a carico della sig.ra [resistente] e in favore di [minore] o, in subordine:             
 - disporre in via equitativa risarcimento ex art. 709 ter c. 2 n. 3 cpc a carico della sig.ra [resistente] e in favore del sig. [ricorrente] con condanna ex art. 614 bis cpc per ogni giorno di inosservanza dei provvedimenti.”

La signora negava invece di avere mai posto in essere comportamenti pregiudizievoli nei confronti della figlia, evidenziando di essersi limitata a non pagare il canone di locazione dell’immobile in cui dimorava con lei quando già aveva preso in locazione un altro appartamento. La donna precisava poi che le somme destinate alla minore (inizialmente contenute al solo importo di € 800,00) erano state destinate interamente alla stessa e che il ricorrente non poteva sindacare le scelte di investimento che la resistente aveva fatto in relazione al proprio assegno di mantenimento.

Il giudice, tenuto conto preliminarmente dell’alta conflittualità tra i genitori anche su questioni di natura educativa, sportiva e sanitaria, nominava un curatore speciale nell’interesse della minore e al fine di garantire l’attuazione dei provvedimenti dettati dal Tribunale.    
Inoltre, disponeva indagini da parte dei Servizi Sociali, così da verificare le condizioni di vita individuali, familiari e sociali della figlia.

Infine, disponeva CTU contabile sulla signora, onde verificare la natura e la qualità delle entrate di pertinenza della stessa e l’utilizzo delle somme a vario titolo incamerate, per i provvedimenti di competenza del Tribunale quanto alla corretta quantificazione dell’assegno di mantenimento per la resistente e per la figlia minore oltre che per ogni altro provvedimento di competenza del giudice in tema di affido della minore.

In particolare, il decreto:

2. DISPONE procedersi a C.T.U. contabile nei confronti della sig.ra [resistente] ai fini della verifica della capacità reddituale, patrimoniale e finanziaria della stessa - in relazione al periodo che va dall’1/01/2019 sino all’attualità – in particolare quanto all’attività dalla stessa svolta, al suo patrimonio e alle entrate a vario titolo alla stessa riconducibili, onde verificarne la natura e la qualità nonché l’utilizzo delle somme da quest’ultima incamerate, specificando, ove possibile, in quale misura e per quali finalità l’assegno versato dal ricorrente per la figlia minore risulti destinato ad esigenze di mantenimento della figlia minore, ordinario o straordinario (tenendo conto del Protocollo di Intesa del Tribunale di Roma del 2014);

3. DELEGA a tal fine il C.T.U. a richiedere informazioni e acquisire documenti presso tutti gli enti pubblici e/o privati e precisamente: Registro delle Imprese, Agenzia delle Entrate e relative  Direzioni Provinciali e Regionali, ACI/PRA, ENAC, Istituti di Credito, Finanziari e Assicurativi, presso i quali la resistente detiene e/o ha detenuto rapporti finanziari con invito a produrre un elenco dettagliato degli stessi e tutti i relativi documenti, nonché alle Società presso le quali la stessa detiene e/o hanno detenuto partecipazioni e/o ricoperto incarichi societari, sia direttamente che per interposta persona fisica e/o giuridica, con invito a produrre le scritture contabili e/o i documenti necessari per la risposta al quesito;

4. AUTORIZZA il C.T.U. a richiedere direttamente alla Guardia di Finanza territorialmente competente ogni altra informazione relativa alla situazione reddituale e patrimoniale della resistente che si renda necessaria ai fini dell’espletamento del proprio incarico; “

Il giudice fissava poi l’udienza di valutazione della CTU in modalità cartolare, ex art. 127 ter cpc, e riservava all’esito la decisione sulle altre domande del ricorrente.

 

Il provvedimento è successivo a quello del 15.12.2021, presente sul nostro sito, con il quale il giudice aveva concesso al ricorrente di accedere alle banche dati degli istituti di credito di cui era cliente l’ex moglie, dopo che l’uomo aveva rappresentato al magistrato delle irregolarità sulla gestione del mantenimento per la figlia, emerse da un’indagine dell’Agenzia delle Entrate.

In quell’occasione, il magistrato aveva anche ammonito ex art. 709 ter cpc la resistente a impiegare il mantenimento della figlia per  le esigenze della stessa.

Tribunale di Roma, Sez. I, 10.01.2023 (testo integrale)

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Sostituzione nella mediazione obbligatoria: per il Tribunale di Roma non è necessaria la procura notarile

Tribunale di Roma, Sez. XVIII, Sent. 02.01.2023, n.62.

"Non è fondata l’eccezione della convenuta di improcedibilità della domanda per mancata comparizione personale dell’attore al procedimento di mediazione, in quanto questi ha conferito procura speciale al suo difensore; il potere della parte di sostituire a sé stesso un terzo soggetto per la partecipazione alla mediazione può essere conferito con una procura speciale sostanziale, con la conseguenza che solo in assenza di tale procura il giudice potrà dichiarare l’improcedibilità del giudizio per non avveramento della condizione prevista nell’art. 5 d.lgs. n. 28/2010."

Per il Tribunale di Roma, quindi, solo l'assenza fisica della procura speciale a sostituire in mediazione comporta la pronuncia di improcedibilità della causa, a nulla rilevando altre circostanze come la mancanza di autenticazione notarile.


L'arresto si inserisce in un ampio contrasto giurisprudenziale sul tema, che vede contrapposti due orientamenti: 

Alcune pronunce di merito hanno ritenuto valida la procura a sostituire in mediazione anche se priva di autenticazione notarile, purché sostanziale e diversa dalla semplice procura alle liti (Tribunale di Torino n. 120/2021; Tribunale di Milano n. 5665/2019, Tribunale di Salerno 14 maggio 2020, Tribunale di Perugia 25.03.2021);

Altre hanno invece dichiarato l'improcedibilità della domanda per la mancanza di tale attestazione (Trib. Roma, 18.05.2022; Trib. Genova, 393/2022)

Entrambi gli indirizzi, paradossalmente, muovono da una sentenza della Cassazione (la n. 8473/19)  la quale ha specificato che il difensore può sostituire la parte in mediazione con procura sostanziale diversa dalla semplice procura alle liti. Proprio per tale motivo, la procura non potrebbe essere autenticata dal difensore stesso.

Di per sé,  la richiamata pronuncia di legittimità non afferma che la procura speciale debba essere autenticata da un notaio o  altro pubblico ufficiale.

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Stepchild adoption e maternità surrogata

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con la sent. n. 38162 depositata in data 30.12.2022 ha statuito che i bambini nati all'estero con maternità surrogata potranno essere riconosciuti in Italia come figli di entrambi i genitori con l'adozione in casi particolari, che richiede il consenso del Giudice. 

Con questa storica sentenza, che farà giurisprudenza, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite sancisce "l'obbligo" per i figli nati con la surrogazione di essere sempre riconosciuti. E ciò però non avverrà con la trascrizione automatica all'anagrafe bensì attraverso l'apertura di un procedimento dinanzi al Tribunale competente per dimostrare l'esistenza di un legame di filiazione tra il minore ed il secondo padre, e cioè quello che non ha legami di sangue. 
Tale decisione è maturata all'interno di un progetto di riforme dal momento che già nel 2021 la Corte di Cassazione aveva chiesto al parlamento di approvare una legge per riconoscere i figli delle coppie gay, oltre che sulla giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani. 
Altro riconoscimento sancito da tale sentenza è la non punibilità delle coppie italiane che fanno ricorso alla maternità surrogata all'estero.
Inoltre, è così sancito il divieto di trascrizione automatica all'anagrafe (che già alcuni comuni italiani stavano attuando); si potrà quindi "riconoscere" un solo genitore mentre l'altro dovrà necessariamente procedere con l'adozione, alla quale però il genitore biologico non potrà opporsi. 
In chiusura, la Corte ha specificato che tale limitazione non è dovuta per ragioni di orientamento sessuale ma che anzi, è un'ulteriore forma di tutela nei confronti delle donne rispetto a possibili abusi della maternità surrogata. 

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Alienazione di alloggi di edilizia agevolata: il termine quinquennale decorre dall’effettiva assegnazione del cespite dal de cuius e non dall’atto pubblico che la formalizza

Avv. Lorenzo Mariani 

Cass. Civ. Sez. II, Sent., 28.12.2022 n.37895

È causalmente valida la scrittura privata con cui l'alienante di un immobile di edilizia agevolata si obbliga a corrispondere i relativi contributi consortili all’acquirente. Tale pattuizione è indipendente dal fatto che quest’ultimo possegga o meno i requisiti soggettivi: il nuovo proprietario sta infatti chiedendo non una contribuzione dallo Stato, ma le somme in possesso dell’alienante. Con la compravendita, queste hanno perso il vincolo di destinazione a beneficio del legittimato alla sovvenzione e, pertanto, ben potrebbero essere impiegate dall’acquirente per fini diversi da quelli previsti dallo Stato.

Non è nulla la compravendita di un alloggio di edilizia agevolata avvenuto prima del quinquennio (ex art. 20 L. 179/1992) dal formale atto di intestazione all’alienante, ma ben oltre cinque anni dalla effettiva assegnazione e consegna dell’immobile per successione dal defunto padre.          
Il predetto termine opera dalla assegnazione effettiva del cespite, non dal formale atto pubblico di trascrizione del precedente acquisto.

Così ha deciso la Suprema Corte di Cassazione, con Sent. n. 27895/2022, riconoscendo le ragioni della acquirente dell’immobile, difesa dall'Avv. Vincenzo Mauro dello Studio M&A.

L’arresto affronta anche interessanti questioni di diritto processuale.

Si tratta infatti del culmine di una complessa e lunga vicenda che ha riguardato due decreti ingiuntivi, azionati dalla nostra assistita, avverso la precedente proprietaria di un alloggio di edilizia agevolata, al fine di ottenere le somme corrispondenti a contributi consortili maturati rispettivamente dal 2000 al 2006 e dal 2007 al 2011.
Entrambi i decreti ingiuntivi si fondavano sulla scrittura privata con cui l’alienante si obbligava a versare all’acquirente i suddetti contributi.        
In sede di opposizione, la precedente proprietaria sosteneva che la scrittura privata fosse nulla perché contraria alle norme imperative, al pari dell’alienazione perché avvenuta appena 10 giorni dopo il formale atto pubblico con cui l’alienante aveva trascritto l’assegnazione dell’immobile in suo favore per successione dal defunto padre.

Il primo decreto ingiuntivo veniva prima confermato dal Tribunale poi annullato dalla Corte d’Appello, che accoglieva le argomentazioni dell’opponente.

Al contrario, il secondo decreto ingiuntivo veniva confermato in entrambi i gradi di giudizio.

L’acquirente ricorreva per Cassazione contro la sentenza di Corte d’Appello che aveva accolto l’opposizione, sulla base di due motivi:

1)      violazione o falsa applicazione, sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., dell'art. 20 della legge n. 179/1992, in riferimento agli artt. 2697 c.c. e 115 c.p.c. per avere la Corte territoriale dichiarato la nullità dell'atto di vendita del 22 marzo 2000 e della correlata scrittura privata, senza considerare, ai fini del computo del periodo quinquennale per l'alienazione degli alloggi di edilizia economica e popolare, che l’alienante era assegnataria dell'appartamento sin dall'anno 1987, come da verbale di assegnazione e consegna di alloggio dell'8 maggio 1987, poi formalizzato con l'atto pubblico del 10 marzo 2000.;

2)      nullità della sentenza ex art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c.,  per vizio logico della motivazione, in relazione alla contraddittorietà e alla mera apparenza del supporto argomentativo attinente ad una quaestio facti, per avere la Corte distrettuale escluso che l'acquirente avesse dimostrato di essere in possesso dei requisiti soggettivi per poter beneficiare dei contributi consortili, allorché, invece, la qualità di socio della acquirente e l'iscrizione nel libro soci della Cooperativa sarebbero risultate documentalmente.

La Suprema Corte ha ritenuto fondati entrambi i motivi, anche e soprattutto per via del giudicato formatosi sulle medesime questioni di fatto e di diritto con la sentenza di Corte d’Appello che aveva rigettato l’opposizione al secondo decreto ingiuntivo.

Prima di tutto, la corte ricorda che:        
nel giudizio di cassazione, l'esistenza del giudicato esterno è, al pari di quella del giudicato interno, rilevabile d'ufficio, non solo qualora emerga da atti comunque prodotti nel giudizio di merito, ma anche nell'ipotesi in cui il giudicato si sia formato successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata, come nel caso di specie.
Si tratta, invero, di un elemento che non può essere incluso nel fatto, in quanto, pur non identificandosi con gli elementi normativi astratti, è ad essi assimilabile, essendo destinato a fissare la regola del caso concreto, e partecipando quindi della natura dei comandi giuridici, la cui interpretazione non si esaurisce in un giudizio di mero fatto. Il suo accertamento, pertanto, non costituisce patrimonio esclusivo delle parti, ma, mirando ad evitare la formazione di giudicati contrastanti, conformemente al principio del ne bis in idem, corrisponde ad un preciso interesse pubblico, sotteso alla funzione primaria del processo, e consistente nell'eliminazione dell'incertezza delle situazioni giuridiche, attraverso la stabilità della decisione.                
Tale garanzia di stabilità, collegata all'attuazione dei principi costituzionali del giusto processo e della ragionevole durata, i quali escludono la legittimità di soluzioni interpretative volte a conferire rilievo a formalismi non giustificati da effettive e concrete garanzie difensive, non trova ostacolo nel divieto posto dall'art. 372 c.p.c., il quale, riferendosi esclusivamente ai documenti che avrebbero potuto essere prodotti nel giudizio di merito, non si estende a quelli attestanti la successiva formazione del giudicato; questi ultimi, d'altronde, comprovando la sopravvenuta formazione di una regula iuris, alla quale il giudice ha il dovere di conformarsi in relazione al caso concreto, attengono ad una circostanza che incide sullo stesso interesse delle parti alla decisione, e sono quindi riconducibili alla categoria dei documenti riguardanti l'ammissibilità del ricorso.            
La produzione di tali documenti può aver luogo unitamente al ricorso per cassazione, se si tratta di giudicato formatosi in pendenza del termine per l'impugnazione, ovvero, nel caso di formazione successiva alla notifica del ricorso, come nella fattispecie, fino all'udienza di discussione prima dell'inizio della relazione; solo qualora la produzione abbia luogo oltre il termine stabilito dall'art. 378 c.p.c. per il deposito delle memorie, dovendo essere assicurata la garanzia del contraddittorio, la Corte, avvalendosi dei poteri riconosciutile dall'art. 384, terzo comma, c.p.c., nel testo modificato dal d.lgs. n. 40/2006, deve assegnare alle parti un opportuno termine per il deposito in cancelleria di eventuali osservazioni (Cass. Sez. L, Ordinanza n. 12754 del 21/04/2022; Sez. 2, Ordinanza n. 1534 del 22/01/2018; Sez. 1, Sentenza n. 26041 del 23/12/2010; Sez. U, Sentenza n. 13916 del 16/06/2006).”

E che:

qualora in due giudizi tra le stesse parti siano fatti valere due crediti fondati sul medesimo rapporto giuridico ed uno dei due sia stato definito con sentenza passata in giudicato, l'accertamento così compiuto, in ordine alla situazione giuridica, ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe le cause, formando la premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza con autorità di cosa giudicata, preclude il riesame dello stesso punto di diritto accertato e risolto, e ciò anche se il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che hanno costituito lo scopo ed il petitum del primo (Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 27013 del 14/09/2022; Sez. 2, Ordinanza n. 11314 del 10/05/2018; Sez. 6-5, Ordinanza n. 5478 del 05/03/2013; Sez. 5, Sentenza n. 10280 del 04/08/2000; Sez. 3, Sentenza n. 3795 del 16/04/1999)”.

Per tali motivi, la Suprema Corte hanno accolto il ricorso e rinviato alla Corte d’Appello in differente composizione.

Cass. Civ., Sez. II, Sent., 28.12.2022 n. 37895 (testo integrale)

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Se la ex spende più di quanto guadagna, niente assegno divorzile.

Va confermata la decisione dei Giudici di merito che hanno escluso l’assegno divorzile in favore dell’ex coniuge che era risultato in grado di sostenere oneri di spesa per le esigenze di vita quotidiane eccedenti le disponibilità del sussidio di disoccupazione.

(Cass. civ., Sez. I, Ord., (data ud. 04/11/2022) 15/12/2022, n. 36802)

**** ****

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ACIERNO Maria - Presidente -

Dott. TRICOMI Laura - Consigliere -

Dott. CAIAZZO Rosario - Consigliere -

Dott. CAPRIOLI Maura - rel. Consigliere -

Dott. FIDANZIA Andrea - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 15391/2020 R.G. proposto da:

A.A., elettivamente domiciliato in MARINO VIA DELLE MOLETTE 40/B, presso lo studio dell'avvocato CHIAPPA DANIELA, (CHPDNL68L51H501X) che lo rappresenta e difende;

- ricorrente -

contro

B.B., elettivamente domiciliato in ROMA VIA PAPIO MARCO, 15, presso lo studio dell'avvocato ANSELMI FRANCESCA (NSLFNC75C61H501S) che lo rappresenta e difende;

- controricorrente -

avverso SENTENZA di CORTE D'APPELLO ROMA n. 6068/2019 depositata il 11/10/2019;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 04/11/2022 dal Consigliere MAURA CAPRIOLI.

Svolgimento del processo

Ritenuto che:

La Corte di appello di Roma, con sentenza nr 6068/2019, accoglieva l'appello proposto da B.B. nei riguardi di A.A. rigettando la domanda di assegno divorzile proposta dall'ex moglie.

Il giudice del gravame, richiamati i più recenti approdi di questa Corte in tema di presupposti per il riconoscimento dell'assegno divorzile, riteneva, alla luce delle risultanze di causa, che non fosse stato provato alcunché in ordine al suo apporto alla vita familiare.

Osservava che in sede di separazione i coniugi si erano riconosciuti reciproca indipendenza economica avendo regolato gli ulteriori rapporti economici fra di loro. In questo quadro la Corte di distrettuale rilevava che la richiesta dell'attribuzione dell'assegno divorzile giustificata dall'avvenuto licenziamento della richiedente nel corso del giudizio di primo grado non poteva avere effetti automatici sulla capacità di lavoro e reddituale che le aveva consentito di fruire di una entrata annua di Euro 22.000,00.

Il giudice del gravame riteneva che l'appellata non avesse assolto all'obbligo di dimostrare di essersi attivata nella ricerca di altra attività lavorativa con la mera produzione di qualche e-mail senza alcun riscontro.

Evidenziava che la situazione denunciata dalla A.A. relativamente alla inadeguatezza dei mezzi non poteva considerarsi attendibile non avendo la medesima ritenuto di chiarire come potesse provvedere al pagamento del canone di locazione di Euro 500,00 mensili, al rimborso della rata di finanziamento di circa 368,00 mensili, a mantenere l'autovettura e a corrispondere le spese per l'utilizzo di una carta di credito di circa Euro 400,00/500,00 mensili oltre a spese sanitarie per Euro 5.067,00 annui. Sottolineava che tali elementi lasciavano fondatamente ritenere la sussistenza di fonti non dichiarate che consentivano alla A.A. di far fronte agli oneri eccedenti le disponibilità dovute al sussidio di disoccupazione.

La Corte distrettuale osservava che il mancato deposito dell'accordo raggiunto in sede di licenziamento e della documentazione relativa al tfr, malgrado fossero stati più volte sollecitati, confermava l'inaffidabilità delle condizioni dichiarate dall'appellata la quale era venuta meno al dovere di lealtà processuale cui sono tenuti i coniugi nei giudizi di separazione e divorzio valutabile ex art. 116 c.p.c., comma 2.

Avverso tale sentenza A.A. propone ricorso per cassazione affidato a due motivi cui resiste con controricorso B.B..

Motivi della decisione

Considerato che:

Con il primo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione dell'art. 116, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.

Si sostiene che la Corte di appello avrebbe fondato il suo convincimento relativamente alla presenza delle fonti di reddito non dichiarate dalla ricorrente unicamente su di una presunzione semplice derivante dall'omessa produzione in giudizio di due documenti: la transazione stipulata in sede di licenziamento ed il trattamento di fine rapporto.

Si lamenta, in particolare, che il giudice di merito non avrebbe dato il giusto rilievo alle prove documentate in atti attestanti la mancanza di "mezzi adeguati" quali il procedimento di demansionamento e la conseguente decurtazione della retribuzione mensile, la lettera di licenziamento, la dichiarazioni sostitutiva di un atto notorio e le comunicazioni di accredito di Banco posta attestanti la percezione dell'indennità di disoccupazione, il contratto di locazione e le ricevute di pagamento del canone oltre alle dichiarazione dei redditi.

Si rileva inoltre che la Corte distrettuale si sarebbe limitata a sanzionare la richiedente per la mancata esibizione della documentazione su precisata che comunque non avrebbe mai potuto attestare l'autosufficienza economica.

Con il secondo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 898 del 1970art. 5, comma 6, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si duole in particolare che la Corte non avrebbe indicato quali prove l'odierna ricorrente avrebbe dovuto produrre ai fini di dimostrare la fondatezza della propria domanda di assegno divorzile.

Si afferma inoltre che la decisione impugnata non avrebbe tenuto conto delle condizioni oggettive di impossibilità di reperire una occupazione quali l'età, il livello di specializzazione e la crisi economica nonché la differenza fra le due posizioni reddituali né valutato il contributo dato dalla richiedente alla carriera dell'ex coniuge. Il primo motivo è inammissibile in ragione della illegittimità della pretesa della odierna ricorrente di ridiscutere il modo attraverso il quale il giudice di appello ha valutato i mezzi di prova complessivamente acquisiti al giudizio, trattandosi di una proposta di rilettura nel merito dei fatti di causa, non consentita in questa sede di legittimità.

La Corte di appello, diversamente da quanto sostenuto nel ricorso, ai fini dell'adeguatezza dei mezzi di sussistenza e della capacità lavorativa, ha considerato non solo le dichiarazioni dei redditi delle parti ma anche gli oneri di spese di cui era gravata la richiedente pervenendo alla conclusione della esistenza di fonti non dichiarate eccedenti le disponibilità del sussidio di disoccupazione.

Conclusione questa rafforzata, sempre secondo la insindacabile valutazione dei fatti compiuta dalla Corte d'Appello, dal mancato deposito dell'accordo transattivo raggiunto con il datore di lavoro e del documento attestante la percezione del tfr da parte dell'odierna ricorrente al termine del rapporto, valutati dal giudice del merito unitamente agli altri elementi presuntivi e posti a base del suo convincimento ex art. 116 c.p.c.. Del pari inammissibile perché fondata su una valutazione dei fatti alternativa a quella risultante dall'accertamento compiuto dal giudice del merito, è la censura relativa alla mancanza di autosufficienza economica cui dovrebbe pervenirsi anche sulla base delle risultanze istruttorie valorizzate dal giudice del merito.

Le valutazioni, censurate come ipotetiche non scalfiscono il quadro probatorio, insindacabilmente valutato dalla Corte d'Appello fondato sulla capacità di spesa attuale e sulla mancanza colpevole di un quadro effettivo della consistenza economico patrimoniale e reddituale della parte ricorrente.

Il secondo motivo nella parte in cui critica la mancata valorizzazione di condizioni oggettive (l'impossibilità di reperire una nuova occupazione a causa dell'età e della mancanza di una specializzazione, della differenza fra le posizioni reddituali e il contributo dato dalla moglie alla carriera del marito) è parimenti inammissibile.

La decisione della Corte di Roma si basa su un accertamento in fatto, fondato su una valutazione delle risultanze istruttorie adeguatamente motivata e, conseguentemente, non suscettibile di riesame in sede di legittimità.

Con la censura in esame, in sostanza, la ricorrente contrappone alla ricostruzione proposta dalla Corte distrettuale, una lettura alternativa del fatto e delle prove, senza considerare il duplice principio, che merita di essere ribadito, per cui:

1) il motivo di ricorso non può mai risolversi in un'inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice di merito tesa all'ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (Cass. Sez. U, Sentenza n. 24148 del 25/10/2013, Rv. 627790); 2) "L'esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull'attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata" (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 12362 del 24/05/2006, Rv. 589595: conf. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 11511 del 23/05/2014, Rv. 631448; Cass. Sez. L, Sentenza n. 13485 del 13/06/2014).

La Corte di appello, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, ha vagliato le affermazioni della richiedente tenendo conto del materiale probatorio acquisito in causa sottolineando per quanto riguarda il profilo compensativo che non era stato dimostrato il contributo che la richiedente aveva dato alla carriera professionale del marito.

Alla stregua delle considerazioni sopra esposte il ricorso va dichiarato inammissibile. Le spese della fase di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano in favore della controricorrente come da dispositivo.

Va disposto che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. n. 30 giugno 2003 n. 196, art. 52.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento della somma di Euro 2500,00 per compensi oltre 200,00 per esborsi oltre accessori di legge in favore della parte controricorrente;

si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Dispone che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. n. 30 giugno 2003 n. 196, art. 52.

Conclusione

Così deciso in Roma, il 4 novembre 2022.

Depositato in Cancelleria il 15 dicembre 2022

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Assegno divorzile: Non sindacabili in Cassazione censure sul merito del giudizio.

La motivazione del provvedimento impugnato con ricorso per cassazione deve ritenersi apparente quando pur se graficamente esistente ed, eventualmente sovrabbondante nella descrizione astratta delle norme che regola la fattispecie dedotta in giudizio, non consente alcun controllo sull'esattezza e la logicità del ragionamento decisorio, così da non attingere la soglia del "minimo costituzionale" richiesto dall'art. 111 comma 6 Cost. 

In tema di ricorso per cassazione, la violazione dell'art. 2697 c.c. si configura soltanto nell'ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l'onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni mentre, per dedurre la violazione dell'art. 115 c.p.c., occorre denunziare che il giudice, contraddicendo espressamente o implicitamente la regola posta da tale disposizione, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dall'art. 116 c.p.c. 

Nel quantificare l'assegno di divorzio, il giudice non è tenuto prendere in considerazione tutti, e contemporaneamente, i parametri di riferimento indicati dall'art. 5 della l. n. 898 del 1970, ma può anche prescindere da alcuni di essi, dando adeguata giustificazione delle sue valutazioni, con una scelta discrezionale non sindacabile in sede di legittimità.

(Cass. Civ. Sez. I, ord. 14 dicembre 2022 n. 36559)

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Domanda di determinazione degli obblighi di mantenimento del figlio residente all’estero: la competenza è italiana.

Con la sentenza n. 30903 , depositata il 19 ottobre 2022, le Sezioni Unite civili hanno risolto in favore della Autorità giudiziaria italiana la questione di giurisdizione, rimessa dalla Cassazione, sulla domanda di determinazione degli obblighi di mantenimento del figlio residente all’estero in un giudizio di separazione, escludendo che per tali materie operi il criterio determinativo cogente della residenza abituale del minore.

Il principio di prossimità trova applicazione in materia di obbligazioni alimentari, dal momento che l'art. 3, lett. b), del Regolamento CE n. 4/2009, attribuendo la competenza a pronunciarsi in ordine alle stesse all'autorità giurisdizionale del luogo in cui il creditore risiede abitualmente, consente d'individuare la predetta autorità in quella del luogo di residenza del minore, quando la domanda abbia ad oggetto il mantenimento dello stesso; in tale materia, tuttavia, tale competenza non è esclusiva, essendo prevista in alternativa rispetto a quella dell'autorità giurisdizionale del luogo in cui risiede abitualmente il convenuto (lett. a), o a quella della autorità giurisdizionale competente secondo la legge del foro a conoscere di un'azione relativa alla responsabilità genitoriale, quando la domanda relativa all'obbligazione alimentare sia accessoria a detta azione, salvo che tale competenza sia fondata unicamente sulla cittadinanza di una delle parti (lett. c).

(Cass. civ., Sez. Unite, 19/10/2022, n. 30903)

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Assegno di divorzio: dovuto anche se l’ex convive con un altro.

L’instaurazione, da parte dell’ex coniuge, di una stabile convivenza di fatto giudizialmente accertata, incide sul diritto al riconoscimento dell’assegno di divorzio o sulla sua revisione, nonché sulla quantificazione del suo ammontare, in virtù del progetto di vita intrapreso con il terzo e dei reciproci doveri di assistenza morale e materiale che ne derivano, ma non determina, necessariamente, la perdita automatica ed integrale del diritto all’assegno, in relazione alla sua componente compensativa.

(Cass. civ., Sez. VI - 1, Ord., (data ud. 11/10/2022) 08/11/2022, n. 32847)

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La violazione degli obblighi di assistenza familiare sussiste anche nell'ipotesi di versamento parziale.

In tema di reati contro la famiglia, il delitto previsto dall'art. 570 bis cod. pen.  si configura anche in presenza di un inadempimento parziale dell'obbligo di corresponsione dell'assegno divorzile, non essendo riconosciuto all'obbligato un potere di adeguamento dell'assegno in revisione della determinazione fattane dal giudice. La responsabilità penale può escludersi solo se l'obbligato fornisca la prova rigorosa della sua assoluta impossibilità di adempiere.

(Cass. Pen., Sez. VI, sent. 11 novembre 2022 n. 43032)

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Assegno divorzile: indispensabile la valutazione dell'apporto alla vita familiare fornito coniuge economicamente più debole.

In conformità ai principi affermati dalle Sezioni Unite, la valutazione della sproporzione delle condizioni economiche, reddituali e patrimoniali dei due ex coniugi non può essere scissa dalla valutazione dell'apporto alla vita familiare da parte del coniuge economicamente più debole, anche successivamente alla separazione; mentre, per altro verso, la valutazione della sua situazione patrimoniale non può prescindere dalla redditività secondo un parametro di effettività che deve necessariamente investire anche la valutazione delle potenzialità reddituali effettive del patrimonio ivi compresa quella della sua liquidabilità.

Infatti il riconoscimento dell'assegno di divorzio in favore dell'ex coniuge, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, ai sensi dell'art. 5, comma 6, della L., n. 898 del 1970, richiede l'accertamento dell'inadeguatezza dei mezzi dell'ex coniuge istante e dell'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, applicandosi i criteri equiordinati di cui alla prima parte della norma, i quali costituiscono il parametro cui occorre attenersi per decidere sia sulla attribuzione sia sulla quantificazione dell'assegno. Il giudizio deve essere espresso, in particolare, alla luce di una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonché di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio ed all'età dell'avente diritto.

(Cass. civ., Sez. VI - 1, Ord., (data ud. 01/07/2022) 22/09/2022, n. 27753)

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Nullità degli accordi dei coniugi separati in vista del divorzio.

La Corte di legittimità, con la sentenza del 26 aprile 2021, n. 11012, ord., ha stabilito la nullità degli accordi conclusi dai coniugi in sede di separazione e destinati a disciplinare i rapporti economici per il futuro divorzio. 

Pertanto, in tema di soluzione della crisi coniugale, ove in sede di separazione i coniugi, nel definire i rapporti patrimoniali già tra di loro pendenti e le conseguenti eventuali ragioni di debito - credito portata da ciascuno, abbiano pattuito anche la corresponsione di un assegno dell'uno e a favore dell'altro da versarsi "vita natural durante", il giudice del divorzio, chiamato a decidere sull'an dell'assegno divorzile, dovrà preliminarmente provvedere alla qualificazione della natura dell'accordo inter partes, precisando se la rendita costituita (e la sua causa aleatoria sottostante) "in occasione" della crisi familiare sia estranea alla disciplina inderogabile dei rapporti tra coniugi in materia familiare, perchè giustificata per altra causa, e se abbia fondamento il diritto all'assegno divorzile (che comporta necessariamente una relativa certezza causale soltanto in ragione della crisi familiare).

(Cass. civ., Sez. I, Ordinanza, 26/04/2021, n. 11012)

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Minore con due mamme: sì alla dicitura “genitore” sulla carta di identità.

É illegittimo e va disapplicato per eccesso di potere il decreto del Ministero dell’interno che, nel disciplinare le modalità di produzione, emissione e rilascio della carta di identità elettronica, non consente di indicare con la qualifica neutra di “genitore” la madre naturale e la madre adottiva di una minore, figlia di una coppia “same-sex”.

(Tribunale di Roma, ordinanza 9 settembre 2022)

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Furto di corrente elettrica: non applicabile la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto.

Secondo la Cassazione, sentenza 26 ottobre 2022, n. 40396, non è applicabile la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto alla condotta di approvvigionamento di corrente elettrica a mezzo di manomissione del contatore dei consumi ed allaccio abusivo alla rete in quanto in questo caso risulta integrato il reato di furto pluriaggravato, la cui pena edittale impedisce l’applicazione dell’ art. 131-bis c.p. 

(Cass. pen., Sez. V, Sent., (data ud. 19/09/2022) 26/10/2022, n. 40396)

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Stato di necessità di chi guida nonostante la sospensione della patente: onere della prova.

Secondo la Cassazione civile, ordinanza 17 ottobre 2022, n. 30426, è legittima la revoca della patente di guida a chi, sorpreso a circolare nonostante la sospensione della stessa per positività all'alcoltest, ha invocato l'applicazione dello stato di necessità - costituito dallo stato di gravidanza della compagna colta da improvvisi dolori al basso ventre - senza, tuttavia, fornire alcun elemento probatorio di riscontro.

Lo stato di necessità di chi guida nonostante la sospensione della patente va dunque provato.

(Cass. civ., Sez. VI - 2, Ord., (data ud. 22/09/2022) 17/10/2022, n. 30426)

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Figli costretti a incontri col padre violento: condannata l’Italia

Pronunciandosi su un caso “italiano” in cui si discuteva della legittimità dei provvedimenti adottati dal tribunale dei minorenni riguardanti lo svolgimento di incontri di due minori con il loro padre, separato dalla loro mamma, che si era dimostrato particolarmente violento, la Corte EDU, Sez. I, 10 novembre 2022 (n. 25426/20), ha ritenuto, all’unanimità, violato l’ art. 8 CEDU (diritto al rispetto della vita privata e familiare). Il caso era stato originato dalla denuncia dei ricorrenti (la madre ed i suoi due figli) secondo cui lo Stato italiano era venuto meno al dovere di proteggerli e assisterli durante gli incontri tra i due minori ed il padre, tossicodipendente e alcolista accusato di maltrattamenti e comportamenti minacciosi durante gli incontri.

Il caso, deciso il 10 novembre 2022, traeva origine dal ricorso (n. 25426/20) contro l’Italia, presentato alla Corte europea dei diritti dell’uomo, ai sensi dell' articolo 34 della Convenzione e.d.u., da tre cittadini italiani (una madre e i suoi due figli) residenti in Italia. 

Nel 2014 la ricorrente aveva lasciato l’abitazione familiare insieme ai figli a causa delle violenze subite da G.C., un soggetto tossicodipendente e alcolizzato. Il giorno seguente aveva presentato una denuncia penale, rifugiandosi in un centro per vittime di violenza, che aveva informato l’ufficio del pubblico ministero dello stato di emergenza in cui si trovavano i ricorrenti. Nello stesso anno, il pubblico ministero aveva ritenuto che la situazione di violenza a cui erano esposti i bambini era sufficientemente grave da giustificare una provvedimento urgente che sospendesse la responsabilità genitoriale di G.C. e gli consentisse di incontrarli in un ambiente sicuro. Il pubblico ministero aveva quindi disposto l'apertura di un procedimento. 

Nel 2015 il Tribunale per i minorenni aveva rilevato che G.C. non vedeva i suoi figli da luglio 2014, rilasciandogli il permesso di incontrarli una volta alla settimana in un ambiente “rigorosamente protetto” nei locali dei Servizi sociali della Capitale, alla presenza di uno psicologo. Quegli incontri non si erano mai tenuti a causa della mancanza di risorse e il tribunale era stato informato di conseguenza. Il tribunale aveva quindi disposto che gli incontri si svolgessero alla presenza di uno psicologo nel centro di accoglienza in cui si trovava la madre. Tuttavia, il centro di accoglienza comunicava di non disporre di personale specializzato e di sufficienti risorse finanziarie tali da consentire lo svolgimento in quel luogo degli incontri padre-figlio. 

Nel frattempo, la madre ed i suoi figli si erano trasferiti con i genitori di lei, accettando la donna di portare con sé i bambini settimanalmente per consentire lo svolgimento di incontri in condizioni di sicurezza in un altro comune, distante una sessantina di chilometri da casa sua. Il comune tuttavia aveva informato il Tribunale per i minorenni di non disporre di un luogo idoneo per consentire lo svolgimento degli incontri in un ambiente “rigorosamente protetto”. Gli incontri si erano quindi svolti senza alcuna misura di protezione, sicché i bambini erano stati costretti ad assistere al comportamento sprezzante del padre nei confronti della loro madre. 

Gli incontri successivi erano stati quindi organizzati alla presenza di un assistente sociale piuttosto che di uno psicologo. Si erano svolti in vari luoghi del comune, compresa la biblioteca sita nella piazza principale, in una sala del municipio e nella piazza del mercato cittadino. A più riprese i servizi sociali avevano informato il Tribunale per i minorenni che il padre si era comportato in modo inappropriato con i figli, facendo osservazioni sprezzanti e offensive nei loro confronti all’indirizzo della madre. 

Alla fine del 2015, la madre, che nel frattempo aveva trovato lavoro in un negozio, aveva informato i servizi sociali di non aver potuto percorrere 120 chilometri per portare i suoi figli agli incontri programmati durante le vacanze di fine anno ed aveva chiesto che gli incontri fossero organizzati in un ambiente sicuro. 

A maggio 2016, essendo stato informato dal comune che la madre non aveva assicurato la presenza dei minori a due incontri con il padre previsti per gennaio 2016, il Tribunale per i minorenni aveva deciso di sospendere la responsabilità genitoriale di entrambi i genitori. Il tribunale aveva a tal proposito osservato che la madre si era opposta agli incontri. Nel 2016, 2017 e 2018 gli incontri avevano continuato a svolgersi nonostante alcune segnalazioni e comunicazioni al Tribunale per i minorenni da parte dei servizi sociali e del tutore dei minori, circa la minaccia per la sicurezza dei bambini rappresentata dal comportamento aggressivo del padre. 

Ad aprile 2018 i servizi sociali avevano sospeso gli incontri in attesa della decisione del Tribunale per i minorenni. Successivamente, nel novembre 2018, il Tribunale – che era stato inoltre informato nel marzo 2018 che l’uomo non aveva frequentato il centro di cura dalle tossicodipendenze dal 25 ottobre 2017 – aveva confermato la sospensione degli incontri tra i bambini ed il padre. 

Nel 2019 i servizi sociali avevano informato il Tribunale per i minorenni che l’uomo stava scontando una pena detentiva di sei anni per reati in materia di stupefacenti commessi tra il 1994 e il 2018. 

Successivamente, con decisione del 15 maggio 2019, il Tribunale per i minorenni aveva ripristinato la potestà genitoriale della madre e privato invece il padre della responsabilità genitoriale. 

A dicembre 2019, la Corte d’Appello di Roma aveva confermato tale decisione, osservando come il padre, attraverso il suo comportamento aggressivo, distruttivo e sprezzante durante gli incontri con i bambini, era venuto meno al suo dovere di garantire la salute ed il sereno sviluppo dei minori. La Corte d'Appello aveva anche osservato che uno dei minori necessitava di trattamento psicologico specializzato. Secondo le più recenti informazioni a disposizione della Corte EDU, infine, il procedimento penale avviato contro l’uomo per maltratta-menti risulta pendente dal 2016.

Rivolgendosi alla Corte di Strasburgo, basandosi, sull'articolo 3 (divieto di trattamenti inumani o degradanti) e sull' articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), i ricorrenti sostenevano di essere stati vittime di violenze domestiche. Sostenevano che gli incontri con il padre dei bambini non avevano avuto luogo in un ambiente “rigorosamente tutelato” come disposto dal Tribunale per i minorenni e che le mancanze da parte delle autorità li avevano esposti a ulteriori violenze. Ai sensi degli stessi articoli, la madre, prima ricorrente, lamentava di essere stata qualificata come “genitore non collaborativo” e di essersi vista sospesa di conseguenza la responsabilità genitoriale, per il solo motivo di aver cercato di proteggere i suoi figli, evidenziando il rischio per la loro incolumità. Aveva quindi sostenuto di essere stata sottoposta a vittimizzazione secondaria. Il ricorso veniva depositato dinanzi alla Corte europea dei diritti dell'uomo il 19 giugno 2020.

La Corte di Strasburgo ha ritenuto che le questioni sollevate nella causa dovevano essere esaminate esclusivamente ai sensi dell’art. 8 della Convenzione. Per quanto riguarda i minori, la Corte ha rilevato che, nonostante le segnalazioni ricevute, tribunale per i minorenni non era intervenuto per sospendere i contatti fino a novembre 2018. Per tutto questo tempo i bambini erano stati costretti ad incontrare il padre in un ambiente in-stabile che non favoriva il loro sereno sviluppo, nonostante il tribunale fosse stato avvertito che l’uomo non stava più seguendo il suo programma terapeutico-riabilitativo come tossicodipendente, e che il procedimento penale a suo carico per maltrattamenti era ancora pendente. 

Il tribunale per i minorenni, che era stato anche informato che i bambini avevano bisogno di supporto psicologico, non sembrava quindi aver tenuto conto del loro benessere, soprattutto per quanto riguardava gli incontri, in cui i minori erano stati esposti ad assistere come testimoni alle violenze commesse contro la madre e anche alla violenza che avevano sofferto diretta-mente a causa del comportamento aggressivo del padre. La Corte EDU non ha compreso il motivo per cui il Tribunale per i minorenni, che già nel 2015 aveva ricevuto segnalazioni che negli anni tali atteggiamenti erano stati reiterati, aveva deciso di continuare a disporre gli incontri, nonostante il benessere dei bambini e la loro sicurezza non fossero assicurate. Il tribunale non aveva in nessuna fase valutato il rischio a cui erano esposti i minori, e non aveva bilanciato gli interessi in conflitto. 

In particolare, non era emerso dalla motivazione delle sue decisioni che fossero state svolte considerazioni relative alla necessaria prevalenza del superiore interesse dei minori sull'interesse del loro padre a mantenere i contatti ed a continuare gli incontri. Secondo la Corte di Strasburgo, gli incontri tenutisi dal 2015, che inizialmente si erano svolti in condizioni non conformi alla decisione del Tribunale per i minorenni e, successivamente, in modo non conforme tale da garantire un ambiente protettivo per i bambini, avevano sconvolto il loro stato psicologico ed il loro equilibrio emotivo. Questo fatto era stato segnalato dai servizi sociali, che avevano ripetutamente informato le autorità, sottolineando la necessità che i bambini ricevessero supporto psicologico. 

La Corte EDU ha anche preso atto della sentenza della Corte d'Appello di Roma secondo cui l’uomo, attraverso il suo comportamento aggressivo, distruttivo e sprezzante durante gli incontri, era venuto meno al suo dovere di garantire che i bambini avessero un sviluppo sano e sereno. Di conseguenza, ha ritenuto che i bambini fossero stati costretti dal 2015 a incontrare il padre in condizioni che non assicuravano un ambiente protettivo e che, nonostante gli sforzi delle autorità in tal senso di mantenere il contatto tra loro ed il padre, il loro migliore interesse a non essere costretti a incontrarsi con lui in tali condizioni era stato disatteso. Si era quindi verificata una violazione dell' art. 8 della Convenzione EDU nei confronti di entrambi i figli. 

Per quanto riguarda la madre, la Corte ha ritenuto che le decisioni dei tribunali italiani che ne avevano sospeso la responsabilità genitoriale non avevano tenuto conto delle difficoltà riguardanti gli incontri e le condizioni di precarietà evidenziate in più occasioni dai vari soggetti coinvolti. Non si era tenuto conto della situazione di violenza vissuta dalla donna e dai figli, né del procedimento penale pendente nei confronti del padre per maltrattamenti.

 Anche la Corte ha rilevato che nel suo rapporto sull'Italia, il GREVIO aveva sottolineato che la sicurezza del genitore non violento e quella dei minori devono essere un fattore centrale quando si decide sull'interesse superiore del bambino in relazione alle modalità di custodia e di visita. Il GREVIO aveva anche osservato che i tribunali nazionali non tenevano conto dell'articolo 31 della Convenzione di Istanbul. La Corte ha condiviso le preoccupazioni del GREVIO in merito alla sussistenza di una pratica diffusa da parte dei tribunali civili per cui le donne che evocano il problema della violenza domestica come motivo per non partecipare agli incontri tra i propri figli e il loro ex partner e non accettano l'affidamento condiviso o i diritti di visita, vengono considera-te genitori “non collaborativi” e quindi come “madri inadatte”, meritevoli di sanzioni. 

Secondo la Corte, i tribunali nazionali non avevano esaminato la situazione della madre con cura ed avevano deciso di sospenderne la responsabilità genitoriale sulla base della sua presunta contrarietà agli incontri e alla genitorialità condivisa con il padre, senza tener conto di tutti gli elementi rilevanti nel caso di specie. Pertanto, la Corte EDU ha ritenuto che il Tribunale per i minorenni e la Corte d'Appello non avevano fornito motivi adeguati e sufficienti per giustificare la loro decisione di sospendere la responsabilità genitoriale della madre tra maggio 2016 e maggio 2019. 

Si è pertanto accertata la violazione dell'articolo 8 della Convenzione anche nei confronti della madre dei due minori. La Corte di Strasburgo, infine, ha condannato l'Italia a corrispondere a titolo di equa soddisfazione ex art. 41 CEDU, congiuntamente ai figli della prima ricorrente, la somma di 7.000 euro a titolo di di danno morale. Ritenendo, invece, che l'accertamento di una violazione costituisse di per sé un sufficiente e giusto risarcimento del danno subito dalla madre, prima ricorrente, non ha liquidato alla donna alcuna somma.

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Ripetibilità delle somme versate a titolo di assegno.

Con sentenza n. 32914 pubblicata in data 8/11/2022, le Sezioni Unite della Cassazione hanno sancito il principio secondo il quale l’assegno di separazione e/o divorzio versato all’ex coniuge può essere ripetibile “ab initio” qualora non vi siano i presupposti per ottenere il diritto al mantenimento, quali lo “stato di bisogno” o l’addebito. 

Gli Ermellini hanno affermato che non prevedendo l’ordinamento “una disposizione che sul piano sostanziale, sancisca l’irripetibilità dell’assegno, propriamente alimentare, provvisoriamente disposto a favore dell’alimentando” e neanche in ordine ai contributi economici disposti con i provvedimenti presidenziali, “non si tratterebbe di sancire l’obbligo di restituzione di quanto percepito a titolo strettamente alimentare, ma di restituire somme di denaro sulla base di un supposto ed inesistente diritto al mantenimento”. La questione prende le mosse da un ricorso presentato da una donna che era stata condannata dalla Corte di Appello di Roma alla restituzione delle somme percepite dall’ex marito. La Corte, infatti, nel decidere su un assegno di mantenimento e divorzile aveva stabilito che “sin dalla richiesta di modifica delle condizioni della separazione non sussistevano i presupposti per il riconoscimento di un contributo al mantenimento”, revocando, in tal modo, i provvedimenti provvisori adottati in primo grado e condannando la ex moglie alla restituzione delle somme già percepite. 

La condannata alla restituzione si rivolgeva, quindi, alla Suprema Corte proponendo ricorso anche sulla base della falsa applicazione degli artt. 156 e 445 c.c. “stante la natura alimentare dell’assegno di mantenimento”. In definitiva, le Sezioni Unite su sollecitazione della Prima Sezione civile della Cassazione hanno chiarito che, ferma restando “una valutazione personalizzata” da parte del giudice di merito e considerata, altresì, “la situazione personale e sociale del coniuge debole, le ragionevoli aspettative di tenore di vita ingenerate dal rapporto matrimoniale ovvero di non autosufficienza economica”, occorre distinguere se opera o meno la “conditio indebiti”, ossia la regola generale della piena ripetibilità delle prestazioni economiche già effettuate ove si accerti l’insussistenza “ab origine” dei presupposti per l’assegno di mantenimento o divorzile, ovvero se la prestazione è da ritenersi irripetibile, laddove sia intervenuta una rivalutazione o rimodulazione al ribasso -purché sempre in relazione a somme di modesta entità- alla luce del principio di solidarietà post-familiare in quanto presuntivamente consumate per le esigenze del soggetto più debole economicamente. Al di fuori di questa seconda ipotesi, in presenza di una modifica con effetto ex tunc dei provvedimenti economici tra coniugi o ex coniugi opera la regola generale della “ripetibilità”. Si tratta, dunque, di un principio forte che cambia radicalmente l’orientamento giurisprudenziale che già da qualche anno si andava affermando nelle varie Corti di merito.

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Responsabilità medica: il danneggiato deve provare la causalità materiale e giuridica.

In tema di responsabilità medica, al creditore non basta allegare l’inadempimento della prestazione professionale, ma occorre anche che egli dimostri il nesso di causalità materiale tra l’inadempimento e l’aggravamento della propria condizione patologica o l’insorgenza di nuove patologie oltre al nesso di causalità giuridica.

(Cass. civ., Sez. III, 09/11/2022, n. 32971)

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Costituisce molestia anche l’invio di messaggi WhatsApp sgraditi.

Costituisce molestia o disturbo alle persone anche l'invio di messaggi tramite WhatsApp, in quanto, ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 660 c.p., rileva il carattere invasivo del mezzo impiegato per raggiungere il destinatario e non la possibilità per quest'ultimo di interrompere o prevenire l'azione perturbatrice, escludendo o bloccando il contatto o l'utenza non gradita.

Il reato di molestia o disturbo alle persone di cui all’ art. 660 c.p. tutela la tranquillità pubblica per l'incidenza che il suo turbamento ha sull'ordine pubblico a causa dell’astratta possibilità di reazione. L'interesse privato individuale riceve una protezione soltanto riflessa. La tutela penale è accordata anche contro la volontà delle persone molestate o disturbate: ciò che viene in rilievo è la tutela della tranquillità pubblica per i potenziali riflessi sull'ordine pubblico di quei comportamenti idonei a suscitare nel destinatario reazioni violente o moti di ribellione. L'elemento materiale del reato è costituito dall'interferenza non accettata nella vita privata altrui, che altera fastidiosamente o in modo inopportuno, immediato o mediato, lo stato psichico di una persona ( Cass. pen., Sez. I, n. 19718 del 24/3/2005). L’atto è qualificabile come molesto non soltanto se risulta sgradito a chi lo riceve, ma se è ispirato da biasimevole motivo ovvero riveste il carattere della petulanza, cioè consiste in un modo di agire pressante ed indiscreto, tale da interferire nella sfera privata di altri attraverso una condotta fastidiosamente insistente e invadente ( Cass. pen. sez. I, n. 6064 del 06/12/2017, dep. 2018). Il reato di molestia, inoltre, non ha natura necessariamente abituale, non richiedendo necessariamente la reiterazione dei comportamenti intrusivi e sgraditi nella vita altrui.

L'elemento soggettivo consiste nella coscienza e volontà della condotta, tenuta nella consapevolezza della sua idoneità a molestare o disturbare il soggetto passivo, senza che possa rilevare l'eventuale convinzione dell'agente di operare per un fine non biasimevole o, addirittura, per la soddisfazione di un proprio diritto ( Cass. pen. sez. I, n. 50381 del 07/06/2018; Cass. pen. sez. I, n. 33267 del 11/06/2013).

l reato può essere commesso anche mediante l'invio di Sms e messaggi WhatsApp. Ciò che rileva ai fini della sua sussistenza è il carattere invasivo della comunicazione non vocale, rappresentato dalla percezione immediata da parte del destinatario dell'avvertimento acustico che indica l'arrivo del messaggio e la percezione immediata e diretta del suo contenuto o di parte di esso attraverso l'anteprima di testo che compare sulla schermata di blocco del telefono cellulare, che valgono a realizzare una diretta e immediata intrusione del mittente nella sfera delle attività del ricevente ( Cass. pen. sez. I, n. 37974 del 18/03/2021). Il carattere invasivo della messaggistica telematica, inoltre, non può essere escluso per il fatto che il destinatario di messaggi non desiderati, inviati da un determinato utente sgradito, possa evitarne agevolmente la ricezione, senza compromettere in alcun modo la propria libertà di comunicazione, semplicemente escludendo o bloccando il contatto indesiderato ( Cass. pen. sez. I, n. 24670 del 07/06/2012). Il reato di cui all' art. 660 c.p. mira a tutelare, non già la libertà di comunicazione del destinatario dell'atto molesto, ma il turbamento della tranquillità pubblica. Ciò che rileva ai fini della sua sussistenza è l'invasività in sé del mezzo impiegato per raggiungere il destinatario, non la possibilità per quest'ultimo di interrompere l'azione perturbatrice, già subita e avvertita come tale ( Cass. pen. sez. I, n. 37974 del 18/03/2021).

(Cass. pen., Sez. I, Sent., (data ud. 24/05/2022) 20/09/2022, n. 34821)

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Procedibile d’ufficio il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare.

Pronunciandosi su un ricorso proposto avverso la sentenza con cui il tribunale aveva prosciolto un imputato dal reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare in caso di separazione o di scioglimento del matrimonio ( art. 570-bis c.p. ) per mancanza di querela, la Corte di Cassazione penale, Sez. VI, con la sentenza 23 giugno 2022, n. 24235 ha affermato il principio secondo cui in difetto di nuove disposizioni di legge sul tema della procedibilità, deve essere confermato il regime di perseguibilità di ufficio previsto per le ipotesi di reato ora punite dall' art. 570-bis c.p.

essendo indubbio il carattere solo formale dell'abrogazione dei reati previsti dall' art. 12- sexies della L. n. 898/1970 e dall' art. 3 della L. n. 54/2006, senza cioè abolizione delle relative ipotesi criminose, perché riprese dal nuovo art. 570- bis c.p., ne deriva per la S.C. che risulta immutato anche il regime di procedibilità di ufficio. Secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità il reato previsto dalla norma censurata è infatti sempre stato ritenuto perseguibile d'ufficio. Tale soluzione interpretativa - avallata anche dalle sezioni unite della Corte di cassazione ( Cass. pen. sez. Unite, n. 23866 del 31/01/2013, P., CED Cass. 255270 - 01) - si fondava sul rilievo che il richiamo all' art. 570 c.p., operato dall' art. 12- sexies della L. n. 898/1970, nonché dall' art. 3 della L. n. 54/2006 che, a sua volta, rinviava al citato art. 12- sexies, L. n. 898/1970, fosse finalizzato unicamente a determinare il trattamento sanzionatorio e non potesse, dunque, reputarsi comprensivo del regime di perseguibilità a querela previsto dalla norma richiamata. Le stesse considerazioni, secondo la Cassazione, conservano tuttora piena validità per quanto sopra detto sulla natura meramente formale dell'operazione di trasposizione del reato in esame nella nuova norma codicistica, essendo peraltro stata esclusa la voluntas legis di incidere sul regime di procedibilità.

(Cass. pen., Sez. VI, Sent., (data ud. 23/03/2022) 23/06/2022, n. 24235)

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Post diffamatorio su Facebook riconducibile al titolare del profilo.

Per la Corte di Cassazione, in ipotesi di pubblicazione su un profilo Facebook di un testo lesivo dell’altrui reputazione, la diffamazione è di regola attribuibile al titolare del profilo. 

In assenza di qualsiasi prova, fornita dalla difesa, in ordine all’asserito furto di identità digitale, i messaggi diffamatori sono attribuibili al titolare del profilo Facebook su cui risultano pubblicati (in tal senso anche Cass. sez. V, 21 ottobre 2021, n. 4239, in cui è stata ritenuta accertata la riferibilità dei messaggi al titolare del profilo Facebook sulla scorta dei seguenti elementi: il movente, l'argomento del forum su cui avviene la pubblicazione, il rapporto tra le parti, nonché la provenienza del post dalla bacheca virtuale dell'imputato, con utilizzo del suo nickname, e ciò anche in mancanza di accertamenti circa la provenienza del post di contenuto diffamatorio dall'indirizzo IP dell'utenza telefonica intestata all'imputato medesimo).

(Cass. pen., Sez. V, Sent., (data ud. 23/09/2022) 20/10/2022, n. 39805)

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Revisione dell'assegno divorzile: presupposti.

In tema di presupposti per il riconoscimento dell'assegno divorzile, giova rilevare che il mutamento sopravvenuto delle condizioni patrimoniali delle parti costituente il presupposto necessario per pervenire alla revisione dell'assegno divorzile, ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 9, attiene agli elementi di fatto e non può essere integrato da una diversa interpretazione delle norme applicabili avallata dal diritto vivente giurisprudenziale, la cui funzione è ricognitiva dell'esistenza e del contenuto della regula iuris e non creativa della stessa.

Secondo la Corte di Cassazione …il giudicato, ai sensi dell’ art. 2909 cod. civ., fa stato ad ogni effetto tra le parti, i loro eredi ed aventi causa entro i limiti oggettivi che sono segnati dai suoi elementi costituitivi, come tali rilevanti per l’identificazione dell’azione giudiziaria sulla quale il giudicato si fonda, costituiti dal titolo della stessa azione (causa petendi) e dal bene della vita che ne forma oggetto (petitum mediato), a prescindere dal tipo di sentenza adottato (petitum immediato); entro tali limiti, l’autorità del giudicato copre il dedotto e il deducibile…anche le questioni non dedotte in giudizio che costituiscano, tuttavia, un presupposto logico essenziale ed indefettibile della decisione stessa…”, fatte salve esclusivamente le cosiddette sopravvenienze, ovverosia le nuove situazioni di fatto incidenti sui rapporti fra i coniugi dotate di efficacia tale da alterare l’assetto di cui al provvedimento divorzile. In tema di revisione, dunque, l’intervento giudiziale è finalizzato a ripristinare l’equilibrio venuto meno in ragione della modifica o dell’alterazione delle situazioni di fatto poste alla base delle condizioni di divorzio stabilite dal provvedimento giudiziale.

(Cass. civ., Sez. I, Ordinanza, 15/06/2022, n. 19302)

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Il figlio assume i cognomi di entrambi i genitori (salvo diverso accordo al momento del riconoscimento).

Nell'ambito della questione di legittimità costituzionale sollevata dell'art. 262, primo comma, secondo periodo, c.c., la norma sull'attribuzione del cognome del padre è il retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, il riflesso di una disparità di trattamento che, concepita in seno alla famiglia fondata sul matrimonio, si è proiettata anche sull'attribuzione del cognome al figlio nato fuori dal matrimonio, ove contemporaneamente riconosciuto. Si tratta di un automatismo che non trova alcuna giustificazione nell'art. 3 Cost., sul quale si fonda il rapporto fra i genitori, uniti nel perseguire l'interesse del figlio. La declaratoria di illegittimità costituzionale della norma relativa all'attribuzione del cognome al figlio nato nel matrimonio discende in via consequenziale dalla illegittimità costituzionale dell'art. 262, primo comma, secondo periodo, c.c., in ragione della loro sostanziale identità di contenuto. 

Con la sentenza n. 131 del 2022 il Giudice Costituzionale ha dichiarato quindi l’illegittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3 e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, dell’ art. 262, comma 1, c.c., nella parte in cui prevede, con riguardo all’ipotesi del riconoscimento effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori, che il figlio assume il cognome del padre, anziché prevedere che il figlio assume i cognomi dei genitori, nell’ordine dai medesimi concordato, fatto salvo l’accordo, al momento del riconoscimento, per attribuire il cognome di uno di loro soltanto, rimettendo all’intervento del giudice la determinazione dell’ordine dei cognomi in caso di disaccordo tra le parti e rinviando al legislatore per delimitare la moltiplicazione dei cognomi nei passaggi tra più generazioni e per garantire l’identità dei cognomi tra fratelli e sorelle.

(Corte cost., 31/05/2022, n. 131)

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Assegno divorzile anche per il mantenimento alla dimora familiare.

Il giudice del merito, investito della domanda di corresponsione di assegno divorzile, deve accertare l'impossibilità dell'ex coniuge richiedente di vivere autonomamente e dignitosamente e la necessità di compensarlo per il particolare contributo, che dimostri di avere dato, alla formazione del patrimonio comune o dell'altro coniuge durante la vita matrimoniale, nella registrata sussistenza di uno squilibrio patrimoniale tra gli ex coniugi che trovi ragione nella intrapresa vita matrimoniale, per scelte fatte e ruoli condivisi; l'assegno divorzile deve essere adeguato a compensare il coniuge economicamente più debole del sacrificio sopportato per aver rinunciato a realistiche occasioni professionali-reddituali – che il coniuge richiedente l'assegno ha l'onere di dimostrare nel giudizio – al fine di contribuire ai bisogni della famiglia, rimanendo in tal caso assorbito l'eventuale obbligo assistenziale.

La sentenza in parola presenta un ulteriore elemento di interesse riguardante come siffatto squilibrio patrimoniale si possa manifestare anche in ambiti correlati al riconoscimento dell’assegno divorzile, vale a dire al mantenimento della dimora coniugale ove si svolgeva la vita familiare. Per la Cassazione le spese per il mantenimento alla dimora familiare non può non ripercuotersi sia sull’entità dell’assegno di mantenimento dei figli (da determinare sulla base del criterio del tendenziale mantenimento del tenore di vita acquisito e del cambiamento delle esigenze legate alla loro crescita); sia sull’assegno divorzile nella misura che verrà accertata dal giudice.

(Cass. civ., Sez. VI - 1, Ordinanza, 23/09/2022, n. 27948)

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Reiterate violenze fisiche e morali inflitte al coniuge: addebito automatico.

Le reiterate violenze fisiche e morali, inflitte da un coniuge all'altro, costituiscono violazioni talmente gravi dei doveri nascenti dal matrimonio da fondare, di per sé sole, non solo la pronuncia di separazione personale, in quanto cause determinanti la intollerabilità della convivenza, ma anche la dichiarazione della sua addebitabilità all'autore di esse, restando altresì irrilevante la posteriorità temporale delle violenze rispetto al manifestarsi della crisi coniugale. Il loro accertamento esonera altresì il giudice del merito dal dovere di procedere alla comparazione, ai fini dell'adozione delle relative pronunce, col comportamento del coniuge che sia vittima delle violenze, trattandosi di atti che, in ragione della loro estrema gravità, sono comparabili solo con comportamenti omogenei.

(Cass. civ., Sez. I, Ord., (data ud. 11/03/2022) 24/10/2022, n. 31351)

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Limiti al mantenimento dei figli maggiorenni non autosufficienti.

La Corte di Cassazione nell'ordinanza n. 29264 del 7 ottobre 2022 si occupa nuovamente del diritto al mantenimento in favore del figlio maggiorenne non autosufficiente di genitori divorziati e dei relativi presupposti e limiti.

Secondo la Corte le considerazioni di ordine sociologico, a proposito delle condizioni nel mercato del lavoro del meridione d'Italia, non possono giustificare la persistenza di un obbligo di mantenimento da parte del genitore sottoposto ad amministrazione di sostegno per disabilità, ma sarebbero semmai indicative della necessità del figlio di far ricorso agli strumenti di sostegno sociale, in aggiunta alla dedotta condizione di persona non stabilmente occupata in un'attività di lavoro. Pertanto, un atteggiamento inerziale da questo punto di vista non può essere riversato sulla persistenza di un diritto al mantenimento di durata indeterminata.

(Cassazione civile ordinanza n.29264 2022)

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Cause aventi ad oggetto rapporti obbligatori sorti tra parti legate da un rapporto affettivo venuto meno: competenza territoriale.

Con l'ordinanza n. 24716/2022 la Corte di Cassazione, nell'ambito di un ricorso per regolamento di competenza, fa chiarezza in merito ai rapporti tra art. 18 c.p.c e artt. 20 e 38 c.p.c allorché il giudizio verta su rapporti obbligatori sorti tra le parti legate da un rapporto affettivo, poi venuto meno. In particolare va considerato il luogo in cui è sorta l’obbligazione dedotta in giudizio, non rilevando in alcun modo che l'obbligazione “avente origine nei rapporti di tipo familiare e di coppia”, può assumere discrimine giuridicamente rilevante.

(Cassazione civile ordinanza n.24716/2022)

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Per ridurre l'assegno divorzile occorre dimostrare l'effettiva possibilità di lavorare.

L'ipotetica ed astratta possibilità lavorativa o di impiego, da parte del coniuge beneficiario di assegno di divorzio, non incide sulla determinazione dell'assegno stesso, salvo che il coniuge onerato non fornisca la prova che il beneficiario abbia l'effettiva e concreta possibilità di esercitare un'attività lavorativa confacente alle proprie attitudini. L'accertamento della relativa capacità lavorativa deve essere compiuto non nella sfera dell'ipoteticità o dell'astrattezza, bensì in quella dell'effettività e della concretezza, dovendosi, all'uopo, tenere conto di tutti gli elementi soggettivi e oggettivi del caso concreto in rapporto ad ogni fattore economico-sociale, individuale, ambientale, territoriale.

(Cass. civ., Sez. VI - 1, Ordinanza, 20/07/2022, n. 22758)

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Separazione e figli residenti all’estero: la competenza a decidere sulla domanda di determinazione degli obblighi di mantenimento del figlio residente all’estero.

Con sentenza n. 30903 del 19 ottobre 2022 la Cassazione civile, SS.UU., decidendo su una questione di giurisdizione in tema di obblighi di mantenimento della prole residente all’estero, nell’ambito del giudizio di separazione o divorzio, ha riconosciuto la giurisdizione della Autorità giudiziaria Italiana, ai sensi dell’ art. 37 della legge n. 218 del 1995, sulla domanda di determinazione delle modalità con cui il genitore, che sia cittadino italiano ed abbia la residenza in Italia, deve contribuire al mantenimento del figlio residente all’estero (nella specie, in Russia), non estendendosi a tali controversie il criterio determinativo cogente della residenza abituale del minore, previsto dagli artt. 8, par. 1, del Regolamento CE n. 2201 del 2003 e 3 del Regolamento CE n. 4 del 2009, nonché dalla Convenzione dell’Aja del 5 ottobre 1961, oggi sostituita dalla Convenzione del 19 ottobre 1996, resa esecutiva con la legge n. 101 del 2015, riguardanti la protezione dei minori, che inerisce l’esercizio della responsabilità genitoriale e trova fondamento nel superiore e preminente interesse dei figli minori non residenti abitualmente in Italia a che i provvedimenti che li riguardano siano adottati dal giudice più vicino al luogo della loro residenza effettiva (cd. criterio di prossimità), nonché nell'esigenza di realizzare la concentrazione di tutte le azioni giudiziarie ad esso relative.

Secondo le Sezioni Unite civili della Corte, l’elemento discretivo è costituito dall’oggetto delle domande formulate: ove attinenti agli aspetti personali del rapporto tra il ricorrente e il figlio, le questioni devono essere devolute all'autorità giudiziaria straniera; ove, invece, abbiano ad oggetto la determinazione delle modalità di contribuzione da parte del primo al al mantenimento del secondo, deve essere riconosciuto la loro devoluzione al giudice italiano. Ovviamente, nel caso di “obbligazioni alimentari”, che spettano alla giurisdizione del giudice italiano ex art. 37 della legge n. 218 del 1995, deve sussistere la condizione del domicilio o residenza in Italia del genitore convenuto o del soggetto autorizzato a stare per suo conto in giudizio, ovvero, in alternativa, che uno dei genitori o il figlio sia cittadino italiano o risiede in Italia.

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Assegno di mantenimento: redditi occultati al fisco e le indagini della polizia tributaria.

Nei giudizi di separazione giudiziale dei coniugi, il potere di disporre indagini della polizia tributaria, derivante dall'applicazione analogica dell'art. 5, comma 9, l. n. 898 del 1970, costituisce una deroga alle regole generali sul riparto dell'onere della prova, il cui esercizio è espressione della discrezionalità del giudice di merito che, però, incontra un limite in presenza di fatti precisi e circostanziati in ordine all'incompletezza o all'inattendibilità delle risultanze fiscali acquisite al processo. In tali casi, il giudice ha il dovere di disporre le indagini della polizia tributaria, non potendo rigettare le domande volte al riconoscimento o alla determinazione dell'assegno, fondate proprio sulle circostanze specifiche che avrebbero dovuto essere verificate per il tramite delle menzionate indagini.

(Cassazione civile ordinanza n.22616 2022)

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La convivenza more uxorio fa venir meno il diritto dell'ex al mantenimento.

La convivenza stabile e continuativa con altra persona deve ragionevolmente assumersi come fattore la cui prova è a carico del coniuge che si oppone all'attribuzione dell'assegno, trattandosi di un fatto potenzialmente impeditivo o estintivo del diritto azionato, che fa presumere la cessazione o l'interruzione dell'obbligo di mantenimento, salva la facoltà del coniuge richiedente l'assegno di allegare e dimostrare, anche in via presuntiva, che quella convivenza non influisca in melius sulle proprie condizioni economiche, restando i suoi redditi complessivamente inadeguati a fargli conservare tendenzialmente il tenore di vita coniugale.

(Cass. civ., Sez. VI - 1, Ordinanza, 12/10/2022, n. 29865)

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La separazione dei coniugi come causa di illecito endofamiliare: risarcimento del danno non patrimoniale a favore dei figli adottivi.

La separazione dei coniugi, in particolare nell'ipotesi in cui si verifichi con modalità traumatiche, può configurare un illecito endofamiliare, con conseguente risarcimento del danno non patrimoniale a favore dei figli adottivi, per il possibile riacutizzarsi nei minori del trauma dell'abbandono, determinando in essi nell'immediato una profonda sofferenza e ponendo a grave rischio il loro futuro equilibrato sviluppo.

(Cass. civ., Sez. I, Ordinanza, 02/04/2021, n. 9188)

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Quantificazione del danno endofamiliare da privazione del rapporto genitoriale.

La violazione dei doveri di mantenimento, istruzione ed educazione dei genitori verso la prole, a causa del disinteresse mostrato nei confronti dei figli per lunghi anni, integra gli estremi dell'illecito civile, cagionando la lesione di diritti costituzionalmente protetti, e dà luogo ad un'autonoma azione dei medesimi figli volta al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell'art. 2059 c.c. In particolare, è un comportamento rilevatore di responsabilità genitoriale l'avere deprivato i figli della figura genitoriale paterna, che costituisce un fondamentale punto di riferimento soprattutto nella fase della crescita, e idoneo ad integrare un fatto generatore di responsabilità aquiliana. La voce di pregiudizio in esame sfugge a precise quantificazioni in moneta e, pertanto, si impone la liquidazione in via equitativa ex art. 1226 cod. civ.. In merito alla quantificazione in concreto, in caso di danno endofamiliare da privazione del rapporto genitoriale, può essere applica, come riferimento liquidatorio, la voce ad hoc prevista dalle tabelle giurisprudenziali adottate dall'Osservatorio sulla Giustizia Civile di Milano ("perdita del genitore").

(Tribunale Milano, Sez. IX, 23/07/2014)

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Sul diritto alla provvigione del mediatore.

Il mediatore ha diritto alla provvigione tutte le volte in cui la conclusione dell'affare sia in rapporto causale con l'attività intermediatrice nel senso che è stato il mediatore che pretende il compenso ad aver messo in relazione le parti poi addivenute all’accordo: non si richiede, infatti, che tra l'attività del mediatore e la conclusione dell'affare sussista un nesso eziologico diretto ed esclusivo, purché la "messa in relazione" delle parti abbia costituito l'antecedente indispensabile per pervenire, anche attraverso fasi e vicende successive, alla conclusione del contratto. Non è neppure necessario che il mediatore sia intervenuto nelle diverse fasi delle trattative sino alla stipula del negozio, purché possa ritenersi che senza quella "messa in contatto" il negozio stesso non sarebbe stato concluso, secondo i principi della causalità adeguata. In tal senso non costituiscono indici significativi dell'assenza di causalità adeguata gli elementi di fatto del prezzo diverso, della distanza nel tempo della stipula del contratto, dell'intervento di un nuovo mediatore, né in alcun modo è rilevante la mancanza di prova di una formale comunicazione dell'offerta o il perdurare della sua efficacia al tempo di conclusione della compravendita.

(Cass. civ., Sez. II, Ord., (data ud. 05/04/2022) 15/09/2022, n. 27185)

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L'incidenza economica dell'assegnazione della casa familiare nella quantificazione dell'assegno di mantenimento.

In materia di quantificazione dell'assegno di mantenimento a seguito della separazione dei coniugi, deve attribuirsi rilievo anche all'assegnazione della casa familiare che, pur essendo finalizzata alla tutela della prole e del suo interesse a permanere nell'ambiente domestico, indubbiamente costituisce un'utilità suscettibile di apprezzamento economico, come del resto espressamente precisato dall' art. 337 sexies c.c., e tale principio trova applicazione anche qualora il coniuge separato assegnatario dell'immobile ne sia comproprietario, perché il suo godimento del bene non trova fondamento nella comproprietà del bene, ma nel provvedimento di assegnazione, opponibile anche ai terzi, che limita la facoltà dell'altro coniuge di disporre della propria quota dell'immobile e si traduce in un pregiudizio economico, anch'esso valutabile ai fini della quantificazione dell'assegno dovuto.

(Cass. civ., Sez. I, Ord., (data ud. 11/03/2022) 21/09/2022, n. 27599)

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Spetta a chi chiede l'addebito della separazione all'altro coniuge provare l'infedeltà e il nesso causale con la fine della relazione.

Grava sulla parte che richieda, per l'inosservanza dell'obbligo di fedeltà, l'addebito della separazione all'altro coniuge l'onere di provare la relativa condotta e la sua efficacia causale nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza, mentre è onere di chi eccepisce l'inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda, e quindi dell'infedeltà nella determinazione dell'intollerabilità della convivenza, provare le circostanze su cui l'eccezione si fonda, vale a dire l'anteriorità della crisi matrimoniale all'accertata infedeltà.

(Cass. civ., Sez. I, Ord., (data ud. 11/03/2022) 22/09/2022, n. 27771)

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Niente risarcimento se il cane morde il veterinario imprudente, anche in presenza del padrone

Avv. Lorenzo Mariani 

Con Sentenza n. 13136 del 08.09.2022 il Tribunale di Roma ha rigettato la domanda di risarcimento ex art. 2052 cc da parte di una veterinaria, che aveva convenuto in giudizio il padrone di un grosso cane di razza Corso, da cui era stata morsa sul labbro poco prima di operarlo agli occhi.

A detta dell’attrice, il cane l’avrebbe aggredita mentre stava venendo sedato, in presenza del padrone che lo teneva al guinzaglio.

Il proprietario del cane, e la compagnia assicurativa chiamata in causa, sostenevano invece che in primo luogo la responsabilità ex art. 2052 fosse traslata dal proprietario alla danneggiata che ne aveva la custodia; in secondo luogo, che comunque la responsabilità dovesse ritenersi esclusa per caso fortuito consistente nel comportamento della danneggiata, la quale non aveva controllato la predisposizione e la attuazione del piano anestesiologico e, soprattutto, si era più volte avvicinata imprudentemente al volto del cane, privo di museruola.

In seguito all’espletamento dell’interrogatorio formale e dell’ascolto della anestesista quale testimone, la causa veniva trattenuta in decisione con termine per note ex art. 190 cpc.

Nel rigettare la domanda, il giudice ha ripercorso brevemente i principi fondanti la responsabilità oggettiva ex art. 2052 cc:

Poiché il limite della responsabilità risiede nell'intervento di un fattore ("salvo che provi il caso fortuito") che attiene non ad un comportamento del responsabile, ma alle modalità di causazione del danno, la rilevanza del fortuito deve essere apprezzata sotto il profilo causale, in quanto suscettibile di una valutazione che consenta di ricondurre ad un elemento esterno, anziché all'animale che ne è fonte immediata, il danno concretamente verificatosi.

Spetta dunque all'attore provare l'esistenza del rapporto eziologico tra il comportamento dell'animale e l'evento dannoso secundum o contra naturam, comprendendosi in tale concetto qualsiasi atto o moto dell'animale quod sensu caret, mentre il convenuto, per liberarsi dalla responsabilità, dovrà provare non già di essere esente da colpa o di aver usato la comune diligenza e prudenza nella custodia dell'animale, bensì l'esistenza di un fattore, estraneo alla sua sfera soggettiva, idoneo ad interrompere quel nesso causale.”

“Ora, per assurgere a fattore esterno idoneo a cagionare il danno, l'evento deve avere i caratteri della imprevedibilità, inevitabilità e assoluta eccezionalità, ovvero della condotta colposa, specifica o generica”

“La prova liberatoria del proprietario o di chi ha in custodia l’animale, in ogni caso, non può limitarsi alla mera allegazione di una violazione di norme di condotta imputabile al danneggiato, essendo necessario che fornisca in concreto la prova dell'interruzione del nesso causale con l'evento.

In tal senso, deve ritenersi che la posizione di garanzia che grava sul detentore del cane "copre" anche i comportamenti imprudenti altrui.”

 

Proprio sulla base dei predetti requisiti, il giudice riteneva provato il caso fortuito quale colpa esclusiva della veterinaria danneggiata.

E infatti, al momento del sinistro il cane era fuori dal controllo del padrone, poiché era già stato sedato ed affidato alle cure della veterinaria.

Il sinistro è da attribuirsi al comportamento colposo dell'attrice, che si è avvicinata al suo muso privo di protezioni, senza curarsi dell’eventualità che l’animale potesse reagire d’impulso.

Pertanto, in questo caso la posizione di garanzia del padrone, seppur presente al momento del sinistro, non ha “coperto” il comportamento della danneggiata, vista la disattenzione con cui ha gestito il proprio paziente.


Trib. Roma, Sez. XIII, Sent., 08.09.2022, n.  13136 (testo completo)

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Non fa vedere i figli al padre perché ha ingaggiato un investigatore: per il Tribunale di Roma non è reato

In data 29.08.2022, il Gip presso il Tribunale di Roma ha disposto l'archiviazione di un procedimento a carico di una madre indagata ex art 338 cp (mancata esecuzione dolosa di un provvedimento dei giudice) poiché non avrebbe ottemperato alle disposizioni del Tribunale civile sulla frequentazione dei figli minori col padre.

Il Gip ha ritenuto che non fosse rinvenibile alcuna fattispecie di reato poiché l’inottemperanza non sarebbe stata dovuta alla volontà di non dare corso al provvedimento quanto piuttosto a una reazione, seppur esagerata, dell'indagata alla presenza del personale investigativo incaricato dall'ex marito in sede di richiesta di esercitare il diritto di visita ai minori.

Per il Gip, di conseguenza, tale situazione deve trovare tutela in sede civile attraverso provvedimenti che garantiscano una migliore tutela dei bambini, stante la conflittualità tra i genitori.


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Assegno divorzio: è necessario accertare il sacrificio di prospettive reddituali e professionali.

La funzione riequilibratrice dell'assegno non è finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma soltanto al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall'ex coniuge economicamente più debole alla realizzazione della situazione comparativa attuale. La differenza reddituale tra gli ex coniugi non legittima di per sé sola il riconoscimento dell'assegno divorzile, dovendo accertarsi dal giudice del merito se quella sperequazione sia conseguenza di scelte naturate durante la vita matrimoniale dalla coppia nella distribuzione dei ruoli, in esito alla quale il coniuge richiedente, economicamente più debole, rinunciando anche a proprie aspettative di crescita professionale, abbia contribuito alla formazione del patrimonio familiare e di quello dell'altro coniuge, avuto riguardo alla durata del matrimonio e ad all'età dell'avente diritto.

(Tribunale Castrovillari, sent. 17 giugno 2022, n. 139)

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Il TAR Puglia sospende cautelarmente la bocciatura di una bambina di sette anni: può avere effetti traumatici

TAR Puglia, Sez. Unite, ord. 28.07.2022 n. 347

Accolta l’istanza cautelare avverso la bocciatura di una bambina di sette anni.

Per il Tribunale Amministrativo Regionale della Puglia, la perdita di un anno scolastico a quell’età, oltretutto in difetto di adeguata motivazione, costituisce ex se un grave danno, anche alla luce dell’esclusivo interesse della minore.

Infatti, si tratta di un’esperienza traumatica che potrebbe danneggiare l’autostima della bambina e compromettere il rapporto di fiducia nei confronti dell’Istituzione scolastica oltre al fatto che, in conseguenza della bocciatura, la minore verrebbe allontanata dalla classe nella quale si stava integrando. 

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No all'esimente dello "stato d'ira" per chi diffama l'ex coniuge su Facebook per via di contrasti e rancori costanti

Cass. Pen., Sez. V., Sent., 24 giugno 2022, n. 24614

Ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo del delitto di diffamazione, non è necessaro l"animus iniurandi vel diffamandi", ma è sufficiente il dolo generico, anche nella forma del dolo eventuale, ossia che l’agente, consapevolmente, faccia uso di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive,  in base al significato che esse vengono oggettivamente ad assumere.

Inoltre, ai fini della riconoscibilità dell’esimente prevista dall’art. 599, c. 2, cp, deve  ritenersi che un mero stato di contrasti e/o rancore tra le parti non integri una situazione per la quale possa ritenersi che il "fatto ingiusto" asseritamente patito dall'agente, determini improvvisamente il c.d. "stato d'ira", ciò in quanto nel delitto di diffamazione, ancorché non rilevi la proporzione fra la reazione ed il fatto ingiusto altrui, occorre, tuttavia, che sussista un nesso di causalità determinante tra il fatto provocante ed il fatto provocato, non essendo sufficiente un legame di mera occasionalità.

Per queste ragioni, la Cassazione ha escluso l'esimente dello stato d'ira ex art. 599 comma 2 cp nei confronti di un uomo reo di aver offeso l'onore e la reputazione dell'ex moglie, pubblicando frasi offensive nei confronti di quest'ultima sul social network Facebook.

Per la difesa dell'imputato, la sua reazione era maturata in un clima caratterizzato da costanti minacce e vessazioni da parte dell'ex moglie (che ostacolava la frequentazione tra l'uomo e i figli) e della famiglia della stessa, che avevano provocato un persistente stato d'ira nel reo.

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Inammissibili le critiche alla CTU medica se non sono state già formulate in appello

Cass. Civ. Sent. 18.07.2022, n. 22532

È inammissibile un ricorso in Cassazione avverso una decisione di appello che abbia recepito una CTU asseritamente errata sul piano tecnico-scientifico, se nel giudizio di merito il ricorrente non ha sollevato le medesime critiche alla consulenza e non ne ha nemmeno trascritto i passaggi salienti nel ricorso per cassazione. 

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La Cassazione sui poteri del giudice minorile nei giudizi de potestate

Cass. Civ., Sez. I, ord. 3.8.2022 n. 24118
In materia di provvedimenti sulla responsabilità genitoriale, il giudice non può fondare la propria decisione solo sulla dichiarazione del minore resa nel corso dell’audizione giudiziale. 
Diversi sono, infatti, i poteri e i doveri del giudicante minorile, rispetto a quelli esercitati nel diritto civile: essi sono tanto più intensi quanto più incisivo è l’oggetto dell’accertamento che deve essere eseguito in relazione sulla valutazione prognostica del preminente interesse del minor pregiudizio per i minori.

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Separazione: i genitori devono proteggere il figlio dall’esposizione al conflitto in atto tra loro.

Per la Corte di Cassazione è stigmatizzabile il comportamento di entrambi i genitori che non solo non hanno protetto la prole dall'esposizione al conflitto in atto tra di loro, ma hanno anche in più riprese tentato di coinvolgerla cercando di attivare meccanismi antagonisti di fedeltà e di distanziamento del tutto pregiudizievoli per il benessere del minore.

(Cass. Civ., sez. VI - 1, ord. 1° giugno 2022, n. 17892).

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Determinazione dell’assegno di mantenimento: le indagini della polizia tributaria come strumento per accertare il tenore di vita della famiglia.

In tema di separazione giudiziale dei coniugi, ai fini della determinazione dell'assegno di mantenimento in favore del coniuge economicamente più debole e dei figli minorenni o maggiorenni ma non economicamente autosufficienti, occorre accertare il tenore di vita della famiglia durante la convivenza dei coniugi a prescindere dalla provenienza delle consistenze reddituali o patrimoniali godute, assumendo pertanto rilievo anche i redditi occultati al fisco, all'accertamento dei quali l'ordinamento prevede strumenti processuali ufficiosi, quali le indagini della polizia tributaria. Nei giudizi di separazione giudiziale dei coniugi, il potere di disporre indagini della polizia tributaria, derivante dall'applicazione analogica della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 9, costituisce una deroga alle regole generali sul riparto dell'onere della prova, il cui esercizio è espressione della discrezionalità del giudice di merito che, però, incontra un limite in presenza di fatti precisi e circostanziati in ordine all'incompletezza o all'inattendibilità delle risultanze fiscali acquisite al processo. In tali casi, il giudice ha il dovere di disporre le indagini della polizia tributaria, non potendo rigettare le domande volte al riconoscimento o alla determinazione dell'assegno, fondate proprio sulle circostanze specifiche che avrebbero dovuto essere verificate per il tramite delle menzionate indagini.

(Cass. Civ., Sez. I, Ord., 19 luglio 2022, n. 22616)

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Ridotto l’assegno alla ex che non ha sacrificato le aspettative.

Il riconoscimento dell'assegno di divorzio in favore dell'ex coniuge, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, ai sensi dell'art. 5, comma 6, della L. n. 898 del 1970, richiede l'accertamento dell'inadeguatezza dei mezzi dell'ex coniuge istante, e dell'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, applicandosi i criteri equi-ordinati di cui alla prima parte della norma, i quali costituiscono il parametro cui occorre attenersi per decidere sia sulla attribuzione sia sulla quantificazione dell'assegno. Il giudizio dovrà essere espresso, in particolare, alla luce di una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonché di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio ed all'età dell'avente diritto. La funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi, anch'essa assegnata dal legislatore all'assegno divorzile, non è finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endo-coniugale, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall'ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi.

(Cass. civ., Sez. VI - 1, Ordinanza, 24/06/2022, n. 20471)

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Negoziabilità del cognome dopo la decisione della Corte Costituzionale.

Nell'ambito della questione di legittimità costituzionale sollevata dell'art. 262, primo comma, secondo periodo, c.c., la norma sull'attribuzione del cognome del padre è il retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, il riflesso di una disparità di trattamento che, concepita in seno alla famiglia fondata sul matrimonio, si è proiettata anche sull'attribuzione del cognome al figlio nato fuori dal matrimonio, ove contemporaneamente riconosciuto. Si tratta di un automatismo che non trova alcuna giustificazione nell'art. 3 Cost., sul quale si fonda il rapporto fra i genitori, uniti nel perseguire l'interesse del figlio. La declaratoria di illegittimità costituzionale della norma relativa all'attribuzione del cognome al figlio nato nel matrimonio discende in via consequenziale dalla illegittimità costituzionale dell'art. 262, primo comma, secondo periodo, c.c., in ragione della loro sostanziale identità di contenuto. Difatti, la norma sull'attribuzione del cognome ai figli nati nel matrimonio è costituzionalmente illegittima, nella parte in cui prevede l'attribuzione del cognome del padre al figlio, anziché prevedere che il figlio assume i cognomi dei genitori, nell'ordine dai medesimi concordato, fatto salvo l'accordo, alla nascita, per attribuire il cognome di uno di loro soltanto.

Di conseguenza l’accordo tra i due genitori è imprescindibile per poter attribuire al figlio il cognome di uno soltanto dei genitori. In mancanza di questo accordo devono attribuirsi i cognomi di entrambi i genitori, nell’ordine dagli stessi deciso, e qualora questo ulteriore accordo manchi è necessario l’intervento del giudice.

(Corte cost., 31/05/2022, n. 131)

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Guida sotto l’effetto di droghe, patteggiamento e sospensione della patente di guida.

Pronunciandosi su un ricorso proposto avverso la sentenza con cui il tribunale aveva applicato la pena prevista per il reato di guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, senza irrogare la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida, la Corte di Cassazione penale, Sez. IV, con la sentenza 4 luglio 2022, n. 25340 ha affermato il principio secondo cui in sede di patteggiamento, l’omissione derivante dalla mancata applicazione della sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida, in quanto non oggetto dell’accordo tra le parti, dev'essere emendata in quanto tale sanzione consegue obbligatoriamente all’accertamento del reato in esame, e, avendo contenuto discrezionale in quanto ricompresa in un “range” normativamente definito (tra uno e due anni), dev’essere stabilita dal giudice di merito e non può essere applicata direttamente dalla Suprema Corte in sede di annullamento con rinvio della sentenza medesima.

(Cass. pen., Sez. IV, 01/06/2022, n. 25340)

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Non è discriminatorio imporre al padre di astenersi dal coinvolgere la figlia nelle sue attività religiose.

Per la Corte europea dei diritti umani, non vi è alcuna discriminazione, basata sulla religione, nelle decisioni nazionali che abbiano esclusivamente lo scopo di risolvere la controversia tra coniugi, puntando soprattutto sull'interesse del minore a crescere in un ambiente aperto e sereno e conciliando, per quanto possibile, i diritti ed il credo religioso di entrambi i genitori. (Nella specie, il fatto che la Corte nazionale avesse ordinato al padre di astenersi dal coinvolgere attivamente la figlia nelle sue attività religiose non può essere considerato come una differenza di trattamento tra lui e la madre basata sulla religione, in quanto questa misura aveva solo una minima influenza sulle pratiche religiose del padre e aveva il solo scopo di risolvere il conflitto derivante dall'opposizione dei principi educativi dei due, sotto il punto di vista della salvaguardia dell' interesse del minore).

(Corte europea diritti dell'uomo, Sez. I, 19/05/2022, n. 54032/18)

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Prima di dichiarare il minore adottabile occorre verificare l'effettiva ed attuale possibilità di recupero delle capacità e competenze genitoriali.

In tema di adozione di minori d'età, sussiste la situazione d'abbandono non solo nei casi di rifiuto intenzionale dell'adempimento dei doveri genitoriali, ma anche qualora la situazione familiare sia tale da compromettere in modo grave e irreversibile un armonico sviluppo psico-fisico del bambino, considerato in concreto, ossia in relazione al suo vissuto, alle sue caratteristiche fisiche e psicologiche, alla sua età, al suo grado di sviluppo e alle sue potenzialità; ne consegue l'irrilevanza della mera espressione di volontà dei genitori di accudire il minore in assenza di concreti riscontri.

(Cass. civ., Sez. I, Ordinanza, 06/06/2022, n. 18157)

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Separazione: l'assegno di mantenimento va rapportato ai redditi necessari a mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.

In tema di determinazione del "quantum" dell'assegno di mantenimento, la valutazione delle condizioni economiche delle parti non richiede necessariamente l'accertamento dei redditi nel loro esatto ammontare, essendo sufficiente un'attendibile ricostruzione delle complessive situazioni patrimoniali e reddituali dei coniugi. 
I "redditi adeguati" cui va rapportato, ai sensi dell'art. 156 c.c., l'assegno di mantenimento a favore del coniuge, in assenza della condizione ostativa dell'addebito, sono quelli necessari a mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, essendo ancora attuale il dovere di assistenza materiale.

(Cass. Civ., Sez. VI - 1, ord., 28 giugno 2022, n. 20764)

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Revoca assegno divorzile esclusa per fatti non sopravvenuti alla pronuncia della sentenza.

In tema di revoca dell’assegno divorzile, l’attività lavorativa pacificamente già in essere all’epoca della pronuncia della sentenza di divorzio non può reputarsi un fatto nuovo sopravvenuto. Ciò in applicazione del principio secondo cui, ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 9, le sentenze di divorzio passano in cosa giudicata rebus sic stantibus, rimanendo cioè suscettibili di modifica quanto ai rapporti economici o all’affidamento dei figli, in relazione alla sopravvenienza di fatti nuovi, mentre la rilevanza dei fatti pregressi e delle ragioni giuridiche non addotte nel giudizio che vi ha dato luogo rimane esclusa in base alla regola generale secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile.

(Cass. Civ., Sez. I, Ord., 15 giugno 2022, n. 19302)

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Niente ordini di protezione contro il coniuge non più convivente, anche se ha agito in giudizio per rientrare in casa

Lorenzo Mariani 

Con ordinanza del 30.06.2022, la Sezione I del Tribunale di Roma ha deciso su un ricorso per ordini di protezione contro gli abusi familiari ex art. 342 bis cc presentato da una donna avverso il marito.

 

Secondo la ricorrente, l'uomo aveva avuto atteggiamenti via via sempre più aggressivi verso di lei e i figli - nati da un precedente matrimonio - per i quali era stato oltretutto denunciato. Adduceva che il resistente si era allontanato dalla casa coniugale per poi presentare ricorso per la reintegrazione nel possesso ex art. 1168 cc al fine di rientrarvi. L’accoglimento di tale domanda giudiziale, quindi, avrebbe comportato il ritorno dell'uomo in casa, stante anche il fatto che le autorità penali non avevano disposto alcuna misura cautelare nei suoi confronti.

 

Il marito, costituitosi, negava di aver mai tenuto i comportamenti violenti contestatigli, dichiarava di non avere alcuna intenzione di tornare a convivere con la donna, rappresentava che la signora aveva sporto denuncia-querela solo in seguito all'allontanamento, che entrambi avevano depositato ricorso per la separazione giudiziale e che egli aveva agito ex art. 1168 cc solo per rientrare in possesso dei suoi effetti personali, rimasti nella casa coniugale e mai restituiti dalla signora, la quale aveva sostituito la serratura di casa in sua assenza.


Dopo due udienze e la sopravvenuta vittoria del marito nel giudizio di reintegra nel possesso, il giudice ha rigettato il ricorso per difetto del requisito di attuale convivenza.

 

Con l’occasione, il giudicante analizza vari aspetti della tutela ex artt. 342 bis e ter cc, anche in relazione alle misure cautelari di natura penale e al giudizio di separazione tra coniugi.

 

In breve, secondo il ragionamento del giudice:

 

- la finalità della tutela apprestata è quella di impedire, proprio con l’interruzione della convivenza, il protrarsi o l’insorgere di situazione di pericolo per l’integrità fisica o morale del soggetto pregiudicato all’interno del nucleo familiare. Infatti, l'allontanamento del familiare pericoloso, assieme all'ammonimento, rappresenta il contenuto minimo dell'ordine di protezione, ai sensi dell'art. 342 ter cc.

 

- Per tale ragione, in assenza del predetto requisito, la possibile estensione della tutela nei confronti di ogni “altro componente del nucleo familiare diverso dal coniuge o dal convivente” sarebbe illogica, non trovando altrimenti spiegazione la scelta di perseguire familiari aliunde residenti, magari anche a centinaia chilometri di distanza dalla parte lesa, rispetto a terzi, privi di qualsivoglia rapporto di parentela, responsabili di condotte ugualmente pregiudizievoli.

 

- la tutela civilistica contro gli abusi familiari è complementare, anche se non necessariamente successiva, a quella cautelare in sede penale, la quale non richiede il requisito della attuale convivenza. Pertanto, avendo la signora denunciato il marito, potrà trovare protezione in tale sede ove ve ne siano i presupposti.

 

- Il requisito della convivenza (inteso come “perdurante coabitazione”) sussiste anche quando sia stato il familiare in pericolo ad allontanarsi per via del timore di subire violenza fisica dal congiunto, mantenendo, tuttavia, nell'abitazione familiare il centro degli interessi materiali ed affettivi. 

Nel caso di specie, era stato il marito ad allontanarsi, mentre la moglie era rimasta nella casa familiare, così come era incontestato che la donna avesse cambiato la serratura di casa e l'uomo, una volta ottenuta la reintegra nel possesso, non avesse preteso di continuare a convivere con la donna ma avesse solo recuperato i propri effetti personali.

 

- Stante la pendenza di un giudizio di separazione, le reciproche pretese delle parti - tra cui le allegazioni di violenza della donna - potranno trovare tutela in tale sede una volta provate.

 

La pronuncia in parola conferma quindi l’orientamento, in tema di tutela ex art. 342 bis e ter cc contro gli abusi familiari, che vede la convivenza attuale come un requisito imprescindibile, anche in ragione del suo carattere complementare rispetto alla tutela penale.

 

Sono invece rintracciabili arresti di segno contrario, che valorizzano il rischio di ritorno del familiare in casa con conseguente pericolo per l’incolumità del ricorrente. Si veda Tribunale Perugia, sez. I, 7.8.2020 e Tribunale Napoli, 19 dicembre 2007.


Tribunale di Roma, Sez. I, 30.06.2022 (testo completo)


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Stati Uniti: la Corte Suprema ha de-federalizzato il diritto all'aborto.

La decisione della Corte Suprema Dobbs v. Jackson Women's Health Organization ha fatto discutere in tutto il mondo per aver negato valenza costituzionale federale al diritto di abortire quale espressione della privacy e dell’autodeterminazione della singola donna. Va chiarito innanzitutto che il diritto di abortire non è stato “abolito”, ma “restituito” nelle mani della legislazione statale, invece che in quelle della disciplina federale. In poche parole ciascuno Stato dell’Unione deciderà per sé, e questo significa che la disciplina non sarà più uguale in tutti gli Stati. Di fatto è stata ripristinata la situazione precedente al caso Roe v. Wade.

Per i 185 anni successivi all’adozione della Costituzione, infatti, ciascuno Stato poteva regolarsi secondo le intenzioni dei suoi cittadini. Nel 1973 la Corte Suprema adottò Roe v. Wade, che è stata ora considerata dalla Corte Suprema come erronea, poiché nella Costituzione e nel Bill of Righs non si fa alcuna menzione dell’aborto. 

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Relazione extraconiugale intrattenuta con la moglie del fratello della donante: è ingiuria grave.

Per la Cassazione, l'adulterio maturato all'interno del nucleo familiare ristretto dei due coniugi e sviluppato nella cornice di un comune ambiente lavorativo vale a connotare in termini di gravità l'offesa all'onore patita dal coniuge tradito, tanto da giustificare, ai sensi dell' art. 801 c.c., la revocazione delle donazioni indirette.

(Cassazione civile, sez. III, ordinanza 20 giugno 2022, n. 19816)

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Cassazione: delibabilità della sentenza di nullità ecclesiastica anche in caso di convivenza ultratriennale. Attendendo il giudizio di rinvio della Corte di Appello

La Corte di Cassazione, Sez. I, con Ordinanza n. 17910 del 01.06.2022, ha rinviato la causa alla Corte di Appello di Firenze, la quale - sulla base del principio della convivenza ultratriennale - aveva negato la delibazione di una sentenza di nullità ecclesiastica per incapacità della moglie di procreare, tenuta dolosamente nascosta dalla donna all'uomo.


Gli Ermellini hanno infatti affermato che la convivenza ultratriennale come coniugi, pur costituendo ostacolo di ordine pubblico, non osta alla dichiarazione di efficacia della sentenza ecclesiastica nel caso in cui l'ipotesi di nullità sia presente anche nell’ordinamento italiano, senza termini di decadenza o possibilità di sanatoria. 

Nel caso in esame, il Tribunale ecclesiastico aveva pronunciato la nullità per una fattispecie coincidente con la previsione di cui all’art. 122 cc., ossia l'errore essenziale sulle qualità personali, per il quale non è previsto il termine dei tre anni di convivenza ma il diverso termine di un anno dalla scoperta dell'errore.

Si attende ora l'esito del giudizio di rinvio. 

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Colpito dalle porte scorrevoli del supermercato: la responsabilità è extracontrattuale.

La Corte di Cassazione (ordinanza 19 maggio 2022, n. 16224) conclude una lunghissima vicenda processuale, che trae origine da un infortunio occorso nel 1999 al cliente di un supermercato. Lo scorrere del tempo non è un fattore di poco conto, così come il titolo della responsabilità, perché la materia del contendere è la prescrizione o meno del diritto del danneggiato ad ottenere il risarcimento. La conclusione è che si tratti di responsabilità extracontrattuale per i motivi che seguono.

Nell'esecuzione dell'obbligo di consegna della cosa venduta all'interno del supermercato, l'eventuale pericolo di pregiudizio dell'incolumità fisica del compratore non è occasionato dalle modalità di adempimento delle obbligazioni del venditore ma piuttosto dalla potenzialità dannosa delle cose che si trovano all'interno del locale, sicché il rischio di danno, non essendo legato all'attuazione dell'obbligo contrattuale, concerne allo stesso modo e con le medesime probabilità di accadimento tanto la persona che abbia provveduto all'acquisto, e sia parte di un contratto di vendita con l'eventuale responsabile, quanto la persona che non vi abbia provveduto ma che comunque si trovi all'interno dei locali. In tal caso, l'eventuale concretizzazione di questo rischio in un evento di danno, ascrivibile non alla mancata osservanza della dovuta diligenza adempitiva da parte del venditore ma all'esplicazione della predetta potenzialità dannosa delle cose che si trovano nel supermercato, può essere riguardato esclusivamente quale fatto generatore di responsabilità extracontrattuale a carico del custode delle cose medesime.

(Cass. civ., Sez. III, Ordinanza, 19/05/2022, n. 16224)

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La ex laureata e in grado di lavorare non ha diritto all’assegno di divorzio.

Il riconoscimento dell'assegno di divorzio, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, richiede l'accertamento dell'inadeguatezza dei mezzi dell'ex coniuge istante e dell'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, applicandosi i criteri equi-ordinati di cui alla prima parte della norma, i quali costituiscono il parametro cui occorre attenersi per decidere sia sulla attribuzione sia sulla quantificazione dell'assegno. In particolare, si impone una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente l'assegno divorzile alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonché di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio ed all'età dell'avente diritto. La natura perequativo-compensativa, che discende direttamente dalla declinazione del principio costituzionale di solidarietà, conduce, quindi, al riconoscimento di un contributo volto a consentire al coniuge richiedente, non il conseguimento dell'autosufficienza economica sulla base di un parametro astratto, bensì il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate. La funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi, anch'essa assegnata dal legislatore all'assegno divorzile, non è finalizzata, peraltro, alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall'ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi (Cass. Sez. U., 11/07/2018, n. 18287; Cass., 23/01/2019, n. 1882).

L'assegno divorzile deve assicurare all'ex coniuge richiedente, in ragione della sua finalità composita - assistenziale, perequativa e compensativa -, un livello reddituale adeguato al contributo dallo stesso fornito in ogni ambito di rilevanza declinato tramite i suddetti parametri, mediante complessiva ponderazione dell'intera storia coniugale e della prognosi futura, ponendosi lo squilibrio reddituale come pre-condizione fattuale dell'ulteriore accertamento del nesso causale tra detto squilibrio e il ruolo endofamiliare svolto dal richiedente, che abbia comportato il sacrificio delle sue aspettative professionali, a ciò essendo volta la finalità compensativo-perequativa, mentre la funzione assistenziale è destinata a valere là dove la situazione economico-patrimoniale di uno degli ex coniugi non gli garantisca l'autosufficienza.

(Cass. civ., Sez. I, Ordinanza, 30/03/2022, n. 10232)

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Il credito relativo al mantenimento dei figli non è compensabile.

Il credito relativo al mantenimento dei figli (anche maggiorenni, se ancora non economicamente indipendenti) ed il credito a titolo di mantenimento del coniuge hanno struttura e natura diverse e, proprio per la loro diversità ontologica, soggiacciono a regimi giuridici differenti. 

In forza del combinato disposto degli artt. 315-bis e 433 c.c., il credito relativo al mantenimento dei figli, in quanto riferito a soggetti carenti di autonomia economica, come tali titolari di un diritto di sostentamento, presuppone uno stato di bisogno strutturale ed ha, dunque, natura propriamente alimentare. Tale connotazione conferisce, pertanto, al suddetto credito carattere di indisponibilità ed impignorabilità ed impedisce che lo stesso possa essere oggetto del meccanismo di elisione reciproca dei crediti tipico dell'istituto della compensazione. La maggiore tutela apprestata dall'ordinamento ai figli è volta ad evitare che questi, già in posizione di debolezza nel nucleo familiare, risultino eccessivamente gravati dalle conseguenze che la dissoluzione del rapporto coniugale può loro comportare.

(Tribunale di Modena, sent. 9 febbraio 2022 n. 135)

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Sulla validità del contratto vitalizio di mantenimento.

Il Tribunale di Benevento è stato chiamato a decidere sulla validità di un contratto di mantenimento vitalizio oneroso stipulato dalla de cuius con colei che le aveva prestato assistenza.

Gli attori impugnavano la validità del contratto asserendo la mancanza di aleatorietà e di proporzionalità. 

Il Tribunale respingeva le domande degli attori, in quanto nell'atto si dava atto del credito maturato dalla datrice di cure per via dell'assistenza morale e materiale fornita alla parte cedente per ben quindici anni e per le spese di manutenzione dell'immobile dalla stessa affrontate nell'interesse della cedente. Per il giudice i valori indicati nel rogito non appaiono affatto sproporzionati e in ogni caso rappresentano una libera e ragionevole espressione della libera autonomia negoziale delle parti.

(Tribunale di Benevento 2 febbraio 2022)

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Revocabilità di una donazione per ingratitudine.

L'ingiuria grave richiesta dall’art. 801 c.c. quale presupposto necessario per la revocabilità di una donazione per ingratitudine si caratterizza per la manifestazione esteriorizzata, ossia resa palese ai terzi, mediante il comportamento del donatario, di un durevole sentimento di disistima delle qualità morali e di rispettosità della dignità del donante, contrastanti con il senso di riconoscenza che, secondo la coscienza comune, dovrebbero invece improntarne l'atteggiamento.

Cass. Civ., Sez. II, Ord., 29 aprile 2022, n. 13544

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L'apertura della successione non comporta l'acquisto della qualità di erede in favore dei successibili ex lege.

L'apertura della successione non comporta l'acquisto della qualità di erede in favore dei successibili ex lege, ma soltanto l'acquisto della qualità di chiamato alla eredità: solo ove avvenga l'accettazione, anche tacita, il chiamato si considera erede. 

La prova della avvenuta accettazione della eredità compete al creditore interessato. Non costituisce accettazione dell’eredità la mera presentazione della dichiarazione di successione. 

Il chiamato all'eredità, che abbia ad essa rinunciato, non si può considerare erede, neppure per l'arco temporale intercorrente tra l'apertura della successione e la rinuncia, nemmeno se esso risulti nella categoria dei successibili ex lege o abbia presentato denuncia di successione.

(Tribunale di Venezia, 9 febbraio 2022)

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Illegittime tutte le norme che attribuiscono automaticamente il cognome del padre.

La Corte costituzionale, riunita in camera di consiglio, ha esaminato oggi le questioni di legittimità costituzionale sulle norme che regolano, nell’ordinamento italiano, l’attribuzione del cognome ai figli. In particolare, la Corte si è pronunciata sulla norma che non consente ai genitori, di comune accordo, di attribuire al figlio il solo cognome della madre e su quella che, in mancanza di accordo, impone il solo cognome del padre, anziché quello di entrambi i genitori. 

In attesa del deposito della sentenza, l’Ufficio comunicazione e stampa della Corte costituzionale fa sapere che le norme censurate sono state dichiarate illegittime per contrasto con gli articoli 2, 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli articoli 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. 

La Corte ha ritenuto discriminatoria e lesiva dell’identità del figlio la regola che attribuisce automaticamente il cognome del padre. 

Nel solco del principio di eguaglianza e nell’interesse del figlio, entrambi i genitori devono poter condividere la scelta sul suo cognome, che costituisce elemento fondamentale dell’identità personale. 

Pertanto, la regola diventa che il figlio assume il cognome di entrambi i genitori nell’ordine dai medesimi concordato, salvo che essi decidano, di comune accordo, di attribuire soltanto il cognome di uno dei due. 

In mancanza di accordo sull’ordine di attribuzione del cognome di entrambi i genitori, resta salvo l’intervento del giudice in conformità con quanto dispone l’ordinamento giuridico.

La Corte ha, dunque, dichiarato l’illegittimità costituzionale di tutte le norme che prevedono l’automatica attribuzione del cognome del padre, con riferimento ai figli nati nel matrimonio, fuori dal matrimonio e ai figli adottivi. 

È compito del legislatore regolare tutti gli aspetti connessi alla presente decisione. 

La sentenza sarà depositata nelle prossime settimane.

(Comunicato della Corte Costituzionale del 26 aprile 2022)

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Il testatore può escludere la successione per rappresentazione.

La successione per rappresentazione consente che determinati soggetti (c.d. rappresentanti) vengano all'eredità subentrando nel luogo e nel grado del loro ascendente (c.d. rappresentato) che non possa o non voglia accettare. La clausola impugnata escludeva l’operatività della rappresentazione in relazione al legato di somma di denaro disposto in favore della sorella del de cuius: in tal modo, il testatore impediva ai nipoti di beneficiare del lascito qualora la legataria non avesse voluto o potuto acquistare il legato (come poi accaduto, per la premorienza della sorella al fratello). Il rispetto dell'autonomia testamentaria prevale su qualsiasi altro aspetto: d’altro canto, questa porta alla prevalenza della sostituzione sulla rappresentazione per il caso che il primo chiamato non venga alla successione (art. 688). Il testatore, dunque, nominando non solo il proprio erede, ma anche la persona del sostituito, impedisce che la devoluzione del suo patrimonio, in mancanza del primo chiamato, avvenga secondo i criteri di legge.

Il testatore può quindi escludere espressamente l’operatività della rappresentazione nei riguardi di eredi non legittimari prevedendo, nel testamento, una clausola di esclusione dell’operatività della rappresentazione, che costituisce così una forma di diseredazione implicita.

Tribunale di Verona, ord. 26 gennaio 2022

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La collazione in caso di mancanza di un relictum.

La collazione (artt. 737 c.c. e ss.) è un istituto giuridico tipico della divisione ereditaria e consiste nell'obbligo che ha ciascun figlio o altro discendente, legittimo o naturale, che concorre alla successione, sia pure con beneficio d’inventario, insieme con i fratelli o con le sorelle e con i loro discendenti, di conferire ai coeredi tutto ciò che ha ricevuto dal donatore per donazione, direttamente o indirettamente. 

L'art. 724 c.c., rubricato "Collazione e imputazione", prevede che "I coeredi tenuti a collazione [747 c.c.], a norma del capo II di questo titolo [737 ss. c.c.], conferiscono tutto ciò che è stato loro donato. Ciascun erede deve imputare alla sua quota le somme di cui era debitore verso il defunto e quelle di cui è debitore verso i coeredi in dipendenza dei rapporti di comunione". I soggetti tenuti alla collazione sono individuati dall'art. 737 c.c. e sono: I figli e i loro discendenti ed il coniuge (non sono soggetti a collazione le donazioni di modico valore fatte al coniuge). 

Con la morte del testatore, i beni relitti vengono acquistati pro quota dagli eredi, tra i quali si forma una comunione ereditaria soggetta alla disciplina generale di cui agli artt. 1110 e ss c.c. Tale comunione, che potrebbe protrarsi anche a tempo indeterminato, si scioglie, previa domanda da parte di un coerede, con la divisione, atto mediante il quale ciascuno dei condividenti passa dalla titolarità di una “pars quota” alla titolarità di una “pars quanta” di pari valore, ottenendo l’assegnazione di uno o più beni determinati in proprietà esclusiva a fronte della quota di comproprietà vantata sulla massa indistinta. Questione rilevante nel dibattito dottrinale e giurisprudenziale è quella della compatibilità tra mancanza di relictum e collazione. È discusso cioè se possa avere luogo la collazione anche quando manchi un relictum, vale a dire quando il de cuius abbia esaurito i suoi beni donandoli in vita o legandoli. Sul punto, la Corte di Cassazione (Cass., 6 giugno 1969, n. 1988) riteneva che l’obbligo alla collazione sorgesse automaticamente a seguito dell’apertura della successione e divenisse operante a seguito dell’accettazione dell’eredità, con la conseguenza che i beni donati concorressero alla formazione della massa ereditaria (da dividersi tra i soggetti tenuti alla collazione). Non avrebbe avuto rilevanza l’assenza di un relictum ereditario da dividere, potendo una comunione derivare soltanto dalla collazione delle donazioni. Il coerede donatario sarebbe stato dunque tenuto a conferire quanto ricevuto dal de cuius a prescindere dalla sussistenza di ulteriori beni relitti. 

Oggi tale orientamento sembra essere mutato (Cassazione civile sez. II, 21 dicembre 2021, n. 41132). La Cassazione ritiene che non possa esservi collazione se l’asse ereditario è stato esaurito con donazioni e/o legati. Se viene a mancare un relictum da dividere non vi è luogo a divisione e, quindi, neppure a collazione, salvo sempre l’esito dell’eventuale azione di riduzione.

"La collazione presuppone l’esistenza di una comunione ereditaria e, quindi, di un asse da dividere, mentre, se l’asse è stato esaurito con donazioni o con legati, o con le une e con gli altri insieme, viene meno un “relictum” da dividere, sicché non vi è luogo a divisione e, quindi, a collazione che non potrebbe essere invocata neppure per effetto dell’eventuale azione di riduzione che mira unicamente a far ottenere al legittimario, titolare di un diritto proprio, riconosciutogli dalla legge, l’integrazione della quota di riserva spettantegli e non già la costituzione di una comunione tra coeredi".

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La violazione del diritto alla bigenitorialità da parte di un genitore non comporta la decadenza dalla responsabilità genitoriale.

La violazione del diritto alla bigenitorialità da parte del genitore che ostacoli i rapporti del figlio con l’altro genitore, e la conseguente necessità di garantire l’attuazione di tale diritto, non impongono necessariamente la pronuncia di decadenza del genitore malevolo dalla responsabilità genitoriale e l’allontanamento del minore dalla sua residenza, ma è necessario verificare, nell’interesse del minore, la possibilità che tale rimedio incontri, nel caso concreto, un limite nell’esigenza di evitare un trauma, anche irreparabile, allo sviluppo fisico-cognitivo del figlio, in conseguenza della improvvisa e radicale esclusione di ogni relazione con il genitore con il quale ha sempre vissuto, coltivando i propri interessi di bambino, e della correlata lacerazione di ogni consuetudine di vita. 

(Cassazione civile, sez. I, ordinanza 24 marzo 2022, n. 9691)

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Sì al mantenimento alla madre anche se il figlio va a vivere con il padre.

Secondo la Cassazione, è legittimata la madre che agisce per il mantenimento del figlio, anche se questi vive con il padre e se agisce esecutivamente, in base al titolo formatosi in sede di separazione, il marito obbligato può opporsi in sede di modifica delle condizioni di separazione o divorzio se fa valere il fatto sopravvenuto della convivenza con il figlio.

I fatti sopravvenuti, ovvero il fatto che il figlio sia andato a vivere con il padre, potevano quindi essere fatti valere dal marito per ottenere la modifica delle condizioni della separazione o del divorzio, non in sede di opposizione all'esecuzione, dove si possono far valere solo questioni che riguardano la validità e l'efficacia del titolo e non i fatti sopravvenuti.

(Cassazione n. 37244/2021)

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Sì all’assegno divorzile in Se la sproporzione economico-patrimoniale tra le parti è riconducibile alle scelte di conduzione familiare condivise in costanza di matrimonio.

Se la sproporzione economico-patrimoniale tra le parti è riconducibile alle scelte di conduzione familiare adottate e condivise in costanza di matrimonio ed ha comportato il sacrificio delle aspettative professionali dell'ex coniuge, a quest’ultimo deve essere riconosciuto l’assegno divorzile.

(Cass. Civ., Sez. VI - 1, Ord., 05 aprile 2022, n. 11044)

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Cassazione: si all'adozione ad opera del coniuge della madre anche se il padre biologico è ancora in vita.

La Corte d’appello di Bologna, identificando nella morte del padre biologico o nella decadenza dalla responsabilità o palese disinteresse dello stesso i presupposti dell’adozione in casi particolari ad opera del coniuge della madre, la nega al richiedente per la persistenza di un valido rapporto tra il padre e la minore e per la non praticabilità di una responsabilità genitoriale divisa tra tre persone. 

L’interessato ricorre, rilevando che la responsabilità genitoriale competerebbe solo alla madre e all’adottante e che il padre biologico conserverebbe una mera funzione di controllo, nonché affermando che il principio sulla base del quale l’adozione deve o meno essere disposta consiste nella realizzazione dell’interesse del minore, che nel caso concreto risulta dagli atti. Infine, afferma la contraddittorietà della motivazione della sentenza oggetto di gravame. 

La Corte di legittimità, ritenuti fondati i motivi, accoglie il ricorso, affermando che l’idea che il minore possa avere una sola famiglia è smentita dalla riforma della filiazione.

(Cassazione civile, sez. I, ordinanza 5 aprile 2022, n. 10989)

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Separazione dei coniugi: Il diritto di difesa in giudizio prevale sulla tutela della privacy

Con la Sentenza n. 4296 del 18.03.2022, la I Sezione Civile del Tribunale di Roma ha pronunciato separazione personale tra una coppia di professionisti con due figli maggiorenni, affrontando numerose tematiche di diritto sostanziale e processuale.

In particolare, in materia di prova dell’infedeltà coniugale ai fini dell’addebito, il Tribunale ricordava che la produzione in giudizio, da parte di un coniuge, di messaggi WhatsApp presenti sul cellulare dell’altro non viola la normativa sulla privacy, poiché essa “non trova applicazione in generale allorquando i dati personali, pur se non concernenti una parte del giudizio, vengano raccolti nell’ambito di un processo, laddove è il diritto di difesa, esercitato in maniera pertinente e non eccedente le sue finalità, a prevalere, con le forme stabilite dal codice di rito (vedi Cass. civ. SU 3034/11, Cass. civ. 18279/10, 7783/14)”.

Sempre in relazione alla prova dell’addebito, il giudice ricorda che: “le riproduzioni fotografiche, informatiche e le rappresentazioni meccaniche di cui all'art. 2712 c.c. (tra cui gli “sms” e le “emails”) formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate se colui contro il quale vengono prodotte non ne disconosca la conformità ai fatti o alle cose medesime (vedi Cass. civ. 11606/2018, 5141/2019) in modo circostanziato e specifico, mediante l’allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra la realtà fattuale e quella riprodotta (vedi tra le altre Cass. civ. 1250/18, 2117/11, 17526/16)”.

La pronuncia in esame presenta ulteriori questioni interessanti, in materia di onere della prova dell’infedeltà coniugale - con riferimento anche all’attendibilità dei testi – nonché in materia di prova delle condizioni economiche del coniuge economicamente più debole tramite facta concludentia di quello più forte, di raggiungimento dell’indipendenza economica dei figli maggiorenni e di procedibilità delle domande di risarcimento per danno da illecito endofamiliare (in particolare il cd. per mobbing coniugale).

Pertanto, si invita alla lettura dell’intero provvedimento.

Trib. Roma, Sez. I, Sent. 18.03.2022, n. 4296 (testo completo)

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Il concorso tra la violenza sessuale e la violenza privata.

Secondo la Corte di Cassazione (sentenza n. 3706 del 2 febbraio 2022), il delitto di violenza privata non concorre con quello di violenza sessuale quando la violenza fisica o morale è del tutto strumentale rispetto al compimento degli atti sessuali e non rappresenta un quid pluris de eccede il compimento dell'attività sessuale coatta. Quando invece, dalla ricostruzione dell'accaduto, la violenza privata risulta del tutto sganciata dalla commissione del delitto di violenza sessuale, i reati possono concorrere: nel caso in cui, infatti, la realizzazione del fatto di violenza privata non sia stata strumentale rispetto al compimento degli atti sessuali ma abbia una propria autonomia fattuale, non è possibile accertare l'assorbimento di tale delitto in quelli ex art. 609-bis c.p.

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L'accordo tra i genitori esclude il mantenimento ai figli? Il giudice non è vincolato.

Anche in presenza di un accordo che non preveda la corresponsione di somme destinate al mantenimento della prole, i giudici di merito, ritenendo tale mancata pattuizione in contrasto con l’interesse dei minori, possono porre a carico del genitore non collocatario l'assegno di mantenimento in favore dei figli.

La tutela degli interessi morali e materiali della prole è sottratta quindi all’iniziativa ed alla disponibilità delle parti ed è sempre riconosciuto al giudice il potere di adottare d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio di merito, tutti i provvedimenti necessari per la migliore protezione dei figli e di esercitare, in deroga alle regole generali sull’onere della prova, i poteri istruttori officiosi necessari alla conoscenza della condizione economica e reddituale delle parti.

(Cassazione civile, sez. VI, sentenza 22 febbraio 2022, n. 5777)

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Obbligare la propria moglie a indossare il velo islamico è reato.

Il Tribunale di Lecce, con la sentenza n. 531 del 23 febbraio 2022, ha statuito su un caso che riguardava un imputato di origini marocchine e di religione musulmana, che si era coniugato con una donna di origini marocchine, ma cittadina italiana in quanto nata e cresciuta in Italia. Immediatamente dopo il matrimonio l'imputato avrebbe manifestato un atteggiamento minaccioso, vessatorio e aggressivo nei confronti della moglie, impedendole di uscire e umiliandola fisicamente e verbalmente. Tra le altre condotte sottoposte al vaglio del Tribunale, l’imputato avrebbe obbligato la donna ad indossare il velo islamico. 

Con la sentenza in parola, il Tribunale condannava l'imputato alla pena di anni 5 di reclusione e al risarcimento del danno pari a 50.000 euro in favore della parte civile, stabilendo che “l'imposizione del velo islamico ad una sposa nata e cresciuta in un paese democratico è maltrattamento” e che l'imputato “non potrà invocare le differenze culturali e religiose per scriminare comportamenti incompatibili con il diritto italiano perché ha scelto di vivere in Italia, dove assume centralità il rispetto della persona umana ai sensi dell'art. 3 Cost., affinché sia consentita l'instaurazione di una società civile multietnica”. Dunque, “il reato in esame non può essere escluso dalla circostanza che il reo sia di religione musulmana e rivendichi, per ciò, particolari potestà quale capo del proprio nucleo familiare, in quanto trattasi di concezioni che si pongono in assoluto contrasto con le norme cardine che informano e stanno alla base dell'ordinamento giuridico italiano”. Rispetto al necessario adeguamento ai valori del Paese ospitante, il Tribunale ricordava come “chi trasferisce la propria residenza in un paese estero con pretese di cittadinanza, magari per affrancarsi da condizioni originarie di povertà o persecuzione, deve sapere che dovrà rispettare la legge del popolo di arrivo e non potrà in nessun modo ipotizzare di comportarsi come le leggi o gli usi e le consuetudini dello Stato di origine consentivano, tantomeno per ragioni religiose in un luogo dove è riconosciuta la libertà di culto”.

La Sentenza in questione è disponibile, in consultazione, al seguente link.


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Revocato mantenimento al figlio maggiorenne non indipendente se ha una borsa di studio

Lorenzo Mariani

Con Ordinanza del 01.03.2022, la Prima Sezione Civile del Tribunale di Roma ha deciso in merito a una domanda di modifica dei provvedimenti presidenziali di separazione formulata dal marito, il quale chiedeva revocarsi il mantenimento per la moglie e i due figli maggiorenni.

Il giudice non ha ritenuto di poter abbattere l’assegno di mantenimento per la signora, in quanto le dimissioni di due dipendenti dalla azienda di cui era titolare il marito non dimostrano l’intervenuto peggioramento delle sue condizioni economiche.

Ha ritenuto però di dover revocare l’assegno di mantenimento per uno dei figli maggiorenni della coppia.
Il giovane, sebbene non economicamente indipendente – come specifica il giudicante stesso – ha comunque una consistente borsa di studio e frequenta l’università all’estero. Non risulta dagli atti che egli abbia esigenze economiche che non possa coprire col suddetto importo e, allo stesso modo, non vi sono spese ulteriori che la madre debba affrontare per lui, circostanza ritenuta dal giudice indispensabile per prevedere l’assegno.

Similmente, il giudice ha ritenuto di dover ridurre il mantenimento per l’altro figlio in quanto assunto con contratto di apprendistato da un’azienda.

 

Per il Tribunale di Roma, dunque, la raggiunta autosufficienza economica del figlio maggiorenne non è una condicio sine qua non per la perdita del diritto all’assegno di mantenimento: la prestazione può essere revocata – quantomeno temporaneamente - anche se il beneficiario percepisce una diversa somma che copra tutte le sue esigenze e, allo stesso tempo, non vi siano spese ulteriori che il genitore convivente debba sostenere per lui.

Quanto al (ridotto) assegno per il fratello, è stata confermata la sua corresponsione nelle mani della madre.

Ciò, in applicazione di un principio consolidato nella giurisprudenza: per quanto il genitore convivente e il figlio maggiorenne siano titolari di diritti autonomi e concorrenti e siano entrambi legittimati a percepire il menzionato assegno, è comunque necessario che sia il figlio stesso a proporre autonoma domanda di mantenimento diretto, poiché la decisione del giudice non può sottrarsi al principio della domanda. (vedi Cass. civ. 34100/2021; Cass. civ. 25300/2013).

Ancora, va notato che il giudice ha espressamente indicato che le nuove statuizioni economiche sono vigenti a far data dal dicembre 2021, a implicita qualificazione delle somme già versate come ripetibili.

Trib. Roma, Sez. I, 01.03.2022 (testo completo)

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I limiti al diritto di controllo del socio della SRL ex art. 2476 c. 2 cc

Il diritto del socio (anche di minoranza) della srl, di ottenere informazioni sugli affari della società e di prendere visione della documentazione societaria, trova alcuni limiti nel necessario contemperamento con altri beni giuridici ugualmente meritevoli di tutela.

Si veda Trib. Milano, Sez. spec. in materia di imprese, 21.12.2017

Esula dall'ambito garantito dall'art.2476 c. 2, c.c. la reiterata richiesta di informazioni all'organo gestorio tale da ostacolare la gestione corrente degli affari sociali, dovendo prevalere, nel giudizio di contemperamento delle opposte esigenze private, quella di assicurare l'ordinata e serena gestione dell'attività sociale.


E ancora, Trib. Milano, Sez. spec. in materia di imprese, 20.07.2017

Il diritto del socio di s.r.l. di consultare la documentazione sociale, sancito dall'art. 2746, c. 2, c.c., deve essere contemperato con le esigenze della società meritevoli di tutela in ordine alla riservatezza dei dati sociali, alla stregua del principio di buona fede, la cui applicazione al rapporto sociale comporta che l'accesso del socio possa essere limitato ai soli documenti per i quali lo stesso dimostri uno specifico ed attuale interesse alla consultazione.

Cfr. Trib. Bologna, 06.12.2006, per cui l'unico limite al diritto di controllo ex art. 2476 c. 2 cc  è il canone della buona fede.

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No al vaccino anti-covid per i figli minorenni se uno dei due genitori è contrario

Il Tribunale di Pistoia, con il provvedimento del 4 marzo 2022, rigetta il ricorso di una madre che voleva far vaccinare contro il covid i tre figli, due dei quali infradodicenni.
Il giudice accoglie invece l'opposizione del padre, ritenendo che il superiore interesse dei minori, in campo medico, debba essere perseguito anche alla luce del principio di precauzione. 

Per il Tribunale, non risponderebbe al principio di prudenza somministrare un trattamento sanitario di cui non si conoscono gli effetti collaterali a breve e a medio-lungo termine, a fronte di rischi medici da ritenersi remoti per la fascia d’età considerata.

Si tratta di una pronuncia dissonante rispetto alla quasi totalità della giurisprudenza sul punto, per la quale, infatti, è da considerarsi prevalente l'interesse alla salute del minore, da garantire attraverso la vaccinazione anti-covid. In taluni casi, i Tribunali hanno persino autorizzato uno dei genitori alla vaccinazione contro il parere del minore ultradodicenne (cfr. Tribunale di Milano, Sez. IX, 22.11.2021).

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Non coercibile il diritto dovere di visita del figlio minore spettante al genitore non collocatario.

In tema di rapporti con la prole, il diritto dovere di visita del figlio minore spettante al genitore non collocatario non è suscettibile di coercizione neppure nelle forme indirette previste dall'art. 614 bis c.p.c., trattandosi di un "potere-funzione" che, non essendo sussumibile negli obblighi la cui violazione integra una grave inadempienza ex art. 709 ter c.p.c., è destinato a rimanere libero nel suo esercizio quale esito di autonome scelte che rispondono anche all'interesse superiore del minore ad una crescita sana ed equilibrata. 

(Cassazione civile, sez. I, ordinanza 4 marzo 2022, n. 7262)

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Bonus bebè e assegno di maternità anche agli stranieri regolari.

Con la sentenza n. 54 del 2022, il Giudice delle leggi ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 31 e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 34 CDFUE, così come concretizzato dal diritto europeo secondario, dell’art. 1, comma 125, della legge n. 190 del 2014, nella formulazione antecedente alle modificazioni introdotte dall’art. 3, comma 4, della legge n. 238 del 2021, e dell’art. 74 del d.lgs. n. 151 del 2001, nel testo antecedente all’entrata in vigore dell’art. 3, comma 3, lett. a), della legge n. 238 del 2021, nella parte in cui escludono dalla concessione – rispettivamente – dell’assegno di natalità (c.d. bonus bebè) e dell’assegno di maternità i cittadini di Paesi terzi che sono stati ammessi nello Stato a fini lavorativi a norma del diritto dell’Unione o nazionale e i cittadini di Paesi terzi che sono stati ammessi a fini diversi dall’attività lavorativa a norma del diritto dell’Unione o nazionale, ai quali è consentito lavorare e che sono in possesso di un permesso di soggiorno ai sensi del regolamento (CE) n. 1030/2002, poiché, nel condizionare il riconoscimento dell’assegno di natalità e dell’assegno di maternità alla titolarità di un permesso di soggiorno in corso di validità da almeno cinque anni, al possesso di un reddito non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale e alla disponibilità di un alloggio idoneo, il legislatore ha fissato requisiti privi di ogni attinenza con lo stato di bisogno che le prestazioni in esame si prefiggono di fronteggiare.

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La legittimazione alla presentazione di proposte concorrenti nell’ambito di procedure di concordato preventivo.

Nel caso in cui un terzo, che non sia operatore finanziario specializzato, proceda all’acquisto a titolo oneroso di crediti, per un ammontare idoneo a consentirgli la formulazione di proposte concorrenti, non può considerarsi violata la riserva di attività finanziaria stabilita dall’art. 106 T.U.B., né può conseguentemente affermarsi la nullità dei relativi contratti di cessione dei crediti.

Nel caso specifico, tutto ha inizio dal deposito, nell’ambito di una procedura concordataria, di una proposta concorrente ex art. 163 l. fall. da parte di (OMISSIS) S.r.l. In relazione a tale proposta concorrente il debitore (OMISSIS) S.r.l. aveva eccepito il difetto di legittimazione per effetto di una asserita nullità virtuale dei quattro contratto di cessione dei crediti conclusi da (OMISSIS) S.r.l. per contrarietà a norma imperativa degli stessi, sul rilievo che la società proponente, attraverso la stipulazione di detti contratti, avrebbe posto in essere una serie di operazioni qualificabili come attività, nei confronti del pubblico, concessione di finanziamento ex art. 2/I lett. e) D.M. 53/2015, cui si sarebbe stato applicabile il disposto dell’art. 106, comma 1, T.U.B. che riserva, in via esclusiva, l’esercizio di simili attività a intermediari autorizzati iscritti in un apposito albo tenuto dalla Banca d’Italia.

In relazione a tale tesi, il Tribunale di Padova confermava la legittimazione di (OMISSIS) S.r.l. alla presentazione di proposte concorrenti ritenendo, quindi, non fondata l’eccezione avversaria sul presupposto che la riserva di attività finanziaria stabilita dall’art. 106 T.U.B. non rilevava nel caso di specie in quanto (i) il creditore proponente (OMISSIS) S.r.l. aveva stipulato contratti di cessione di crediti non verso terzi indifferenziati ma nei confronti di un insieme ben definito di soggetti, e (ii) anche ove si volesse ritenere violata la riserva di cui all’art. 106 T.U.B. e, quindi, nulli i contratti di cessione dei crediti, “nei casi in cui un terzo proceda ad un acquisto a titolo oneroso di crediti per un ammontare idoneo a consentirgli la formulazione di proposte concorrenti, tale interpretazione si porrebbe in insanabile contrasto con il precetto di cui all’art. 163/TV lf (oltre che con la previsione del nuovo C.C.I.) in quanto lo svuoterebbe completamente di significato, a meno di non ritenere che a tale iniziativa siano legittimati esclusivamente le banche e gli intermediari autorizzati, con il risultato tuttavia di limitare irragionevolmente … la platea dei terzi legittimati alla formulazione di proposte concorrenti”.

(Trib. Padova, 2 aprile 2021, Pres. G.G. Amenduni – Rel. M. Sabino)

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Ammonimento e indagine sui conti correnti per la madre sospettata di mal gestire il mantenimento della figlia

Lorenzo Mariani

Con provvedimento del 15.12.2021, comunicato il 22.02.2022, la Sezione Famiglia del Tribunale di Roma ha assunto delle interessanti misure provvisorie in un sub-procedimento per modifica delle condizioni di divorzio, introdotto su istanza dell’ex marito.

L’istanza era volta a condannare la madre, beneficiaria dell’assegno di mantenimento per la figlia minore, a contribuire a una polizza in favore della bambina già stipulata dal padre.

Ancora, il ricorrente chiedeva di ottenere – come supplemento di attività istruttoria nel giudizio di divorzio principale - l’accesso alle banche dati degli istituti di credito dove la resistente risultava avere dei conti correnti non dichiarati, secondo un’indagine effettuata dall’Agenzia delle Entrate.

Il giudice riteneva di non poter imporre alla resistente degli obblighi di contribuzione alla polizza contratta dal ricorrente, in quanto atto di autonomia privata.

Riteneva però di dover ammonire la madreall’utilizzo delle somme ricevute dal sig. C per il mantenimento della figlia per le finalità di cura e tutela della figlia stessa, pena ogni possibile diverso provvedimento in tema di affido e mantenimento della minore e possibile invio degli atti alla Procura (in relazione al contegno della madre, ove violativo degli obblighi di mantenimento e assistenza materiale nei confronti della figlia)”.

Infatti - ricordava il giudicante - nel mantenimento per la minore dovevano rientrare anche le spese per l’appartamento in cui la stessa viveva in locazione con la madre, spese cui “peraltro deve provvedere anche la madre della minore con le risorse attuali o potenziali derivanti dalla sua capacità
di lavoro

E invero risultava incontestato che la signora avesse subìto un pignoramento per canoni locatizi non versati, nonostante l’ingente mantenimento corrispostole dall’ex marito a tale scopo.

Inoltre, viste le apparenti irregolarità riscontrate dall’Agenzia delle Entrate, il giudice autorizzava anche l’indagine suppletiva sulle posizioni bancarie della signora, incaricando il ricorrente stesso di provvedere in tal senso.

Il provvedimento in parola, assunto in seguito a trattazione scritta dell’udienza, rinviava poi ogni altra determinazione a successiva udienza da tenersi in persona.

Trib. Roma, Sez. I, 15.12.2021-22.02.2022 (testo completo)

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Dichiarazione di adottabilità: la Cassazione fornisce ulteriori chiarimenti in proposito.

La Cassazione (con ordinanza n. 3246 del 2 febbraio 2022) si è espressa nuovamente in merito alla dichiarazione di adottabilità, precisando che, da un lato, la dichiarazione di adottabilità del minore si pone come extrema ratio a fronte del prioritario diritto fondamentale del figlio di vivere con i suoi genitori e ad essa si può ricorrere solo nei casi in cui la famiglia di origine non sia in grado di prestare, in via non transitoria, le cure necessarie; dall’altro, non può essere censurato in sede di legittimità, se non in caso di assenza di motivazione logica ed adeguata, il complessivo accertamento fattuale operato dal giudice a quo in relazione al sussistente stato di abbandono morale e materiale che determina l’adottabilità.

(Cass. civ., sez. I, ordinanza 2 febbraio 2022, n. 3246)

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Nella quantificazione dell'assegno divorzile non vanno considerate le elargizioni temporanee e provvisorie dei genitori del coniuge obbligato.

La Suprema Corte ha chiarito che, ai fini della determinazione dell'assegno divorzile in favore dell'ex coniuge deve essere esclusa la rilevanza dell'entità dei patrimoni delle famiglie di appartenenza ovvero del loro apporto economico ai coniugi, in quanto trattasi di ulteriore criterio non previsto dalla L. n. 898 del 1970, articolo 5.

Ai fini della quantificazione dell'assegno di divorzio, nella determinazione delle rispettive condizioni economiche dei coniugi, non devono essere ricompresi le elargizioni temporanee e provvisorie dei genitori del coniuge obbligato.

(Cassazione civile ordinanza n. 6105 2022)

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Revisione dell’assegno di divorzio.

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 1983 del 24 gennaio 2022, ha nuovamente affrontato il tema della revisione dell’assegno divorzile. Ha chiarito anzitutto che ai sensi del citato art. 9 “il mutamento sopravvenuto delle condizioni patrimoniali delle parti attiene agli elementi di fatto e rappresenta il presupposto necessario che deve essere accertato dal giudice perché possa procedersi al giudizio di revisione dell’assegno” e ha poi aggiunto che non può costituire un elemento di fatto valorizzabile ai fini della revisione un sopravvenuto mutamento giurisprudenziale.

Per la Corte, infatti, attribuire alla formula dei “giustificati motivi” un significato che includa anche una diversa interpretazione delle norme applicabili avvallata dal diritto vivente giurisprudenziale è un’operazione esegetica non percorribile. I giustificati motivi sopravvenuti possono consistere, pertanto, soltanto in oggettivi mutamenti delle situazioni patrimoniali delle parti.

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Azienda facente parte del patrimonio ereditario e lo sfruttamento diretto da parte degli eredi.

Lo sfruttamento da parte di uno o più eredi dell'azienda facente parte del compendio ereditario, stante il fine lucrativo dell'attività imprenditoriale, non costituisce mera amministrazione dei beni ereditari, ma esercizio dell'impresa in forma individuale o societaria (anche di fatto) con conseguente da parte degli eredi della responsabilità relativa ai debiti contratti nell'esercizio dell'attività, senza che rilevi la qualità successoria o trovino applicazione le correlate limitazioni di responsabilità.

(Cass. civ., sez. lav., 2 novembre 2020, n. 24197)

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Imposta di successione e il trust.

L'istituzione di un trust ed il conferimento in esso di beni che ne costituiscono la dotazione sono atti fiscalmente neutri: non danno luogo infatti ad un passaggio effettivo e stabile di ricchezza, ad un incremento del patrimonio del trustee, che acquista solo formalmente la titolarità dei beni per poi trasferirla al beneficiario finale. Pertanto non sono soggetti all'imposta sulle successioni e donazioni, che sarà dovuta, invece, al momento del trasferimento dei beni o diritti dal trustee al beneficiario.
(Cass. civ., sez. V, 24 dicembre 2020, n. 29507)

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Non è inadempiente il coniuge che pignora il conto corrente su cui versa l'assegno di mantenimento all'altro

Col decreto del 27.01.2022, comunicato il 01.02.2022, la Sezione I del Tribunale di Roma si è pronunciata sull'ammissione dei mezzi istruttori proposti dalle parti in un giudizio di divorzio, risolvendo alcune interessanti questioni giuridiche.

Per il Tribunale, la domanda del coniuge beneficiario del mantenimento di disporre in via d’urgenza una trattenuta sullo stipendio del coniuge onerato, pari al valore della sommatoria degli assegni di mantenimento, con decorrenza da un periodo antecedente alla domanda, è inammissibile, atteso che, per come formulata, esula dai poteri del GI (apparendo finalizzata al recupero coatto di mensilità pregresse e non al versamento diretto di quelle future) e, ove riferita agli assegni futuri da corrispondere, difetta del presupposto dell’inadempimento, il quale non può ritenersi integrato solo perché il conto corrente del beneficiario, su cui l'onerato bonifica l’assegno, è sottoposto a pignoramento presso terzi.

Inoltre, è ammissibile l'audizione del figlio maggiorenne (beneficiario dell’assegno, perciò da ritenersi allo stato economicamente non autosufficiente con conseguente parifica, dal punto di vista economico, al minore), in merito alle attività lavorative dallo stesso svolte e ai relativi redditi ritratti nonché al suo percorso scolastico.

Mentre è ultronea e inammissibile l'audizione del figlio nonché, in subordine, l’escussione dello stesso a testimone in merito alla sua “disponibilità” a ricevere il versamento diretto dell’assegno, atteso che la relativa statuizione, in difetto di accordo delle parti, richiede una espressa domanda del figlio mediante l’intervento dello stesso in giudizio, a tal fine consentitogli.

Trib. Roma, Sez. I, 01.02.2022 (testo completo) 

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L'assegno divorzile e il contributo fornito dall’ex coniuge nella realizzazione della vita familiare

All'assegno divorzile in favore dell'ex coniuge deve attribuirsi, oltre alla natura assistenziale, anche natura perequativo-compensativa, che discende direttamente dalla declinazione del principio costituzionale di solidarietà e conduce al riconoscimento di un contributo volto a consentire al coniuge richiedente non il conseguimento dell'autosufficienza economica sulla base di un parametro astratto, bensì il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate.

(Cass. Civ., Sez. VI - 1, Ord., 17 gennaio 2022, n. 1201)


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La pendenza di un procedimento per ordini di protezione contro gli abusi familiari non sospende quello per reintegrazione del possesso sulla casa coniugale

Con Ordinanza del 12.01.2022, pubblicata il 13.01.2022, la VII Sezione Civile del Tribunale di Roma ha definito un procedimento di reintegrazione del possesso ex artt. 1168 cc e 703 cpc, relativo a un immobile adibito a casa coniugale, azionato dal marito avverso la moglie.

Preliminarmente, in merito all’eccezione di sospensione per pregiudizialità ex art 295 cpc sollevata dalla donna sulla base della pendenza di un procedimento per ordini di protezione contro gli abusi familiari a carico del marito, il giudice ha chiarito che: “non sussiste alcun rapporto di pregiudizialità necessaria tra il presente giudizio e quello promosso dalla resistente ex artt. 342 bis e ter c.c.; differenti sono i presupposti, come non vi è necessaria coincidenza nel contenuto delle statuizioni invocate, considerato, vieppiù, che la decisione del presente procedimento non pregiudica l’altro”.

Nel merito, il Tribunale ha specificato che il ricorrente ha diritto a rientrare in possesso dell’immobile indipendentemente dal fatto che sia stato cacciato dalla moglie (come da lui sostenuto) ovvero si sia allontanato volontariamente (come asserito dalla moglie convenuta in giudizio).

Ciò in quanto risultava pacifico che egli volesse fare ritorno nella casa e la resistente vi si fosse opposta, avendo cambiato la serratura di ingresso all’immobile inteso sostituire al compossesso del ricorrente un proprio esclusivo possesso.

È poi irrilevante il fatto che, all’anagrafe, l’uomo risulti residente in un altro luogo: l’immobile di cui è stato spossessato è pacificamente adibito a casa coniugale, secondo il concetto di “residenza della famiglia”. Quest’ultimo non coincide con quello di “residenza anagrafica” ma costituisce il luogo in cui le parti hanno fissato la residenza della famiglia secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia stessa, come dispone l’art. 143 del Codice Civile.

In definitiva, la moglie va condannata a reintegrare il marito nel possesso dell’appartamento in esame, avendovi entrambi i coniugi esercitato una forma di compossesso che ha trovato titolo nel vincolo matrimoniale e che si è estrinsecata con la coabitazione presso l’appartamento medesimo.

Trib.Roma, Sez. VII, ord. 13.01.2022 (testo completo)


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Decorrenza dell'assegno di mantenimento in caso di separazione consensuale.

L'assegno di mantenimento a favore del coniuge, fissato in sede di separazione personale consensuale in omologa di accordo che non ne preveda la decorrenza, è dovuto, sia pure a condizione che l'omologa intervenga e non disponga diversamente, fin dal momento del deposito del ricorso per separazione e non solo dalla data di pronuncia dell'omologa.

(Cassazione civile sentenza n. 41232/2021)

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Se il figlio maggiorenne non riesce a reperire un'occupazione stabile non può continuare a fare affidamento a vita sull'aiuto dei genitori.

Per la Cassazione, se il figlio maggiorenne non riesce a reperire un'occupazione stabile, che gli consente di essere economicamente indipendente, spendendo il titolo professionale conseguito, non può continuare a contare sul mantenimento dei genitori, ma deve fare affidamento ad altri strumenti sociali di ausilio e di sostegno al reddito, fermo restando l'obbligo alimentare da azionare in ambito familiare per soddisfare le primarie necessità di vita.

(Cassazione n. 38366/2021)

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Accordi relativi alla frequentazione dei figli e la facoltà del giudice di discostarsi dalla volontà dei genitori.

A norma dell’art. 337 ter, comma 1 c.c., i provvedimenti relativi alla prole sono adottati dal Giudice “con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa”. In continuità con tale regola, è previsto che lo stesso giudice prenda atto degli accordi intervenuti tra i genitori “se non contrari agli interessi dei figli”. 

Con riferimento all'interesse della prole e alla conseguente facoltà del giudice di discostarsi dalla volontà dei genitori, specificamente riconosciuta con riguardo agli accordi tra questi intercorsi, il Giudice ben può disattendere le concordi conclusioni rassegnate dai genitori quando le stesse veicolino soluzioni - quanto alle frequentazioni dei figli - che risultino non rispettose delle esigenze dei minori.

(Cass. Civ., Sez. VI-1, ord. 1 dicembre 2021, n. 37790)

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Affidamento dei figli minori: la valutazione delle risultanze processuali e la ricostruzione della fattispecie operate dai giudici del merito sono discrezionali.

In materia di affidamento dei figli minori, il giudice della separazione e del divorzio deve attenersi al criterio primario dall'esclusivo interesse morale e materiale della prole, privilegiando il genitore che appaia il più idoneo a ridurre al massimo i danni derivati dalla disgregazione del nucleo familiare e ad assicurare il migliore sviluppo della personalità del minore. 

La scelta va operata sulla base di un giudizio prognostico circa la capacità del padre o della madre di crescere ed educare il figlio nella nuova situazione di genitore singolo, giudizio che, ancorandosi ad elementi concreti, potrà fondarsi sulle modalità con cui il medesimo ha svolto in passato il proprio ruolo, con particolare riferimento alla sua capacità di relazione affettiva, di attenzione, di comprensione, di educazione, di disponibilità ad un assiduo rapporto, nonché sull'apprezzamento della personalità del genitore, delle sue consuetudini di vita e dell'ambiente che è in grado di offrire al minore. 

La valutazione delle risultanze processuali e la ricostruzione della fattispecie operate dai giudici del merito è quindi discrezionale e la revisione degli accertamenti di fatto compiuti da questi ultimi è preclusa in sede di legittimità.

(Cass. Civ., Sez. I, ord. 26 novembre 2021 n. 36989)

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Tribunale di Roma: decadenza della responsabilità genitoriale e divieto di avvicinamento per il genitore che si disinteressa completamente del figlio

Lorenzo Mariani 

Con il Decreto del 12.11.2021, pubblicato il 24.11.2021, la Prima Sezione Civile del Tribunale di Roma ha deciso su un ricorso per l’affido dei minori nati fuori dal matrimonio con contestuale richiesta di ordine di protezione.

Il ricorso veniva presentato da una donna che aveva avuto un figlio con un uomo di origine straniera, conosciuto presso uno SPRAR dove la stessa lavorava come mediatrice socio-culturale. Nel corso della relazione, l’uomo aveva avuto condotte estremamente violente contro la ricorrente, anche alla presenza del figlio minore del bambino, oltre ad essersi allontanato dal nucleo familiare a più riprese per recarsi all’estero, dove aveva anche subìto una condanna per tentato omicidio.    
Il Tribunale disponeva immediatamente e inaudita altera parte la sospensione di tutti gli incontri tra padre e figlio e il divieto di avvicinamento entro 300 metri.
Questo provvedimento veniva poi confermato dal PM e mantenuto nelle more del procedimento, dove il resistente rimaneva contumace.
Il Tribunale disponeva in corso di causa l’affido super-esclusivo del minore alla madre e veniva aperto un sub-procedimento per l’assunzione di provvedimenti de potestate.

Il giudizio si è concluso con il Decreto in parola, che ha confermato le disposizioni di allontanamento e divieto di incontri, pronunciando altresì la decadenza della responsabilità genitoriale del padre.

Al di là delle violenze di cui ai provvedimenti cautelari, la decadenza della responsabilità genitoriale è stata motivata sulla base del disinteresse sistematico e totale del padre verso il figlio.

Infatti:
merita di essere accolta la domanda di decadenza dalla responsabilità genitoriale [del padre] sul figlio minore, stante il contegno di sistematico, reiterato e protratto disinteresse dallo stesso serbato nei confronti dei bisogni materiali, affettivi, educativi e relazionali del figlio minore al cui mantenimento, peraltro, non ha mai contribuito.

Dalla relazione del Servizio Sociale che è riuscito a contattare telefonicamente il resistente emerge che lo stesso (il quale riferisce di vivere e lavorare a Trieste) nel corso del colloquio telefonico con l’assistente sociale non ha mai parlato né chiesto del bambino, limitandosi ad affermare che il presente procedimento “è sbagliato e non vale per lui” e la madre di suo figlio non vuole dare i documenti per rinnovare il suo permesso di soggiorno; che, inoltre, lui è in possesso solo del recapito telefonico di servizio della [madre] e si rifiuta di chiamarla a quel numero. 
Dalla medesima relazione emergono, di contro, il buon rapporto madre-figlio, recentemente trasferitisi in un’abitazione di più ampie dimensioni, ma soprattutto la serenità e tranquillità [del minore], tanto che lo stesso Servizio ha concluso evidenziando che non sono necessari interventi di sostegno a favore
del nucleo madre-figlio e ha proposto l’avvio di incontri protetti padre-figlio
solo ove il padre ne faccia espressa richiesta.

Trib. Roma, Sez. I, 24.11.2021 (testo completo) 


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Primo via libera al suicidio assistito per un malato italiano

Mario (nome di fantasia), 43 anni, ex camionista tetraplegico da dieci anni in seguito un incidente, è il primo malato in Italia a ottenere il via libera al suicidio medicalmente assistito.
Il comitato etico dell'Asl delle Marche (Asur) ha infatti attestato che Mario  possiede i requisiti per l'accesso legale a tale opzione.

Si tratta del primo caso in Italia dopo la Sentenza della Corte Costituzionale 25 settembre - 22 novembre 2019, n. 242,  cd.  "Sentenza Cappato-Dj Fabo", che ha dichiarato la parziale incostituzionalità dell'art. 580 cp ( Istigazione o aiuto al suicidio) "nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) - ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi di cui in motivazione -, agevola l'esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente".

Il parere del comitato etico era, appunto, l'ultimo requisito necessario al quarantatreenne per ottenere il via libera al suicidio assistito, che avverrà attraverso l'assunzione di un farmaco. 

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Divorzio e mantenimento dei figli: le spese di valore inferiore ai 50 euro vanno considerate spese ordinarie

Giudice di Pace di Roma, Sez. I, Sent. n. 23618 del 10.11.2021

"In relazione alla natura di spesa straordinaria, occorre precisare che, secondo il suo comune significato, deve trattarsi di spesa non ordinaria e di una entità economicamente rilevante al fine di poter essere considerata tale; in tal senso devono considerarsi spese ordinarie, ricompresi negli obblighi di mantenimento e comunque qualificabili come donazioni manuali (laddove il mantenimento fosse a carico dell'altro coniuge), tutte le spese per somme inferiori a 50 euro. "



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Dichiarazione di adottabilità di un figlio minore: consentita solo in presenza di fatti gravi.

Il ricorso alla dichiarazione di adottabilità di un figlio minore, ai sensi della L. n. 184 del 1983, art. 15, è consentito solo in presenza di fatti gravi, indicativi, in modo certo, dello stato di abbandono, morale e materiale, a norma dell'art. 8 della stessa legge, che devono essere specificamente dimostrati in concreto, e dei quali il giudice di merito deve dare conto nella decisione, senza possibilità di dare ingresso a giudizi sommari di incapacità genitoriale, seppure formulati da esperti della materia, non basati su precisi elementi fattuali; in forza della normativa espressa dall'art. 7 della Carta di Nizza, art. 8 della CEDU e art. 18 della Convenzione di Istanbul, e delle pronunce della Corte EDU in materia, una pronuncia di stato di abbandono di un minore, ai sensi della L. n. 184 del 1983, art. 8, non può essere in alcun caso fondata sullo stato di sudditanza e di assoggettamento fisico e psicologico in cui versi uno dei genitori, per effetto delle reiterate e gravi violenze subite dall'altro.

(Cass. Civ., Sez. Unite, sent., 17 novembre 2021, n. 35110)

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Risvolti economici dell'assegnazione della casa coniugale.

L'assegnazione della casa familiare è provvedimento distinto da quelli strettamente economici e viene disposta in considerazione delle esigenze della prole. Tuttavia, è innegabile che essa possieda anche precisi risvolti di carattere economico, laddove incide sulla disponibilità di un cespite suscettibile di essere utilizzato direttamente, con risparmio di risorse, o di generare un reddito attraverso atti di disposizione negoziale. 

Per tali motivi, la Corte di Cassazione accolto il ricorso presentato da un padre: la Corte d’appello avrebbe dovuto infatti, d’ufficio, procedere alla rivalutazione del contributo di mantenimento a carico del padre fissato in primo grado, perché l’assegnazione della casa ha precisi risvolti economici.

(Cass. Civ., Sez. I, ord. 11 novembre 2021 n. 33606)

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Maestra condannata per maltrattamenti.

Una maestra in una scuola per l'infanzia è stata ritenuta colpevole del reato di cui all’art. 572 c.p. per aver maltrattato i propri alunni, di età tra i tre e i cinque anni, in un arco temporale compreso tra il mese di ottobre 2014 ed il mese di marzo 2016, con atti sistematici e reiterati di violenza fisica e psicologica, tali da determinare sofferenze pregiudizievoli per il loro equilibrio psicofisico. 

La Suprema Corte ha ricordato che l'elemento differenziale tra il reato di abuso dei mezzi di correzione e quello di maltrattamenti non può individuarsi nel grado di intensità delle condotte violente tenute dall'agente, in quanto l'uso della violenza per fini correttivi o educativi non è in nessun caso consentito. In alcuni arresti, specificamente riferiti ad insegnanti di piccoli allievi, si è puntualizzato che il reato di abuso dei mezzi di correzione presuppone l'uso non appropriato di metodi o comportamenti correttivi, che però in via ordinaria devono essere consentiti, individuabili, in via esemplificativa, nella esclusione temporanea dalle attività ludiche o didattiche, nella imposizione come obbligo di condotte riparatorie o nel ricorso assai mortificante a forme di rimprovero non riservate (cfr. Cass. Pen., Sez. VI, 21 gennaio 2020, n. 11777 e Cass. Pen., Sez. III, 6 novembre 2018, n. 17810).

(Cass. Pen., Sez. VI, Sent., 16 novembre 2021, n. 41745)

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Affidamento paritetico e mantenimento diretto.

Con provvedimento del 1° settembre 2021, il Tribunale di Perugia ha affermato che in conseguenza della collocazione paritetica del figlio minore presso ciascuno dei genitori è giustificata la previsione del mantenimento "in forma diretta" e, quindi, va revocato il contributo previsto a carico del padre ed in favore della madre.

(Tribunale di Perugia, 1° settembre 2021)

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Maltrattamenti in famiglia: è reato anche se gli atti lesivi si alternano con periodi di normalità.

Il concetto di maltrattamenti, pure non definito dalla legge, è integrato da una condotta abituale, che si estrinseca in più atti lesivi, realizzati in tempi successivi, dell'integrità, della libertà, dell'onore, del decoro del soggetto passivo o più semplicemente in atti di disprezzo, di umiliazione, di asservimento che offendono la dignità della vittima. Risultano, dunque, esclusi dalla nozione di maltrattamenti, in quanto non connotati da abitualità, soltanto gli atti episodici, pur lesivi dei diritti fondamentali della persona, che non siano riconducibili nell'ambito della descritta cornice unitaria, perché traggono origine da situazioni contingenti e particolari, che possono verificarsi nei rapporti interpersonali di una convivenza familiare, che conservano eventualmente, se ne ricorrono i presupposti, la propria autonomia come delitti contro la persona (ingiurie, percosse, lesioni), già di per sé sanzionati dall'ordinamento giuridico. Né è necessario, ai fini della sussistenza del reato, un comportamento vessatorio continuo e ininterrotto giacché è ben possibile che gli atti lesivi si alternino con periodi di normalità nei rapporti di convivenza o familiari poiché l'intervallo di tempo tra una serie e l'altra di episodi offensivi non fa venir meno l'esistenza del delitto, venendo escluso l'elemento oggettivo del reato solo qualora, dal quadro probatorio, emerga la episodicità ed occasionalità degli atti di maltrattamento.

(Cass. Pen., Sez. VI, Sent., 11 novembre 2021, n. 41053)

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Se il fatidico "si" non viene mai pronunciato, cosa succede ai doni fatti in vista del matrimonio?

Recentemente la Corte di Cassazione (con ordinanza n. 29980 del 25.10.2021) si è espressa sui cosiddetti agli immobili donati in vista di un matrimonio poi non celebrato.

Capita spesso che, in vista del futuro matrimonio, persone vicine ai fidanzati (o anche a uno di essi), come per esempio i genitori, acquistino o ristrutturino immobili da destinare alla famiglia che nascerà, così come è abbastanza comune che uno dei nubendi impieghi somme per acquistare o ristrutturare l'appartamento dell'altro, in vista del matrimonio. Tali donazioni prenuziali rientrano nel campo applicativo dell'art. 80 cc permettendo la restituzione del bene (o la revoca dell’atto) nei casi di rottura del fidanzamento. Proprio il mancato verificarsi del matrimonio rende restituibili tutti i beni donati dalle parti durante il fidanzamento, perché la causa di tale donazione (cioè il futuro matrimonio) non si è poi verificata. 

Ma che succede in caso di stipula di preliminare di vendita o un di un contratto definitivo di vendita? Secondo la Corte, nel primo caso, pur essendo parti formali del contratto preliminare il promittente venditore e uno dei due fidanzati, è in realtà un terzo (l’altro fidanzato/a oppure un parente) che, in vista del matrimonio, si obbliga a versare la somma per il bene da trasferire, donandolo così ad uno dei fidanzati. Venuto meno il matrimonio, quindi, il contratto preliminare non perde efficacia, ma il donante diverrà automaticamente parte del contratto quale promissario acquirente. 

Nel caso di stipula di un contratto definitivo, la Cassazione ribadisce l’inefficacia solo nel rapporto interno che lega il donante al donatario (cioè uno dei fidanzati), non anche invece in quello tra il venditore e l’acquirente sostanziale del bene. In pratica la restituzione dovrà essere attuata mediante retrocessione dell’immobile in capo al donante, in quanto acquirente in senso sostanziale. 

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Trasferimento all'estero al seguito del genitore collocatario: occorre operare un bilanciamento tra gli interessi coinvolti.

Nelle controversie nelle quali si discute del diritto del genitore affidatario di trasferire la residenza propria e del figlio all’estero, occorre operare un bilanciamento tra il suddetto diritto con il diritto del minore a conservare la bi-genitorialità, impegnando ciascun genitore a garantire la presenza dell’altro nella vita del figlio, salde relazioni affettive e una stabile consuetudine di vita. 

(Cassazione civile, sez. I, sentenza 11 novembre 2021, n. 33608)

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Formazione della massa ereditaria.

Nella formazione della massa ai sensi dell’art. 556 c.c., si detrae dal valore dei beni compresi nel relictum solo il valore dei debiti del defunto aventi esistenza attuale e certa nel patrimonio ereditario, fatta salva la reintegrazione della legittima, previa rettifica del calcolo, se il debito, inizialmente non detratto, sia venuto ad esistenza in un secondo momento. Pertanto, il debito derivante da fideiussione prestata dal de cuius è detraibile se e nella misura in cui sia dimostrata l'insolvibilità del debitore garantito o l'impossibilità di esercitare l'azione di regresso.

(Cass. Civ., Sez. II, Sent., 09 novembre 2021, n. 32804)

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Gli effetti della mancata audizione del genitore nel giudizio di primo grado relativo alla dichiarazione di adottabilità del minore.

La comparizione e audizione del genitore è un elemento ineludibile ed improcrastinabile del giudizio di primo grado innanzi al Tribunale per i Minorenni volto ad accertare le condizioni per la dichiarazione di adottabilità del minore, così come è necessaria l'integrazione del contraddittorio.

La mancanza di uno di questi elementi determina una lesione del diritto di difesa del genitore e conduce all'invalidità dell'intero giudizio.

(Cass. Civ., Sez. I, Ord. 9 novembre 2021 n. 32661)

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Comportamenti prepotenti ed aggressivi del padre: no all'affido condiviso.

Una spiccata conflittualità tra i genitori, accompagnata da comportamenti prepotenti ed aggressivi del padre e da una oggettiva difficoltà della madre, impedisce di optare per il regime di affidamento condiviso in quanto non rispondente all'interesse del figlio minore.

(Cass. Civ., Sez. VI-1, Ord. 8 novembre 2021 n. 32404)

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Se la ex convive con un altro non perde automaticamente il diritto all’assegno divorzile.

Secondo la Corte di Cassazione, l’instaurazione della convivenza non comporta l’automatica perdita del diritto all’assegno. L'assegno ha una duplice funzione: assistenziale e compensativa. Con l’instaurazione di una stabile convivenza viene meno la funzione assistenziale, perché «il nuovo legame, sotto il profilo della tutela assistenziale, si sostituisce al precedente», ma non la funzione compensativa, volta al riconoscimento del contributo fornito dal coniuge più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale dell’altro coniuge, purché il beneficiario fornisca la prova del contributo offerto alla comunione familiare, della rinuncia alle occasioni lavorative e dell’apporto fornito alla realizzazione del patrimonio familiare e personale dell’ex coniuge. 

In definitiva, l’instaurazione di una stabile convivenza non influisce in alcun modo sulla corresponsione dell’assegno. Infatti, la creazione di una nuova famiglia può incidere sul riconoscimento del diritto all’assegno, sulla sua revisione e quantificazione, ma non ne determina la perdita automatica ed integrale. 

(Cass. S.U. 32198/2021)

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La Corte di Strasburgo condanna l'Italia per l'eccessivo formalismo richiesto dalla Cassazione.

La Corte di Strasburgo, con la sentenza del 28 ottobre 2021, ha condannato l'Italia a risarcire un cittadino che si è visto rigettare un ricorso in Cassazione per difetti di forma. Secondo la Corte di Strasburgo, la Corte ben poteva comprendere l'oggetto, lo svolgimento della controversia in sede di merito e tutto quanto occorreva per giungere a una decisione e, pertanto, la declaratoria d'inammissibilità pronunciata dalla Cassazione ha violato i principi del giusto processo sanciti dalla Convenzione Europea dei Diritti dell'uomo. 

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Revoca dell’ammissione dell’imputato minorenne alla messa alla prova e la sospensione del processo.

È inammissibile il ricorso per cassazione proposto avverso l’ordinanza che dispone la revoca dell’ammissione dell’imputato minorenne alla messa alla prova e la sospensione del processo, potendo detto provvedimento essere impugnato soltanto unitamente alla sentenza conclusiva del giudizio.

Il predetto art. 28 consente infatti il ricorso per cassazione soltanto nei confronti del provvedimento di ammissione e, a differenza di quanto disposto dall’art. 464-octies cod. proc. pen. per il procedimento a carico dei maggiorenni, prevede l’immediata ripresa del processo una volta venuta meno l’ordinanza di ammissione alla messa alla prova, senza esigere che la revoca sia divenuta definitiva.

(Cass. pen., sez. I, 6 novembre 2020, n. 31027)

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Successioni ereditarie: l'azione di riduzione.

In tema di azione di riduzione, l’omessa allegazione nell’atto introduttivo di beni costituenti il "relictum" e di donazioni poste in essere in vita dal "de cuius", ove la loro esistenza emerga dagli atti di causa ovvero costituisca oggetto di specifica contestazione delle controparti, non preclude la decisione sulla domanda di riduzione, dovendo il giudice procedere alle operazioni di riunione fittizia prodromiche al riscontro della lesione, avuto riguardo alle indicazioni complessivamente provenienti dalle parti, nei limiti processuali segnati dal regime delle preclusioni per l’attività di allegazione e di prova. 

Ne consegue che, ove il silenzio serbato in citazione sull’esistenza di altri beni relitti ovvero di donazioni sia dovuto al convincimento della parte dell’inesistenza di altre componenti patrimoniali da prendere in esame ai fini del riscontro della lesione della quota di riserva, il giudice non può solo per questo addivenire al rigetto della domanda, che è invece consentito se, all’esito dell’istruttoria, e nei limiti segnati dalle preclusioni istruttorie, risulti indimostrata l’esistenza della dedotta lesione.

(Cass. civ., sez. II, 2 settembre 2020, n. 18199)

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Adempimento di crediti appartenenti al de cuius e l'azione di petizione di eredità.

In tema di divisione dell’asse ereditario, qualora l’erede convenuto, in forza di un titolo giuridico preesistente e indipendente rispetto alla morte del "de cuius", chieda l’adempimento dei diritti di credito da questo vantati nei confronti di altro coerede, può esperire l’azione di petizione dell’eredità che, ai sensi dell’art. 533 c.c., consente di chiedere sia la quota dell’asse ereditario sia il suo valore, assumendo natura di azione di accertamento o funzione recuperatoria.

(Cass. civ., sez. VI, 24 settembre 2020, n. 20024)

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Minore straniero non accompagnato e la protezione internazionale.

Il diritto del minore straniero non accompagnato alla più incisiva protezione internazionale non può proiettarsi oltre il compimento della maggiore età. Ne consegue, sul piano processuale, che se da un canto è sufficiente che la minore età, quale condizione dell’azione, sussista al momento della decisione, è necessario, d’altro canto, che essa persista sino al momento della stessa.

(Cass. civ., sez. II, 13 agosto 2020, n. 17115)

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Presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria.

Ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria è necessaria una valutazione comparativa tra la situazione del richiedente, riferita al Paese di origine, e l’integrazione dal medesimo raggiunta nel Paese di accoglienza e, poiché la comparazione investe una situazione (quella in cui il cittadino straniero verrebbe a trovarsi in caso di rimpatrio) che deve essere segnata dal rischio della lesione di diritti fondamentali, il richiedente è tenuto ad allegare quantomeno i fatti che sottendono tale rischio, senza che possa ritenersi sufficiente il richiamo alla mancanza "di alcun riferimento affettivo e familiare nel suo paese di origine", trattandosi di espressione che, nella sua vaghezza, non è idonea a definire una vera e propria situazione di privazione dei diritti umani.

(Cass. civ., sez. I, 10 settembre 2020, n. 18808)

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permesso di soggiorno per ragioni umanitarie e stato di gravidanza della richiedente.

In tema di permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, lo stato di gravidanza della richiedente e quello di madre single con figlio minore deve essere valutato ai fini dell’individuazione di una situazione di vulnerabilità, considerato che l’art. 19, comma 2, lett. d), del d.l.vo n. 286 del 1998 prevede il divieto di espulsione per le donne in gravidanza e nei sei mesi successivi al parto e che l’art. 2, comma 11, lett. h) bis, del d.l.vo n. 25 del 2008, include tra le persone vulnerabili anche le donne in stato di gravidanza ed i genitori singoli con figli minori.

(Cass. civ., sez. I, 13 ottobre 2020, n. 22052)

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Concessione del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie.

Ai fini della concessione del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, nell’effettuare il giudizio di comparazione tra la situazione del richiedente in Italia e la condizione in cui questi verrebbe a trovarsi nel paese di provenienza ove rimpatriato, il giudice, al fine di dare concreta attuazione al diritto alla vita privata e familiare, protetto dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, deve tener conto anche dell’esistenza e della consistenza dei legami familiari del richiedente in Italia, effettuando un bilanciamento tra il pericolo di danno alla vita familiare e l’interesse statale al controllo dell’immigrazione.

(Cass. civ., sez. I, 28 ottobre 2020, n. 23720)

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Condizioni per l'assegnazione di una porzione della casa familiare al genitore non collocatario dei figli.

Nel giudizio di separazione personale dei coniugi, l’assegnazione di una porzione della casa familiare al genitore non collocatario dei figli può disporsi solo nel caso in cui l’unità abitativa sia del tutto autonoma e distinta da quella destinata ad abitazione della famiglia o sia comunque agevolmente divisibile.

(Cass. civ., sez. VI, 15 ottobre 2020, n. 22266)

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Acquisto di un bene in regime di separazione.

I coniugi in regime di comunione legale, al fine di effettuare l’acquisto anche di un solo bene in regime di separazione, sono tenuti a stipulare previamente una convenzione matrimoniale derogatoria del loro regime ordinario, sottoponendola alla specifica pubblicità per essa prevista, non essendo sufficiente una esplicita indicazione contenuta nell’atto di acquisto.
 
(Cass. civ., sez. I, 14 agosto 2020, n. 17175)

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Delibazione della sentenza canonica di nullità del matrimonio: l'eccezione va proposta dal convenuto nella comparsa di risposta.

La convivenza triennale "come coniugi", quale situazione giuridica di ordine pubblico ostativa alla delibazione della sentenza canonica di nullità del matrimonio, è oggetto di un’eccezione in senso stretto, essendo caratterizzata da una complessità fattuale strettamente connessa all’esercizio di diritti, all’adempimento di doveri ed all’assunzione di responsabilità di natura personalissima, che in quanto tali non possono che essere dedotti esclusivamente dalla parte interessata.

L'eccezione deve essere proposta dal convenuto, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta, da depositarsi nel termine di venti giorni prima dell’udienza fissata nell’atto di citazione. Qualora tale udienza sia rinviata d’ufficio ai sensi dell’art. 168 bis, comma 4, c.p.c., il differimento non determina la riapertura dei termini per il tempestivo deposito della comparsa di risposta e la proposizione dell’eccezione.

(Cassazione Civile, Sez. I, Ord. 5 maggio 2021, n. 11791)

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Anche i dispositivi di rilevamento della velocità con modalità dinamica vanno obbligatoriamente segnalati.

Anche i dispositivi di rilevamento della velocità con modalità dinamica, come il c.d. "Scout Speed", sono sottoposti all'obbligo di presegnalazione della postazione di controllo stabilito dal Codice della Strada.

Secondo gli Ermellini, il disposto di cui all'art. 142, comma 6-bis, C.d.S., rimette al decreto ministeriale la "mera" individuazione delle modalità di impiego di cartelli o di dispositivi di segnalazione luminosi al fine di presegnalare la postazione di controllo, senza alcuna possibilità di derogare alla generale previsione dell'obbligo di preventiva segnalazione, né da parte del regolamento di esecuzione né, a maggior ragione, da parte del decreto ministeriale stesso. 

(Cassazione Civile ordinanza n. 29595/2021)

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Quando l'SMS diventa reato.

I messaggi WhatsApp e gli sms reiterati nel tempo, inviati anche in orari serali e notturni, pur in difetto di una risposta da parte di chi li riceve, sono in grado di provocargli uno stato di non trascurabile turbamento della vita e della serenità. Ciò che rileva, infatti, è l’invasività del mezzo impiegato per raggiungere il destinatario, non la possibilità per quest’ultimo di interrompere l’azione perturbatrice, già subita ed avvertita come tale, ovvero di prevenire la reiterazione, escludendo il contatto o l’utenza sgradita senza il nocumento della propria libertà di comunicazione.

(Cass. Pen., Sez. I, Sent., 22 ottobre 2021, n. 37974)

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Assegno divorzile indebitamente corrisposto? Deve essere restituita ogni singola mensilità a partire dal primo versamento.

Secondo la Corte di Cassazione (sentenza n. 28646 del 18 ottobre 2021)se giudizialmente riconosciuta la non debenza di un assegno divorzile precedentemente attribuito, sull’ex coniuge che ne è stato beneficiario grava l’obbligo di integrale restituzione dello stesso. Ciò significa che debbono essere restituite non solo le mensilità riscosse successivamente alla riforma della sentenza che ha riconosciuto all’ex coniuge il diritto all’assegno, ma ogni singola mensilità, a partire dal momento del primo versamento.

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Pensione di reversibilità e unione civile.

Con sentenza n. 24694 depositata il 14 settembre 2021, la Corte di Cassazione ha stabilito che la reversibilità rientra nel nucleo dei diritti/doveri di assistenza e solidarietà propri delle relazioni affettive di coppia e, quindi, dei diritti fondamentali che l'art. 2 Cost. tutela e garantisce all'interno delle formazioni sociali, nel cui novero va inclusa l'unione omosessuale intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso formalmente riconosciuta dalla L. n. 76/2016. 

Tuttavia, la pensione di reversibilità non può essere riconosciuta alle convivenze tra persone dello stesso sesso svoltesi in precedenza all'entrata in vigore della L. n. 76/2016 dato che il testo di questa normativa è chiaro, non lascia dubbi interpretativi né margini di discrezionalità tali da consentire un'estensione del diritto a beneficiare della pensione di reversibilità anche ai conviventi di fatto in precedenza alla formalizzazione della loro unione. 

(Cass. Civ., sez. VI, sent. 14 settembre 2021, n. 24694)

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L’abbandono del figlio in tenera età integra la fattispecie del danno endofamiliare.

L’abbandono del figlio in tenera età protrattosi negli anni integra la fattispecie del danno endofamiliare risarcibile ai sensi dell’art. 2059 c.c., anche se la frequentazione con il padre è stata breve, dovendo il giudice accertare gli effetti della privazione della figura paterna sullo sviluppo psicofisico nella fase evolutiva del minore.

Per la Corte "il disinteresse mostrato da un genitore nei confronti di una figlia naturale integra la violazione degli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione della prole, e determina la lesione dei diritti nascenti dal rapporto di filiazione che trovano negli artt. 2 e 30 Cost., – oltre che nelle norme di natura internazionale recepite nel nostro ordinamento – un elevato grado di riconoscimento e tutela, sicchè tale condotta è suscettibile di integrare gli estremi dell’illecito civile e legittima l’esercizio, ai sensi dell’art. 2059 c.c., di un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali sofferti dalla prole (Cass., n. 3079/15)". La stessa Cassazione ha specificato che l’illecito endofamiliare commesso in violazione dei doveri genitoriali può essere istantaneo – nel caso di singoli comportamenti (con violazione delle norme ordinarie relative agli obblighi genitoriali) – o permanente, se il genitore si estranea completamente per un periodo significativo dalla vita dei figli. In quest'ultimo caso è la considerevole protrazione temporale a portare al livello di disvalore costituzionale la condotta illecita ed è necessario valutare qualsivoglia conseguenza dannosa cagionata dalla condotta genitore nei confronti del figlio, sia circa il cd. danno morale subiettivo (la sofferenza ingiusta, ovvero il turbamento interiore, arrecata al minore perché privato della figura del padre), sia in ordine all’evoluzione fisio-psichica del figlio, anche considerando l’intensità dell’elemento soggettivo dell’illecito.

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Assegno divorzile: la Cassazione torna ad esprimersi in materia.

Il riconoscimento dell’assegno di divorzio in favore dell’ex coniuge, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa (art. 5, comma 6, L. n. 898/1970), richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge istante e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, applicandosi i criteri equiordinati di cui alla prima parte della norma, i quali rappresentano il parametro cui occorre attenersi per decidere sia sulla attribuzione sia sulla quantificazione dell’assegno. Il giudizio deve essere espresso alla luce di una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonché di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio ed all’età dell’avente diritto. 

(Cassazione civile, sez. VI, ordinanza 10 agosto 2021, n. 22602)

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affidamento paritetico e mantenimento diretto del minore senza alcun assegno a carico.

Con un innovativo provvedimento (reso infatti in un giudizio contenzioso e non consensuale), il Tribunale di Perugia (in data  1.9.2021) ha disposto l'affido paritetico di un minore in tenera età tra entrambi i genitori e il mantenimento diretto. Dunque, accertata la volontà del bambino di trascorrere più tempo a casa con il padre e la pressoché omogeneità dei redditi dei genitori, il Tribunale ha disposto il collocamento del minore presso il padre e la madre secondo tempistiche paritarie, stabilendo altresì che ciascun genitore, nel periodo di permanenza del bambino presso di sé, provveda a tutto l'occorrente senza pagare nessun assegno all'altro.


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Validi i i trasferimenti immobiliari in caso di divorzio congiunto.

Con sentenza n. 21761, depositata il 29 luglio 2021, le Sezioni Unite hanno stabilito che in tema di divorzio sono valide le clausole dell'accordo di divorzio a domanda congiunta, o di separazione consensuale, che riconoscano ad uno o ad entrambi i coniugi la proprietà esclusiva di beni mobili o immobili, o di altri diritti reali, ovvero ne operino il trasferimento a favore di uno di essi, o dei figli, al fine di assicurarne il mantenimento. 

(Cass. civ. Sez. Unite, Sent., (ud. 11 maggio 2021) 29 luglio 2021, n. 21761)

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Integrazione e rimodulazione del progetto di intervento ai fini dell'ammissione al beneficio della messa alla prova.

La presentazione di un progetto di intervento, elaborato dai servizi minorili dell'amministrazione della giustizia in collaborazione con i servizi socio-assistenziali degli enti locali, rappresenta una condizione imprescindibile ai fini dell'ammissione al beneficio della messa alla prova. Il progetto può essere integrato o rimodulato durante la sospensione del provvedimento, avuto riguardo alle esigenze del beneficiario, previa valutazione delle modifiche nel contraddittorio delle parti; ciò avviene a fortiori nell'ipotesi in cui, nell'ipotesi in cui, a causa dell'emergenza sanitaria dovuta alla diffusione del Coronavirus, l'USSM non abbia potuto individuare, oltre a quanto già previsto nel progetto ritenuto idoneo dal Collegio, l'attività di volontariato e si sia riservata di integrare detto progetto avuto riguardo all'evoluzione della situazione sanitaria.

(Tribunale Penale di Caltanissetta, Sez. Min., Ord. 25 novembre 2020)

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Convocazione dell'assemblea via mail? La delibera è annullabile.

Secondo il Tribunale di Roma, sentenza 23 luglio 2021 n. 12727, è da ritenersi annullabile la delibera dell'assemblea se i condomini sono stati convocati via mail e non tramite PEC, perché quest'ultima genera un codice univoco registrato che produce effetti di una vera a propria raccomandata mentre la mail è uno strumento che non conferisce certezza della comunicazione.

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Criterio del tenore di vita: nella separazione coniugale è ancora rilevante.

La Cassazione, con la decisione n. 21504 depositata il 27 luglio 2021, ha stabilito che nella separazione coniugale è ancora rilevante il criterio del tenore di vita. Nella separazione personale, infatti, a differenza dello scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, permane il vincolo coniugale, sicché i "redditi adeguati" cui va rapportato, ai sensi dell'art. 156 c.c., l'assegno di mantenimento a favore del coniuge, in assenza della condizione ostativa dell'addebito, sono quelli necessari a mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, essendo ancora attuale il dovere di assistenza materiale. 

(Cass. civ. Sez. VI-1 Ord., 27 luglio 2021, n. 21504)

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Colpa medica e coefficiente di salvezza.

La Cassazione fa chiarezza circa gli elementi che possono incidere sul coefficiente salvifico di probabilità statistica idoneo a ricondurre causalmente l'evento al comportamento omissivo del medico.

La Corte di Cassazione, quarta sezione penale, nella sentenza n. 30229/2021, si si è soffermata su quanto stabilito dalle Sezioni Unite, nella sentenza n. 38343/2014, circa l'accertamento della causalità omissiva e i limiti che incontra il sindacato di legittimità nel censire la valutazione argomentativa espressa in sede di merito, ribadendo che "nel reato colposo omissivo improprio, il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, che a sua volta deve essere fondato, oltre che su un ragionamento di deduzione logica basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sull'analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto". In particolare, si è sottolineato che, nella verifica dell'imputazione causale dell'evento, occorre dare corso ad un giudizio predittivo, sia pure riferito al passato: il giudice si interroga su ciò che sarebbe accaduto se l'agente avesse posto in essere la condotta che gli veniva richiesta.

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Gravi sofferenze provocate alla partner: per la Cassazione scatta il reato di tortura.

La Cassazione (Terza Sezione Penale) ha riconosciuto il reato di tortura a seguito delle gravi sofferenze, fisiche e psichiche, provocate alla vittima e che superano la soglia prevista per i maltrattamenti.

Più precisamente, con sentenza n. 32380/2021 ha confermato la condanna per il reato di cui all'art. 613-bis c.p. commesso in concorso con il delitto di maltrattamenti ex art. 572 c.p. e di violenza sessuale ex art. 609-bis del codice penale, ritenendo provato che l'imputato ha commesso il reato di tortura privata, provocando alla vittima acute sofferenze fisiche, riportando lesioni a causa delle percosse subite, e cagionando un trauma psichico. 

La Corte precisa inoltre che, ai fini della configurabilità del reato di tortura, dovranno necessariamente considerarsi solo fatti che costituiscano di per sé reato (a seconda dei casi, minaccia, percosse, lesioni, violenza privata) e che si caratterizzino per la loro gravità e per la loro idoneità a produrre acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico. Di conseguenza, "ciascuno dei singoli atti che concorrono ad integrare la fattispecie di tortura deve necessariamente superare una soglia minima di gravità che non è richiesta, invece, per i maltrattamenti".

Infine, nella sentenza si legge: "consistendo la tortura nell'inflizione brutale di sofferenze corporali, essa determina un grave e prolungato patimento fisico e morale dell'essere umano che la patisce, cosicché la sua particolarità risiede nella conclamata e terribile attitudine che la stessa possiede e cioè quella di assoggettare completamente la persona la quale, in balia dell'arbitrio altrui, è trasformata da essere umano in cosa, ossia in una res oggetto di accanimento".

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Lo specialista in ospedale deve anche prescrivere la terapia.

La Cassazione penale (sentenza n. 24895/2021), richiamando quanto affermato nella sentenza n. 24068/2018, con riguardo alla posizione di garanzia del medico che sia stato interpellato anche solo per un semplice consulto specialistico, ha affermato che questi, "qualora accerti l'esistenza di una patologia ad elevato e immediato rischio di aggravamento, ha l'obbligo di disporre personalmente i trattamenti terapeutici ritenuti idonei ad evitare eventi dannosi ovvero, in caso d'impossibilità di intervento, è tenuto ad adoperarsi facendo ricoverare il paziente in un reparto specialistico, portando a conoscenza dei medici specialistici la gravità e urgenza del caso ovvero, nel caso di indisponibilità di posti letto nel reparto specialistico, richiedendo che l'assistenza specializzata venga prestata nel reparto dove il paziente si trova ricoverato specie laddove questo reparto non sia idoneo ad affrontare la patologia riscontrata con la necessaria perizia professionale". 

La Sentenza è disponibile al seguente link: 

https://mega.nz/file/C2In3IBL#FzZEfT-j7u57zZkNSZM9lB-VwrMIuKkLypFPzPlcyKo


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Validi i trasferimenti immobiliari nell’ambito degli accordi di separazione e divorzio.

Le S.U., intervenendo sulla validità dei trasferimenti immobiliari nell’ambito degli accordi di separazione e divorzio. ribadiscono l’orientamento favorevole all’ammissibilità di tali trasferimenti e precisano che gli incombenti previsti dalla Legge n. 52 del 1985, art. 29 ben possono essere eseguiti dall'ausiliario del giudice, sulla base della documentazione che le parti saranno tenute a produrre.

(Cassazione civile, SS.UU., 29 luglio 2021, n. 21761)


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La fusione per incorporazione comporta l'estinzione della società incorporata.

La fusione per incorporazione estingue la società incorporata, la quale non può dunque iniziare un giudizio in persona del suo ex amministratore, avendo facoltà della società incorporante di spiegare intervento in corso di causa, ai sensi dell'art. 105 cpc, nel rispetto delle regole che lo disciplinano.

(Cassazione Civile, Sez. Unite, 30 luglio 2021, n. 21970)

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L'addebito della separazione non determina automaticamente il riconoscimento dell'assegno di mantenimento a favore dell'altro coniuge.

L'addebito della separazione non determina automaticamente il riconoscimento dell'assegno di mantenimento a favore dell'altro coniuge, ma devono concorrere, nello stesso momento, anche gli altri presupposti previsti dall'art. 156 del c.c., secondo il quale "Il giudice, pronunziando la separazione, stabilisce a vantaggio del coniuge cui non sia addebitabile la separazione il diritto di ricevere dall'altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri. L'entità di tale somministrazione è determinata in relazione alle circostanze e ai redditi dell'obbligato".

Il diritto al mantenimento consiste quindi in una prestazione economica comprensiva di tutto ciò che risulti necessario alla conservazione del tenore di vita goduto dai coniugi prima della separazione e che prescinde da uno stato di bisogno. La condizione per l'ottenimento dell'assegno è determinata dalla non addebitabilità al beneficiario della separazione e dalla disparità economica tra le condizioni patrimoniali dei due coniugi.

La Suprema Corte, con l'ordinanza 11 agosto 2021, n. 22704, ha ribadito l'esclusione del riconoscimento automatico dell'assegno di mantenimento per la sola addebitabilità della separazione, essendo necessario anche il concorso di altri elementi quali la mancanza di redditi propri e il divario economico-patrimoniale valutato nel suo complesso. 

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Assegno divorzile: l'ultimo orientamento della Cassazione.

In tema di assegno divorzile, la Corte di Cassazione chiarisce che il giudice è tenuto a decidere sull'assegno previo accertamento della misura del contributo apportato dall'ex coniuge alla formazione del patrimonio comune o a quello del consorte nel corso del matrimonio. Difatti l'ultimo orientamento della Corte di Cassazione sancisce che l'assegno divorzile in favore dell'ex coniuge ha natura assistenziale, ma anche perequativo-compensativa, discendente direttamente dal principio costituzionale di solidarietà, che conduce al riconoscimento di un contributo volto non a conseguire l'autosufficienza economica del richiedente sulla base di un parametro astratto, bensì "un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella vita familiare in concreto, tenendo conto in particolare delle aspettative professionali sacrificate, fermo restando che la funzione equilibratrice non è finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall'ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi" (Cass. n. 11790/2021).

La natura assistenziale e perequativo - compensativa, ai sensi dell'art 5 della legge sul divorzio, richiede "l'accertamento dell'inadeguatezza dei mezzi dell'ex coniuge istante, e dell'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive" (Cass. Civ., n. 11472/2021). 

Superando il precedente e consolidato orientamento, quindi, la Corte riconosce, oggi, la corresponsione dell'assegno divorzile commisurando e valutando il contributo che il coniuge richiedente ha apportato alla vita familiare ed anche alla carriera professionale del coniuge obbligato. 

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Opponibilità erga omnes della sentenza di disconoscimento di paternità.

Con ordinanza n. 19956, depositata il 13 luglio 2021, la Corte di Cassazione ha stabilito che la sentenza che accolga la domanda di disconoscimento della paternità, in quanto pronunciata nei confronti del P.M. e di tutti gli altri contraddittori necessari, assume autorità di cosa giudicata "erga omnes", essendo inerente allo "status" della persona. Pertanto, ne colui che è indicato come padre naturale, ne i suoi eredi, sono legittimati passivi nel relativo giudizio e la sentenza che accolga la domanda di disconoscimento è a loro opponibile, anche se non hanno partecipato al relativo giudizio. 

(Cass. civ. Sez. VI - 1, Ord., (ud. 13 maggio 2021) 13 luglio 2021, n. 19956)

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Padre si oppone alla vaccinazione anticovid 19 del figlio minore: madre autorizzata alla somministrazione.

Come stabilito dal Tribunale di Monza con Decreto del 22 luglio 2021, in caso di rifiuto opposto dal padre alla vaccinazione anticovid 19 del figlio minore, il conflitto genitoriale va risolto autorizzando la somministrazione del vaccino e attribuendo alla madre la facoltà di condurre il minore in un centro vaccinale e sottoscrivere il relativo consenso informato, anche in assenza del consenso dell’altro genitore.

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Se l'ex coniuge riceve una cospicua eredità si può chiedere la modifica dell'assegno di mantenimento.

Ove la fotografia della situazione economico-patrimoniale comparativa riferita agli ex coniugi muti per un'attribuzione patrimoniale che il giudice del merito, senza automatismi, accerti, in concreto, come rilevante in favore dell'avente diritto, il novum può essere posto a base di una domanda di revisione dell'assegno di mantenimento.

(Cassazione, Ordinanza del 2 luglio 2021 n. 18777)

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Sì alla parziale sospensione in appello della sentenza di separazione se gli arretrati del mantenimento sono molto alti, anche senza valutazioni sulla loro adeguatezza

Con l’Ordinanza del 27.07.2021 la Corte di Appello di Roma, decidendo su un’istanza inibitoria ex artt. 283 e 351 cpc avverso una sentenza di separazione, ha stabilito che è possibile sospendere il titolo esecutivo solo in relazione al mantenimento per il coniuge e il figlio minore dovuto per il periodo tra la data della domanda in primo grado a quella della pubblicazione della sentenza. Tale sospensione parziale può basarsi anche sul solo grave pericolo di non poter recuperare gli ingenti importi versati in seguito a una eventuale riforma favorevole all’appellante, pur senza una valutazione della fondatezza dei motivi di appello in fase inibitoria.

Nel caso concreto, Il Tribunale di Roma aveva condannato un uomo a corrispondere alla coniuge l’assegno mensile complessivo di 5000,00 €, per lei (2000 €) e per la figlia (3000 €), con decorrenza dalla domanda (giugno 2016), ripartendo tra i coniugi al 50% le spese straordinarie da sostenere per la figlia. 

Contestualmente all’appello proposto il 26/3/2021 anche sulle statuizioni economiche, il marito chiedeva la sospensione dell’efficacia della sentenza e depositava il 6/4/2021 istanza di trattazione anticipata ai sensi dell’art. 351 c.p.c., ponendo a fondamento della richiesta i motivi di contestazione nel merito della decisione impugnata nonché il grave pregiudizio conseguente alla probabile insolvenza della controparte, poiché non titolare di immobili, in caso di accoglimento dell’appello, stante l’elevato ammontare del credito per arretrati scaturito dalla decisione del primo giudice che egli assumeva erronea. 

L’appellata, costituendosi in giudizio, chiedeva il rigetto dell’istanza di sospensione; il Procuratore Generale chiedeva di procedere ad istruttoria sulle effettive capacità economiche delle parti al fine di valutare l’adeguatezza delle statuizioni.

La Corte accoglieva parzialmente la domanda dell’appellante, solo in relazione alle somme a titolo di mantenimento dal deposito della domanda alla pubblicazione del provvedimento di primo grado, ritenendo in primo luogo che:   
l’adeguatezza dell’entità dell’assegno richiede una valutazione di merito non anticipabile né possibile sulla base della cognizione sommaria di questa fase, dal momento che la stessa Corte, con il decreto presidenziale di fissazione dei termini di trattazione del giudizio, ha richiesto un’attività di integrazione istruttoria sulle risorse dei coniugi

E che, al contrario:
appare invece evidente il requisito del pregiudizio economico irreparabile derivante all’appellante per l’esecuzione della sentenza e per la verosimile difficoltà di restituzione da parte dell’appellata in caso di positiva definizione dell’appello, in relazione all’elevata somma per arretrati scaturente dalla significativa differenza tra le statuizioni provvisorie emesse nella fase presidenziale e quelle definitive intervenute a distanza di circa cinque anni, ciò traendosi dalle rispettive situazioni economiche delle parti poste a fondamento della decisione: una capacità di reddito presuntivamente superiore a quella documentata quanto all’appellante e il solo reddito da lavoro dipendente di 23000,00 euro lordi annui quanto all’appellata”.

Al fine di legittimare la sospensione parziale del titolo in assenza di una valutazione dei presupposti di appello, la Corte fa un distinguo tra le somme dovute in arretrato e quelle periodiche successive alla pubblicazione della sentenza, nell’ottica dell’idoneità a garantire le “primarie esigenze di vita” del coniuge e della figlia. Infatti:
“la destinazione della somma dovuta per arretrati di mantenimento (circa 200.000 €) non è invero individuabile in primarie esigenze di vita della coniuge e della minore che non possono essere differite né “sospese”, poiché queste devono ritenersi garantite dall’assegno di mantenimento vigente a far data dalla sentenza di primo grado, di ammontare tale da escludere la necessità di ricorso a somme ulteriori”.

Sì dunque alla sospensione parziale del titolo esecutivo sulla base del solo periculum in mora, venendo posticipata la valutazione della giustezza della somma (dunque della probabilità di accoglimento dell’appello) alla successiva fase di merito.

Corte di Appello di Roma, Ord. 27.07.2021 (testo integrale)

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Responsabilità dei genitori: necessaria la nomina del curatore speciale.

Nei giudizi relativi alla responsabilità dei genitori nei quali si discuta dell'affidamento della prole ai servizi sociali, la previsione di cui all'art. 336 , comma 4, c.c., così come modificato dall'art. 37, comma 3, della L. n. 149 del 2001, postula la nomina di un curatore speciale ex art. 78 c.p.c., sussistendo un conflitto di interessi del minore con entrambi i genitori.

In caso di mancata nomina del curatore speciale il procedimento deve ritenersi nullo ex art. 354, comma 1, c.p.c. con conseguente rimessione della causa al primo giudice per integrazione del contraddittorio.

(Corte di Cassazione Civile, Sez. I, Ord. 26 marzo 2021, n. 8627)

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Permesso di soggiorno per motivi familiari.

Il rilascio del permesso di soggiorno per motivi familiari (D.L.vo n. 30/2007) non implica il requisito della convivenza effettiva tra i coniugi e, tantomeno, quello del pregresso regolare soggiorno del richiedente, salve le conseguenze dell'accertamento di un matrimonio fittizio o di una convivenza ai sensi dell'art. 30, comma 1-bis, D.L.vo n. 286 del 1998.

(Corte di Cassazione Civile, Sez. I, Ord. 10 marzo 2021, n. 6747)

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Cassazione: la casa coniugale può essere assegnata al coniuge che vive col figlio psicologicamente molto fragile

Con l’Ordinanza 19561 dell’8 luglio 2021 la Cassazione ha respinto il ricorso di una madre che chiedeva l’assegnazione della casa familiare per sé.

Gli Ermellini hanno dato risalto al fatto che presso la casa familiare vivessero il padre con uno dei due figli, psicologicamente molto fragile poiché provato dalla forte conflittualità tra i genitori e da un rapporto pessimo con la madre.

La sorella, invece, si era rifiutata di vivere col padre perché coinvolto in un’inchiesta relativa a reati di natura sessuale.

Il Supremo Collegio ha riconosciuto che la casa dovesse essere assegnata al padre in quanto la scelta del Giudice di merito di favorire l’interesse di uno dei figli è insindacabile in sede di legittimità se correttamente motivata. Nel caso di specie, l’interesse a favorire il ragazzo già convivente col padre derivava proprio dalle sue condizioni piscologiche precarie.

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Irrevocabile il consenso al divorzio congiunto da un solo coniuge.

Quando una coppia decide di proporre un ricorso di divorzio congiunto manifesta una volontà comune e paritetica, per cui, per la Cassazione, non è consentito (in seguito) a uno dei due coniugi di avere un ripensamento e revocare il consenso prestato.

(Cass. Civ., Ord. n. 19348/2021)

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Affido condiviso anche se il padre in passato ha tenuto una condotta contraria all'interesse del figlio.

Con l'Ordinanza n.18603/2021, la Cassazione ha ribaltato la decisione della Corte di Appello, che nel disporre l'affido esclusivo alla madre aveva valorizzato esclusivamente la condotta passata del padre.

Secondo la Corte, infatti, il giudice che opta per l'affido esclusivo del minore alla madre, perché il padre in passato ha tenuto una condotta contraria all'interesse del figlio, deve procedere a una valutazione anche delle sue "attuali" capacità genitoriali. 

(Cass. Civ., Ord. n. 18603/2021)

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Costituisce sottrazione internazionale la violazione di un accordo tra genitori sul diritto di custodia del figlio

Con la Sentenza n. 18620 del 30.06.2021 la Corte di Cassazione ha ritenuto integrato l’illecito della sottrazione internazionale nella condotta di una madre che, in violazione di un accordo tra la stessa e l’ex marito relativamente alla custodia e all’affido della figlia, ha trasferito la residenza della minore in Italia senza più fare ritorno in Belgio.

L’accordo, sottoscritto dai due genitori davanti a un Tribunale belga, prevedeva che entrambi esercitassero la responsabilità genitoriale sulla bambina e individuava il Belgio come residenza abituale della stessa.

Il Tribunale di Milano non aveva valorizzato tale accordo, ritenendolo in contrasto con le domande giudiziali proposte dalla donna presso il Tribunale di Monza, e altresì aveva negato l’ordine di rimpatrio sul presupposto che non fosse determinabile una residenza abituale della minore, stante anche la sua tenera età.

La Cassazione, invece, ha ritenuto irrilevante la pendenza delle domande giudiziali presso il Tribunale di Monza, anche perché l’accordo non era stato soggetto a revisioni.

Ancora, gli Ermellini hanno argomentato che: “ l’illecito della sottrazione internazionale, Convenzione dell'Aja del 1980, resa esecutiva in Italia nel 1994, mira a tutelare il minore contro gli effetti nocivi del suo illecito trasferimento o mancato rientro nel luogo ove egli svolge la sua abituale vita quotidiana, sul presupposto della tutela del superiore interesse dello stesso alla conservazione delle relazioni interpersonali che fanno parte del suo mondo e costituiscono la sua identità (Corte Cost. 231/2001).”

A tal fine, l’individuazione della residenza abituale a cui il minore deve fare ritorno può basarsi anche su un accordo tra genitori. Una volta accertata la titolarità dell’esercizio della responsabilità genitoriale e l’identità della residenza abituale, solo alcune ragioni possono essere ostative dell’immediato rientro dei minori, previste dall’art. 13 della Convenzione in parola:
a) che la persona, l'istituzione o l'ente cui era affidato il minore non esercitava effettivamente il diritto di affidamento al momento del trasferimento o del mancato rientro, o aveva consentito, anche successivamente, al trasferimento o al mancato ritorno; o b) che sussiste un fondato rischio, per il minore, di essere esposto, per il fatto del suo ritorno, ai pericoli fisici e psichici, o comunque di trovarsi in una situazione intollerabile".

Non essendo riscontrabili tali eventualità nel caso di specie (comunque rimesse alla valutazione discrezionale del Giudice di merito), e stabilendo l’accordo tra le parti sia l’affido condiviso che la residenza abituale in Belgio, gli Ermellini hanno ritenuto integrato l’illecito della sottrazione internazionale.  

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È incostituzionale la sospensione della prescrizione per rinvio dovuto a necessità organizzative da pandemia COVID-19

Con la Sentenza n. 140/2021 la Corte Costituzionale ha dichiarato l'incostituzionalità dell’articolo 83, comma 9, del decreto legge n. 18 del 2020, nella parte in cui prevede la sospensione del corso della prescrizione "per il tempo in cui i procedimenti penali sono rinviati ai sensi del precedente comma 7, lettera g), e in ogni caso, non oltre il 30 giugno 2020".

Pertanto, contrastano con la Costituzione (in particolare col principio di legalità ex art. 25) i provvedimenti di rinvio delle udienze penali adottati dal capo dell'ufficio giudiziario nell'ambito delle disposizioni per contrastare l'emergenza epidemiologica da Covid-19.

Infatti, le norme sulla prescrizione hanno natura di diritto sostanziale  e ricadono nell'ambito di applicazione del principio di legalità poiché determinano un allungamento del termine di estinzione del reato. Pertanto, si impone la necessità che la fattispecie estintiva sia determinata nei suoi elementi costitutivi in modo da assicurare un sufficiente grado di conoscenza o di conoscibilità.

La disposizione caducata dalla sentenza, invece, prevedeva una regola processuale definita integralmente dalle disposizioni autonomamente adottate dal capo dell'ufficio, comportando così "un radicale deficit di determinatezza, per legge, della fattispecie, con conseguente lesione del principio di legalità limitatamente alla ricaduta di tale regola sul decorso della prescrizione".

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Il concetto di “indispensabilità” della prova nuova in appello nell'attuale formulazione dell’art. 345, comma 3 c.p.c.

La Cassazione ribadisce il principio secondo il quale, nell’attuale formulazione dell’art. 345, comma 3 c.p.c., nessun ruolo gioca la deduzione e la dimostrazione dell’indispensabilità del mezzo di prova proposto per la prima volta in appello, il quale potrà dunque essere ammesso nella sola ipotesi in cui la parte dimostri di non aver potuto proporlo nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile.

Ha affermato quindi il seguente principio di diritto: "Nel giudizio di appello, la nuova formulazione dell'art. 345 cpc, comma 3, quale risulta dalla novella di cui al DL n. 83 del 2012, convertito con modificazioni con la L. n. 134 del 2012, applicabile nel caso in cui la sentenza conclusiva del giudizio di primo grado sia stata pubblicata dal giorno 11 settembre 2012 in poi, pone il divieto assoluto di ammissione di nuovi mezzi di prova e di produzione di nuovi documenti, a prescindere dalla circostanza che questi abbiano o meno quel carattere di "indispensabilità" che, invece, costituiva criterio selettivo nella versione precedente della medesima norma, fatto comunque salvo che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile".

(Cass., sez. VI., 21 gennaio 2021, n. 1109)

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Sentenza di divorzio successiva alla morte di uno dei coniugi: ammesso l'appello per cessata materia del contendere.

Avverso la sentenza dichiarativa della cessazione degli effetti civili del matrimonio, intervenuta successivamente alla morte di una delle parti, è ammissibile l'appello della parte superstite al fine di ottenere una pronuncia di cessazione della materia del contendere, essendo gli effetti civili del matrimonio già venuti meno per la morte di uno dei due coniugi.

Legittimati processuali nel giudizio di impugnazione sono anche gli eredi della parte deceduta.

(Cass. Civ., Sez. VI, Ord. 21 gennaio 2021, n. 1079)

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Lo scioglimento della comunione dei beni dei coniugi separati e la sua ricostituzione in seguito a riconciliazione

Con l'Ordinanza n. 6820 del 11.03.2021, la Suprema Corte ha avuto modo di chiarire i principi che regolamentano la comunione legale dei beni nel caso di separazione personale dei coniugi.

Gli Ermellini hanno infatti stabilito che: “”in materia di comunione legale tra i coniugi, la separazione personale costituisce causa di scioglimento della comunione, che è rimossa dalla riconciliazione dei coniugi medesimi, cui segue il ripristino automatico del regime di comunione originariamente adottato, con la sola esclusione degli acquisti effettuati durante il periodo di separazione e fatta salva l’invocabilità, “ratione temporis”, dell’effetto pubblicitario derivante dalla novella di cui all’art. 69 del Dpr 396 del 2000, che ha previsto l’annotazione a margine dell’atto di matrimonio delle dichiarazioni rivelatrici della volontà conciliativa”.

La pronuncia in parola, pertanto, delinea il funzionamento della comunione legale al momento della riconciliazione dei coniugi in seguito a separazione: essa si applica per quei beni che verranno acquistati successivamente alla riconciliazione e torna ad estendersi retroattivamente ai beni acquistati prima dello scioglimento. Tale applicazione retroattiva non si estende però agli acquisti effettuati in costanza di separazione, creando così un intervallo temporale tra i due periodi di vigenza della comunione.

Si ricorda che la comunione legale (artt. 177 ss cc) è il regime patrimoniale predefinito in assenza di diverso accordo tra i coniugi.  Essa è caratterizzata dall’assenza di una individuazione di quote specifiche di proprietà. Quando la comunione legale si scioglie, i beni che ne erano soggetti cadono in comunione ordinaria. Quest’ultima, a differenza della prima, è divisa in quote. Pertanto, ogni coniuge diventa titolare della quota del bene compreso nella comunione legale e può liberamente disporne. (Sul punto, si veda Cass. 28.12.2018 n. 33546).

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L'affido super esclusivo

L’affido super esclusivo (o esclusivo rafforzato) è un istituto di costruzione giurisprudenziale nato da una particolare interpretazione dell’art. 337-quater del Codice Civile. Il terzo comma dell’articolo in parola così recita: “Il genitore cui sono affidati i figli in via esclusiva, salva diversa disposizione del giudice, ha l'esercizio esclusivo della responsabilità genitoriale su di essi; egli deve attenersi alle condizioni determinate dal giudice. Salvo che non sia diversamente stabilito, le decisioni di maggiore interesse per i figli sono adottate da entrambi i genitori. Il genitore cui i figli non sono affidati ha il diritto ed il dovere di vigilare sulla loro istruzione ed educazione e può ricorrere al giudice quando ritenga che siano state assunte decisioni pregiudizievoli al loro interesse.

La figura qui analizzata è, appunto, ricondotta all’inciso “Salvo che non sia diversamente stabilito” e si qualifica pertanto come una terza via tra l’affido condiviso e quello esclusivo, posta al livello più alto di “gravità” nella limitazione dell’esercizio della responsabilità genitoriale.

Infatti, mentre l’affido esclusivo prevede comunque che le decisioni di maggiore interesse vengano prese di comune accordo trai genitori, l’affido super esclusivo riserva al solo genitore affidatario il compito di adottare tutte le scelte che riguardino il minore, senza il previo consenso o avvertimento dell’altro.

Nei fatti, l’istituto in esame esautora il genitore non affidatario, in maniera simile a un provvedimento limitativo o estintivo della responsabilità genitoriale.

La differenza sostanziale con questi ultimi provvedimenti sta nel fatto che, giuridicamente, con l’affido esclusivo rafforzato la titolarità della responsabilità genitoriale non viene intaccata: è il suo esercizio che viene marginalizzato al punto da limitarsi al solo diritto/dovere per il genitore non affidatario di vigilare sull’istruzione ed educazione della prole e ricorrere al giudice in caso ritenga siano state prese decisioni pregiudizievoli per il minore, come da dettato del predetto art. 337-quater cc.

L’affido esclusivo rafforzato, con tutta evidenza, è uno strumento molto potente e può trovare applicazione solo in casi di grave incapacità del genitore di crescere il minore in accordo con le sue inclinazioni e necessità, specie quando la condotta del genitore risulti dannosa o pregiudizievole per il figlio.

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Il riparto delle competenze in materia di famiglia tra giudice tutelare, giudice della separazione e tribunale per i minorenni

Trib. Roma, Sez. IX, 09.06.2021


Con riguardo ai provvedimenti adottati in sede di separazione dei coniugi, il potere di vigilanza attribuito dall'articolo 337 cod. civ. al giudice tutelare concerne l'attuazione delle condizioni stabilite dal tribunale ordinario per l'affidamento della prole in sede di separazione tra i coniugi, di talché il suo esercizio presuppone l'interpretazione delle condizioni della separazione ma non si estende all'attribuzione di poteri decisori, che non siano meramente applicativi delle condizioni medesime.

Di conseguenza, resta esclusa ogni statuizione modificativa di dette condizioni, che spetta invece al tribunale ordinario, ovvero, quando si tratti di incidere in via ablativa o limitativa della potestà genitoriale, al tribunale per i minorenni.

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Google Earth utilizzabile come prova per dimostrare gli abusi edilizi.

la Suprema Corte con la sentenza penale n. 37611/2020 ha dato asilo, nel processo penale, ai fotogrammi di Google Earth proprio per dimostrare gli abusi edilizi. 

La giurisprudenza penale ha sottolineato come i fotogrammi scaricati dal sito internet "Google Earth", in quanto rappresentano fatti, persone o cose, costituiscono prove documentali pienamente utilizzabili ai sensi dell'art. 234 c.p.p., o dell'art. 189 c.p.p. Ben diversa, poi, è la questione relativa alla valutazione del loro contenuto e alla corrispondenza al vero di quanto in essi rappresentato.

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I genitori sono responsabili per le lesioni provocate dalla inadeguatezza dell'educazione impartita ai figli minorenni.

L'inadeguatezza dell'educazione impartita dai genitori, quale fondamento, ex art. 2048 c.c., della responsabilità dei medesimi per il fatto illecito commesso dal figlio minore, può essere desunta, in mancanza di prova contraria, dalle modalità dello stesso fatto illecito, che ben possono rivelare il grado di maturità e di educazione del minore (Nel caso di specie, uno studente minorenne, prossimo alla maggiore età, nel corso dell'anno scolastico, durante le lezioni e, comunque, all'interno dell'istituto scolastico, in quattro diverse occasioni, offendeva verbalmente il docente, lo molestava impedendogli di tenere lezione, lo minacciava e spintonava).

(Tribunale Sondrio Sez. Unica, 03/03/2021)

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L’ergastolo è in contrasto con la Costituzione.

Con ordinanza numero 18518/2020, la Corte di Cassazione aveva sollevato questione di legittimità costituzionale, con riferimento agli artt. 3, 27 e 117 della Costituzione, degli artt. 4-bis comma 1 e 58-ter della legge n. 354 del 1975, e dell’art. 2 d. I. n. 152 del 1991, convertito, con modificazioni, nella legge n. 203 del 1991, «nella parte in cui escludono che il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla liberazione condizionale». 

La Corte ha anzitutto rilevato che la vigente disciplina del cosiddetto ergastolo ostativo preclude in modo assoluto, a chi non abbia utilmente collaborato con la giustizia, la possibilità di accedere al procedimento per chiedere la liberazione condizionale, anche quando il suo ravvedimento risulti sicuro. Ha quindi osservato che tale disciplina ostativa, facendo della collaborazione l’unico modo per il condannato di recuperare la libertà, è in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione e con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Tuttavia, secondo la Corte Costituzionale, l’accoglimento immediato delle questioni rischierebbe di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata. Perciò ha stabilito di rinviare la trattazione delle questioni a maggio 2022, per consentire al legislatore gli interventi che tengano conto sia della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso e delle relative regole penitenziarie, sia della necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia in questi casi.

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Riconoscimento degli effetti di un provvedimento di adozione straniero da parte di coppia omosessuale maschile.

Non contrasta con i principi di ordine pubblico internazionale il riconoscimento degli effetti di un provvedimento giurisdizionale straniero di adozione di minore da parte di coppia omoaffettiva maschile che attribuisca lo status genitoriale secondo il modello dell’adozione piena o legittimante, non costituendo elemento ostativo il fatto che il nucleo familiare del figlio minore adottivo sia omogenitoriale ove sia esclusa la preesistenza di un accordo di surrogazione di maternità a fondamento della filiazione.

(Cassazione Sez. Un. Civili, 31 Marzo 2021, n. 9006)

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Il riconoscimento dell’efficacia della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio religioso e il giudicato della sentenza non definitiva sullo status.

Secondo la Cassazione, il riconoscimento dell’efficacia della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio religioso, intervenuto dopo il passaggio in giudicato della pronuncia di cessazione degli effetti civili (sentenza non definitiva sullo status) ma prima che sia divenuta definitiva la decisione in ordine alle relative conseguenze economiche, non comporta la cessazione della materia del contendere nel giudizio di divorzio, che può dunque proseguire ai fini dell’accertamento della spettanza e della liquidazione dell’assegno divorzile.

(Cass. civ. Sez. Unite, Sent., (ud. 01/12/2020) 31-03-2021, n. 9004)

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Niente assegno di divorzio al coniuge giovane e poco intraprendente nella ricerca di una nuova occupazione.

L'ex coniuge di età ancora giovanile, che abbia intrapreso una convivenza more uxorio dopo l'avvenuto divorzio e, seppur goda di buona salute, si dimostri poco intraprendente nella ricerca di una nuova occupazione, non ha diritto all'assegno divorzile.

(Cass. civ. Sez. VI - 1 Ord., 04/02/2021, n. 2653)

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Assegno divorzile: lo status di "coniuge debole" va verificato concretamente accertandosi se è il frutto di una scelta o se è indipendente dalla volontà dell'interessata.

Con la decisione n. 452/2021, la Corte di Cassazione ha stabilito che ai fini della valutazione dell'assegno divorzile, il sacrificio delle aspettative professionali e reddituali di una delle parti in funzione dell'assunzione di un ruolo trainante nell'ambiente familiare non va dato per presupposto, ma verificato concretamente.

Nel caso di specie, invece, la Corte territoriale si è limitata a dare atto dell'indisponibilità di redditi da parte della ex moglie, del suo stato di disoccupazione, senza neppure riferire se siffatto stato fosse il risultato di una scelta ovvero di condizioni indipendenti dalla volontà dell'interessata. In altri termini, la moglie è stata qualificata come "coniuge debole" senza alcuna indagine rispetto alle condizioni reali della suddetta.

(Cass. civ. Sez. VI - 1 Ord., 13/01/2021, n. 452)

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Elevata conflittualità tra i genitori e decadenza dalla responsabilità genitoriale.

Il Tribunale di Milano, sez. IX , con sentenza n. 1145 del 11 febbraio 2021, ha stabilito che, ove venga accertata una conflittualità tra i genitori tale comportare notevoli pregiudizi per la crescita dei figli minori, vada sospesa la loro responsabilità genitoriale e disposto l’affidamento dei figli ad un soggetto extrafamiliare.

In particolare, il Tribunale, dopo aver accertato l'inadeguatezza dei genitori ad assicurare una sana e serena crescita dei figli, ma ritenendo di non dover pronunciare la decadenza dei medesimi dalla responsabilità genitoriale, esistendo dei margini di recupero della capacità genitoriale da parte dei coniugi ove avessero seguito un percorso psicoterapeutico, ha ritenuto più opportuno adottare un provvedimento di limitazione della responsabilità predetta ai sensi dell’art. 333 c.c., con affidamento dei minori al Comune di Milano e con collocamento alternato tra i genitori.

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Tribunale di Santa Maria Caupa Vetere: la donna può impiantare l'embrione crioconservato anche se il marito non è d'accordo

Il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, con Ordinanza del 27.01.2021, ha stabilito che la donna può impiantare gli  embrioni creati e crioconservati nonostante l'opposizione del marito e  l'intervenuta separazione dei coniugi.
Nella sua decisione, il Tribunale ha dato peso al principio di autoresponsabilità, per cui la donna aveva ormai un legittimo affidamento verso il consenso validamente prestato dal marito alla fecondazione.
Ancora, i Giudici hanno evidenziato la tutela che l'ordinamento garantisce ai figli anche nel caso di conflitto di coppia.

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Il canone di locazione agevolato va determinata in riferimento alle zone OMI in vigore al momento della stipula del contratto di locazione.

La misura del canone di locazione agevolato nei contratti concordati va determinata in riferimento alle zone OMI in vigore al momento della stipula del contratto di locazione e non a quelle vigenti al momento della sottoscrizione dell'accordo definito in sede locale tra le organizzazioni della proprietà edilizia e dei conduttori maggiormente rappresentative.

(Trib. Roma, sentenza, 25 novembre 2020, n. 18927)

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Sulla natura di atto recettizio dell'avviso di convocazione all'assemblea dei condomini.

Ogni condomino ha il diritto di intervenire all'assemblea e deve, quindi, essere messo in condizione di poterlo fare, con la conseguente necessità che l'avviso di convocazione, previsto dall'art. 66, comma 3, disp. att. c.c. nel testo vigente "ratione temporis", quale atto unilaterale recettizio, sia, non solo, inviato, ma anche ricevuto nel termine ivi stabilito di almeno cinque giorni prima della data fissata per l'adunanza, avendo riguardo alla riunione dell'assemblea in prima convocazione.

(Cass. Civ., Sez. 2 - , Ordinanza n. 24041 del 30/10/2020)

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Il provvedimento adottato dal tribunale su ricorso del coniuge che chieda la revisione dell'assegno di mantenimento a favore del figlio ha efficacia immediatamente esecutiva.

La Procura Generale della Corte di Cassazione, in data 17.11.2020, in relazione all'efficacia immediatamente esecutiva del provvedimento con il quale viene disposta la revisione dell'assegno di mantenimento in favore del figlio, ha così statuito: "in considerazione l’insegnamento di Cass. civ., sez. Un., 26 aprile 2013, n. 10064, secondo cui "in materia di revisione delle disposizioni concernenti l'affidamento dei figli e di quelle relative alla misura e alle modalità dei contributi da corrispondere a seguito dello scioglimento e della cessazione degli effetti del matrimonio, a norma della L. n. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 9 e successive modificazioni, il decreto pronunciato dal tribunale è immediatamente esecutivo, in conformità di una regola più generale, desumibile dall'art. 4 della citata legge regolativa della materia e incompatibile con l'art. 741 c.p.c., che subordina l'efficacia esecutiva al decorso del termine utile per la proposizione del reclamo", cui aderiscono sia la successiva pronuncia resa da Cass. civ., sez. VI, 22 gennaio 2015, n. 1164, nonché numerose pronunce rese dai giudici di merito. Al proposito va rimarcato che ulteriore conferma di tale principio di diritto si può rinvenire nella l. n. 219 del 2012, all’articolo 3, che ha stabilito che nei procedimenti in materia di affidamento e di mantenimento dei minori, si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 737 ss., cod. proc. civ., quindi il procedimento camerale, stabilendo espressamente che il Tribunale competente provvede in ogni caso in camera di consiglio e che i provvedimenti emessi sono immediatamente esecutivi, salvo che il giudice disponga diversamente".

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Sulla decorrenza dell'obbligo di mantenimento del figlio.

La Terza Sezione della Corte di Cassazione (con l’ordinanza n. 8816/2020), dopo aver ribadito il collegamento dell’obbligazione di mantenimento ex art. 148 del c.c. allo status genitoriale e, conseguentemente, la decorrenza dell'obbligazione in parola dalla nascita del figlio, ha aggiunto che, come dalla stessa Corte già affermato in passato, nel caso di successiva cessazione della convivenza tra i genitori l’obbligo del genitore non affidatario o collocatario non decorre dalla proposizione della domanda giudiziale, bensì dall’effettiva cessazione della coabitazione (cfr. Cass. Civ., n. 3302/2017).

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Provvedimenti ablativi o limitativi della potestà genitoriale: l’effetto attrattivo della competenza in favore del giudice della separazione/divorzio.

Nel caso in cui sia già in corso un giudizio di separazione ovvero di divorzio di fronte al giudice ordinario nel momento della proposizione di un un successivo provvedimento ablativo o limitativo della potestà genitoriale ai sensi degli artt. 330 e 333 c.c. da parte del giudice minorile si verifica l’effetto attrattivo (c.d. “vis actractiva”) della competenza in favore del giudice di fronte al quale è in corso il suddetto giudizio, nell’ottica (rispettosa della volontà del legislatore del 2012) di concentrazione delle tutele in capo ad uno stesso giudice per le questioni attinenti al rapporto genitori-figli minori, garantendo così l’armonia tra i provvedimenti e scongiurando una loro frammentazione provocata da possibili contrasti.

(Cass. civ. Sez. VI - 1, Ord., (ud. 15/12/2020) 11-02-2021, n. 3490)

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Assegno di mantenimento per il figlio maggiorenne che studia fuori sede.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 29977/2020, ha avuto modo di pronunciarsi in merito alla possibilità per il genitore collocatario di chiedere l'aumento dell'assegno di mantenimento del figlio, studente fuori sede.

Con l'occasione ha chiarito che:

a) l'obbligo di mantenere il figlio non cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età, ma si protrae, qualora questi, senza sua colpa, divenuto maggiorenne, sia ancora dipendente dai genitori;

b) poiché, di norma, è il genitore con il quale il figlio abita a provvedere materialmente ai bisogni ed alle necessità del figlio stesso, la coabitazione si configura, nelle ipotesi che più frequentemente ricorrono, come un parametro fattuale di rilevanza indiziaria, idoneo a giustificare la deroga alla regola generale della corresponsione diretta della somma a titolo di contributo al mantenimento al figlio maggiorenne;

c) in altre parole, non può darsi dirimente rilevanza al solo dato temporale della permanenza del figlio presso l'abitazione del genitore già collocatario: mentre il rapporto coniugale è connotato di regola da una quotidiana coabitazione e dalla unicità di interessi familiari, quello di filiazione può essere più spesso caratterizzato, in presenza di peculiari e personali interessi del figlio, specie se maggiorenne, da una sua presenza solo saltuaria per la necessità di assentarsi con frequenza per motivi di studio o di lavoro anche per non brevi periodi;

d) una frequentazione solo saltuaria della casa da parte del figlio non è, infatti, incompatibile con la persistenza di un più intenso legame di comunanza di vita con uno solo dei genitori, tale che sia quest'ultimo a restare la figura di riferimento per il corrente sostentamento del figlio e a provvedere materialmente alle sue esigenze, anticipando ogni esborso necessario;

e) nel concorso di dette circostanze, trova quindi giustificazione la legittimazione iure proprio di cui si sta trattando, sempre che sia mancata la richiesta in via giudiziale, da parte del figlio maggiorenne, di corresponsione diretta dell'assegno di mantenimento.

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Sulla posizione di parti sostanziali dei minori nel giudizi che li riguardano.

In generale i minori, nei procedimenti giudiziari che li riguardano, non possono essere considerati parti formali del giudizio, perché la legittimazione processuale non risulta attribuita loro da alcuna disposizione di legge; essi sono, tuttavia, parti sostanziali, in quanto portatori di interessi comunque diversi, quando non contrapposti, rispetto ai loro genitori. La tutela del minore, in questi giudizi, si realizza mediante la previsione che deve essere ascoltato, e costituisce pertanto violazione del principio del contraddittorio e dei diritti del minore il suo mancato ascolto, quando non sia sorretto da un'espressa motivazione sull'assenza di discernimento, tale da giustificarne l'omissione.

(Cass. civ. Sez. I Ord., 30/07/2020, n. 16410)

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Lesione della quota di riserva: integrale esaurimento del patrimonio del "de cuius" mediante donazioni e onere della prova a carico del legittimario leso.

Il principio secondo cui il legittimario che propone l'azione di riduzione ha l'onere di indicare e comprovare tutti gli elementi occorrenti per stabilire se, e in quale misura, sia avvenuta la lesione della sua quota di riserva, non può essere applicato qualora il "de cuius" abbia integralmente esaurito in vita il suo patrimonio con donazioni. 

In questo caso, infatti, il legittimario non ha altra via, per reintegrare la quota riservata, se non quella di agire in riduzione contro i donatari, essendo quindi la compiuta denuncia della lesione già implicita nella deduzione della manifesta insufficienza del "relictum".

(Cass. civ. Sez. II Sent., 31-07-2020, n. 16535 (rv. 658294-02))

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La comunicazione dell'ordinanza presidenziale da parte della cancelleria del Tribunale non fa decorrere il termine breve per il reclamo ex art. 708 c. 4 cc.

Con Ordinanza del 05.02.2021 la Corte di Appello di Napoli ha statuito che non è tardivo il reclamo ex art. 708 cpc proposto avverso l’Ordinanza Presidenziale del Tribunale oltre i 10 giorni dalla comunicazione di tale provvedimento da parte della cancelleria.
Infatti, la signora convenuta nel giudizio di reclamo aveva eccepito la tardività dello stesso, sulla base del disposto dell’ultimo comma dell’art. 708 c. 4 cpc a mente del quale:

“Contro i provvedimenti di cui al terzo comma si può proporre reclamo con ricorso alla corte d'appello che si pronuncia in camera di consiglio. Il reclamo deve essere proposto nel termine perentorio di dieci giorni dalla notificazione del provvedimento “

In poche parole, la reclamata equiparava la comunicazione del provvedimento da parte della cancelleria alla notifica menzionata nell’articolo, ritenendo quindi che fosse decorso il succitato termine di 10 giorni prima della presentazione in Corte di Appello del reclamo.

La Corte, diversamente opinando, ha ritenuto invece che il termine breve di 10 giorni ex art. 708 cpc decorra solo dal momento della notifica del provvedimento presidenziale effettuato da una delle parti del giudizio di separazione o divorzio. Al contrario, la comunicazione da parte della cancelleria fa decorrere il termine ordinario di sei mesi.

Si tratta di una pronuncia piuttosto interessante poiché, a differenza di quanto si possa pensare, non è pacifico che il termine “notifica” utilizzato dall’articolo in parola si riferisca solo all’impulso di parte.
Infatti, pur essendo largamente maggioritaria l’opinione di cui all’ordinanza in commento, non mancano voci dissonanti che qualificano come notificazione (idonea a far decorrere il termine breve di impugnazione) anche i biglietti di cancelleria che contengano copia integrale di un provvedimento. Si veda ad esempio: Circolare 27 giugno 2014 del Ministero della Giustizia; Tribunale di Modena, sentenza n. 1799 del 2 dicembre 2009; Corte d’Appello di Milano, sentenza n. 224 del 3/3/2014

Non va dimenticato, infatti, che l’art. 16 del D.L. 179/2012 ha imposto alle cancellerie l’obbligo di recapitare via PEC gli atti dell’Ufficio Giudiziario e che l’art. 133 c. 2 cpc prevede esplicitamente solo per la sentenza che la comunicazione da parte della cancelleria non possa far decorrere il termine breve per l’impugnazione.

Inoltre, anche tra chi ritiene che il termine breve ex art. 708 cpc decorra solo con la notifica di parte, non vi è concordia sulla durata del termine lungo in caso di sola comunicazione di cancelleria. Infatti, mancando un esplicito dato normativo, alcuni ritengono che il termine coincida con l’udienza davanti al G.I. (C.D.A. Napoli, ord. 26.6.2007).

La pronuncia qui esaminata offre anche spunti interessanti in relazioni ad altri aspetti del procedimento per reclamo ex art. 708 c. 4 cpc, come le sue condizioni di ammissibilità e il suo rapporto con gli altri mezzi a disposizione della parte per chiedere la modifica delle statuizioni presidenziali.

Corte di Appello di Napoli, ord. 05.02.2021 (testo completo)

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Cognome dei figli: l'ordinanza della Corte Costituzionale.

Con l'ordinanza n. 18 del 2021 la Corte Costituzionale ha disposto la rimessione davanti a sé delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 262, comma 1, c.c., nella parte in cui, in mancanza di diverso accordo dei genitori, impone l’acquisizione alla nascita del cognome paterno, anziché dei cognomi di entrambi i genitori, in riferimento agli artt. 2, 3 e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, poiché lo stesso meccanismo consensuale – che il rimettente vorrebbe estendere all’opzione del solo cognome materno – non porrebbe rimedio allo squilibrio e alla disparità tra i genitori.

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Sull'assegnazione della casa familiare al genitore non collocatario.

Nel giudizio di separazione personale dei coniugi, l'assegnazione di una porzione della casa familiare al genitore non collocatario dei figli può disporsi solo nel caso in cui l'unità abitativa sia del tutto autonoma e distinta da quella destinata ad abitazione della famiglia o sia comunque agevolmente divisibile.

(Cass. civ. Sez. VI - 1 Ord., 15/10/2020, n. 22266 (rv. 659413-01))



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Assegno di mantenimento: si alla compensazione del credito.

La Corte di Cassazione si è pronunciata in merito alla possibilità, per l’ex marito, obbligato a corrispondere alla ex un assegno di mantenimento, di opporre in compensazione a quest’ultima, che agisca esecutivamente, il mutuo stipulato da entrambi ma pagato in via esclusiva da lui.

Secondo gli Ermellini, con l'opposizione ex art. 615 c.p.c. il debitore esecutato può opporre in compensazione al creditore procedente un controcredito certo (cioè, definitivamente verificato giudizialmente o incontestato) oppure un credito illiquido di importo certamente superiore (la cui entità possa essere accertata, senza dilazioni nella procedura esecutiva, nel merito del giudizio di opposizione) anche nell'ipotesi di espropriazione forzata promossa per il credito inerente al mantenimento del coniuge separato, non trovando applicazione, in difetto di un "credito alimentare", l'art. 447, comma 2, c.c.

(Cass. civ. Sez. III Sent., 26/05/2020, n. 9686 (rv. 657716-01))

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La ex partner della madre del minore non ha diritto di visita nei confronti del bambino, se ciò è contrario al suo best interest.

Nel decidere se l'ex convivente della madre ha diritto di visita nei confronti del bambino, gli Stati membri godono di un ampio margine di apprezzamento, in cui le autorità pubbliche devono trovare un equilibrio tra interessi privati e interessi pubblici o tra i diversi diritti protetti dalla Convenzione. In siffatte circostanze in gioco non vi era il solo diritto al rispetto della vita familiare della ricorrente, ma anche il principio dell'interesse superiore del bambino ai sensi dell'art. 8 della Convenzione.

Lo ha stabilito la Corte di Strasburgo nella decisione Honner contro Francia, pubblicata il 12 novembre 2020. Specifica la Corte dei diritti umani che la Corte dei diritti umani ha notato i giudici francesi avevano ritenuto gli incontri tra il minore e la ricorrente fossero traumatici per il bambino e che quindi non fosse nell'interesse del minore proseguirli. Tale decisione, dunque, si fondava sulla tutela del superiore interesse del minore, dato che G. era un bambino fragile, trovatosi in una situazione traumatizzante e al centro di un conflitto tra la ricorrente e la sua madre biologica, che non erano in grado di comunicare tra loro senza essere aggressive. Altresì aveva anche notato che non ci fosse stato un passaggio regolare del minore tra le due ex partner e che G. era stato riluttante nell'andare a casa della richiedente. Pertanto, la Corte di Strasburgo non ha potuto mettere in discussione la conclusione che la Corte d'appello era giunto da questi risultati, vale a dire che non era nell'interesse del bambino continuare incontrare il richiedente.

(Corte europea diritti dell'uomo, 12/11/2020)

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Con il patto di famiglia, la quota di legittima è, per legge, convertita in un diritto di credito immediatamente esigibile.

Con sentenza n. 29506/2020, depositata il 24 dicembre 2020, la Corte di Cassazione ha stabilito che all'atto della stipula del patto di famiglia sorge un diritto di credito dei futuri legittimari, cui corrisponde, specularmente, l'obbligo del discendente beneficiario di provvedervi subito (senza aspettare l'apertura della successione). I contraenti possono anche prevedere che tale liquidazione avvenga in tutto o in parte in natura, tant'è l'art. 768-quater, comma 3, precisa che, come il denaro, anche i beni assegnati ai partecipanti al patto, che non siano gli assegnatari dell'azienda o delle partecipazioni sociali, sono imputati, secondo il valore attribuito in contratto, alle quote di legittima spettanti a questi ultimi.

Dal punto di vista funzionale, il patto di famiglia si colloca nell'ambito dei patti successori non tanto perchè con esso vengono trasferiti per spirito di liberalità determinati beni dell'imprenditore prima dell'apertura della successione (in vista del passaggio generazionale nella gestione dell'impresa), ma perchè, affianco a tale attribuzione, la legge prevede necessariamente la soddisfazione dei legittimari non assegnatari, mediante liquidazione di un conguaglio (anche in natura) da parte del beneficiario dell'attribuzione, anticipando gli effetti dell'apertura della successione tra legittimari ed anche della divisone ereditaria, limitatamente ai beni oggetto di trasferimento, tenendo conto delle quote di legittima, e rafforzando la definitività delle attribuzioni tutte con l'esclusione dalla collazione e dalla riduzione.

(Cass. civ. Sez. V, 24/12/2020, n. 29506)

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Le Sezioni Unite sull'ammissibilità dei danni punitivi: dalla natura compensativa a quella punitiva-sanzionatoria.

Con la sentenza 5 luglio 2017 n. 16601, le Sezioni Unite della Suprema Corte pongono fine all’annosa questione relativa all’ammissibilità e al conseguente riconoscimento dei danni punitivi all’interno dell’ordinamento nazionale, previa individuazione della natura della responsabilità civile.

Innanzitutto, occorre muovere dalla esposizione dei filoni giurisprudenziali formatisi in merito alla questione de qua.

L’orientamento prevalso in seno alla Suprema Corte di Cassazione era granitico nel ritenere con fermezza l’incompatibilità della responsabilità civile con la funzione sanzionatoria, essendo demandata a tale responsabilità la sola funzione di restaurare la sfera del soggetto danneggiante.

In altri termini, alla luce della suddetta tesi, la finalità punitiva era pura prerogativa esclusiva della responsabilità penale,  il cui paradigma è da rinvenirsi nel principio di legalità e nei suoi corollari, di cui costituiscono espressione gli artt. 25 co. 2 Cost. (divieto di retroattività della legge penale), 27 co. 1 (principio di personalità della responsabilità penale e divieto di responsabilità per fatto altrui) e 27 co. 3 (nella misura in cui esprime lo scopo di rieducazione insito nella pena inflitta).

Il filone giurisprudenziale testè richiamato ha costituito oggetto di profonda revisione critica ad opera della dottrina; revisione critica mutuata dagli orientamenti giurisprudenziali successivi e posta alla base delle motivazioni della sentenza delle Sezioni Unite oggetto del presente commento.

Invero, con la pronuncia in esame il Supremo Consesso ha messo in evidenza che la funzione sanzionatoria del risarcimento del danno non è incompatibile con il sistema della responsabilità civile, pur necessitando di un’apposita previsione legislativa che esprima in modo chiaro lo scopo punitivo della disposizione medesima.

D’altronde, come efficacemente esposto ed argomentato dai Giudici di legittimità, il panorama normativo offre numerosi esempi paradigmatici dell’abbandono della esclusiva funzione compensativo-riparatoria della responsabilità civile, in favore dell’accoglimento altresì della finalità punitivo-sanzionatoria impressa dalla stessa.

Si pensi, ad esempio, al novellato art. 96 co. 3 c.p.c., che consente la condanna della parte soccombente al pagamento di una somma “equitativamente determinata” in funzione sanzionatoria dell’abuso del processo (diposizione, tra l’altro, mutuata anche dall’art. 26 del Codice del processo amministrativo, introdotto dal d. lgs.n. 104/2010). Occorre precisare che sulla natura dell’art. 96 co. 3 c.p.c. si è di recente espressa la Corte costituzionale, interrogata circa la questione di legittimità costituzionale della previsione de qua. Ebbene, la Corte - con la pronuncia n. 152/2016 - ha sancito con granitica certezza la natura altresì sanzionatoria con finalità deflattiva della suddetta disposizione.

Costituisce ulteriore esempio chiarificatore della funzione sanzionatoria della responsabilità civile il decreto legislativo di nuovo conio n. 7/2016, i cui artt. 3-5 hanno abrogato le fattispecie di reato previste a tutela della fede pubblica, onore e patrimonio, prevedendo altresì - in caso di natura dolosa del reato - una sanzione afflittiva pecuniaria da cumulare al risarcimento del danno in favore del danneggiato.

I due esempi appena fatti, che si incardinano in un ben più ampio novero di fattispecie espressive della suesposta finalità della responsabilità civile e che non si intendono qui oggetto di elencazione per chiare finalità di sintesi, confermano il riscontro della cittadinanza nel nostro ordinamento della natura polifunzionale della responsabilità civile.

Pertanto, superato positivamente l’ostacolo dell’ammissibilità della funzione sanzionatoria della responsabilità civile, occorre ora comprendere in che misura possa essere importata nell’ordinamento nazionale una sentenza di condanna per danni punitivi emessa da uno Stato estero, previa verifica della compatibilità di tale trasposizione con l’ordine pubblico.

Preso atto che la nozione di “ordine pubblico” include un ampio sistema di tutele in favore dei cives approntate a livello sovraordinato rispetto alla legislazione primaria, le Sezioni Unite chiariscono che il principio di legalità vigente nell’odierno ordinamento postula che la sentenza straniera di condanna sia emessa nel rispetto di adeguate basi normative, che garantiscano i principi di tipicità e prevedibilità della sanzione.

Alla luce delle suddette argomentazioni, i Giudici di legittimità hanno concluso che alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, essendo interne al sistema sia la funzione di deterrenza che quella sanzionatoria del responsabile civile.

Pertanto, non è ontologicamente incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto di origine statunitense del risarcimento di danni di natura punitiva.

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Delibazione di sentenza ecclesiastica e indissolubilità del matrimonio.

Perché sia dichiarata l'efficacia civile delle nullità matrimoniali pronunciate dai Tribunali della Chiesa Cattolica, occorre che la Corte d'Appello accerti "che ricorrono le altre condizioni richieste dalla legislazione italiana per la dichiarazione di efficacia delle sentenze straniere" (lett. c). Il rinvio è, come già detto, agli artt. 796 e 797 del codice di procedura civile. Orbene l'ultimo punto dell'art. 797 c.p.c. richiede che la sentenza da delibare, nel caso di specie la pronuncia canonica di nullità matrimoniale, non contenga "disposizioni contrarie all'ordine pubblico italiano". La Corte costituzionale nella citata sentenza n. 18 del 1982 ha definito l'ordine pubblico come l'insieme delle "regole fondamentali poste dalla Costituzione e dalle leggi a base degli istituti giuridici in cui si articola l'ordinamento positivo nel suo perenne adeguarsi all'evoluzione della società". Orbene non potranno essere delibate sentenze che dichiarino l'invalidità del vincolo per impedimenti tipicamente confessionali, in cui la nullità deriva dall'esistenza di situazioni del tutto peculiari che non trovano alcun riscontro nell'ordinamento civile, quali la disparità di religione, l'ordine sacro e il voto pubblico di castità. La giurisprudenza di legittimità inoltre, a partire dalla sentenza 1° ottobre 1982 n. 5026, pronunciata a sezioni unite, con orientamento ormai consolidato, ascrive la buona fede nel novero dei principi di ordine pubblico la cui tutela è imprescindibile e inderogabile in materia matrimoniale (Nel caso di specie, la nullità è pronunciata perché la parte non aderisce ad una delle condizioni richieste per la validità del matrimonio cattolico vi è la necessità della conoscenza o conoscibilità dell'apposizione di tale elemento accidentale da parte dell'altro nubendo. Appare, quindi, in contrasto assoluto con il nostro ordine pubblico interno la rilevanza, data in sede canonica, alla nullità del matrimonio, perché l'odierno ricorrente lo riteneva non indissolubile, sul presupposto della necessità di tutelare l'affidamento che l'altra parte, ignara delle altrui intenzioni escludenti, abbia riposto sulla validità del vincolo coniugale).

(Corte d'Appello Napoli Sez. minori, 24/11/2020)

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È possibile, per l'erede del legatario premorto all'accettazione, rinunciare al legato in sostituzione di legittima

Con l’Ordinanza del 27.08.2020 n. 17861, la VI Sezione civile della Corte di Cassazione ha stabilito che, ove il legato in sostituzione di legittima abbia ad oggetto il diritto di usufrutto ma il legatario muoia prima di poterlo accettare, la facoltà di rinuncia si trasmette all’erede del legatario nonostante egli non possa subentrare nel diritto già acquisito dal proprio dante causa. Infatti, in tale condizione l’erede del legatario diviene iure hereditatis titolare dell’azione di riduzione e può scegliere di assumere su di sé obblighi ed eventuali diritti nascenti dall’estinzione dell’usufrutto ovvero di rinunciarvi, assolvendo così all’onere cui è subordinata l’azione di riduzione stessa.

La Corte, sul punto osservava che: “In dottrina è comune l’osservazione che il fatto che l'acquisto del legato avvenga automaticamente non vuol dire che l'accettazione sia inutile o irrilevante. Con l'accettazione, infatti, il legatario fa definitivamente proprio il beneficio del legato e ciò si traduce nella definitività giuridica dell'acquisto, che non è più rinunziabile. Consegue da quanto sopra che se il legatario muore senza avere accettato, la facoltà di rinunziare, quale potere inerente al rapporto successorio in atto non esauritosi col definitivo conseguimento del legato, passa all'erede. L'applicazione di tale regola al legato sostitutivo comporta che l'erede del legittimario si trova, sotto questo aspetto, nella stessa condizione del legittimario proprio dante causa. Se il dante causa era ancora nella condizione di poter rinunciare al legato, e assolvere all'onere richiesto per poter domandare la riduzione delle disposizioni testamentarie, nella medesima condizione si troverà il suo erede, divenuto titolare iure hereditatis dell'azione di riduzione (art. 557 c.c.).

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L’esistenza di un patto successorio istitutivo può essere dimostrata con ogni mezzo

Con Sentenza n. 18197 del 02.09.2020, la 2° Sezione civile della Corte di Cassazione ha stabilito che l’esistenza di un patto successorio istitutivo non deve risultare necessariamente da l testamento o da un atto scritto. Al contrario, essa può venir dimostrata con qualunque mezzo, essendo il patto successorio considerato illecito dalla legge.
Infatti, gli Ermellini così si esprimevano: “Questa Corte condivide la soluzione, proposta dalla più accreditata dottrina, secondo cui non è necessario che l’esistenza del patto successorio istitutivo risulti dal testamento, quale motivo determinante della disposizione (art. 626 c.c.), o da atto scritto, ma è sempre ammissibile qualunque mezzo di prova, perché si tratta di provare un accordo che la legge considera come illecito.  È utile operare un parallelo con quanto prescrive l’art. 1417 c.c., in materia di prova della simulazione, che può essere liberamente provata dalle parti quando l’azione diretta ad accertare la illiceità del contratto dissimulato.

Nella sua decisione, la Corte ha anche ricordato la differenza tra testamenti simultanei validi e patto successorio istitutivo. 

          
I primi si hanno quando due disposizioni testamentarie, sia pure reciproche, costituiscano due atti perfettamente distinti, quantunque scritti sullo stesso foglio.   
Il secondo, vietato dall’art. 458 cc, si ha invece quando le disposizioni testamentarie redatte da più persone, pur essendo contenute in schede formalmente distinte, danno luogo a un accordo con il quale ciascuno dei testatori provvede alla sua successione in un determinato modo, in determinante correlazione con la concordata disposizione dei propri beni da parte degli altri.

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Nel procedimento di affidamento, l’ascolto del minore è un adempimento necessario.

Secondo la Cassazione, l’audizione dei minori, già prevista nell’art. 12 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, è divenuta un adempimento necessario nelle procedure giudiziarie che li riguardano ed, in particolare, in quelle relative al loro affidamento ai genitori, ai sensi dell’art. 6 della Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996, ratificata con la L. n. 77 del 2003, nonché dell’art. 315-bis c.c. (introdotto dalla L. n. 219 del 2012) e degli artt. 336-bis e 337-octies c.c. (inseriti dal D.Lgs. n. 154 del 2013, che ha altresì abrogato l’art. 155-sexies c.c.). 

L’ascolto del minore di almeno 12 anni, e anche di età minore ove capace di discernimento, costituisce, pertanto, una modalità tra le più rilevanti, di riconoscimento del suo diritto fondamentale ad essere informato e ad esprimere le proprie opinioni nei procedimenti che lo riguardano, nonché elemento di primaria importanza nella valutazione del suo interesse. Costituisce, pertanto, violazione del principio del contraddittorio e dei principi del giusto processo il mancato ascolto che non sia sorretto da espressa motivazione sull’assenza di discernimento che ne può giustificare l’omissione, in quanto il minore è portatore di interessi contrapposti e diversi da quelli del genitore, in sede di affidamento e diritto di visita e, per tale profilo, è qualificabile come parte in senso sostanziale (Cass. sez. Unite, 21/10/2009, n. 22238; Cass. 26/03/2015, n. 6129; Cass. 07/05/2019, n. 12018; Cass. 30/07/2020, n. 16410). 

Conseguentemente, in tutti i procedimenti previsti dall’art. 337 bis c.c., laddove si assumano provvedimenti in ordine alla convivenza dei figli con uno dei genitori, l’audizione del minore infra dodicenne, capace di discernimento, costituisce adempimento previsto a pena di nullità, in relazione al quale incombe sul giudice un obbligo di specifica e circostanziata motivazione, tanto più necessaria quanto più l’età del minore si approssima a quella dei dodici anni, oltre la quale subentra l’obbligo legale dell’ascolto. Ciò vale, secondo la Suprema Corte, non solo se il giudice ritenga il minore infra dodicenne incapace di discernimento ovvero l’esame manifestamente superfluo o in contrasto con l’interesse del minore, ma anche qualora opti, in luogo dell’ascolto diretto, per un ascolto effettuato nel corso di indagini peritali o demandato ad un esperto al di fuori di detto incarico. 

(Cassazione civile, sez. I, ordinanza 25 gennaio 2021 n. 1474)

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Assegno di mantenimento alla moglie che si occupa del lavoro domestico per seguire il marito negli traslochi professionali.

La circostanza che il marito, prima della separazione personale tra coniugi, si spostasse frequentemente per opportunità lavorative giustifica l’assegno di mantenimento in favore della moglie, la quale si è sempre occupata del lavoro domestico per seguire il coniuge nei traslochi professionali. Il Collegio della VI Sezione Civile (Ordinanza 31 dicembre 2020, n. 30014) ha evidenziato che la potenziale idoneità della donna a produrre reddito, per l’effetto, risultava “limitatissima” per i pregressi accordi e le vicende familiari connotate dai plurimi trasferimenti.

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Il giudice non può escludere il "pernotto" della figlia presso l'abitazione del genitore senza una specifica motivazione.

Con ordinanza n. 28883 depositata il 17 dicembre 2020, la Corte di Cassazione ha stabilito che pur dovendosi riconoscere all'autorità giudiziaria ampia libertà in materia di diritto di affidamento di un figlio di età minore, è comunque necessario un rigoroso controllo sulle "restrizioni supplementari", ovvero quelle apportate dalle autorità al diritto di visita dei genitori, comprese quelle relative alla possibilità della figlia minore di dormire presso il domicilio del genitore non affidatario, e sulle garanzie giuridiche destinate ad assicurare la protezione effettiva del diritto dei genitori e dei figli al rispetto della loro vita familiare, di cui all'art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, onde scongiurare il rischio di troncare le relazioni familiari tra un figlio in tenera età ed uno dei genitori. 

(Cass. civ. Sez. VI-1, Ord., (ud. 12 novembre 2020) 17 dicembre 2020, n. 28883)

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Covid-19 e cognome dei figli nati fuori dal matrimonio: padre positivo deve fare domanda ex art. 262 cc

Si segnala un recente Decreto del Tribunale di Roma (n. 1846 del 01.02.2021) che, pur non presentando novità giuridiche, dimostra l’impatto dell’emergenza sanitaria da COVID-19 anche sul versante più “burocratico” del diritto.

Un uomo risultava positivo al virus Sars-Cov-2 e veniva posto dalla ASL in isolamento fiduciario.

Durante questo periodo, la compagna dava alla luce una bambina.
Non potendo il padre procedere al riconoscimento, per cui era necessaria la sua presenza, la piccola veniva riconosciuta dalla madre, assumendone il cognome.

Una volta negativizzato, l’uomo procedeva al riconoscimento, ma per attribuire il suo cognome alla minore si rendeva necessario depositare domanda giudiziale ex art. 262 cc, incardinando così un procedimento per Volontaria Giurisdizione presso il Tribunale di Roma.

Con Decreto del 01.02.2021, la Prima Sezione Civile del Tribunale di Roma accoglieva la domanda.


Questa vicenda ci dà lo spunto per affrontare il tema del riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio.


L’entrata in vigore della nuova Legge n. 219 del 10 dicembre 2012, "Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali”, ha sancito il superamento di ogni ineguaglianza normativa tra figli legittimi e figli naturali in virtù del principio dell'unicità dello status di figlio.

Si specifica però che il riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio deve essere effettuato da entrambi i genitori, anche disgiuntamente.

L’art. 250 del Codice Civile, infatti, prevede che:
“Il figlio nato fuori del matrimonio può essere riconosciuto, nei modi previsti dall’articolo 254, dal padre e dalla madre, anche se già uniti in matrimonio con altra persona all’epoca del concepimento. Il riconoscimento può avvenire tanto congiuntamente quanto separatamente.”
Per quanto riguarda il cognome, l’art. 262 cc, rubricato “Cognome del figlio nato fuori del matrimonio” prevede che:
1. Il figlio assume il cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto. Se il riconoscimento è stato effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori il figlio assume il cognome del padre.
2. Se la filiazione nei confronti del padre è stata accertata o riconosciuta successivamente al riconoscimento da parte della madre, il figlio può assumere il cognome del padre aggiungendolo, anteponendolo o sostituendolo a quello della madre.
3. Se la filiazione nei confronti del genitore è stata accertata o riconosciuta successivamente all'attribuzione del cognome da parte dell'ufficiale dello stato civile, si applica il primo e il secondo comma del presente articolo; il figlio può mantenere il cognome precedentemente attribuitogli, ove tale cognome sia divenuto autonomo segno della sua identità personale, aggiungendolo, anteponendolo o sostituendolo al cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto o al cognome dei genitori in caso di riconoscimento da parte di entrambi.
4. Nel caso di minore età del figlio, il giudice decide circa l'assunzione del cognome del genitore, previo ascolto del figlio minore, che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento.”
Quest’ultimo comma riguarda, appunto, la domanda giudiziale di modifica o aggiunta del cognome del minore nato fuori dal matrimonio.

Essa va presentata al Tribunale competente e instaura un procedimento camerale per volontaria giurisdizione che si conclude con un decreto collegiale. È prevista la fissazione di un’udienza camerale solo in caso di opposizione di uno dei genitori o di presentazione della domanda da parte di uno solo degli stessi. 

È importante sottolineare che, secondo la Cassazione, in tema di attribuzione giudiziale del cognome al figlio nato fuori dal matrimonio e riconosciuto non contestualmente dai genitori, la scelta del giudice è ampiamente discrezionale. Infatti, i criteri di individuazione del cognome del minore si pongono in funzione del suo interesse, che è quello di evitare un danno alla sua identità personale, intesa anche come proiezione della sua personalità sociale, e la scelta del giudice deve avere riguardo al modo più conveniente di individuare il minore in relazione all’ambiente in cui è cresciuto fino al momento del successivo riconoscimento, non potendo essere condizionata dall’esigenza di equiparare il risultato a quello derivante dalle diverse regole, non richiamate dall’art. 262 c.c., che presiedono all’attribuzione del cognome al figlio nato nel matrimonio (Cass Civ. Ord.  n. 18161 del 05-07-2019; cfr. Cass. civ. sez. I n. 12640 del 18.06.2015).

Trib. Roma sez. I civ. Decr. 1846 del 01.02.2021 (testo completo)             

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Sul controllo a distanza dell'attività dei lavoratori.

Ai fini dell'operatività del divieto di utilizzo di apparecchiature per il controllo a distanza dell'attività dei lavoratori previsto dall'art. 4 della legge n. 300 del 1970, è necessario che il controllo riguardi, direttamente o indirettamente, l'attività lavorativa, mentre devono ritenersi certamente fuori dall'ambito di applicazione della norma sopra citata i controlli diretti ad accertare condotte illecite del lavoratore (c.d. controlli difensivi), quali, ad esempio, i sistemi di controllo dell'accesso ad aule riservate o gli apparecchi di rilevazione di telefonate ingiustificate.

(Cass. civ. Sez. lavoro Ord., 18/12/2020, n. 29115)

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Definirsi single su Facebook può comportare l'addebito della separazione.

Per il Tribunale di Palmi (Sentenza del 07/01/2021), definirsi single su Facebook può comportare l'addebito della separazione. In particolare: "Le indicazioni contenute sul profilo facebook di R.F. pur non essendo, ovviamente, prova di un rapporto extraconiugale costituiscono, tuttavia, un atteggiamento lesivo della dignità del partner proprio nella misura in cui, pubblicamente e sin troppo palesemente, rappresentano ai terzi estranei un modo di essere o uno stato d'animo incompatibile con un leale rapporto di coniugio".

(Tribunale Palmi, Sent., 07/01/2021)

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Matrimonio nullo se la condizione d'infermità mentale che ha determinato l'interdizione già esisteva al momento del matrimonio.

Con ordinanza n. 27564, depositata il 2 dicembre 2020, la Corte di Cassazione ha affermato che la chiara ed univoca formulazione testuale dell'art. 119 c.c. stabilisce l'ininfluenza del giudicato preventivo se venga accertata - con giudizio insindacabile perché attinente al merito della decisione - che la condizione d'infermità mentale che ha determinato l'interdizione già esisteva al momento del matrimonio. 

(Cass. civ. Sez. VI - 1 Ord., 2 dicembre 2020, n. 27564)


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Non è reato non consentire gli incontri tra la figlia e il padre violento.

Secondo la Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione, sentenza n. 12976/2020, non commette reato la madre che non consenta gli incontri tra la figlia e il padre violento, dopo che gli stessi siano stati sospesi su richiesta dei servizi sociali. 

La Suprema Corte ha infatti evidenziato come, secondo le Sezioni Unite, il concetto di elusione di un provvedimento del giudice relativo all’affidamento di minori, ai sensi del art. 388 del c.p., “non può equipararsi puramente e semplicemente a quello di inadempimento, occorrendo, affinché possa concretarsi il reato, che il genitore affidatario si sottragga, con atti fraudolenti o simulati, all’adempimento del suo obbligo di consentire le visite del genitore non affidatario, ostacolandole, appunto, attraverso comportamenti implicanti un inadempimento in mala fede e non riconducibile ad una mera inosservanza dell’obbligo” (Cass. Pen., SS.UU., n. 36692/2007).

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L'affidamento super esclusivo.

Secondo la Cassazione, quando un genitore vìola o trascura i doveri inerenti alla responsabilità genitoriale o abusa dei relativi poteri con grave pregiudizio del figlio, il giudice ha la possibilità di non pronunciare la decadenza della responsabilità genitoriale ai sensi dell’art. 330 c.c., potendo graduare le misure applicabili come previsto dall’art. 333 c.c. Quando emerge una condotta pregiudizievole per il figlio, ben possono adottarsi provvedimenti convenienti come anche disporre l’allontanamento del minore dalla residenza familiare, ovvero l’allontanamento del genitore convivente che maltratta o abusa del minore. L’istituto dell’affido può essere declinato secondo la modalità più pertinente ai sensi dell’art. 337 quater c.c. e quindi anche nella forma dell’affidamento esclusivo rafforzato, se questo risponde all’interesse del minore.

(Cassazione civile, sez. VI-1, ordinanza 31 dicembre 2020, n. 29999)

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Assegnazione della casa familiare e morosità condominiale: si può configurare una responsabilità solidale con l'ex coniuge?

In tema di assegnazione della casa familiare e di responsabilità solidale con l'ex coniuge in merito ai debiti condominiali pregressi maturati, il Tribunale di Roma, con la sentenza n. 56 del gennaio 2021, ha precisato che l'azione di recupero del credito è azionabile esclusivamente verso colui che riveste la qualità di condomino. 

Pertanto, l'assegnatario della casa familiare, nel caso in cui la proprietà permanga in capo all'altro coniuge, non può essere destinatario del decreto ingiuntivo azionato dal condominio.

(Tribunale Roma Sez. V, 04/01/2021)

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La pubblicazione di post canzonatori ed irridenti su Facebook non integra la condotta degli atti persecutori.

In tema di stalking, la pubblicazione di post meramente canzonatori ed irridenti su una pagina Facebook accessibile a chiunque non integra la condotta degli atti persecutori di cui all'art. 612 bis cod. pen., mancando il requisito della invasività inevitabile connessa all'invio di messaggi 'privati' (mediante SMS, Whatsapp, e telefonate), e, se rientra nei limiti della legittima libertà di manifestazione del pensiero e del diritto di critica, è legittima.

(Cass. pen. Sez. V, 03/11/2020, n. 34512)

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Madre “riferimento” per le esigenze del figlio: può chiedere all’ex l’aumento.

Anche se il figlio frequenta un ateneo fuori sede e fa ritorno alla casa della madre solo per le ferie e le festività, la donna risulta comunque legittimata a richiedere l’aumento dell’assegno all’ex marito, qualora il ragazzo faccia riferimento alla stessa per le proprie esigenze. 

(Cassazione civile, sez. I, sentenza 31 dicembre 2020, n. 29977)


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo - Presidente -

Dott. MELONI Marina - Consigliere -

Dott. ACIERNO Maria - Consigliere -

Dott. PARISE Clotilde - rel. Consigliere -

Dott. CARADONNA Lunella - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 1634/2016 proposto da:

B.G., elettivamente domiciliato in Roma, Viale Eritrea n. 36, presso lo studio dell'avvocato Zanchi Guido, rappresentato e difeso dall'avvocato Zanchi Italo, giusta procura a margine del ricorso;

- ricorrente -

contro

V.M., elettivamente domiciliata in Roma, Viale delle Milizie n. 34, presso lo studio dell'avvocato Renzi Maria Rosaria, rappresentata e difesa dall'avvocato Rossi Maria Gabriella, giusta procura in calce al controricorso;

- controricorrente -

avverso il decreto della CORTE D'APPELLO di LECCE, depositato il 19/11/2015;

nonché sul ricorso 20675/2016 proposto da:

B.G., elettivamente domiciliato in Roma, Viale Eritrea n. 36, presso lo studio dell'avvocato Zanchi Guido, rappresentato e difeso dall'avvocato Zanchi Italo, giusta procura a margine del ricorso;

- ricorrente -

contro

V.M., elettivamente domiciliata in Roma, Viale delle Milizie n. 34, presso lo studio dell'avvocato Renzi Maria Rosaria, rappresentata e difesa dall'avvocato Rossi Maria Gabriella, giusta procura in calce al controricorso;

- controricorrente -

avverso la sentenza n. 675/2016 della CORTE D'APPELLO di LECCE, depositata il 27/06/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16/09/2020 dal Cons. Dott. PARISE CLOTILDE;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CERONI Francesca che ha concluso per il rigetto dei ricorsi, riportandosi alle conclusioni scritte nella requisitoria già depositata in atti;

udito, per il ricorrente, l'Avvocato Zanchi Italo che si riporta e chiede l'accoglimento dei ricorsi;

udito, per la controricorrente, l'Avvocato Rossi Maria Gabriella che si riporta e chiede il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

1. Con ricorso ex art. 337 quinquies c.c., V.M. chiedeva al Tribunale di Lecce l'aumento, da Euro 200 a Euro 450, dell'assegno di mantenimento a carico del padre B.G. per il figlio maggiorenne L., studente iscritto all'Università di (OMISSIS). Il Tribunale, con Decreto 28 gennaio 2015, rigettava la domanda rilevando che la coabitazione del figlio maggiorenne con la madre già affidataria era cessata e che il figlio, in ragione della frequenza dei corsi universitari a (OMISSIS), faceva rientro presso l'abitazione materna solo in occasione delle festività natalizie e pasquali e durante le vacanze estive.

2. Il reclamo proposto dalla V. avverso il citato decreto è stato accolto dalla Corte d'appello di Lecce con Decreto n. 139 del 2015, pubblicato il 19-11-2015 e notificato 27-11-15. La Corte territoriale ha ritenuto sussistente la legittimazione iure proprio e concorrente della madre a chiedere l'aumento del contributo di mantenimento del figlio maggiorenne non economicamente autosufficiente, il quale "fa sempre capo al genitore con cui coabita per reperire le risorse necessarie per soddisfare le sue esigenze, a cui non può provvedere autonomamente". La Corte d'appello ha, pertanto, disatteso l'orientamento richiamato dal Tribunale, non attribuendo rilevanza, nel caso di specie, al criterio del tempo, prevalente o sporadico, trascorso dal figlio maggiorenne presso l'abitazione del genitore già collocatario, essendo giustificato da ragioni di studio l'allontanamento, per parte prevalente dell'anno, del figlio stesso dalla suddetta abitazione. La Corte territoriale ha, inoltre, accolto la richiesta di aumento del contributo di mantenimento a carico del padre, quantificato in Euro 450,00 mensili, importo ritenuto congruo in considerazione delle spese che notoriamente deve affrontare uno studente universitario fuori sede.

3. Avverso questo provvedimento B.G. propone ricorso per cassazione (R.G.N. 1634/2016), affidato a due motivi, di cui il primo articolato in cinque punti, nei confronti di V.M., che resiste con controricorso.

4. Avverso lo stesso Decreto n. 139 del 2015, B.G. ha proposto, ai sensi dell'art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4, ricorso per revocazione, che è stato dichiarato inammissibile dalla Corte d'appello di Lecce con sentenza n. 675/2016 pubblicata il 27-6-2016. La Corte territoriale ha ritenuto insussistente il denunciato errore di fatto, rilevando che con il decreto impugnato era stato valutato l'aspetto della maggiore o minore permanenza del figlio presso la casa materna, presso quella paterna e presso la sede universitaria e se ne era esclusa la rilevanza, attribuita, invece, alla circostanza che il figlio, nonostante la coabitazione sporadica con la madre, faceva capo alla stessa "per reperire le risorse necessarie per soddisfare le sue esigenze, a cui non può provvedere autonomamente".

5. Avverso la citata sentenza n. 675/2016 della Corte d'appello di Lecce B.G. propone ricorso per cassazione (R.G.N. 20675/2016), affidato a sette motivi, nei confronti di V.M., che resiste con controricorso.

6. La prima causa, inizialmente assegnata alla Sesta Sezione di questa Corte, è stata rimessa alla pubblica udienza, ai sensi dell'art. 380 bis c.p.c., u.c., per l'eventuale riunione dell'altra causa ai sensi dell'art. 335 c.p.c..

La Procura Generale ha depositato requisitoria e le parti hanno depositato memorie illustrative.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo del ricorso di cui al n. 1634/2016 R.G. il ricorrente lamenta: (i) l'erronea valutazione da parte della Corte d'appello del fatto che il figlio ormai maggiorenne non coabita più con la madre e del fatto che a questa si sarebbe dovuto rivolgere per le proprie esigenze economiche, rimarcando che nei gradi di merito la stessa madre aveva riferito che il figlio abitava a (OMISSIS) e nei periodi in cui rientrava a (OMISSIS) si tratteneva anche presso la casa paterna, nonchéassumendo come pacifica la contribuzione del padre alle spese universitarie, specie quelle concordate con il figlio (pag. 4 ricorso), il quale, dunque, non faceva solo riferimento alla madre per tali spese; (ii) la violazione del disposto dell'art. 337 septies c.c., che prevede il versamento dell'assegno periodico di mantenimento per il figlio, maggiorenne ma non indipendente economicamente, direttamente a questi, e non la regola opposta indicata nel decreto impugnato, ossia la responsabilità economica esclusiva di un solo genitore, benché collocatario, verso il figlio maggiorenne; (iii) la mancanza di motivazione specifica in ordine alle circostanze di fatto giustificative della decisione di disporre il versamento dell'assegno di mantenimento non al figlio ma alla madre, la cui legittimazione concorrente sussiste solo se permane la convivenza; (iv) la mancata considerazione da parte del giudice di merito della cessata coabitazione tra il figlio maggiorenne, che si gestisce del tutto autonomamente, e la madre, in violazione e falsa applicazione degli artt. 337 ter e 337 septies c.c.; (v) l'erronea valutazione delle circostanze di fatto (maggiore età del figlio, suo trasferimento a (OMISSIS), rientro in (OMISSIS) in alcuni periodi di vacanza con alloggio alternato presso entrambi i genitori, versamento dell'assegno di mantenimento sul conto corrente intestato al figlio), nonché la violazione del principio dettato dall'art. 337 septies c.c., secondo il quale, ad avviso del ricorrente, il figlio maggiorenne che non coabita con i genitori "è legittimato in via esclusiva alla fissazione dell'ammontare degli assegni di mantenimento", considerato che, nella specie, gli assegni di mantenimento pagati dal padre venivano versati dalla madre sul conto corrente bancario intestato al figlio, il quale si gestiva in autonomia, come risultava dal contenuto della nota di WhatsApp prodotta e inviata nel (OMISSIS).

1.2. Con il secondo motivo del medesimo ricorso (n. 1634/2016 R.G.) il ricorrente si duole dell'omessa valutazione delle sue deduzioni nel merito della suddivisione dell'onere di mantenimento del figlio tra gli ex coniugi, stante la dedotta sua limitata disponibilità economica, quale libero professionista, come assume documentato in causa in relazione ai redditi dello stesso degli anni 2013 e 2014, rispetto a quella della madre, dirigente ASL con cospicuo stipendio e proprietaria di immobili. Denuncia altresì il vizio di omessa motivazione, avendo la Corte territoriale valutato soltanto le necessità dello studente universitario e non le possibilità di ciascun genitore al fine della distribuzione dell'onere contributivo.

2. Con il secondo ricorso (n. 20675/2016 R.G.) il ricorrente lamenta: (i) con il primo motivo il vizio di illogicità logica e contraddittorietà della motivazione, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per avere la corte territoriale escluso la rilevanza della coabitazione, salvo, di seguito, affermarla, seppure con la connotazione di sporadicità, al fine di giustificare la legittimazione della madre alla domanda di cui trattasi, rimarcando la contraddittorietà nell'utilizzo del termine coabitazione, che non può essere sporadica, oppure, diversamente opinando, dovendosi attribuire rilevanza anche alla coabitazione con il padre, parimenti sporadica; (ii) con i motivi secondo, terzo e quinto la violazione dell'art. 337 ter e septies c.c., per avere la Corte d'appello attribuito rilevanza alla coabitazione, e non alla convivenza, in contrasto con i principi affermati da questa Corte nelle pronunce che richiama (Cass. n. 18869/2014 e n. 4555/2012) e per avere il giudice d'appello ritenuto sussistente la legittimazione concorrente del genitore collocatario, nonostante la pacifica cessazione della convivenza con quest'ultimo, in contrasto con il principio dettato dall'art. 337 septies c.c., secondo il quale, ad avviso del ricorrente, il figlio maggiorenne che non coabita con i genitori è legittimato in via esclusiva a trattare la quantificazione dell'assegno di mantenimento con ciascuno dei genitori e a riceverne direttamente il versamento, non essendo concepibile una sorta di prorogatio, in capo al genitore originariamente collocatario, della responsabilità di sostentamento del figlio maggiorenne allontanatosi per motivi di studio; (iii) con il quarto motivo l'omessa motivazione, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riguardo le specifiche circostanze di fatto giustificative del riconoscimento alla madre, e non già direttamente al figlio maggiorenne e non economicamente autonomo, della legittimazione a richiedere l'assegno di mantenimento; (iv) con il sesto motivo la mancata valutazione delle circostanze del caso maggiore età del figlio, suo trasferimento a (OMISSIS), rientro in (OMISSIS) in alcuni periodi di vacanza con alloggio alternato presso entrambi i genitori, versamento dell'assegno di mantenimento sul conto corrente intestato al figlio- in base alle quali emergeva l'autonomia del figlio nella gestione delle risorse economiche e della sua esistenza; (v) con il settimo motivo la violazione dell'art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4, per mancata revocazione del provvedimento 10-19/11/2015 della Corte d'appello di Lecce, ricorrendo l'errore di fatto consistito nell'affermazione di una circostanza - convivenza o coabitazione con la madre - pacificamente esclusa dalle parti, la violazione dell'art. 324 c.p.c., in relazione al giudicato formatosi sul difetto di coabitazione, con provvedimento del 28/01/2015 del Tribunale di Lecce, nonché, infine, l'improprio rilievo attribuito alla coabitazione sporadica e il mancato riconoscimento di una eguale posizione giuridica a entrambi i genitori verso il figlio maggiorenne, una volta cessata la coabitazione con la madre, già genitore collocatario.

3. In via preliminare deve disporsi la riunione dei due ricorsi in applicazione analogica dell'art. 335 c.p.c.. Si deve, infatti, ritenere che la riunione di detti ricorsi, anche se non espressamente prevista dalla citata norma del codice di rito, discenda dalla connessione esistente tra le due pronunce, atteso che sul ricorso per cassazione proposto contro la sentenza revocanda può risultare determinante la pronuncia di cassazione riguardante la sentenza resa in sede di revocazione (Cass. n. 10534/2015).

4. In ragione della peculiare connessione di cui si è appena detto, prioritariamente deve esaminarsi il ricorso avverso la sentenza che rigetta l'istanza di revocazione (n. 20675/2016 R.G.).

4.1. L'oggetto del giudizio di revocazione, promosso dall'attuale ricorrente ai sensi dell'art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4, è l'errore sul fatto della coabitazione del figlio maggiorenne con la madre, fatto che è stato posto, ad avviso del ricorrente, a fondamento della decisione assunta con il decreto della Corte d'appello impugnato e la cui sussistenza il ricorrente assume incontestabilmente esclusa tra le parti.

Premesso, dunque, che il giudizio revocatorio verte, in base alla stessa prospettazione del ricorrente, sull'errore di fatto denunciato nei termini precisati, deve ritenersi pertinente all'oggetto di quel giudizio solo il settimo motivo di ricorso, mentre tutti gli altri motivi, che sono sostanziale riproposizione di quelli di cui al primo ricorso (n. 1634/2016 R.G.), attengono a questioni giuridiche o di merito, estranee al tema decidendi di cui si è detto.

4.2. Ciò posto, le doglianze espresse con il settimo motivo non colgono la ratio decidendi. La Corte territoriale ha, infatti, ritenuto insussistente il denunciato errore di fatto, rilevando che con il decreto impugnato era stato valutato l'aspetto della maggiore o minore permanenza del figlio presso la casa materna, presso quella paterna e presso la sede universitaria e se ne era esclusa la rilevanza, attribuita, invece, alla circostanza che il figlio, nonostante la coabitazione sporadica con la madre, faceva capo alla stessa "per reperire le risorse necessarie per soddisfare le sue esigenze, a cui non può provvedere autonomamente".

In altri termini, la Corte d'appello non solo ha affermato che non vi fosse stata la falsa percezione di quanto emergeva dagli atti, ma anche e soprattutto ha escluso la decisività di quel fatto ai fini della decisione assunta, per avere avuto rilievo non la circostanza della coabitazione del figlio con la madre, peraltro sporadica, ma il fatto che quest'ultima fosse il soggetto di riferimento del figlio per soddisfare le sue esigenze. A ciò si aggiunga che il giudizio sulla decisività dell'errore costituisce un apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito, non sindacabile in sede di legittimità se sorretto da idonea motivazione, come nella specie (Cass. n. 25376/2006).

Le censure espresse dal ricorrente non si confrontano con il suddetto, chiaro, percorso argomentativo, risolvendosi in ripetitiva enunciazione della erronea rilevanza decisiva attribuita alla circostanza della coabitazione del figlio con la madre, decisività che è stata, invece, espressamente esclusa dalla Corte territoriale, ed essendo, per le stesse ragioni, inconferente il richiamo al giudicato, asseritamente formatosi in punto di difetto di coabitazione, di cui al decreto del Tribunale del 28/01/2015, riformato con il decreto della Corte d'appello di cui è chiesta la revocazione.

4.3. In conclusione, il ricorso di cui al n. 20675/2016 R.G. deve dichiararsi inammissibile.

5. Passando all'esame dell'altro ricorso, occorre premettere che, anche qualora fosse ora mutata la situazione per effetto dei provvedimenti provvisori emessi in sede di divorzio (cfr. memoria illustrativa del ricorrente di data 28-3-2017 e documenti allegati), permarrebbe l'interesse del ricorrente alla pronuncia in relazione al periodo anteriore, atteso che solo a partire dalla data in cui nel giudizio divorzile sono emessi i provvedimenti provvisori questi ultimi si sostituiscono a quelli emessi nel giudizio di separazione (Cass. n. 7547/2020).

5.1. Il primo motivo è articolato in cinque punti, con censure espresse sub specie del vizio di violazione di legge (artt. 337 ter e septies c.c.) e motivazionale, tutte concernenti, sotto distinti ma collegati profili, la rilevanza della convivenza e/o coabitazione del figlio maggiorenne con la madre al fine di escludere la legittimazione iure proprio di quest'ultima a pretendere l'aumento del contributo di mantenimento di Euro 200 che era stato posto a carico del padre, con obbligo di versamento alla madre collocataria, in base a quanto concordato dai coniugi in sede di separazione e recepito con la sentenza del Tribunale di Lecce n. 2583/2011.

Il ricorrente assume, in buona sostanza, che non sussista la legittimazione iure proprio e concorrente della madre ad agire per ottenere l'aumento del contributo di mantenimento per il figlio maggiorenne in ragione del fatto che quest'ultimo, per motivi di studio, trascorre lunghi periodi non più presso l'abitazione della madre, ma nella città ove ha intrapreso gli studi universitari.

5.2. La giurisprudenza di questa Corte ha ripetutamente chiarito, con orientamento costante, che l'obbligo di mantenere il figlio non cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età, ma si protrae, qualora questi, senza sua colpa, divenuto maggiorenne, sia tuttavia ancora dipendente dai genitori. In tale ipotesi, il coniuge separato o divorziato, già affidatario, è legittimato, iure proprio, ed in via concorrente con la diversa legittimazione del figlio, che trova fondamento nella titolarità, in capo a quest'ultimo, del diritto al mantenimento, ad ottenere dall'altro coniuge un contributo per il mantenimento del figlio maggiorenne. La perdurante legittimazione del coniuge già affidatario, in difetto di richiesta di corresponsione diretta dell'assegno da parte del figlio divenuto nelle more maggiorenne, si configura come autonoma, nel senso che il genitore già collocatario resta titolare, nei confronti dell'altro genitore obbligato, di un'autonoma pretesa basata sul comune dovere nei confronti del figlio ai sensi degli artt. 147 e 148 c.c. (tra le tante Cass. n. 25300/2013 e Cass. n. 35629/2018).

L'art. 337 septies c.c., prevede, infatti, come ipotesi alternativa a quella, ordinaria, del versamento diretto dell'assegno di mantenimento al figlio maggiorenne, quella conseguente a "diversa determinazione del giudice". Nella casistica giurisprudenziale di merito, formatasi in osservanza dei principi affermati da questa Corte (tra le tante Cass. n. 4555/2012 e da ultimo Cass. n. 17380/2020), la "diversa determinazione" che il giudice può assumere, valutate le circostanze del caso concreto, è anzitutto, appunto, il versamento del contributo all'altro genitore che si occupi materialmente del mantenimento del figlio, a ciò conseguendo la legittimazione attiva del suddetto genitore. Poiché, di norma, è il genitore con il quale il figlio abita a provvedere materialmente ai bisogni ed alle necessità del figlio stesso, la coabitazione si configura, nelle ipotesi che più frequentemente ricorrono, come un parametro fattuale di rilevanza indiziaria, idoneo a giustificare la deroga alla regola generale della corresponsione diretta della somma a titolo di contributo al mantenimento al figlio maggiorenne. Il versamento dell'assegno periodico al genitore con cui permane la coabitazione con il figlio maggiorenne rappresenta, perciò, un contributo concreto alla copertura delle spese correnti che egli si trova a dover sostenere mensilmente, spese correnti cui sono e restano comunque entrambi i genitori obbligati ai sensi degli artt. 147 e 148 c.c..

In definitiva, la coabitazione può assurgere ad univoco indice del fatto che permanga un più intenso legame di comunanza familiare tra il figlio maggiorenne e il genitore con cui abita e che sia quest'ultimo la figura di riferimento per il corrente sostentamento del primo e colui che provvede materialmente alle sue esigenze. Ciò che decisivamente rileva, perciò, ai fini della legittimazione, è che il genitore di cui trattasi sia appunto la figura di riferimento del figlio per il suo corrente sostentamento e colui che provvede materialmente alle sue esigenze: elemento, questo, rispetto al quale la convivenza ha valore puramente inferenziale.

5.2.1. Così chiarita la finalità, sostanzialmente probatoria a livello indiziario, da attribuirsi al fatto della coabitazione, ritiene il Collegio che debba darsi continuità, con le precisazioni di cui si dirà, all'orientamento di questa Corte (Cass. n. 11320/2005; Cass. n. 14241/2017 e n. 12391/2017 non massimate) secondo il quale non può darsi dirimente rilevanza al solo dato temporale della permanenza del figlio presso l'abitazione del genitore già collocatario. Mentre il rapporto coniugale è connotato di regola da una quotidiana coabitazione e dalla unicità di interessi familiari, quello di filiazione può essere più spesso caratterizzato, in presenza di peculiari e personali interessi del figlio, specie se maggiorenne, da una sua presenza solo saltuaria per la necessità di assentarsi con frequenza per motivi di studio o di lavoro anche per non brevi periodi (così Cass. n. 11320/2005).

La sporadicità dei rientri presso l'abitazione del genitore, stante le ragioni dell'allontanamento, non comporta affatto, per ciò solo, che siano mutati i precedenti assetti di contribuzione familiare. Una frequentazione solo saltuaria della casa da parte del figlio non è, infatti, incompatibile con la persistenza di un più intenso legame di comunanza di vita con uno solo dei genitori, tale che sia quest'ultimo a restare la figura di riferimento per il corrente sostentamento del figlio e a provvedere materialmente alle sue esigenze.

In altri termini, come rimarcato anche dalla Procura Generale, pur in difetto della prevalenza temporale della presenza del figlio nella casa del genitore già collocatario, quest'ultimo e la sua casa potranno essere rimasti per il primo un punto di riferimento stabile del nucleo familiare, sebbene "ristretto" all'esito della separazione coniugale, stante la sistematicità del ritorno del figlio studente in quel luogo, compatibilmente con i suoi impegni universitari o, in generale, di studio. Soprattutto, poi, potrà verificarsi in concreto che sia quel genitore, pur in assenza di coabitazione abituale o prevalente, a provvedere materialmente alle esigenze del figlio stesso, anticipando ogni esborso necessario per il suo sostentamento presso la sede di studio.

Nel concorso di dette circostanze, il cui accertamento non può che essere rimesso ai giudici di merito, trova giustificazione la legittimazione iure proprio di cui si sta trattando, sempre che sia mancata la richiesta in via giudiziale, da parte del figlio maggiorenne, di corresponsione diretta dell'assegno di mantenimento (Cass. n. 12392/2017, non massimata, per l'affermazione del principio secondo cui la legittimazione attiva resta al genitore in mancanza di richiesta giudiziale di versamento diretto del figlio).

5.2.2. Ritiene, pertanto, il Collegio di dover dissentire dall'indirizzo espresso in alcune pronunce di questa Corte (cfr. Cass. n. 4555/2012 e Cass. n. 18075/2013) secondo cui, anche nelle ipotesi di allontanamento del figlio per motivi di studio, la persistenza della legittimazione iure proprio del genitore già collocatario deve valutarsi in base al criterio discretivo della prevalenza temporale della coabitazione, potendo mutuarsi i principi affermati sull'assegnazione della casa familiare.

In relazione a quest'ultima tematica, il parametro della prevalenza temporale è certamente dirimente, atteso che è solo l'effettiva e fisica presenza del figlio nella casa familiare a giustificarne l'assegnazione al coniuge già collocatario, sicché detta assegnazione va negata se difetta la prevalenza temporale effettiva della presenza del figlio nell'abitazione. Invece, con riguardo alla legittimazione iure proprio del genitore a richiedere all'ex coniuge il contributo per il mantenimento del figlio, nella particolare ipotesi di suo allontanamento per motivi di studio, la casa ove vive il coniuge già collocatario assume rilevanza solo come luogo di "ritorno" e ritrovo del nucleo familiare nei termini di cui si è detto, sicché non è pertinente, ai fini che qui interessano e per quanto precisato, l'accertamento dell'assidua o prevalente frequentazione della casa da parte del figlio.

5.3. Facendo applicazione dei principi suesposti al caso di specie, le doglianze sono infondate, laddove il ricorrente assume la carenza di legittimazione attiva della V. perché difetta la coabitazione prevalente del figlio presso la sua casa.

Occorre premettere che non è in discussione che sia dovuto il mantenimento al figlio maggiorenne, studente universitario "modello", e non autosufficiente, né risulta, in base a quanto esposto nel decreto impugnato e a quanto dedotto dalle parti, che egli abbia richiesto al padre la corresponsione diretta dell'assegno, a modifica di quanto previsto nella sentenza di separazione coniugale, intervenendo in giudizio oppure esperendo autonoma azione.

Ciò posto, la Corte territoriale, dopo aver precisato di non condividere l'orientamento giurisprudenziale secondo cui il genitore è legittimato a chiedere l'aumento dell'assegno di mantenimento per il figlio solo se quest'ultimo abiti in prevalenza presso la sua casa, ha ravvisato sussistente la legittimazione concorrente della reclamante in quanto genitore a cui il figlio faceva capo per reperire le risorse necessarie per soddisfare le sue esigenze, a cui non poteva provvedere autonomamente. L'accertamento di fatto compiuto dalla Corte d'appello è, dunque, consistito nell'individuare la madre come soggetto di riferimento per il corrente e materiale sostentamento economico del figlio trasferitosi in altra città per motivi di studio, ossia per necessità di istruzione e per scelta dello stesso figlio, condivisa dalla madre ed avversata dal padre, anche giudizialmente senza esito positivo.

Le censure si incentrano, per un verso e principalmente, sulla questione della sporadicità della coabitazione del figlio con la madre, che non ha, invece, rilevanza dirimente in base alle considerazioni in diritto sopra espresse (p. 5.2), sicché ne discende l'infondatezza per quanto si è precisato.

Per altro verso, il ricorrente, senza censurare specificamente il fatto posto a base della decisione impugnata (materiale e corrente sostentamento della madre necessario per mantenere il figlio a (OMISSIS), con la relativa anticipazione di ogni spesa), deduce che il figlio si gestisce autonomamente, dato che gli assegni di mantenimento corrisposti dal padre venivano versati dalla madre su un conto corrente intestato al giovane, nonché si limita genericamente a sostenere di contribuire "alle spese straordinarie, specie quelle universitarie e concordate col figlio", richiamando una "nota di WhatsApp", prodotta in primo grado come doc. n. 5, indicata come risalente al (OMISSIS), da cui risulterebbero le nuove condizioni economiche concordate con il figlio, peraltro, per quanto è dato comprendere, con un aumento del contributo (raddoppiato rispetto a quello iniziale di Euro 200) solo a carico della madre.

In disparte ogni considerazione sulla valenza di quel documento, del quale non vi è cenno nel decreto impugnato, ai fini della prova dell'accordo asseritamente intervenuto tra padre e figlio, che non risulta aver mai avanzato richiesta di corresponsione diretta del contributo di mantenimento dovuto dal padre, le doglianze sono inammissibili perché genericamente formulate e neppure specificamente riferibili alla ratio decidendi del decreto impugnato di cui si è detto.

6. Anche il secondo motivo è in parte infondato e in parte inammissibile.

6.1. Il ricorrente si duole della suddivisione in parti paritarie tra gli ex coniugi del disposto aumento del contributo di mantenimento (Euro 450 a carico di ciascuno) per mancata considerazione delle sue condizioni reddituali, lamentando anche omessa motivazione.

La Corte d'appello ha, invece, motivato in modo idoneo, non inferiore al minimo costituzionale (Cass. S.U. n. 8053/2014), la statuizione sul punto e le ulteriori doglianze, relative alla valutazione della capacità reddituale del padre, libero professionista, sollecitano, in realtà, inammissibilmente una rivalutazione del merito.

7. In conclusione il ricorso di cui al n. 1634/2016 R.G. va rigettato.

8. Considerata la parziale difformità di orientamento di questa Corte sulle questioni dirimenti rispetto a precedenti pronunce, le spese del presente giudizio sono compensate per metà e le residue spese, liquidate nell'intero come in dispositivo, sono poste a carico del ricorrente.

9. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto (Cass. S.U. n. 5314/2020).

10. Va disposto che in caso di diffusione della presente sentenza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52.

P.Q.M.

La Corte, riuniti i ricorsi, dichiara inammissibile il ricorso di cui al n. 20675/2016 R.G. e rigetta il ricorso di cui al n. 1634/2016, compensa per metà le spese del presente giudizio e condanna il ricorrente alla rifusione della residua metà di dette spese, liquidate, nell'intero, in complessivi Euro 6.400, di cui Euro 400 per esborsi, oltre spese generali, nella misura del 15 per cento, ed accessori come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.

Dispone che in caso di diffusione della presente sentenza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52.

Così deciso in Roma, il 16 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 31 dicembre 2020

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Sospensione dell’esercizio della responsabilità genitoriale anche per chi maltratta il proprio coniuge.

La Corte di Cassazione affronta, per la prima volta, un tema assai delicato, ovvero se il reato di maltrattamenti in famiglia, commesso a danno di soggetto diverso rispetto al minore, ma aggravato dall’essere stato compiuto in presenza del minore, può configurare abuso della responsabilità genitoriale. Ebbene, secondo la Corte, costituisce abuso del proprio potere da parte del genitore non soltanto commettere reati contro la vita, l’incolumità o la libertà della prole, ma anche imporre ai propri figli la visione e la percezione di quei medesimi atteggiamenti violenti e prevaricatori commessi a danno di altri. In altri termini, la pena accessoria della sospensione dell’esercizio della responsabilità genitoriale prevista dal secondo comma dell’art. 34 c.p. è applicabile al condannato per il reato di maltrattamenti in famiglia malgrado il reato sia stato contestato solo a danno del coniuge e non nei confronti del figlio minore.

(Cass. pen. sez. V, 3 dicembre 2020, n. 34504)

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La coltivazione domestica di una piantina di marijuana: se diretta all'uso meramente personale non è reato.

Le Sezioni Unite – superando la precedente giurisprudenza “di rigore”, sintetizzabile nel principio che la coltivazione è sempre penalmente rilevante a prescindere da quale sia la dimensione e dalla destinazione personale del ricavato – hanno affermato che non integra il reato di cui all’art. 73 del D.P.R. 390/90 chi coltiva per uso domestico piante da stupefacente in numero modesto, tale da accreditare una destinazione dello scarsissimo principio attivo ricavabile ad un uso esclusivamente personale del coltivatore. Detto in altri termini, la Suprema Corte a Sez. Un., pur aderendo all’orientamento per cui il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente, ne esclude dal perimetro della tipicità – in quanto non riconducibili all’ambito di applicazione della norma penale – le coltivazioni di minime dimensioni svolte in forma domestica purché questa, in relazione agli indici del caso concreto appare destinata a produrre sostanza stupefacente diretta all’uso meramente personale di colui che la coltiva.

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Reato di violenza sessuale: la Cassazione chiarisce il concetto di "abuso di autorità".

La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza emessa dalle Sezioni Unite in data 16.07.2020 n. 27326, depositata in data 01.10.2020, ha chiarito definitivamente il concetto di “abuso di autorità” di cui all’art. 609 bis co. 1 c.p., affermando che deve essere interpretato come una forma di abuso che “presuppone una posizione di preminenza, anche di fatto e di natura privata, che l’agente strumentalizza per costringere il soggetto passivo a compiere o subire atti sessuali”.

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Responsabilità per violazione del consenso informato.

La Suprema Corte di Cassazione, conformemente al consolidato indirizzo giurisprudenziale in materia di consenso informato, ha individuato quale presupposto indefettibile per il riconoscimento del risarcimento del danno per violazione del consenso informato la prova che il paziente avrebbe rifiutato l’intervento chirurgico o il trattamento sanitario in generale qualora fosse stato adeguatamente informato dei rischi prevedibili connessi allo stesso.

(Corte di Cassazione - III sez. civ. - ordinanza n. 25875 del 16-11-2020)

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Il Tribunale di Roma sulla prova della annullabilità per conflitto di interessi ex art. 1394 cc e le prove derivanti dal processo penale

Con Sentenza n. 11268 del 01.08.2020 la Sezione X del Tribunale di Roma ha stabilito che, ai fini della pronuncia di annullamento del contratto ex art. 1394 cc, il conflitto di interessi tra rappresentante e rappresentato e la sua conoscenza o conoscibilità da parte del terzo possono essere dimostrati anche solo presuntivamente, attraverso circostanze ed elementi che, secondo lo id quod plerumque accidit, nel loro insieme siano idonei a indicare una comunanza di interessi tra rappresentate e terzo a detrimento del rappresentato. Non è quindi necessario, a parere del Giudicante di primo grado, che i requisiti dell’annullabilità ex art. 1394 cc siano confortati da specifica prova scritta; né essi devono obbligatoriamente inerire a tutte le situazioni di conflitto esistenti tra rappresentante e rappresentato, potendo riguardare anche il solo specifico negozio di cui si chiede l’annullamento. Gli elementi di prova, per giunta, possono derivare dagli atti di un procedimento penale che abbia coinvolto il rappresentante ma a cui il terzo sia rimasto estraneo.

Nel caso di specie, la domanda ex art. 1394 cc veniva formulata da una signora vittima dei raggiri di un soggetto che l’aveva convinta a farsi rilasciare  procura speciale a vendere la propria casa familiare di residenza. Tale procura veniva impiegata per svendere l’immobile in parola, ad insaputa della firmataria alla quale oltretutto non risultava essere stato versato alcun corrispettivo.

Nel giudizio per l’annullamento del contratto di compravendita, i convenuti acquirenti contestavano la domanda di parte attrice rappresentando di non avere avuto conoscenza delle complessive macchinazioni truffaldine del rappresentante a danno della donna, volte a depauperarla completamente e sfociate poi in un procedimento penale a carico del procuratore. In pendenza del procedimento civile, questi era stato condannato in primo grado per truffa: condanna confermata in seguito dalla Corte di Appello che aveva però pronunciato il non doversi procedere per prescrizione del reato. Gli acquirenti erano rimasti estranei a tali vicende penali.

Il Giudice accoglieva la domanda di parte attrice, rinvenendo la prova del conflitto di interessi - e della sua conoscenza o conoscibilità da parte dei convenuti - in alcuni elementi presenti negli atti del già citato procedimento penale, come il dimostrato proposito truffaldino del rappresentante e la parentela tra gli acquirenti e il titolare della società che aveva intermediato la vendita di tutti gli immobili della firmataria, sempre su procura data allo stesso rappresentante. Ancora, riteneva accoglibile la domanda ex art. 1394 cc per via di anomalie nel contratto di compravendita e dell’esiguità del prezzo pattuito, del cui versamento alla signora, oltretutto, non vi era prova.

Relativamente alla prova dell’annullabilità per conflitto di interessi, il decidente spiegava che: “Il conflitto d'interessi idoneo, ai sensi dell'art. 1394 cod. civ., a produrre l'annullabilità del contratto, richiede l'accertamento dell'esistenza di un rapporto d'incompatibilità tra gli interessi del rappresentato e quelli del rappresentante, da dimostrare non in modo astratto od ipotetico ma con riferimento al singolo atto o negozio che, per le sue intrinseche caratteristiche, consenta la creazione dell'utile di un soggetto mediante il sacrificio dell'altro. (…)         
Il conflitto di interessi tra rappresentante e rappresentato che, se conosciuto o conoscibile dal terzo, rende annullabile il contratto concluso dal rappresentante, ai sensi dell'art. 1394 cod. civ. (applicabile anche ai casi di rappresentanza organica di una persona giuridica), ricorre allorquando il primo sia portatore di interessi incompatibili con quelli del secondo, cosicché la salvaguardia dei detti interessi gli impedisce di tutelare adeguatamente l'interesse del "dominus", con la conseguenza che non ha rilevanza, di per sé, che l'atto compiuto sia vantaggioso o svantaggioso per il rappresentato e che non è necessario provare di aver subito un concreto pregiudizio, perché il rappresentato possa domandare o eccepire l'annullabilità del negozio.

E ancora:

“il giudice civile, può utilizzare come fonte del proprio convincimento le prove raccolte in un giudizio penale, già definito, ancorché con sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione, ponendo a base delle proprie conclusioni gli elementi di fatto già acquisiti con le garanzie di legge in quella sede e sottoponendoli al proprio vaglio critico, mediante il confronto con gli elementi probatori emersi nel giudizio civile; a tal fine, egli non è tenuto a disporre la previa acquisizione degli atti del procedimento penale e ad esaminarne il contenuto, qualora, per la formazione di un razionale convincimento, ritenga sufficiente le risultanze della sola sentenza.

A tal riguardo, il giudicante si è uniformato a un orientamento della Suprema Corte. (Cfr. Cassazione, Sez. 2, Sentenza n. 22200 del 29/10/2010).  

Trib. Roma Sez. X, 01.08.2020 n. 11268 (testo completo). 

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Interpretazione del testamento e attribuzione di una quota aritmetica dell'asse ereditario.

In tema di successione, l'assegnazione di beni determinati può essere interpretata come disposizione a titolo universale qualora risulti che il testatore, pur avendo indicato beni determinati, abbia in effetti inteso assegnare questi come quota del patrimonio ereditario. A tal fine l'indagine, di carattere obiettivo circa il contenuto dell'atto, nel senso dell'attribuzione della universalità di beni o di una quota aritmetica di essi oppure dell'attribuzione di un bene o di un complesso di beni determinati, e di carattere soggettivo sulla intenzione del testatore, deve essere più completa e penetrante di quella necessaria quando invece il testatore detta le disposizioni con riferimento alla quantità indeterminata dei suoi beni.

(Tribunale Vibo Valentia Sent., 08/06/2020)

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Diritto di prelazione e disciplina del maso chiuso.

Con ordinanza n. 24982 depositata il 9 novembre 2020, la Corte di Cassazione ha affermato che nel caso in cui più affittuari o più affittuarie dichiarino di voler esercitare il diritto di prelazione su un maso chiuso, deve essere data la preferenza al coltivatore diretto o alla coltivatrice diretta che ha in affitto la sede o la maggior parte degli stabili del maso chiuso; a questi/e succedono gli affittuari o le affittuarie di singoli fondi e il diritto di prelazione tra di loro spetta a colui o colei che dimostri di possedere i migliori requisiti per garantire la conduzione e coltivazione diretta e la futura sussistenza del maso", mentre nel comma 4 del medesimo articolo si fa espresso riferimento ai familiari che collaborano nel maso e che vivono nel medesimo, riconoscendo loro il diritto di prelazione nel caso di alienazione di un maso chiuso o di una parte del medesimo a persone imparentate oltre il secondo grado. 

(Cass. civ., Sez. III, Ord., 9.11.2020, n. 24982)

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Donazione indiretta, simulazione e azione di riduzione.

Con decisione del 31 luglio 2020, n. 16535, la Corte di Cassazione ha affermato il principio secondo cui il legittimario che propone l'azione di riduzione ha l'onere di indicare e comprovare tutti gli elementi occorrenti per stabilire se, e in quale misura, sia avvenuta la lesione della sua quota di riserva, non può essere applicato qualora il "de cuius" abbia integralmente esaurito in vita il suo patrimonio con donazioni. In questo caso, infatti, il legittimario non ha altra via, per reintegrare la quota riservata, se non quella di agire in riduzione contro i donatari, essendo quindi la compiuta denuncia della lesione già implicita nella deduzione della manifesta insufficienza del "relictum". 

(Cass. civ., Sez. II, 31.7.2020, n. 16535)

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In tema di filiazione, un semplice mandato ai servizi sociali non garantisce i rapporti del figlio con il padre se la madre ne ha alienato la figura.

Cass. civ. Sez. I, Ord., (ud. 25/11/2020) 16-12-2020, n. 28723



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco A. - Presidente -

Dott. VALITUTTI Antonio - Consigliere -

Dott. LAMORGESE Antonio P. - Consigliere -

Dott. CARADONNA Lunella - rel. Consigliere -

Dott. FIDANZIA Andrea - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 6235/2019 proposto da:

M.E., rappresentato e difeso dall'Avv. Castigli Gian Luca, del Foro di Arezzo, giusta procura allegata in calce al ricorso per cassazione.

- ricorrente -

contro

D.C.A.A., M.S.A., rappresentato e difeso dall'Avv. Paola Gallesi; Procura Generale presso la Corte di appello di Firenze;

- intimati -

avverso il decreto della Corte di appello di FIRENZE n. 6492/2014 pubblicato il 7 agosto 2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 25 novembre 2020 dal Consigliere Dott. Lunella Caradonna.

Svolgimento del processo

Che:

1. Con decreto del 7 agosto 2018, la Corte di appello di Firenze ha rigettato il reclamo proposto da M.E. avverso il decreto del Tribunale peri Minorenni di Firenze dell'11 ottobre 2016 che non aveva accolto la richiesta di decadenza di D.C.A.A. dalla potestà genitoriale sul figlio minore M.S.A., nato il (OMISSIS), con l'allontanamento del minore dall'abitazione materna, dando mandato ai servizi Sociali di (OMISSIS) di predisporre, a seguito di una espressa richiesta in tal senso rivolta loro dal M. e previa un'adeguata preparazione del minore del padre stesso, incontri osservati una volta al mese, ferme le altre disposizioni vigenti.

2. A sostegno del decreto impugnato, la Corte di appello di Firenze, all'esito della disposta CTU al fine di valutare la capacità genitoriale della madre e la possibilità di ripresa dei rapporti padre-figlio, ha affermato che non era necessario, nè opportuno disporre l'affidamento del minore ai servizi Sociali e che, al fine di consentire di ipotizzare una ripresa dei rapporti padre-figlio, appariva sufficiente dare mandato ai Servizi Sociali di (OMISSIS). 3. M.E., avverso il suddetto decreto, ha proposto ricorso per cassazione con atto affidato a sei motivi.

4. D.C.A.A. e M.S.A., rappresentato e difeso dall'Avv. Paola Gallesi, non hanno svolto difese.

Motivi della decisione

Che:

1. Con il primo motivo il ricorrente deduce, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, la violazione e falsa applicazione degli artt. 330 e 336 c.c. e dell'art. 354 c.p.c., comma 1, posto che non era mai stato nominato un curatore speciale per il minore e che, verificata la mancata integrazione del contraddittorio in primo grado nei confronti del minore, la Corte di appello si era limitata a nominare difensore l'Avv. Paola Gallesi, mentre avrebbe dovuto rimettere la causa al primo giudice.

2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 330 e 337 ter c.c., per non avere interpretato la norma individuando gli elementi della fattispecie nella violazione o trascuratezza dei doveri inerenti alla potestà genitoriale o nell'abuso dei relativi poteri con grave pregiudizio per il figlio sostituendoli con l'adeguatezza della capacità genitoriale della madre e il pregiudizio per il minore dall'eventuale allontanamento da questa.

3. Con il terzo motivo il ricorrente deduce, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, la censura dell'affermazione con la quale si conclude per l'adeguatezza della capacità della madre, in quanto la Corte aveva messo a fondamento della propria decisione unicamente una parte ampiamente contestata della CTU, omettendo l'esame dei comportamenti posti in essere dalla madre che avevano alienato la figura paterna.

4. Con il quarto motivo il ricorrente deduce, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, la violazione e falsa applicazione dell'art. 337 ter c.c., in ordine ai comportamenti posti in essere dalla madre che avevano alienato la figura paterna nella parte in cui aderendo alla giurisprudenza di Cassazione che ritiene che in tema di Pas occorra accertare se sussistono i denunciati comportamenti volti all'allontanamento del figlio dall'altro genitore, aveva invece ritenuto decisa l'incapacità del padre a relazionarsi con il figlio.

5. Con il quinto motivo il ricorrente deduce, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione dell'art. 116 c.p.c., in relazione alla valutazione effettuata dalla CTU sulla capacità genitoriale della madre.

6. Con il sesto motivo il ricorrente deduce, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l'omessa e in ogni caso contraddittorietà, insufficienza della motivazione, illogicità e palese erroneità della stessa in ordine ai comportamenti posti in essere dal padre per recuperare il rapporto con il figlio.

7. Deve in via preliminare affermarsi l'ammissibilità del ricorso.

Ed invero, questa Corte, rimeditando il proprio precedente contrario orientamento, ha più recentemente statuito, con affermazione cui il Collegio intende assicurare continuità, che i provvedimenti cosiddetti de potestate, che attengono alla compressione della titolarità della responsabilità genitoriale, ovvero i provvedimenti di decadenza limitativi di cui agli artt. 330 e 333 c.c., hanno l'attitudine al giudicato rebus sic stantibus, in quanto non revocabili o modificabili salva la sopravvenienza di fatti nuovi, sicchè il decreto della corte di appello che, in sede di reclamo, conferma, revoca o modifica il predetto provvedimento, è impugnabile con ricorso per cassazione ex art. 111 Cost., comma 7 (Cass., 6 marzo 2018, n. 5256; Cass., 21 novembre 2016, n. 23633; Cass. 29 gennaio 2016, n. 1743).

Specificamente questa Corte ha affermato "essendo indubitabile che il decreto adottato dal tribunale per i minorenni, con il quale si dispone la decadenza o la limitazione della responsabilità genitoriale, incide su diritti di natura personalissima, di primario rango costituzionale, deve - per converso - ritenersi che tale provvedimento, emanato peraltro all'esito di un procedimento che si svolge con la presenza di parti processuali in conflitto tra loro, abbia attitudine al cd. giudicato rebus sic stantibus. Tale provvedimento non è, invero, nè revocabile, nè modificabile, se non per la sopravvenienza di fatti nuovi e non per la mera rivalutazione delle circostanze preesistenti già esaminate. Pertanto, dopo che la Corte d'appello lo abbia confermato, revocato o modificato in sede di reclamo ex art. 739 c.p.c., il decreto camerale - secondo l'orientamento innovativo in esame - acquista una sua definitività, ed è senz'altro impugnabile con il ricorso per cassazione che va, di conseguenza, ritenuto pienamente ammissibile" (Cass., 25 luglio 2018, n. 19780).

7.1 Si tratta di un indirizzo che trova applicazione anche nella presente controversia, con la necessaria premessa che si tratta di una rivisitazione dell'indirizzo tradizionale che ha avuto origine dalla modifica dell'art. 38 disp. att., introdotta dalla L. 10 dicembre 2002, n. 219, art. 3, comma 1, che ha attribuito al giudice ordinario anche i procedimenti ex artt. 330 e 333 c.c., nell'ipotesi in cui sia in corso tra le stesse parti un giudizio di separazione o divorzio, e alla nuova veste assunta dal minore nei procedimenti giurisdizionali che lo riguardano.

Di recente, questa Corte ha ulteriormente precisato che in materia di provvedimenti de potestate ex artt. 330, 333 e 336 c.c., il decreto pronunciato dalla Corte d'appello sul reclamo avverso quello del Tribunale per i minorenni è impugnabile con il ricorso per cassazione, avendo, al pari del decreto reclamato, carattere decisorio e definitivo, in quanto incidente su diritti di natura personalissima e di primario rango costituzionale, ed essendo modificabile e revocabile soltanto per la sopravvenienza di nuove circostanze di fatto e quindi idoneo ad acquistare efficacia di giudicato, sia pure rebus sic stantibus, anche quando non sia stato emesso a conclusione del procedimento per essere stato, anzi, espressamente pronunciato "in via non definitiva", trattandosi di provvedimento che riveste comunque carattere decisorio, quando non sia stato adottato a titolo provvisorio ed urgente, idoneo ad incidere in modo tendenzialmente stabile sull'esercizio della responsabilità genitoriale (Cass., 24 gennaio 2020, n. 1668).

7.2 Tale principio, che il Collegio condivide, deve considerarsi applicabile anche alla fattispecie in esame, in quanto avente ad oggetto la domanda di decadenza di D.C.A.A. dalla potestà genitoriale sul figlio minore M.S.A., nato il (OMISSIS).

8. Tanto premesso in punto di ammissibilità del ricorso per cassazione, l'esame delle censure porta al rigetto del primo motivo e, all'accoglimento del terzo e quarto motivo che vanno trattati unitariamente in quanto hanno ad oggetto la medesima questione giuridica della tutela del principio della bigenitorialità.

8.1 Questa Corte ha già avuto modo di affermare che il procedimento ex art. 336 c.c., benchè non prettamente contenzioso, non ha ad oggetto preminente, o addirittura esclusivo, un'attività di controllo del giudice sull'esercizio della responsabilità genitoriale, che escluda la presenza di parti processuali fra di loro in conflitto (Cass., 21 novembre 2016, n. 23633; Cass. 29 gennaio 2016, n. 1743).

L'articolo in esame stabilisce, infatti, quali sono i soggetti legittimati a promuovere il ricorso, prevede che i genitori e i minori siano assistiti da un difensore, sancisce l'obbligo di audizione dei genitori, nonchè, nel testo modificato dal D.Lgs. n. 154 del 2013, l'obbligo di ascolto del minore dodicenne, od anche di età inferiore ove dotato di discernimento e il decreto che dispone la limitazione o la decadenza della responsabilità genitoriale incide su diritti di natura personalissima di primario rango costituzionale (Cass., 6 marzo 2018, n. 5256).

8.2 Anche la Corte Costituzionale, con la sentenza interpretativa di rigetto n. 1 del 30 gennaio 2002, ha chiarito che dalla novità introdotta dalla L. n. 149 del 2001, art. 37, comma 3 (che ha aggiunto all'art. 336 c.c., il comma 4, che stabilisce che per i provvedimenti di cui ai commi precedenti, ovvero adottati ai sensi degli artt. 330 e 333 c.c., i genitori ed il minore sono assistiti da un difensore) si evince l'attribuzione della qualità di parti del procedimento che, in quanto tali, hanno diritto ad averne notizia ed a parteciparvi, non solo dei genitori ma anche del minore ed ha, altresì, precisato che la necessità che il contraddittorio sia assicurato anche nei confronti del minore, previa eventuale nomina di un curatore speciale ai sensi dell'art. 78 c.p.c., può trarsi pure dall'art. 12, comma 2, della Convenzione sui diritti del fanciullo, resa esecutiva in Italia con la L. n. 176 del 1991 e perciò dotata di efficacia imperativa nell'ordinamento interno, che prevede che al fanciullo sia data la possibilità di essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo concerne, sia direttamente sia tramite un rappresentante o un organo appropriato.

8.3 Tanto premesso in punto di principi applicabili al caso in esame, si legge nel ricorso per cassazione che la Corte di appello di Firenze, verificata la mancata integrazione del contraddittorio in primo grado nei confronti del minore, aveva nominato, all'udienza del 22 febbraio 2017, il difensore l'Avv. Paola Gallesi e, nel provvedimento impugnato, che il legale del minore aveva concluso per l'affidamento ai servizi Sociali con monitoraggio di almeno un anno.

Nel caso in esame, quindi, la rappresentanza nel procedimento del figlio minore S.A. è stata affidata al difensore specificamente nominato, a cui spettava esaminare l'istanza e gli atti processuali e formulare le conclusioni ritenute opportune nell'interesse esclusivo del minore, così come in effetti è accaduto.

La Corte di appello di Firenze, nominando difensore del minore l'Avv. Paola Gallesi, ha in tal modo sanato il vizio procedurale verificatosi per effetto della mancata partecipazione del minore pure in primo grado.

9. Le censure sollevate con il terzo e il quarto motivo sono fondate. 9.1 Il ricorrente deduce, in particolare, che sia il Tribunale, che la Corte di appello non avevano in alcun modo valutato alcuni fatti decisivi - ben documentati, quali i comportamenti posti in essere dalla madre finalizzati ad emarginare la figura paterna (così i tabulati telefonici, le registrazioni audio di telefonate intercorse tra padre e figlio, le relazioni dell'educatore C., le sentenze di rigetto della Corte di appello di Catania e del Tribunale dei minori di Firenze, la relazione depositata il 30 marzo 2018, la relazione del consulente di parte depositata unitamente alla consulenza d'ufficio il 30 marzo 2018), nè avevano considerato l'interesse del minore al recupero della figura paterna e all'accettazione della diversità delle due figure genitoriali, la cui compresenza e la cui co-referenzialità costituivano elementi imprescindibili per un sereno sviluppo della sfera emozionale ed affettiva del minore stesso.

Nella sostanza il ricorrente censura la violazione del principio della bigenitorialità, cioè del diritto del bambino di avere un rapporto tendenzialmente equilibrato ed armonioso con entrambi i genitori e, quindi, anche con il padre, ai fini dell'esercizio condiviso della responsabilità genitoriale.

La Corte territoriale, secondo l'assunto del ricorrente, avrebbe omesso del tutto di considerare i documenti che dimostravano come la D.C. aveva ostacolato in ogni modo il suo rapporto con il figlio e che l'attuale convivenza del figlio con la madre costituiva un insuperabile impedimento al suo riavvicinamento al figlio; che era stato omesso l'espletamento di indagini specifiche volte ad individuare l'esistenza di una Parental Alienation Syndrome e che ciò aveva precluso la tutela dei suoi diritti di padre e dei diritti del figlio.

9.2 Ciò posto, questa Corte di legittimità ha più volte affermato che, nell'interesse superiore del minore, va assicurato il rispetto del principio della bigenitorialità, da intendersi quale presenza comune dei genitori nella vita del figlio, idonea a garantirgli una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi, nel dovere dei primi di cooperare nell'assistenza, educazione ed istruzione (Cass., 8 aprile 2019, n. 9764; Cass., 23 settembre 2015, n. 18817; Cass., 22 maggio 2014, n. 11412).

Tale orientamento trova riscontro nella giurisprudenza della Corte Edu, che, chiamata a pronunciarsi sul rispetto della vita familiare di cui all'art. 8 CEDU, pur riconoscendo all'autorità giudiziaria ampia libertà in materia di diritto di affidamento di un figlio di età minore, ha precisato che è comunque necessario un rigoroso controllo sulle "restrizioni supplementari", ovvero quelle apportate dalle autorità al diritto di visita dei genitori, e sulle garanzie giuridiche destinate ad assicurare la protezione effettiva del diritto dei genitori e dei figli al rispetto della loro vita familiare, di cui all'art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, onde scongiurare il rischio di troncare le relazioni familiari tra un figlio in tenera età ed uno dei genitori (Corte EDU, 9 febbraio 2017, Solarino c. Italia).

La Corte EDU, quindi, invita le Autorità nazionali ad adottare tutte le misure atte a mantenere i legami tra il genitore e i figli, affermando che "per un genitore e suo figlio, stare insieme costituisce un elemento fondamentale della vita familiare" (Kutzner c. Germania, n. 46544/99, CEDU 2002) e che "le misure interne che lo impediscono costituiscono una ingerenza nel diritto protetto dall'art. 8 della Convenzione" (K. E T. c. Finlandia, n. 25702/94, CEDU 2001).

I giudici di Strasburgo, inoltre, hanno precisato che, in un quadro di osservanza della frequentazione tra genitore e figlio, gli obblighi positivi da adottarsi dalle autorità degli Stati nazionali, per garantire effettività della vita privata o familiare nei termini di cui all'art. 8 della Convenzione EDU, non si limitano al controllo che il bambino possa incontrare il proprio genitore o avere contatti con lui, ma includono l'insieme delle misure preparatorie che, non automatiche e stereotipate, permettono di raggiungere questo risultato, nella preliminare esigenza che le misure deputate a ravvicinare il genitore al figlio rispondano a rapida attuazione, perchè il trascorrere del tempo può avere delle conseguenze irrimediabili sulle relazioni tra il fanciullo e quello dei genitori che non vive con lui (Corte EDU, 29 gennaio 2013, Lombardo c. Italia).

In particolare, nella pronuncia da ultimo richiamata, la Corte EDU ha affermato che era stato violato l'art. 8 della Convenzione da parte dello Stato italiano, in un caso in cui le autorità giudiziarie, a fronte degli ostacoli opposti dalla madre affidataria, ma anche dalla stessa figlia minorenne, a che il padre esercitasse effettivamente e con continuità il diritto di visita, non si erano impegnate a mettere in atto tutte le misure necessarie a mantenere il legale familiare tra padre e figlia minore, attraverso un concreto ed effettivo esercizio del diritto di visita nel contesto di una separazione legale tra i genitori.

Nello specifico, i giudici Europei hanno messo in evidenza che quelle autorità si erano limitate reiteratamente e con formule stereotipate a confermare i propri provvedimenti, nonchè a prescrivere l'intervento dei servizi sociali, cui erano richieste di volta in volta informazioni e delegata una generica funzione di controllo, così determinandosi il consolidamento di una situazione di fatto pregiudizievole per il padre, mentre avrebbero potuto rapidamente adottare misure specifiche per il ripristino della collaborazione tra i genitori e dei rapporti tra il padre e la figlia, anche avvalendosi della mediazione dei servizi sociali.

9.3 Tanto premesso in punto di principi giurisprudenziali applicabili nel caso in esame, la Corte di appello di Firenze, all'esito della consulenza tecnica d'ufficio disposta al fine di valutare la capacità genitoriale della madre e la possibilità di ripresa dei rapporti del padre con il figlio, con motivazione praticamente assente, dando acritica conferma alla motivazione del giudice di primo grado e senza tenere in alcun conto le critiche mosse dal padre con l'atto di impugnazione, ha ritenuto l'adeguatezza della capacità genitoriale della madre e ha affermato che non era necessario, nè opportuno disporre l'affidamento del minore ai servizi Sociali e che, al fine di consentire di ipotizzare una ripresa dei rapporti padre-figlio, appariva sufficiente dare mandato ai Servizi Sociali di (OMISSIS). Rileva questo Collegio, tenendo anche conto della evidente conflittualità esistente tra i genitori, che non consentiva di effettuare una prognosi positiva in relazione alla possibilità di soluzioni diverse concordate, che manca del tutto una specifica motivazione in ordine alle eventuali ragioni che hanno indotto la Corte di merito ad escludere una frequentazione più assidua con il padre, che ha piuttosto disposto, peraltro a seguito di una espressa richiesta del M. e previa un'adeguata preparazione del minore e del padre stesso, incontri osservati una volta al mese con l'ausilio dei servizi sociali, ossia ad escludere una effettiva realizzazione del principio di bigenitorialità del minore, in funzione dei suoi bisogni di crescita equilibrata.

La Corte, inoltre, omette del tutto di prendere in esame quale fatto decisivo della controversia la condotta "oppositiva" della madre, quale risulterebbe dai fatti documentali introdotti nel giudizio dal padre del minore, su cui non svolge alcuna considerazione, pur trattandosi di una condotta gravemente lesiva del diritto del minore alla bigenitorialità, nè evidenzia le ragioni di incapacità del padre di prendersi cura del figlio, mancando nel contempo di apprezzare, avuto riguardo alla posizione del genitore collocatario, che tra i requisiti di idoneità genitoriale rileva anche la capacità di preservare la continuità delle relazioni parentali con l'altro genitore a tutela del diritto del figlio alla bigenitorialità e alla crescita equilibrata e sana. Ancora, i giudici di merito non hanno motivato sulle ragioni del rifiuto del padre da parte del figlio e sono venuti meno all'obbligo di verificare, in concreto, l'esistenza dei denunciati comportamenti volti all'allontanamento fisico e affettivo del figlio minore dall'altro genitore, potendo il giudice di merito, a tal fine, utilizzare i comuni mezzi di prova tipici e specifici della materia, ivi compreso l'ascolto del minore, e anche le presunzioni (desumendo eventualmente elementi anche dalla presenza, ove esistente, di legame "peculiari" tra il figlio e uno dei genitori).

Tali comportamenti, infatti, ove accertati, sicuramente pregiudicherebbero il diritto del figlio alla bigenitorialità e ad una sua crescita equilibrata e serena.

Questa Corte, al riguardo, ha avuto occasione di osservare che, in tema di affidamento dei figli minori, il giudizio prognostico che il giudice, nell'esclusivo interesse morale e materiale della prole, deve operare circa le capacità dei genitori di crescere ed educare il figlio nella nuova situazione determinata dalla disgregazione dell'unione, va formulato tenuto conto, in base ad elementi concreti, del modo in cui i genitori hanno precedentemente svolto i propri compiti, delle rispettive capacità di relazione affettiva, nonchè della personalità del genitore, delle sue consuetudini di vita e dell'ambiente sociale e familiare che è in grado di offrire al minore (Cass., 23 settembre 2015, n. 18817, citata).

10. I restanti motivi sono assorbiti dall'accoglimento dei predetti.

11. In conclusione la decisione impugnata va cassata, in relazione al terzo e quarto motivo, con rinvio alla Corte di appello di Firenze, in diversa composizione, per il riesame e la liquidazione delle spese di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il terzo e quarto motivo di ricorso; dichiara infondato il primo motivo, assorbiti gli altri; cassa il decreto impugnato, in relazione ai motivi accolti, e rinvia la causa alla Corte di appello di Firenze, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Dispone che ai sensi del D.Lgs. n. 198 del 2003, art. 52, siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi in caso di diffusione del presente provvedimento.

Così deciso in Roma, il 25 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 16 dicembre 2020

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Danno da morte del congiunto e onere della prova.

Con decisione depositata il 1 settembre 2020, il Tribunale di Imperia ha specificato che la morte di uno stretto congiunto "costituisce di per sé un fatto noto dal quale il giudice può desumere, ex art. 2727 c.c., che i congiunti dello scomparso abbiano patito una sofferenza interiore tale da determinare un'alterazione della loro vita di relazione e da indurli a scelte di vita diverse da quelle che avrebbero altrimenti compiuto, sicché nel giudizio di risarcimento del relativo danno non patrimoniale incombe al danneggiante dimostrare l'inesistenza di tali pregiudizi" (T. Imperia 1.9.2020).

Il giudice, nell'ambito della propria valutazione equitativa, deve selezionare criteri comunque idonei a consentire la c.d. personalizzazione del danno, una liquidazione adeguata e proporzionata, che, muovendo da una uniformità pecuniaria di base, riesca ad essere adeguata all'effettiva incidenza della menomazione subita dal danneggiato nel caso concreto: per il danno da perdita del rapporto parentale, l'apprezzamento deve concernere quali fatti specifici cui parametrare la misura economica dello sconvolgimento di vita, la gravità del fatto, l'entità del dolore patito, le condizioni soggettive della persona, il turbamento dello stato d'animo, l'età della vittima e dei congiunti all'epoca del fatto, il grado di sensibilità dei danneggiati superstiti, la situazione di convivenza o meno con il deceduto.

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La Kafalah negoziale è utilizzabile ai fini del ricongiungimento familiare.

Con sentenza n. 25310, depositata l'11 novembre 2020, la Corte di Cassazione ha stabilito che la valutazione circa la possibilità di consentire al minore l'ingresso in Italia e il ricongiungimento con l'affidatario non può essere esclusa in considerazione della natura e della finalità dell'istituto della "kafalah" negoziale, ma pur sempre deve essere effettuata caso per caso in considerazione del superiore interesse del minore. 

Cass. civ. Sez. I, Sent., (ud. 14/10/2020) 11-11-2020, n. 25310

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare Giuseppe - Presidente -

Dott. TERRUSI Francesco - rel. Consigliere -

Dott. PAZZI Alberto - Consigliere -

Dott. PACILLI Giuseppina Anna Rosaria - Consigliere -

Dott. CARADONNA Lunella - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 33922/2018 proposto da:

Ministero degli Affari Esteri, in persona del Ministro pro tempore, nonchè Ministero dell'Interno, in persona del Ministro pro tempore, entrambi elettivamente domiciliati in Roma, Via dei Portoghesi 12, presso l'Avvocatura generale dello Stato che li rappresenta e difende ope legis;

- ricorrenti -

contro

A.Z.;

- intimato -

avverso la sentenza n. 813/2018 della CORTE D'APPELLO di GENOVA, depositata il 16/05/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/10/2020 dal Cons. Dott. TERRUSI FRANCESCO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CERONI Francesca, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito per i ricorrenti l'avvocato generale dello Stato Ilia Massarelli, che ha concluso per l'accoglimento.

Svolgimento del processo

La corte d'appello di Genova ha respinto il gravame del Ministero dell'Interno e del Ministero degli Esteri contro l'ordinanza con la quale il tribunale della stessa città aveva annullato il diniego del visto dell'ambasciata italiana a (OMISSIS) per il ricongiungimento familiare di A.Z., già titolare di permesso per asilo politico, col proprio fratello minore I.A., affidatogli tramite procura notarile della madre.

L'avvocatura generale dello Stato ha proposto ricorso per cassazione nell'interesse di entrambi i ministeri, deducendo un unico motivo.

L'intimato non ha svolto difese.

La causa è stata rimessa in pubblica udienza con ordinanza interlocutoria n. 5081 del 2020, in relazione all'ambito applicativo dell'art. 29 T.U. IMM., nella parte relativa ai minori che, ai fini del ricongiungimento, possono essere equiparati ai figli (adottati, affidati e sottoposti a tutela).

Motivi della decisione

I. - Con l'unico mezzo l'avvocatura denunzia la violazione o falsa applicazione della L. n. 184 del 1983, art. 9 e art. 29 del T.U. IMM. perchè la norma da ultimo citata, nell'indicare i familiari di cui è ammesso il ricongiungimento, non farebbe alcun riferimento ai fratelli, che sono in base all'ordinamento italiano parenti di secondo grado, e non potrebbe essere interpretata estensivamente.

Il ricorso è fondato, sebbene nel senso e nei limiti che seguono.

II. - La corte d'appello di Genova ha confermato la decisione di primo grado sulla base di due considerazioni: (i) perchè l'art. 29 T.U. IMM., elenca i minori che possono equiparasi ai figli - ovvero gli adottati, gli affidati e i sottoposti a tutela e (ii) perchè nel caso concreto il fratello minore del richiedente era stato a lui affidato dalla madre in base a dichiarazione giurata vidimata da un notaio del luogo.

Anche se, con certo qual grado di contraddizione, la medesima corte ha pure sottolineato che le amministrazioni appellanti non avevano provato che il minore fosse fratello del richiedente, è pacifico, stante il tenore complessivo del provvedimento, che la decisione è stata resa sullo specifico presupposto che il minore è il fratello del richiedente, a lui affidato dalla madre. Occorre aggiungere del resto che, a riguardo del rapporto parentale e dell'avvenuto affidamento con la ridetta modalità, la decisione non è stata censurata.

III. - Il giudice a quo ha soggiunto che l'affidamento parentale è in Italia libero (per i primi sei mesi), ai sensi della L. n. 184 del 1983, art. 9, cosicchè le modalità adottate per l'affido, nel caso in esame, non avrebbero potuto esser ritenute in contrasto con l'ordinamento nazionale.

In tal guisa ha ritenuto non pertinenti i riferimenti delle amministrazioni ai precedenti di questa Corte in ordine all'istituto della "kafalah", poichè nella specie la madre aveva direttamente e semplicemente affidato il minore al fratello maggiore senza spogliarsi della potestà genitoriale.

IV. - In una simile motivazione - che identifica la ratio decidendi - si annidano errori di diritto, poichè invece proprio dalla giurisprudenza formatasi, nel tempo, con riguardo alla "kafalah" (istituto di diritto islamico teso a garantire protezione e assistenza ai minori che versino in condizioni di abbandono o privazione di mezzi, stante il divieto coranico dell'adozione) la corte d'appello avrebbe dovuto trarre i principi rilevanti ai fini di causa.

A questo proposito è opportuno ricostruire, benchè sommariamente, il quadro normativo e giurisprudenziale in materia.

L'art. 29 del T.U. Imm. dispone che lo straniero può chiedere il ricongiungimento per i seguenti familiari: "a) coniuge non legalmente separato e di età non inferiore ai diciotto anni; b) figli minori, anche del coniuge o nati fuori del matrimonio, non coniugati, a condizione che l'altro genitore, qualora esistente, abbia dato il suo consenso; c) figli maggiorenni a carico, qualora per ragioni oggettive non possano provvedere alle proprie indispensabili esigenze di vita in ragione del loro stato di salute che comporti invalidità totale; d) genitori a carico, qualora non abbiano altri figli nel Paese di origine o di provenienza, ovvero genitori ultrasessantacinquenni, qualora gli altri figli siano impossibilitati al loro sostentamento per documentati, gravi motivi di salute 2". Dopodichè la norma al comma 2 chiarisce che "i minori adottati o affidati o sottoposti a tutela sono equiparati ai figli".

il punto attiene al significato da attribuire all'espressione "affidati".

V. - Quanto alla "kafalah" un orientamento assume che l'art. 29 citato non potrebbe essere interpretato estensivamente, neppure ai sensi dell'art. 28, comma 2, del medesimo D.Lgs., il quale, nel consentire l'applicazione delle norme più favorevoli, si riferisce esclusivamente a quelle che disciplinano le modalità del ricongiungimento (Cass. n. 4868-10).

Su questo orientamento fa leva l'avvocatura ricorrente.

Tuttavia l'orientamento citato è stato nella medesima prospettiva in parte contraddetto dalle Sezioni unite di questa Corte, che ex art. 363 c.p.c., hanno affermato il principio per cui "non può essere rifiutato il nulla osta all'ingresso nel territorio nazionale, per ricongiungimento familiare, richiesto nell'interesse di minore cittadino extracomunitario, affidato a cittadino italiano residente in Italia con provvedimento di "kafalah" pronunciato dal giudice straniero, nel caso in cui il minore stesso sia a carico o conviva nel paese di provenienza con il cittadino italiano, ovvero gravi motivi di salute impongano che debba essere da questi personalmente assistito" (Cass. Sez. U n. 21108-13).

Nella motivazione è stato precisato (in linea ben vero con quanto già indicato da Cass. n. 7472-08) che in ogni situazione nella quale venga in rilievo l'interesse del minore deve esserne assicurata la prevalenza sugli eventuali interessi confliggenti principio, codesto, espressamente affermato nell'art. 3 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 24 novembre 1989 ("In tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l'interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente") e ribadito con l'art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea del 7 dicembre 2000, adottata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo (che, ai sensi dell'art. 6 del trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1 dicembre 2009, ha lo stesso valore giuridico dei Trattati).

In sostanza, "in tutti gli atti relativi ai bambini, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l'interesse superiore del bambino deve essere considerato preminente"; e tanto è desumibile anche dall'art. 2 (applicabile anche agli stranieri maggiorenni o minori: v. C. Cost. n. 199-86, C. Cost. n. 203-97, C. Cost. n. 376-00) e art. 30 Cost..

VI. - Ora, come hanno chiarito le Sezioni unite, tale principio deve trovare applicazione anche in materia di disciplina interna dell'immigrazione - il che è d'altronde previsto dall'art. 28, comma 3, T.U. Imm., secondo il quale "in tutti i procedimenti amministrativi e giurisdizionali finalizzati a dare attuazione al diritto all'unità familiare e riguardanti i minori, deve essere preso in considerazione con carattere di priorità il superiore interesse del fanciullo, conformemente a quanto previsto dall'art. 3 della Convenzione sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva ai sensi della L. 27 maggio 1991, n. 176".

A questo orientamento il collegio intende dare continuità.

Deve essere anche precisato che, in relazione alla "kafalah" pubblicistica (situazione pur diversa da quella in esame, che si basa su un affidamento diretto e privatistico dalla madre del minore al fratello), il corredo argomentativo della sentenza delle Sezioni unite si incentra sulla ammissibilità dell'interpretazione estensiva (sebbene ovviamente non di quella analogica) dell'art. 29 del T.U. Imm., in ciò chiaramente smentendo la diversa odierna tesi dell'avvocatura dello Stato.

Dopo aver ricordato che nell'interpretazione delle norme primarie il giudice deve preferire quella conforme a Costituzione, la richiamata sentenza ha ribadito che la definizione normativa dei familiari stranieri per i quali il cittadino italiano residente in Italia può chiedere il ricongiungimento "non consente l'applicazione analogica a casi non previsti" (Cass. n. 25661-10), ma consente, in mancanza di regole di ermeneutica di diverso segno, l'interpretazione estensiva, specialmente quando sia l'unica costituzionalmente orientata e conforme ai principi affermati nelle norme sovranazionali, pattizie o provenienti da fonti dell'Unione Europea.

In tal modo la sentenza ha esplicitamente richiamato - e quindi per tale via confermato - quanto specificamente stabilito da Cass. n. 7472-08, secondo la quale tra gli istituti della "kafalah" di diritto islamico, "quando questa non abbia natura esclusivamente negoziale", e dell'affidamento nazionale di un minore prevalgono i punti in comune sulle differenze; cosicchè il primo istituto, il quale costituisce l'unico di protezione previsto dagli ordinamenti islamici nei confronti dei minori orfani, illegittimi o abbandonati, può fungere da presupposto per il ricongiungimento familiare e dare titolo allo stesso, ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 29, comma 2 (cd. T.U. Imm.).

VII. - L'indirizzo risalente alla citata pronuncia delle Sezioni unite ha lasciato aperta la questione relativa al limite dell'interpretazione estensiva, determinato dall'inciso "quando questa (la "kafalah") non abbia natura esclusivamente negoziale".

Devesi cioè stabilire se il confine dell'interpretazione estensiva debba porsi in rapporto ai soli istituti pubblicistici (come la "kafalah" tradizionale), ovvero possa determinarsi anche oltre tali istituti, col fine di dare tutela a situazioni nelle quali l'interesse del minore al ricongiungimento sia stato tradotto in atti di affidamento puro e semplice a uno dei familiari maggiorenni.

Questo è l'aspetto che rileva nel presente giudizio. E tale aspetto la corte territoriale ha completamente trascurato, erroneamente affermando la non pertinenza dei riferimenti alla "kafalah"; mentre invece essi ben afferivano, sebbene nell'ottica dell'interpretazione estensiva (in base ai principi giurisprudenziali appena richiamati) e del suo eventuale limite.

VIII. - Sennonchè pure la "kafalah" convenzionale, prevista in alcuni ordinamenti giuridici che si ispirano all'insegnamento del Corano, è stata considerata rilevante dalla successiva giurisprudenza di questa Corte, con la condivisibile avvertenza che si tratta di un istituto di protezione familiare inteso a far godere al minore maggiori opportunità di crescita e migliori condizioni di vita, salvaguardando il rapporto con i genitori.

Tale istituto prescinde dallo stato di abbandono del minore, ma si realizza mediante un negozio stipulato tra la famiglia di origine e quella di accoglienza, donde per tale via presenta caratteri comuni con l'affidamento previsto dall'ordinamento nazionale. E solo in quanto finalizzato a realizzare l'interesse superiore del minore esso non contrasta con i principi dell'ordine pubblico italiano e neppure con quelli della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, che pure opera espressamente, all'art. 20, comma 3, il riconoscimento quale istituto di protezione del minore della sola "kafalah" giudiziale - la quale, diversamente da quella convenzionale, presuppone invece la situazione di abbandono o comunque di grave disagio del minore nel suo ambiente familiare (v. Cass. n. 1843-15).

In tale prospettiva la valutazione circa la possibilità di consentire al minore l'ingresso in Italia e il ricongiungimento con l'affidatario non può essere esclusa, quindi, in considerazione della natura e della finalità dell'istituto della "kafalah" negoziale, ma pur sempre deve essere effettuata caso per caso in considerazione del superiore interesse del minore.

IX. - Simili criteri di giudizio vanno in questa sede confermati, come in qualche modo sostenuto anche dal procuratore generale in udienza.

Solo che, parametrata a essi, l'impugnata sentenza è deficitaria.

Lo è innanzi tutto nella parte in cui ha omesso di svolgere l'accertamento richiesto sulla natura e sulle finalità dell'istituto prescelto dalle parti (appartenenti alla stessa famiglia) e sulla corrispondenza di esso alle norme di diritto interno dello Stato di provenienza.

Lo è poi nella motivazione assunta, poichè è stato affermato a premessa che non alla "kafalah" le parti avevano fatto riferimento (per quanto nel correttivo negoziale), sebbene a un atto di affidamento mero (avente forma "notarile") del minore dalla madre al fratello maggiore; atto che tuttavia neppure è stato qualificato sul piano giuridico.

Lo è infine nella ragione di conferma della decisione di prime cure, motivata con l'apodittica affermazione che un simile atto non sarebbe contrastante con la legislazione nazionale italiana. Quando invece, ferme essendo le analogie riscontrabili con il citato istituto di diritto islamico apoditticamente escluso, la corte d'appello avrebbe dovuto accertare prioritariamente (i) quale fosse la effettiva ragione pratico-giuridica di esso (giacchè un atto consimile è potenzialmente utilizzabile anche a fine elusivo delle norme del Paese ospitante); (ii) se e in qual senso, in base alle norme di diritto interno dello Stato di provenienza, il ricorso a un istituto del genere fosse da considerare ammesso e (iii) se e in qual senso, a fronte della concreta situazione personale e familiare, esso fosse coerente con i superiori interessi del minore. Cosicchè solo dopo l'espletamento di tale doverosa indagine si sarebbe potuto giungere a un concreto giudizio di non contrarietà all'ordinamento interno.

X. - L'impugnata sentenza va dunque cassata.

Segue il rinvio alla medesima corte d'appello, la quale, in diversa composizione, rinnoverà l'esame uniformandosi ai principi esposti.

Essa provvederà anche sulle spese del giudizio svoltosi in questa sede di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa l'impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla corte d'appello di Genova.

Dispone che, in caso di diffusione della presente sentenza, siano omesse le generalità e gli altri dati significativi.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 14 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2020

 

 

 






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In caso di scioglimento della comunione ereditaria, il coerede ha diritto ad ottenere il rimborso dell'intera somma spesa per apportare migliorie al bene comune.

In caso di scioglimento della comunione ereditaria, il coerede ha diritto ad ottenere il rimborso dell'intera somma spesa per apportare migliorie al bene comune, e non una semplice indennità pari all'accresciuto valore della cosa. In particolare, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 3050/2020, ha ribadito il principio di diritto vigente in materia per cui"Il coerede che sul bene comune da lui posseduto abbia eseguito delle migliorie può pretendere, in sede di divisione, non già l'applicazione dell'art. 1150 del c.c., secondo cui è dovuta un'indennità pari all'aumento di valore della cosa in conseguenza dei miglioramenti, ma, quale mandatario o utile gestore degli altri eredi partecipanti alla comunione ereditaria, il rimborso delle spese sostenute per la cosa comune, esclusa la rivalutazione monetaria, trattandosi di debito di valuta e non di debito di valore”.

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Abbandono del domicilio familiare da parte di uni dei coniugi e conseguente addebito della separazione personale.

Il volontario abbandono del domicilio familiare da parte di uni dei coniugi, costituendo violazione del dovere di convivenza, è di per sé sufficiente a giustificare l'addebito della separazione personale, a meno che non risulti provato che esso è stato determinato dal comportamento dell'altro coniuge o sia intervenuto in un momento in cui la prosecuzione della convivenza era già divenuta intollerabile.

(Cass. Civ., Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 648 del 15/1/2020)

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Una semplice voltura castale è idonea a configurare un’accettazione tacita dell’eredità.

Con l’ordinanza n. 1438/2020, la Corte di Cassazione, in tema di accettazione tacita di eredità, ha chiarito che, mentre gli atti di natura meramente fiscale, quale una denuncia di successione, sono inidonei a configurare un’accettazione tacita dell’eredità, tale accettazione può essere desunta dal compimento di atti che siano allo stesso tempo fiscali e civili. 

Una voltura castale, eseguita dal chiamato all’eredità sui beni immobili del de cuius, è idonea pertanto a configurare un’accettazione tacita dell’eredità.

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Tribunale di Roma: inammissibile il sequestro nel giudizio per divorzio se il richiedente ha un titolo esecutivo e ha già pignorato

Con provvedimento del 09.12.2020, la Prima Sezione Civile del Tribunale di Roma ha ritenuto inammissibile la richiesta di sequestro conservativo e quella di sequestro di quote societarie avanzate dalla ricorrente nei confronti del marito.   

           
Nel motivare il rigetto, il Giudice ha evidenziato che il sequestro conservativo era inammissibile perché la richiedente disponeva già di un titolo esecutivo da far valere contro il resistente. 
           
Inoltre, risultava inammissibile anche la richiesta di sequestro di quote societarie poiché la ricorrente aveva già proceduto a  vincolarle tramite pignoramento eseguito in forza del predetto titolo esecutivo.

Pertanto, il Tribunale non ha rinvenuto alcun rischio che il convenuto dismettesse il proprio patrimonio, al contrario di quanto sostenuto da parte attrice. Quest’ultima, infatti, riteneva dimostrato tale intento nel fatto che  il coniuge avesse trasferito alcune quote da una società ad un’altra.

Sul punto, il Giudice ha comunque ritenuto necessari “maggiori approfondimenti sulla reale capacità economica del resistente, in ragione delle partecipazioni societarie, sia quanto alla T*** srl (società in relazionale alla quale è necessario verificare la potenziale redditività ed il valore della quota) che quanto alle T*** M*** srl (società della quale il resistente è titolare di quota pari all’1,5% dell’intero, ma di cui risulta amministratore, occupandosi peraltro, pur a fronte dell’esiguità della quota, di trovare nuovi soci, come da sue stesse dichiarazioni, ed assumendo garanzia ipotecaria per un finanziamento sociale, circostanze tutte che necessitano di approfondimento in ordine all’effettiva posizione del sig. P. all’interno della citata società); peraltro deve darsi conto della circostanza che, a fronte della cessione di quote della T*** srl alla T*** M*** s.r.l, il resistente ha ricevuto la somma di euro 125.000,00, che la parte dichiara di aver versato alla predetta T*** M*** srl, per l’aumento di capitale sottoscritto, segno questo (unitamente alla circostanza che la parte stia continuando a versare gli importi dovuti per il mantenimento dei figli, salvi i dedotti pregressi inadempimenti) di capacità economica.”

 

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Nei giudizi di modifica delle condizioni di separazione o divorzio la domanda in corso di causa può essere proposta solo nel rispetto del contraddittorio.

Nei giudizi aventi ad oggetto le modifiche alle statuizioni consequenziali alla separazione personale e al divorzio, possono essere proposte domande in corso di causa ove siano giustificate da sopravvenienze fattuali ma nel rispetto del principio del contraddittorio, sicché risulta inammissibile la richiesta di un contributo per il mantenimento del figlio introdotta soltanto nelle note conclusive del giudizio di appello.

(Cass. Civ., Sez. 1, Ordinanza n. 19020 del 14/09/2020)

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Ripetizione dell'indebito per il genitore che ha versato il mantenimento alla prole già economicamente indipendente.

La Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 3659/2020, ha sancito la sussistenza di un diritto alla ripetizione delle somme versate a titolo di mantenimento, in capo all’ex coniuge che abbia continuato ad adempiere a tale obbligo anche dopo il raggiungimento dell’autosufficienza economica da parte delle figlie maggiorenni.

Per la Cassazione, le somme versate dal genitore obbligato all’ex coniuge sono irripetibili soltanto qualora le stesse abbiano concretamente svolto una funzione alimentare, la quale, però, non sussiste nel caso in cui ne abbiano tratto vantaggio dei figli maggiorenni ed economicamente indipendenti.

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Non è configurabile il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare se il coniuge si attiene agli impegni assunti con l'ex coniuge tramite un accordo transattivo anche se non omologato dal giudice.

Se gli ex coniugi hanno stipulato un accordo transattivo in merito all'assegno di mantenimento, esso è valido, se non contiene clausole lesive degli interessi dei beneficiari del mantenimento, anche se non omologato dal giudice. La parte che vi si attenga, pertanto, non commette alcun reato. La Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 5236/2020, si è pronunciata in merito alla configurabilità del reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare, di cui all’art. 570 bis del c.p., in capo al coniuge che non abbia versato all’altro l’importo previsto dal giudice a titolo di mantenimento, nel caso in cui sia stato stipulato un accordo transattivo modificativo di tale importo, il quale, però, non sia stato omologato dal giudice.

La Suprema Corte, infatti, ha affermato il principio di diritto per cui “Non è configurabile il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare nel caso di separazione o di scioglimento del matrimonio ex art. 570 bis del c.p. qualora l'agente si sia attenuto agli impegni assunti con l'ex coniuge tramite un accordo transattivo, non omologato dall'autorità giudiziaria, modificativo delle statuizioni sui rapporti patrimoniali contenute in un precedente provvedimento giudiziario”.

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La regolarità edilizia del fabbricato è condizione necessaria per lo scioglimento della comunione attraverso la divisione.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 2675/2020, si è pronunciata in merito alla divisibilità giudiziale della comunione su un immobile in relazione al quale sia stata riscontrata un’irregolarità urbanistica. Secondo gli Ermellini, la regolarità edilizia del fabbricato costituisce condizione necessaria per lo scioglimento della comunione attraverso la divisione. Hanno affermato pertanto il seguente principio di diritto: Quando sia proposta domanda di scioglimento di una comunione, il giudice non può disporre la divisione che abbia ad oggetto un fabbricato abusivo o parti di esso, in assenza della dichiarazione circa gli estremi della concessione edilizia e degli atti ad essa equipollenti, come richiesti dall'art. 40, comma 2, I. 47/1985, costituendo la regolarità edilizia del fabbricato condizione dell'azione di divisione sotto il profilo della possibilità giuridica, e non potendo la pronuncia del giudice realizzare un effetto maggiore e diverso rispetto a quello che è consentito alle parti nell'ambito della loro autonomia negoziale, sicché la mancanza della documentazione attestante la regolarità edilizia dell'edificio e il mancato esame di essa da parte del giudice sono rilevabili d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio”.

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Quantificazione del contributo dovuto dal genitore per il mantenimento dei figli economicamente non autosufficienti.

Nel giudizio di divorzio, al fine di quantificare l'ammontare del contributo dovuto dal genitore per il mantenimento dei figli economicamente non autosufficienti, deve osservarsi il principio di proporzionalità, che richiede una valutazione comparata dei redditi di entrambi i genitori, oltre alla considerazione delle esigenze attuali del figlio e del tenore di vita da lui goduto.

(Cass. Civ., Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 19299 del 16/09/2020)

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Tribunale di Roma: se la causa del danno resta incerta, la prova della responsabilità medica contrattuale è in capo al paziente

Con la Sentenza n. 17156 del 1.12.2020 la XIII Sezione Civile del Tribunale di Roma ha rigettato una richiesta risarcitoria per responsabilità medica di natura contrattuale, avanzata da una donna avverso la struttura ospedaliera ove era stata sottoposta a un intervento di tiroidectomia cui aveva fatto seguito un’importante ipocalcemia.

La CTU aveva ritenuto provato il nesso causale tra intervento e conseguenze lamentate ma non era stata in grado di motivare la loro inspiegabile gravità, oltretutto riconoscendo che la prestazione era stata correttamente ponderata ed eseguita dall’equipe medica.     
Pertanto, pur richiedendo la convocazione dei Periti di Ufficio per chiarimenti, parte attrice sosteneva che comunque – la responsabilità della Struttura Sanitaria permanesse anche qualora la causa del danno lamentato fosse rimasta incerta, gravando quindi sulla convenuta l’onere della prova del fatto escludente l’evento pregiudizievole.

Il Giudice ha rigettato tale interpretazione delle regole sull’onere delle prova, ritenendo piuttosto di doversi uniformare all’orientamento di Cassazione per cui: “in tal caso il deficit probatorio grave [sic] sull’attore: «nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere del paziente dimostrare l'esistenza del nesso causale, provando che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del "più probabile che non", causa del danno, sicché, ove la stessa sia rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata» (Cassazione sez. III n. 3704 del 15/02/2018 m. 647948 - 01)”.

Pertanto, l’adito Giudicante ha ritenuto che: “L’ipocalcemia ingravescente è da considerarsi un evento naturale eccezionalmente innescatosi in seguito all’intervento di tiroidectomia, senza che sia rimasto – ad avviso del decidente – del tutto estranea l’esecuzione dei tre cicli radiometabolici tra i cui effetti collaterali - esplicitati nel consenso informato reso per il secondo ciclo di terapia presso l’Ospedale di Cagliari – vi è l’indicazione che la terapia in questione «ha lo scopo di distruggere i residui di tessuto tiroideo dopo l’intervento chirurgico», dilatando gli effetti negativi della patologia di cui si discute.”

La pronuncia, decisamente articolata e ricca di rimandi giurisprudenziali, offre spunti interessanti anche su ulteriori questioni di malpractice sanitaria, come il valore giuridico della complicanza prevedibile e non prevenibile.

Trib. Roma, sez. XIII civ. 1.12.2020, n. 17156 (testo completo)


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Modificabilità dell'assegno di mantenimento anche in pendenza di divorzio.

Secondo la Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione (sentenza n. 7547/2020), l’importo del mantenimento può essere modificato anche in pendenza del giudizio di divorzio se il giudice non ha adottato provvedimenti temporanei ed urgenti.

In particolare, "...il giudice della separazione è investito della potestas iudicandi sulla domanda di attribuzione o modifica del contributo di mantenimento per il coniuge e i figli anche quando sia pendente il giudizio di divorzio, a meno che il giudice del divorzio non abbia adottato provvedimenti temporanei ed urgenti nella fase presidenziale o istruttoria, i quali sono destinati a sovrapporsi a (e ad assorbire) quelli adottati in sede di separazione solo dal momento in cui sono adottati o ne è disposta la decorrenza”.

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Il marito accusa falsamente la moglie dalla quale è separato di intrattenere una relazione con un altro uomo: è diffamazione aggravata.

La Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 13564/2020, si è pronunciata in merito alla configurabilità dei reati di calunnia e di diffamazione aggravata, di cui, rispettivamente, agli articoli 368 e 595, comma 3, del c.p., in capo al marito che abbia accusato la moglie di infedeltà, pur essendo consapevole della falsità di tale accusa.

Secondo la Cassazione, sussiste il delitto di calunnia ogni volta che le accuse sono state prospettate in termini volutamente diversi da quanto accaduto realmente e, dunque, non spiegabili soggettivamente sulla base di diversi apprezzamenti della realtà. Sussiste altresì il delitto di diffamazione aggravata in ragione dell’ingiustificato addebito mosso alla persona offesa sulla base di una sviata rappresentazione della vicenda di intrattenere una relazione extraconiugale con un altro uomo. Tale elemento è infatti intrinsecamente idoneo a ledere la reputazione di cui gode la persona offesa presso la propria comunità di riferimento, oltre che la sua dignità personale, in relazione al complesso dei propri valori e delle proprie qualità.


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In sede di reclamo avverso l’ordinanza presidenziale, la Corte d'Appello non deve statuire sulle spese.

In tema di separazione dei coniugi, la Corte d’Appello adita in sede di reclamo avverso l’ordinanza presidenziale, ai sensi dell’art. 708 c.p.c., non deve statuire sulle spese del procedimento, poiché, trattandosi di provvedimento adottato in pendenza della lite, resta riservato al Tribunale provvedere sulle spese nella sentenza emessa a conclusione del giudizio anche per la fase di reclamo.

(Cassazione civile, sez. I, 30 Aprile 2020, n. 8432. Pres. Giancola. Est. Mercolino)

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Colpevole del reato di stalking chi assilla la propria ex utilizzando il pretesto di chiederle di vedere il figlio.

La Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 10904/2020, si è pronunciata in merito alla configurabilità del delitto di atti persecutori (stalking), di cui all’art. 612 bis del c.p., in capo a colui che perseguiti la propria ex ricorrendo alla scusa di voler esercitare il proprio ruolo di padre.

Secondo la Suprema Corte le condotte vessatorie dirette esclusivamente contro la ex convivente escludono che le chiamate, le minacce e i pedinamenti possano ritenersi finalizzati ad incontrare o ad avere notizie dei figli, così da non potersi configurare la scriminante ex art 51 c.p.

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Infedeltà del coniuge: presupposti per il risarcimento del danno da illecito endofamiliare.

La Corte di Cassazione, con l'ordinanza n. 26383 del 19 novembre 2020, indica i presupposti in presenza dei quali l'infedeltà del coniuge può giustificare il risarcimento dei danni morali in favore dell'altro coniuge a prescindere da una pronuncia di addebito.

E' necessario, secondo la Corte, che la condizione di afflizione indotta nel coniuge superi la soglia della tollerabilità e si traduca, per le sue modalità o per la gravità dello sconvolgimento che provoca, nella violazione di un diritto costituzionalmente protetto, quale quello della salute o all'onore o alla dignità personale.

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Separazione consensuale a mezzo negoziazione assistita con trasferimento immobiliare: necessaria l’autenticazione del verbale da parte del Notaio.

Con la sentenza n° 1202/2020 la Suprema Corte di Cassazione ha sancito che, ove i coniugi, in sede di negoziazione assistita, raggiungano un accordo di separazione consensuale ex art. 6 del D.L. 132/2014 convertito dalla L. 162/2014, comprendente il trasferimento di diritti immobiliari, la trascrizione di tale accordo richiede l’autenticazione del relativo verbale da parte di Pubblico Ufficiale a ciò autorizzato, ai sensi dell’art. 5 comma 3 D.L. 132/2014.

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Accesso ai documenti fiscali dell’ex coniuge: consentito anche a prescindere dalla pendenza di un giudizio di separazione o divorzio.

Alla luce della recente sentenza del Consiglio di Stato a.p. 25/09/2020 n. 19, l’istituto dell’accesso difensivo di cui alla Legge n.241/1990 può essere esercitato, mediante estrazione di copia, indipendentemente dalla previsione e dall’esercizio dei poteri processuali di esibizione istruttoria di documenti amministrativi e di richiesta di informazioni alla pubblica amministrazione nel processo civile ai sensi degli artt. 210, 211 e 213 cod. proc. civ.

La recente pronuncia ha riconosciuto in capo al coniuge richiedente un diritto prevalente rispetto alla segretezza della documentazione fiscale. Tuttavia ciò è possibile solo quando il richiedente dimostra che l’accesso alla documentazione fiscale è necessaria a difendere un interesse giuridicamente rilevante, come può essere, a titolo esemplificativo, la tutela dei figli. E' dunque possibile accedere ai documenti fiscali, reddituali e patrimoniali detenuti dall’Agenzia delle Entrate e relativi alla altro coniuge (o ex coniuge).


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I genitori devono impartire un’educazione idonea a scongiurare danni ai terzi.

La Corte d’Appello di Bari si è pronunciata sulla portata degli obblighi educativi incombenti sui genitori e su ciò che questi sono chiamati a dimostrare onde superare la presunzione di culpa in vigilando et educando allorché il proprio figlio, nell’ambito dei rapporti con l’ambiente extrafamiliare, abbia recato danni a terzi.

Così, con sentenza del 19 ottobre 2020, n. 1754, ha stabilito che i genitori hanno l’onere di impartire ai figli un’educazione sufficiente a scongiurare il pericolo che questi cagionino danni ai terzi e che, a tal fine, pur non essendo necessario provare una costante ed ininterrotta presenza fisica, occorre comunque dare prova di aver adeguatamente impostato i rapporti del minore con l’ambiente extrafamiliare.

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Danni da infiltrazioni: responsabilità oggettiva del condominio sulle parti comuni fino a prova del caso fortuito.

Vi è una responsabilità oggettiva del custode, nel caso di specie del condominio, rispetto alle parti comuni dell'edificio. All'attore è sufficiente dimostrare il nesso eziologico fra la cosa in custodia e il danno, di converso, è onere del custode fornire la prova del caso fortuito. La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 25018 pubblicata il 9 novembre 2020, ha stabilito che in tema di responsabilità da cosa in custodia, ex art. 2051 c.c., trattandosi di un criterio di imputazione oggettivo della responsabilità, sarà l'attore/danneggiato a dover dimostrare il nesso eziologico tra la cosa in custodia ed il danno, mentre, sul custode graverà l'onere della prova liberatoria.

(Cass. civ. Sez. II Ord., 09/11/2020, n. 25018)

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Determinazione della rendita per infortunio sul lavoro a favore dei familiari superstiti.

Con ordinanza n. 18658 dell'8 settembre 2020, la Corte di Cassazione ha stabilito che il diritto alla rendita per infortunio sul lavoro in favore dei familiari superstiti, ex art. 85, D.P.R. n. 1124 del 1965, presuppone, ai sensi del successivo art. 106, la cosiddetta "vivenza a carico", la quale sussiste ove i predetti si trovino senza sufficienti mezzi di sussistenza autonoma ed al loro mantenimento abbia concorso in modo efficiente il lavoratore defunto, dovendosi a tal fine considerare anche il reddito del coniuge dell'ascendente che domanda la prestazione previdenziale, giacché, anche ove non sia operante il regime di comunione legale, comunque sussiste l'obbligo di assistenza materiale tra coniugi posto dall'art. 143 c.c. e quello di assistenza per i figli di cui al successivo art. 147 c.c., senza che possa procedersi ad una valutazione distinta della posizione di ciascuno dei superstiti, indipendentemente dalla sussistenza di contributi o aiuti familiari. 

(Cass. civ., Sez. lavoro, Ord., 8.9.2020, n. 18658)

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Periodo di conservazione dei dati personali dell'interessato.

La Corte di Giustizia dell'Unione Europea (Sentenza del 6 Ottobre 2020, C-623/17) si è pronunciata in merito al rapporto tra le esigenze di sicurezza nazionale e il periodo di conservazione dei dati. La sentenza ha riconosciuto che gli operatori di comunicazione elettronica non possono conservare i dati di traffico indiscriminatamente per esigenze di sicurezza. Infatti, in caso di minaccia alla sicurezza nazionale, è necessario tenere sempre in considerazione i principi in materia di data protection. Ad ogni modo, la Corte ha riconosciuto che una grave minaccia può legittimare la conservazione generalizzata dei dati. Tuttavia, queste misure invasive possono essere implementate solo per un periodo di tempo strettamente necessario e attraverso la previsione di alcune garanzie essenziali. Gli Stati membri possono prevedere misure restrittive che limitino l'esercizio dei diritti ma sempre in modo conforme al principio di proporzionalità. Pertanto, le limitazioni previste devono essere necessarie, appropriate e proporzionali nel contesto di una società democratica.

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Violazione della privacy e risarcimento del danno.

Il danno non patrimoniale risarcibile ai sensi dell'art. 15 del d.lgs. n. 196 del 2003 (codice della privacy), pur determinato da una lesione del diritto fondamentale alla protezione dei dati personali tutelato dagli artt. 2 e 21 Cost. e dall'art. 8 della CEDU, non si sottrae alla verifica della "gravità della lesione" e della "serietà del danno", in quanto anche per tale diritto opera il bilanciamento con il principio di solidarietà ex art. 2 Cost., di cui quello di tolleranza della lesione minima è intrinseco precipitato, sicché determina una lesione ingiustificabile del diritto non la mera violazione delle prescrizioni poste dall'art. 11 del codice della privacy, ma solo quella che ne offenda in modo sensibile la sua portata effettiva, restando comunque il relativo accertamento di fatto rimesso al giudice di merito.

(Cass. civ. Sez. VI - 1 Ord., 20/08/2020, n. 17383 (rv. 658718-01)).

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No alla diffusione dei dati sulla salute che rendano anche indirettamente identificabili le persone.

Il Garante per la protezione dei dati personali ha ribadito che non si possono diffondere dati sulla salute che rendano anche indirettamente identificabili le persone. Con il Provvedimento n. 155/2020 (Newsletter 468/2020) il Garante ha dato ragione al Responsabile per la prevenzione della corruzione e della trasparenza della Regione Autonoma Valle d'Aosta, che aveva parzialmente negato l'accesso a particolari dati concernenti la distribuzione dei casi di Covid-19 registrati nella Regione ad un giornalista che ne aveva fatto richiesta. Il Garante ha ritenuto corretto l'operato della Regione poiché la generale conoscenza del complesso delle informazioni richieste poteva infatti consentire, in ragione dello scarso numero degli abitanti che caratterizza molti Comuni valdostani, di identificare i soggetti colpiti dal virus. Il Garante ha peraltro ricordato che, qualora l'istanza riguardi dati personali relativi alla salute, l'accesso civico deve essere escluso, così come previsto dalla normativa in materia di trasparenza e come confermato anche dalle Linee guida dell'Anac in materia di accesso civico.

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Requisiti aggiuntivi di accreditamento degli organismi di certificazione.

Il provvedimento del Garante n. 148/2020 ha definito i criteri aggiuntivi per l'accreditamento degli organismi di certificazione esprimendo i principi che gli organismi devono prendere come punti di riferimento. Il primo è il requisito di onorabilità. Questo principio deve essere implementato soprattutto con riferimento ai "decision maker", ovvero il personale che decide sulle certificazioni. Inoltre, le risorse umane degli organismi devono avere un'adeguata formazione. Dunque, il personale dovrà essere qualificato e allo stesso tempo "dovrà dimostrare di mantenere aggiornate le conoscenze specifiche del settore". Altri due principi menzionati nel provvedimento sono l'indipendenza e l'imparzialità. Gli organismi di certificazione, infatti, devono fornire prova della propria indipendenza, soprattutto in riferimento al loro finanziamento. I loro compiti e funzioni non devono dare adito a un conflitto d'interessi. Oltre a ciò, gli organismi di certificazione dovranno conservare le informazioni riguardanti i prodotti, i processi e i servizi certificati in modo che siano disponibili sia al personale interno sia al pubblico.

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Ripartizione della pensione della reversibilità tra coniuge divorziato e coniuge superstite.

La ripartizione del trattamento di reversibilità tra coniuge divorziato e coniuge superstite, entrambi aventi i requisiti per la relativa pensione, va effettuata, oltre che sulla base del criterio della durata dei matrimoni, ponderando ulteriori elementi correlati alla finalità solidaristica dell’istituto, tra i quali la durata delle convivenze prematrimoniali – dovendosi riconoscere alla convivenza more uxorio non una semplice valenza “correttiva” dei risultati derivanti dall’applicazione del criterio della durata del rapporto matrimoniale, bensì un distinto ed autonomo rilievo giuridico, ove il coniuge interessato provi stabilità ed effettività della comunione di vita prematrimoniale – senza mai confondere, però, la durata della convivenza con quella del matrimonio, cui si riferisce il criterio legale, né individuare nell’entità dell’assegno divorzile un limite legale alla quota di pensione attribuibile all’ex coniuge, data la mancanza di qualsiasi indicazione normativa in tal senso.

(Cassazione civile, sez. VI-1, ordinanza 13 novembre 2020, n. 25656)

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Il Tribunale Ordinario autorizza il padre a far vaccinare i figli anche senza il consenso della madre

Con Decreto del 17.11.2020, pubblicato il 24.11.2020, la Prima Sezione Civile del Tribunale di Roma, decidendo un procedimento ex artt. 316 c. 4 e 337 bis cc tra un uomo e una donna ex conviventi, ha autorizzato il padre non collocatario a procedere alla vaccinazione obbligatoria dei figli minori della coppia, anche in disaccordo con la madre.

Il Tribunale risolveva preliminarmente questione di competenza sollevata dalla signora, la quale riteneva che la domanda di sottoposizione alla profilassi vaccinale obbligatoria dovesse essere proposta avanti il Tribunale per i Minorenni poiché comportante una limitazione della responsabilità genitoriale senza la previa pendenza di un procedimento per separazione o divorzio (le parti non erano coniugate).

Il Collegio ha così argomentato:               
Preliminarmente l’eccezione di difetto di competenza del Tribunale adito con riferimento alla questione della vaccinazione obbligatoria per i minori sollevata dalla ricorrente in sede di note di trattazione scritta deve essere rigettata.

La domanda formulata del presente giudizio [dal padre] ha ad oggetto la risoluzione di un conflitto tra i genitori con riferimento ad una questione di particolare rilevanza per il minore secondo quanto previsto dall’art. 337- ter comma 4. Il resistente non ha richiesto l’adozione di alcuna misura limitativa dell’esercizio della responsabilità genitoriale, non essendo stata neppure allegata la presenza di condotte paterne pregiudizievoli per i minori. In applicazione dell’art. 38 disp. att. c.c. competente per la domanda oggetto del presente giudizio è, pertanto, il Tribunale adito.”

In punto di decisione, così concludeva:
“Quanto alle vaccinazioni per i minori, per le quali la madre ha manifestato il proprio convincimento in senso negativo e la necessità di essere adeguatamente informata, senza nondimeno addurre valide ragioni ostative o allegare condizioni di salute incompatibili con la somministrazione, il Tribunale, rammentando l’obbligatorietà (anche ai fini della frequenza scolastica) delle vaccinazioni come previste dal calendario allegato al Piano Nazionale di prevenzione nazionale vigente per la fascia 0-16 anni e considerando che ben potranno essere soddisfatte eventuali richieste informative della madre da parte degli organi sanitari preposti in sede di somministrazione, ritiene che il padre debba essere autorizzato ad eseguire la profilassi vaccinale dei figli L. e S. normativamente prevista in via obbligatoria anche in assenza di consenso materno (in tal senso correttamente qualificandosi la di lui domanda tesa ad ottenere che in via urgente il Tribunale disponga che i minori siano sottoposti all’immediata somministrazione dei vaccini obbligatori).
[…]
P.Q.M.
Il Tribunale, pronunciando sul ricorso iscritto al n […]     
- Autorizza [il padre] a far eseguire le vaccinazioni normativamente previste come obbligatorie ai figli L. e S. anche in assenza del consenso materno”.


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Violazione della privacy e risarcimento del danno.

Il danno non patrimoniale risarcibile ai sensi dell'art. 15 del d.lgs. n. 196 del 2003 (codice della privacy), pur determinato da una lesione del diritto fondamentale alla protezione dei dati personali tutelato dagli artt. 2 e 21 Cost. e dall'art. 8 della CEDU, non si sottrae alla verifica della "gravità della lesione" e della "serietà del danno", in quanto anche per tale diritto opera il bilanciamento con il principio di solidarietà ex art. 2 Cost., di cui quello di tolleranza della lesione minima è intrinseco precipitato, sicché determina una lesione ingiustificabile del diritto non la mera violazione delle prescrizioni poste dall'art. 11 del codice della privacy, ma solo quella che ne offenda in modo sensibile la sua portata effettiva, restando comunque il relativo accertamento di fatto rimesso al giudice di merito.

(Cass. civ. Sez. VI - 1 Ord., 20/08/2020, n. 17383 (rv. 658718-01)

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Il concetto di capacità lavorativa.

Tra le evenienze che comportano il sorgere del diritto al mantenimento in capo al figlio maggiorenne non autosufficiente, si pongono: a) la condizione di una peculiare minorazione o debolezza delle capacità personali, pur non sfociate nei presupposti di una misura tipica di protezione degli incapaci; b) la prosecuzione di studi ultraliceali con diligenza, da cui si desuma l'esistenza di un iter volto alla realizzazione delle proprie aspirazioni ed attitudini, che sia ancora legittimamente in corso di svolgimento, in quanto vi si dimostrino effettivo impegno ed adeguati risultati, mediante la tempestività e l'adeguatezza dei voti conseguiti negli esami del corso intrapreso; c) l'essere trascorso un lasso di tempo ragionevolmente breve dalla conclusione degli studi, svolti dal figlio nell'ambito del ciclo di studi che il soggetto abbia reputato a sé idoneo, lasso in cui questi si sia razionalmente ed attivamente adoperato nella ricerca di un lavoro; d) la mancanza di un qualsiasi lavoro, pur dopo l'effettuazione di tutti i possibili tentativi di ricerca dello stesso, sia o no confacente alla propria specifica preparazione professionale.

(Cass. civile, Sez. I, 14 Agosto 2020, n. 17183)

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Violazione del dovere di coabitazione e abbandono della casa coniugale.

In seguito alla riformulazione dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del "minimo costituzionale" richiesto dall'art. 111 Cost., comma 6, individuabile nelle ipotesi - che si convertono in violazione dell'art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e danno luogo a nullità della sentenza - di "mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale", di "motivazione apparente", di "manifesta ed irriducibile contraddittorietà" e di "motivazione perplessa od incomprensibile", al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un "fatto storico", che abbia formato oggetto di discussione e che appaia "decisivo" ai fini di una diversa soluzione della controversia. (Nella specie, non vi è stato omesso esame di un fatto storico, avendo la Corte d'appello proceduto ad una propria valutazione delle risultanze istruttorie, ed in primis alla valutazione delle condizioni economico patrimoniale dei coniugi ed alla ritenuta inadeguatezza dei redditi della S. a mantenere il tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale (avendo avuto la Corte ben presente che la stessa si è protratta sino al 2004-2005, come si evince dalla pag. 4 della motivazione della decisione impugnata); con i motivi, si vuole sollecitare un nuovo esame delle risultanze fattuali accertate dal giudice di merito. Inoltre, il vizio di insufficiente motivazione non può essere più sindacato dal giudice di legittimità).

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L'obbligato al mantenimento deve provare che il beneficiario non autosufficiente ha rifiutato offerte lavorative.

Nei giudizi che hanno ad oggetto le statuizioni consequenziali alla separazione personale ed al divorzio, in applicazione del principio rebus sic stantibus possono essere proposte domande in corso di causa ove siano giustificate da sopravvenienze fattuali (ex multis Cass. 3925 del 2012) ma senza che possa alterarsi unilateralmente l'applicazione del principio del contraddittorio. Nella specie la parte ricorrente espressamente afferma di aver prospettato il diritto ad un contributo per il mantenimento del figlio maggiorenne, convivente e non autosufficiente, sopravvenuto in corso di causa, soltanto nelle note conclusive, per redigere le quali, secondo quanto emerge dalla lettura del provvedimento impugnato e dall'esame degli atti processuali, consentito in virtù del vizio denunciato, è stato dato un identico termine alle parti, così da escludere ogni possibilità d'interlocuzione alla controparte. Nè è stato dedotto od allegato che il contraddittorio sulla domanda nuova sia stato officiosamente attivato dal Collegio. Deve rinviarsi, in conclusione, all'orientamento, del tutto consolidato nella giurisprudenza di legittimità secondo il quale ove la domanda sulla quale si concentra il vizio di omessa pronuncia sia da ritenersi inammissibile od infondata, la Corte di cassazione non deve formalisticamente rilevare l'omissione ma evidenziare la correttezza, come nella specie, del provvedimento impugnato.

(Cass. civ. Sez. I Ord., 14/09/2020, n. 19020)

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La genitorialità intenzionale: dubbi sulla legittimità costituzionale della normativa italiana.

Con l’ordinanza n. 8325 del 2020, la Corte di Cassazione, sez. civ. I, ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 12, sesto comma, della legge n. 40 del 2004, 18 del d.p.r. n. 396 del 2000, 64, primo comma, lett. g, della legge n. 218 del 1995, se interpretati alla luce della sentenza delle Sezioni unite della Corte di Cassazione n. 12193 del 2019, «laddove si esclude, attraverso il limite dell’ordine pubblico, fissato in linea generale e astratta dal legislatore, la possibilità del riconoscimento ai fini dell’efficacia in Italia, di provvedimenti giurisdizionali stranieri che accertino il diritto di essere inserito - quale genitore d’intenzione - nell’atto di nascita del figlio della persona cui si è legati da matrimonio celebrato all’estero, nato con le modalità della gestazione per altri (c.d. “maternità surrogata”)»1 (p. 8-9).

In particolare, la legge 19 febbraio n. 40 del 2004, recante “Norme in materia di procreazione assistita”, riserva l’accesso alle tecniche di pma alle coppie eterosessuali coniugate o conviventi, affette da sterilità o infertilità, o portatrici di malattie genetiche trasmissibili, rispondenti ai criteri di gravità di cui all’art. 6, primo comma, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n. 1942, i cui componenti siano entrambi viventi e in età potenzialmente fertile. L’esclusione dei single e delle coppie omosessuali si giustifica, nell’ideologia originaria della legge n. 40, per l’esigenza di garantire al nascituro una famiglia così detta “tradizionale”. Tuttavia, nonostante i divieti italiani, le coppie e i single, provvisti dei mezzi economici necessari, possono ricorrere alla pma e alla gpa all’estero, nei paesi in cui tali pratiche sono lecite. Al ritorno in Italia si pone, però, il problema del riconoscimento degli atti di nascita che attestano la genitorialità anche del così detto genitore d’intenzione.

Il principale ostacolo al riconoscimento degli atti di nascita validamente formati all’estero (o dei provvedimenti giurisprudenziali stranieri) che attestano la genitorialità del così detto genitore intenzionale è rappresentato dal limite dell’ordine pubblico.

Una prima apertura nei confronti del riconoscimento in Italia degli atti di nascita di cui sopra è avvenuta con la sentenza della Corte di Cassazione, sez. I, n. 19599 del 2016. Secondo la Corte il riconoscimento e la trascrizione dell’atto di nascita in questione non contrastava con il principio dell’ordine pubblico, in quanto quest’ultimo deve essere inteso non, secondo un’accezione di ispirazione statualista, come ordine pubblico interno, ossia «come espressione di un limite riferibile all’ordinamento giuridico nazionale», bensì, in maniera più aderente agli artt. 10, 11 e 117, primo comma, Cost., come ordine pubblico internazionale, ossia «come complesso dei principi fondamentali caratterizzanti l’ordinamento interno in un determinato periodo storico, ma ispirati a esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo comuni ai diversi ordinamenti e collocati a un livello sovraordinato rispetto alla legislazione ordinaria». «In altri termini - osservava la Corte - i principi di ordine pubblico devono essere ricercati esclusivamente nei principi supremi e/o fondamentali della nostra Carta costituzionale, vale a dire in quelli che non potrebbero essere sovvertiti dal legislatore ordinario». Da ciò segue che il contrasto con l’ordine pubblico non è ravvisabile per il solo fatto che la norma straniera si ponga in contrasto con divieti interni, in quanto «il parametro di riferimento non è costituto (o non è costituito più) dalle norme con le quali il legislatore ordinario eserciti (o abbia esercitato) la propria discrezionalità in una determinata materia, ma esclusivamente dai principi fondamentali vincolanti per lo stesso legislatore ordinario» e, in particolare, dai «diritti fondamentali dell’uomo, desumibili dalla Carta costituzionale, dai Trattati fondativi e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nonché dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo». Tali principi sono stati poi ribaditi dalla Corte di Cassazione, sez. I, con la sentenza n. 14878 del 2017.

Eppure, nel 2019 la Corte di Cassazione, Sezioni unite, con la sentenza n. 12193 del 2019, nella quale si è affermata la contrarietà all’ordine pubblico del provvedimento giurisdizionale straniero con cui sia stato accertato il rapporto di filiazione tra minori, nati in paese straniero mediante ricorso alla maternità surrogata ivi lecita, e il genitore d’intenzione italiano, con conseguente impossibilità di riconoscimento e trascrizione. A giudizio delle Sezioni unite, infatti, il divieto di surrogazione di maternità, ex art. 12, sesto comma, della l. n. 40 del 2004, è qualificabile come principio di ordine pubblico, in quanto posto a tutela di valori fondamentali, quali la dignità umana della gestante e l’istituto della adozione. Secondo i Giudici il riconoscimento e la trascrizione degli atti di nascita formati a seguito di gpa si pongano in contrasto proprio con l’ordine pubblico internazionale, come ricostruito nella sentenza del 2016, e cioè con principi fondamentali dell’ordinamento nazionale e sovranazionale.

Un ruolo determinante spetta invece sentenza del 24 gennaio 2017, ric. n. 25358/12, con cui, nel caso Paradiso e Campanelli c. Italia, la Grande Chambre della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, ribaltando la precedente decisione di primo grado, ha stabilito che non costituisce violazione dell’art. 8 CEDU la decisione delle autorità di uno Stato membro di allontanare un minore, nato all’estero ricorrendo alla maternità surrogata, dalla coppia che è ricorsa a tale tecnica, quando lo stesso non abbia alcun legame genetico con il padre e la madre committenti. Nel caso di specie, a giudizio della Grande Chambre, non vi sarebbe stata alcuna violazione del diritto alla vita familiare del minore, posto che non si sarebbe costituita alcuna famiglia de facto (principalmente per il breve tempo in cui il minore è rimasto con la coppia), né, quindi, del suo superiore interesse, mentre l’interferenza nella vita privata della coppia committente sarebbe stata pienamente giustificata alla luce dell’art. 8 CEDU, posto che le misure adottate dalle autorità italiane erano conformi alla legge e perseguivano uno scopo legittimo, individuato nella necessità di protezione dei minori.

Il problema della possibile violazione del superiore interesse del minore è affrontato anche dalle Sezioni unite. Al riguardo i giudici, da un lato, ammettono che il bilanciamento compiuto dal legislatore nella previsione dell’art. 12, sesto comma, della legge n. 40 comporti un necessario affievolimento dell’interesse del minore alla conservazione dello status filiationis in caso di surrogazione di maternità, per la prevalenza di altri, superiori, interessi di ordine pubblico internazionale. D’altro lato, sottolineano, però, come tale affievolimento non si traduca necessariamente nella cancellazione dell’interesse del concepito.

 

 

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Inseminazione artificiale.

La Cassazione ritiene che ricorrano i presupposti per rimettere alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale dell'art. 12, comma 6, l. n. 40 del 2004, dell'art. 18, d.P.R. n. 396 del 2000, e dell'art. 64, comma 1, lett. g), l. n. 218 del 1995, laddove si esclude, attraverso il limite dell'ordine pubblico, fissato in linea generale e astratta dal legislatore, la possibilità del riconoscimento, ai fini dell'efficacia in Italia, di provvedimenti giurisdizionali stranieri che accertino il diritto di essere inserito - quale genitore d'intenzione - nell'atto di nascita del figlio della persona cui si è legati da matrimonio celebrato all'estero, nato con le modalità della gestazione per altri (c.d. "maternità surrogata").


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto - Presidente -

Dott. IOFRIDA Giulia - Consigliere -

Dott. CAIAZZO Rosario - rel. Consigliere -

Dott. SCALIA Laura - Consigliere -

Dott. FIDANZIA Andrea - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA INTERLOCUTORIA

sul ricorso n. 30401/2018 proposto da:

Ministero dell'Interno, in persona del Ministro pro tempore; Sindaco del Comune di Verona, nella qualità di Ufficiale del Governo, elett.te domiciliati in Roma, alla via dei Portoghesi n. 12, presso l'Avvocatura Generale dello Stato, che li rappresenta e difende;

- ricorrenti -

contro

F.P., B.F., in proprio e quali genitori del minore B.F.P., elett.te domiciliati presso l'avv. Alexander Schuster, il quale li rappresenta e difende, con procura speciale in calce al controricorso e ricorso incidentale;

- controricorrenti -

contro

Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Venezia;

- intimato -

nonchè F.P., B.F., in proprio e quali genitori del minore B.F.P., elett.te domiciliati presso l'avv. Alexander Schuster, il quale li rappresenta e difende, con procura speciale in calce al controricorso e ricorso incidentale;

- ricorrenti incidentali -

contro

Ministero dell'Interno, in persona del Ministro pro tempore; Sindaco del Comune di Verona, nella qualità di Ufficiale del Governo, elett.te domiciliati in Roma, alla via dei Portoghesi n. 12, presso l'Avvocatura Generale dello Stato, che li rappresenta e difende;

- intimati -

avverso la sentenza n. 6775/2018 della CORTE D'APPELLO di VENEZIA, depositata il 16/07/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/12/2019 dal Cons. Dott. CAIAZZO ROSARIO;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale, Dott.ssa IMMACOLATA Zeno, la quale ha concluso per l'accoglimento del quarto motivo del ricorso principale e per il rigetto degli altri motivi e del ricorso incidentale;

udito, per i ricorrenti, l'avvocato dello Stato Ferrante Wally che ha chiesto l'accoglimento del ricorso principale;

udito, per i controricorrenti e ricorrenti incidentali, l'avvocato Schuster Alexander il quale ha chiesto il rigetto del ricorso principale e l'accoglimento del ricorso incidentale.

Svolgimento del processo

I sigg.ri F.P. e B.F. hanno proposto ricorso ex art. 702 bis c.p.c., alla Corte di appello di Verona a seguito del rifiuto loro opposto dall'ufficiale di stato civile del Comune di Verona, di trascrivere l'atto di nascita del minore B.F.P., nato in (OMISSIS), nel quale si attesta che il medesimo è il figlio dei ricorrenti.

Al riguardo, i ricorrenti, cittadini italiani, coniugati in (OMISSIS), con matrimonio trascritto in Italia nel registro delle unioni civili nel (OMISSIS), hanno allegato che: il bambino era nato con le modalità tipiche della gestazione per altri (cd. "maternità surrogata"), essendo la fecondazione avvenuta tra un ovocita di una donatrice anonima e i gameti di F.P., con successivo impianto dell'embrione nell'utero di una diversa donna, non anonima, che aveva portato a termine la gravidanza e partorito il bambino; al momento della nascita le Autorità canadesi avevano formato un atto di nascita nel quale era indicato, come unico genitore, F.P., mentre nè la donatrice dell'ovocita, nè la cd. "madre gestazionale" erano dichiarate madri del minore. A seguito del ricorso presso la Suprema Corte della British Columbia, i ricorrenti avevano ottenuto, in data 8.11.2017, una sentenza nella quale si dichiarava che entrambi erano genitori del minore con la conseguente modifica dell'atto di nascita. L'ufficiale di stato civile del Comune di Verona aveva però rifiutato la richiesta avanzata il 16.12.17, di rettificare l'atto di nascita, sia perchè già esisteva un atto di nascita trascritto, sia per l'assenza di dati normativi certi e di precedenti nella giurisprudenza di legittimità favorevoli alla richiesta. Pertanto, i ricorrenti hanno chiesto, a norma della L. 2 agosto 1995, n. 218, art. 67, l'esecutorietà in Italia della sentenza emessa in Canada nel 2017, al fine di ottenere la trascrizione dell'atto di nascita del minore, invocando l'applicazione del combinato disposto della L. n. 218 del 1995, artt. 3365 e 66 e rilevando la non contrarietà all'ordine pubblico della suddetta sentenza canadese, già passata in giudicato, e la liceità delle condotte che hanno determinato la nascita del bambino secondo le leggi del Paese in cui sono state poste in essere.

L'Avvocatura dello Stato si è costituita per il Sindaco del Comune di Verona e per il Ministero dell'Interno, sollevando varie eccezioni preliminari e d'inammissibilità della domanda per contrarietà all'ordine pubblico; parimenti il Pubblico Ministero è intervenuto opponendosi all'accoglimento del ricorso.

Con ordinanza del 16.7.18, la Corte d'appello di Venezia, in accoglimento del ricorso, ha accertato che la sentenza emessa dalla Suprema Corte della British Columbia in data 8.9.17 - che aveva riconosciuto F.P. e B.F. quali genitori di B.F.P., nato il (OMISSIS) - possedeva i requisiti per il riconoscimento a norma della L. n. 218 del 1995, art. 67.

In particolare, la Corte territoriale veneziana nella sua motivazione osserva che: va preliminarmente riconosciuta la legittimazione processuale del Sindaco del Comune di Verona, nella veste di ufficiale di Governo, e del Ministero dell'Interno. Nel merito la circostanza che nel sistema delle fonti interne non sia previsto il matrimonio tra soggetti dello stesso sesso, e quindi che non sia concesso di attribuire automaticamente ad entrambi la responsabilità genitoriale del minore nato dalla procreazione medicalmente assistita, si risolve nell'evidenza di una diversità di discipline sostanziali, ma non è di per sè indice dell'esistenza di un principio superiore fondante e irrinunciabile dell'assetto costituzionale o dell'ordinamento dell'Unione Europea. Nella materia in esame vige tra i diritti fondamentali la tutela del superiore interesse del minore in ambito interno e internazionale, come sancita dalle convenzioni internazionali. Nell'ambito di questo assetto l'ordine pubblico internazionale impone l'esigenza imprescindibile di assicurare al minore la conservazione dello status e dei mezzi di tutela di cui possa validamente giovarsi in base alla legislazione nazionale applicabile, in particolare del diritto al riconoscimento dei legami familiari ed al mantenimento dei rapporti con chi ha legalmente assunto il riferimento della responsabilità genitoriale. Nè può ricondursi all'ordine pubblico la previsione che il minore debba avere genitori di sesso diverso, posto che nel nostro ordinamento è contemplata la possibilità che il minore abbia due figure genitoriali dello stesso sesso nel caso in cui uno dei genitori abbia ottenuto la rettificazione dell'attribuzione del sesso con gli effetti di cui alla L. n. 164 del 1982, art. 4. Quanto ai divieti di ricorrere alla procreazione medicalmente assistita di cui alla L. n. 12, comma 2, L. n. 40 del 2004, le scelte del legislatore italiano appaiono frutto di discrezionalità e non esprimono principi fondanti a livello costituzionale che impegnino l'ordine pubblico. Nè può ritenersi rilevante la sanzione penale comminata dell'art. 12, comma 6, della predetta Legge che punisce chiunque, in qualsiasi forma, realizzi, organizzi o pubblicizzi la maternità surrogata dato che il divieto e la sanzione penale non si sovrappongono alla valutazione del miglior interesse del minore concepito all'estero con tali tecniche, il quale non può essere privato dello status legittimamente acquisito nel paese in cui è nato.

Ricorre in Cassazione l'Avvocatura dello Stato nell'interesse del Ministero dell'Interno e del Sindaco di Verona, con quattro motivi.

F.P. e B.P., quali esercenti la responsabilità genitoriale sul minore P. resistono con controricorso, eccependo l'inammissibilità e l'infondatezza del ricorso; i controricorrenti propongono altresì ricorso incidentale affidato ad un unico motivo condizionato all'accoglimento di uno o più motivi del ricorso principale.

Motivi della decisione

Con il primo motivo del ricorso principale si deduce il difetto assoluto di giurisdizione, a norma dell'art. 360 c.p.c., comma 1, in quanto nell'ordinamento giuridico nazionale non esiste una norma che legittimi una piena bigenitorialità omosessuale, come affermata dal giudice canadese.

Con il secondo motivo si denunzia violazione del D.P.R. n. 396 del 2000, art. 95, essendo competente in materia il Tribunale in primo grado. La Corte d'appello ha erroneamente ritenuto che l'oggetto del procedimento fosse il riconoscimento dell'efficacia del provvedimento giurisdizionale straniero nell'ordinamento italiano, mentre invece i ricorrenti hanno richiesto la trascrizione dell'atto di nascita straniero ai sensi del D.P.R. n. 396 del 2000, art. 28, comma 2, lett. e), impugnando il provvedimento con cui l'ufficiale di stato civile aveva rifiutato di trascrivere il suddetto provvedimento giurisdizionale canadese, venendo dunque in rilievo un'opposizione al rifiuto di trascrizione che, a norma del citato art. 95, è proponibile con ricorso innanzi al Tribunale.

Con il terzo motivo si denunzia violazione e falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, avendo la Corte d'appello omesso di pronunciarsi sull'eccezione di difetto di legittimazione attiva del padre intenzionale B.F. a rappresentare il minore.

Con il quarto motivo si denunzia violazione e falsa applicazione della L. n. 218 del 1995, artt. 16 e 65D.P.R. n. 396 del 2000, art. 18L. n. 40 del 2005, art. 5 e art. 12, commi 2 e 6, in quanto l'ordinanza impugnata confligge con vari principi fondanti l'ordine pubblico, tra cui la nozione di filiazione intesa nell'ordinamento italiano quale discendenza da persone di sesso diverso, come disciplinata dalle norme in materia di fecondazione assistita, anche eterologa, nonchè con il divieto della cd. "maternità surrogata", fattispecie costituente reato secondo la legge italiana.

L'unico motivo del ricorso incidentale denunzia la violazione e la falsa applicazione dell'art. 100 c.p.c. e L. n. 218 del 1995, art. 67, avendo erroneamente la Corte d'appello considerato il Ministero e il Sindaco controricorrenti legittimati passivi, poichè il primo non aveva competenze in materia di stato civile, mentre il Sindaco non era titolare di un interesse proprio rispetto all'istanza di trascrizione.

Anzitutto, sono da esaminare i primi tre motivi del ricorso principale e l'unico dell'incidentale per il loro carattere logico-preliminare rispetto alla suddetta questione di legittimità costituzionale. Tali motivi sono infondati, anche alla luce della motivazione della recente sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, n. 12193/19.

I primi due motivi possono inoltre essere esaminati congiuntamente poichè tra loro connessi.

Sussiste la giurisdizione del giudice ordinario adito, poichè il giudizio fonda la causa petendi sull'accertamento di diritti fondamentali (rectius, sulla prospettazione di tali diritti, e ciò basta a innescare la giurisdizione).

Il procedimento della L. n. 218 del 1995, ex art. 67, si differenzia da quello di rettificazione degli atti dello stato civile disciplinato dal D.P.R. n. 396 del 2000, in quanto, pur con esso concorrente, ha una più ampia portata, avendo per oggetto il riconoscimento dello status accertato o costituito dal provvedimento straniero. Ciò giustifica una lettura allargata della legittimazione a partecipare a tale giudizio.

Il rifiuto di procedere alla trascrizione nei registri dello stato civile di un provvedimento giurisdizionale straniero, con il quale sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all'estero e un cittadino italiano, dà luogo, se non determinato da vizi formali, a una controversia di stato, da risolversi mediante il procedimento disciplinato dalla L. n. 218 del 1995, art. 67, in contraddittorio con il Sindaco, in qualità di ufficiale dello stato civile destinatario della richiesta di trascrizione, ed eventualmente con il Ministero dell'interno, legittimato a spiegare intervento in causa e ad impugnare la decisione, in virtù della competenza ad esso attribuita in materia di tenuta dei registri dello stato civile.

Quanto al ricorso incidentale va ribadito che il Sindaco è l'organo il cui rifiuto di trascrizione dà origine alla controversia e come tale è direttamente interessato alle conseguenze e all'attuazione della pronuncia di delibazione; l'ordine di trascrizione (o di cancellazione della trascrizione già eseguita) riveste infatti un ruolo centrale e non accessorio nella decisione ex art. 67.

Dall'altro lato, il Sindaco è ufficiale di governo, organo periferico dell'Amministrazione statale dell'Interno, alla cui competenza il D.P.R. n. 396 del 2000, ha trasferito le attribuzioni in materia di tenuta dei registri dello stato civile e contro la quale possono essere esperite tra l'altro le azioni di risarcimento di eventuali danni derivanti dalla (effettuata od omessa) trascrizione. Anche il Ministero dell'Interno ha pertanto un interesse autonomo, concreto e attuale a partecipare al giudizio, mentre tuttavia il Ministero dell'Interno interveniente ed essendo parte a pieno titolo del giudizio di riconoscimento può anche impugnare il provvedimento a sè sfavorevole.

Infine il terzo motivo del ricorso principale è infondato, in quanto è evidente che la Corte d'appello abbia pronunciato implicitamente sull'eccezione di difetto di legittimazione di B.F., decidendo sulla domanda di quest'ultimo in ordine al diritto di essere inserito quale "padre d'intenzione" - nell'atto di nascita del figlio di F.P., cui è legato da matrimonio celebrato in (OMISSIS).

Il quarto motivo di ricorso e la questione di legittimità costituzionale del divieto di trascrizione.

Il quarto motivo è il fulcro del ricorso principale e suscita una pluralità di questioni, affrontate e decise dalla recente sentenza n. 12193/2019 delle Sezioni Unite, che rivestono un rilievo costituzionale e sono decisive ai fini del riconoscimento o meno del provvedimento giudiziario canadese.

Il Collegio ritiene che ricorrano i presupposti per rimettere alla Corte Costituzionale la questione di legittimità costituzionale della L. n. 40 del 2004, art. 12, comma 6D.P.R. n. 396 del 2000, art. 18L. n. 218 del 1995, art. 64, comma 1, lett. g), se interpretati alla luce della citata sentenza delle Sezioni Unite laddove si esclude, attraverso il limite dell'ordine pubblico, fissato in linea generale e astratta dal legislatore, la possibilità del riconoscimento, ai fini dell'efficacia in Italia, di provvedimenti giurisdizionali stranieri che accertino il diritto di essere inserito - quale genitore d'intenzione - nell'atto di nascita del figlio della persona cui si è legati da matrimonio celebrato all'estero, nato con le modalità della gestazione per altri (cd. "maternità surrogata").

Al fine di prospettare tale questione di legittimità costituzionale, occorre muovere dalla motivazione della predetta sentenza delle Sezioni Unite n. 12193 del 2019.

Il cardine di tale motivazione è fondato sul rilievo per cui il riconoscimento dell'efficacia di un provvedimento giurisdizionale straniero, con il quale sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all'estero mediante il ricorso alla maternità surrogata e il genitore d'intenzione, nella specie cittadino italiano, trova ostacolo nel divieto di surrogazione di maternità, previsto dalla L. n. 40 del 2004, art. 12, comma 6, qualificabile come principio di ordine pubblico, in quanto posto a tutela di valori fondamentali, quali la dignità della donna e l'istituto dell'adozione. Secondo le Sezioni Unite la tutela di tali valori, non irragionevolmente ritenuti prevalenti sull'interesse del minore, nell'ambito di un bilanciamento effettuato direttamente dal legislatore, al quale il giudice non può sostituire la propria valutazione, non esclude peraltro la possibilità di conferire comunque rilievo al rapporto con il genitore intenzionale, mediante il ricorso ad altri strumenti giuridici e specificamente, nel nostro ordinamento, all'adozione in casi particolari, prevista dalla L. n. 184 del 1983, art. 44, comma 1, lett. d).

Le Sezioni Unite si sono confrontate direttamente con il divieto, sanzionato penalmente, della L. n. 40 del 2004, art. 12, comma 6, legge, quest'ultima, considerata "costituzionalmente necessaria". Tale divieto, secondo le Sezioni Unite, mostra con chiarezza che, anche dopo gli interventi della Corte costituzionale, la L. n. 40 del 2004, continua a distinguere tra fecondazione eterologa e maternità surrogata. Ne discende che il divieto penale contenuto in una legge siffatta va considerato espressivo di un superiore principio di ordine pubblico che, come chiarito anche dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 272 del 2017, mira a sanzionare una pratica che offende in modo intollerabile la dignità umana e fa dunque riferimento a valori superiori e fondanti. Ciò comporta che non può essere trascritto nè riconosciuto in Italia il provvedimento giudiziale straniero che, riconoscendo implicitamente la validità dell'accordo di maternità surrogata attribuisce la paternità (o la maternità) anche al genitore intenzionale che non ha apportato alcuno contributo biologico alla procreazione.

Tale conclusione, secondo le Sezioni Unite, non si pone in contrasto con il superiore interesse del minore: sia perchè tale interesse non ha valore assoluto e può affievolirsi rispetto ad altri valori, rientrando tale valutazione bilanciata anche nel margine di apprezzamento che la Corte Europea dei Diritti dell'uomo comunque riconosce agli Stati ai fini della decisione di autorizzare o meno la pratica di maternità surrogata e gli effetti giuridici ad essa collegati; sia perchè l'interesse del minore a restare nella coppia (anche dello stesso sesso) di cui fa parte il genitore d'intenzione è pur sempre tutelabile attraverso l'adozione in casi particolari di cui alla L. n. 184 del 1983, art. 44, comma 1, lett. d), secondo l'orientamento inaugurato da Cass. n. 12962 del 2016. Alla luce di questa ricostruzione, le Sezioni Unite hanno concluso che gli effetti del riconoscimento del provvedimento straniero, di cui è stata chiesta la trascrizione, si pongono in contrasto con l'ordine pubblico della L. n. 218 del 1995, ex art. 64, comma 1, lett. g).

Il parere del 10 aprile 2019 della Grande Chambre della Corte Europea dei Diritti Umani.

Successivamente, in data 10.4.19, è stato pubblicato il parere consultivo della Grande Camera della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo sulla richiesta preventiva della Adunanza Plenaria della Corte di Cassazione francese (decisa con arret interlocutoire n. 638 del 5 ottobre 2018 e trasmessa con lettera del 12 ottobre 2018).

Tale parere è stato reso, per la prima volta, in esecuzione del Protocollo n. 16 allegato alla Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, entrato in vigore 11 ottobre 2018 - ma non per l'Italia, che non lo ha ancora reso esecutivo-; al riguardo, nel rapporto esplicativo allo stesso Protocollo si evidenzia che la formulazione di cui all'art. 1, par. 1, del Protocollo, trae ispirazione dall'art. 43, par. 2, della Convenzione, il quale sancisce che il rinvio di un caso dinanzi alla Grande Camera è ammesso quando "la questione oggetto del ricorso solleva gravi problemi di interpretazione o di applicazione della Convenzione o dei suoi Protocolli, o comunque un'importante questione di carattere generale".

La dottrina ha chiarito che il parere reso dalla Grande Camera, nell'ambito del predetto protocollo, costituisce un giudizio astratto, teso a chiarire in via preliminare il contenuto delle norme convenzionali, fornendo quindi un ausilio ai giudici nazionali che potranno, così, prevenirne la violazione ovvero, se già commessa, porvi rimedio.

La vicenda che ha portato alla richiesta di parere consultivo è nota inserendosi nella procedura di riesame del giudicato emesso dalla Corte di Cassazione francese dopo la decisione dei leading cases Menesson e Labassee c. Francia da parte della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (C.E.D.U., 26 giugno 2014, ric. nn. 65192/11 e 65941/11). Con tali pronunce del 2011 la Corte di Strasburgo ha sancito la violazione da parte della Francia del diritto, tutelato dall'art. 8 della C.E.D.U., alla vita privata e familiare dei figli e la non adeguata considerazione del loro superiore interesse per effetto del diniego di riconoscimento della filiazione - legittimamente acquisita negli Stati Uniti in seguito a gestazione per altri - nei confronti del padre intenzionale e biologico. La giurisdizione francese è stata successivamente investita di una richiesta di riesame del giudicato per ciò che concerne il permanente rifiuto di trascrivere nei registri dello stato civile il riconoscimento della filiazione anche nei confronti della madre intenzionale che non aveva contribuito al concepimento mediante donazione dei propri gameti.

La Corte di Cassazione francese ha formulato nei seguenti termini le questioni che ha inteso sottoporre alla Corte di Strasburgo con la propria richiesta di parere consultivo: a) se uno Stato parte della Convenzione, rifiutando di trascrivere nei registri dello stato civile l'atto di nascita di un bambino nato all'estero mediante gestazione per altri, nella parte in cui tale atto designa come madre legale la madre intenzionale - mentre la trascrizione dell'atto di nascita è ammessa laddove designa come padre legale il padre intenzionale in quanto padre biologico - eccede il proprio margine di apprezzamento di cui dispone con riferimento all'art. 8 della Convenzione E.D.U. e se deve distinguersi a seconda che il bambino sia stato concepito o meno con i gameti della madre intenzionale; b) nella ipotesi di una risposta positiva a uno dei precedenti quesiti se la possibilità per la madre intenzionale di adottare il figlio del suo coniuge, padre biologico, permette di rispettare le prescrizioni dell'art. 8 della Convenzione costituendo un modo alternativo di instaurazione del rapporto di filiazione nei suoi confronti.

Con il proprio parere consultivo la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ha risposto positivamente al primo quesito (non ritenendo attinente all'oggetto della procedura prevista dal protocollo n. 16 la questione sulla rilevanza della donazione dei gameti da parte della madre intenzionale) e, rispondendo al secondo quesito, ha affermato che l'adozione da parte della madre intenzionale può ritenersi accettabile, come modello alternativo di instaurazione del rapporto legale di filiazione, a condizione che le modalità previste dal diritto interno per l'adozione garantiscano la effettività e celerità del riconoscimento e che esso risulti conforme all'interesse superiore del minore.

Nel ritenere che tale risposta della Corte di Strasburgo si ponga in conflitto con il diritto vivente in Italia, così come si è venuto a configurare all'esito della citata pronuncia delle Sezioni Unite, il Collegio considera particolarmente significativi i seguenti passaggi della motivazione del parere consultivo.

In primo luogo il richiamo alla Convenzione di New York del 1989, ratificata in Italia con L. 27 maggio 1991, n. 176 e, in particolare, ai suoi artt. 2, 3, 7, 8, 9 e 18, che disegnano lo statuto dei diritti inviolabili dei minori. La Convenzione in particolare sancisce: a) l'obbligo per gli Stati parti di rispettare e garantire i diritti enunciati nella Convenzione a prescindere da ogni considerazione di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione, politica o altra, del fanciullo o dei suoi genitori o rappresentanti legali, dalla loro origine nazionale, etnica o sociale, dalla loro situazione finanziaria, dalla loro incapacità, dalla loro nascita o da ogni altra circostanza; b) la tutela da ogni forma di discriminazione o di sanzione, motivate dalla condizione sociale, dalle attività, opinioni professate o convinzioni dei suoi genitori, dei suoi rappresentanti legali o dei suoi familiari; c) la considerazione preminente dell'interesse superiore del minore in tutte le decisioni delle pubbliche autorità che lo riguardano; d) il diritto del minore alla registrazione immediata al momento della nascita e, da allora, a un nome, ad acquisire una cittadinanza e nella misura del possibile, a conoscere i suoi genitori e ad essere allevato da essi, a veder preservata da ingerenze illegali la propria identità, ivi compresa la sua nazionalità, il suo nome e le sue relazioni familiari, così come riconosciute dalla legge; e) il diritto a non essere separato dai suoi genitori, se non quando sia necessario nel suo preminente interesse, e di intrattenere rapporti personali e contatti diretti regolari con entrambi i genitori anche se risiedono in Stati diversi; f) il riconoscimento ad entrambi i genitori della responsabilità comune nei confronti del figlio per ciò che concerne la sua educazione e la cura del suo sviluppo.

In secondo luogo la Corte Europea ha affrontato immediatamente la questione del rapporto fra l'interesse superiore del minore - che, ha ribadito la Corte, deve sempre prevalere quando è in discussione la sua situazione personale - e il margine di apprezzamento attribuito agli Stati nel riconoscere il rapporto di filiazione nei confronti del genitore intenzionale che non sia anche genitore biologico. A tal fine ha richiamato quanto già affermato nelle sentenze del 2011 e cioè che sebbene sia concepibile che la Francia possa desiderare di scoraggiare i propri cittadini dal ricorrere, recandosi all'estero, a un metodo di procreazione che proibisce nel proprio territorio, tuttavia gli effetti del mancato riconoscimento non investono solo le persone che hanno operato la scelta di adottare le modalità procreative non consentite dall'ordinamento francese. Invero, gli effetti del divieto di riconoscimento si ripercuotono sui minori che vedono gravemente inciso il diritto al rispetto della loro vita privata e familiare.

Il riferimento della Corte all'art. 8 della Convenzione Europea viene subito circostanziato come impossibilità di conciliare l'interesse superiore del minore, che va valutato caso per caso, con le conseguenze di un divieto generale e assoluto di riconoscimento del legame di filiazione con il genitore intenzionale in quanto tali conseguenze sono lesive della stessa identità del minore e del diritto alla continuità dello status filiationis, compromettendo il radicamento del minore nel contesto familiare in cui è nato; in sostanza sono lesive di tutti quei diritti che costituiscono, alla luce della Convenzione di New York, il nucleo inviolabile della sua protezione. Ciò a giudizio della Corte Europea restringe il margine di apprezzamento degli Stati e impone al diritto interno di offrire la possibilità del riconoscimento del legame di filiazione con il genitore intenzionale.

Tale riconoscimento deve essere reso sempre possibile e può essere negato solo se, in casi particolari, ciò corrisponda in concreto all'interesse superiore del minore ma la Corte Europea ritiene che non necessariamente il riconoscimento debba coincidere con la trascrizione nei registri dello stato civile dell'atto di nascita legalmente formato all'estero. Agli Stati parti della Convenzione, che attualmente adottano al riguardo soluzioni diverse, va riservato un più ampio margine di apprezzamento sulla possibilità di predisporre modalità alternative alla trascrizione dell'atto di nascita e la adozione da parte del genitore d'intenzione ben può essere una modalità alternativa al riconoscimento. Tuttavia la Corte fissa due condizioni perchè l'adozione possa considerarsi un mezzo ugualmente rispettoso dell'art. 8 della Convenzione. Le condizioni previste per l'adozione devono essere idonee a garantire l'effettività del riconoscimento del legame di filiazione e la procedura deve essere rapida e non esporre il minore a una protratta situazione di incertezza giuridica circa il riconoscimento del legame. Se la Convenzione non impone agli Stati di riconoscere ab initio un legame di filiazione con il genitore intenzionale ciò che richiede l'interesse superiore del minore - da valutare in concreto, caso per caso - è che questo legame costituito legalmente all'estero venga riconosciuto non oltre il momento della sua concretizzazione. Accertamento quest'ultimo che non può che essere compiuto dalle Autorità nazionali competenti le quali potranno valutare, tenendo conto delle circostanze particolari del caso di specie, se e quando tale legame si sia concretizzato.

Alla luce della motivazione del parere consultivo della Corte di Strasburgo si intravedono chiaramente due profili di conflitto non superabili con la attuale situazione del diritto vivente in Italia come configurato dalla recente sentenza delle Sezioni Unite.

Il primo di tali profili è l'attribuzione al divieto di maternità surrogata dello statuto di principio di ordine pubblico internazionale prevalente a priori sull'interesse del minore per effetto di una scelta compiuta dal legislatore italiano in via generale e astratta dalla valutazione del singolo caso concreto.

Una tale configurazione, che si basa sulla rilevanza del divieto di gestazione per altri, sancito penalmente dalla L. n. 40 del 2004, art. 12, si scontra, in primo luogo, con la constatazione della Corte Europea per cui, se è legittimo che uno Stato parte della Convenzione imponga misure dissuasive nei confronti dei propri cittadini che intendano ricorrere all'estero a forme di procreazione vietate nel proprio territorio, anche se tali misure incidano sulle situazioni soggettive di coloro che mettano in pratica tale intendimento, tuttavia non è consentito agli Stati di adottare misure che incidano negativamente sulla situazione soggettiva di chi nasce da una gestazione per altri e abbiano l'effetto di negare i diritti inviolabili connessi alla identità personale del minore e alla sua appartenenza al nucleo familiare di origine. Diritti che risultano definitivamente fissati dall'atto di nascita legalmente formato nell'ordinamento del paese in cui il minore è nato.

In secondo luogo il principio della preminenza dell'interesse del minore impedisce al legislatore di imporre una sua compressione in via generale e astratta e di determinare conseguentemente un affievolimento ex lege del diritto al riconoscimento dello status filiationis legalmente acquisito all'estero. Un simile diniego non può che essere il frutto di una valutazione in sede giurisdizionale e sulla base di una considerazione rigorosa del caso concreto che conduca a ritenere, in via eccezionale, corrispondente all'interesse specifico del minore il mancato riconoscimento dello stato di filiazione.

In questa prospettiva anche la predisposizione di mezzi alternativi alla trascrizione dell'atto di nascita formato all'estero assume nella motivazione della Corte Europea la valenza di una diversa ma equiparata forma di riconoscimento dello status filiationis e non la predisposizione o la utilizzazione di uno strumento di minor tutela confacente a una situazione di diritto affievolito.

Ciò evidenzia il secondo inconciliabile profilo di conflitto con l'attuale configurazione del diritto vivente che, alla stregua della pronuncia delle Sezioni Unite, ritiene adeguata alla tutela dell'interesse del minore la presenza nel sistema normativo di una modalità alternativa alla trascrizione dell'atto di nascita e cioè la possibilità per il genitore di intenzione di richiedere l'adozione in casi particolari della L. n. 184 del 1983, ex art. 44, lett. d). Un istituto che per le ragioni che si esporranno in prosieguo non risulta affatto idoneo a garantire quella effettività e celerità di attribuzione dello status filiationis ritenute dalla Corte di Strasburgo le condizioni imprescindibili per qualificare la modalità alternativa alla trascrizione rispettosa del diritto alla tutela della vita privata e familiare del minore.

Rilevanza del parere consultivo e impossibilità di una interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente conforme.

Il Collegio ritiene che nella decisione della causa non si possa prescindere dal predetto parere della Grande Camera che, sebbene non direttamente vincolante, impone scelte ermeneutiche differenti da quelle adottate dalle Sezioni Unite nella sentenza del 2019. Tuttavia la impossibilità di una opzione interpretativa in contrasto con quello che allo stato costituisce il diritto vivente, per come interpretato dalla più alta istanza della giurisdizione di legittimità, direttamente chiamata a pronunciarsi su una questione di massima importanza, e, per altro verso, la impossibilità di confermare una linea interpretativa che, per quanto si è detto sinora, si ritiene in contrasto con la posizione espressa dalla Corte Europea sullo stesso tema, induce a sollevare la questione di costituzionalità della L. n. 40 del 2004, art. 12, comma 6L. n. 218 del 1995, art. 64, comma 1, nonchè del D.P.R. n. 396 del 2000, art. 18, se interpretati, come attualmente nel diritto vivente, come impeditivi, in via generale e senza valutazione concreta dell'interesse superiore del minore, della trascrizione dell'atto di nascita legalmente costituito all'estero di un bambino nato mediante gestazione per altri nella parte in cui esso attesta la filiazione dal genitore intenzionale non biologico, specie se coniugato con il genitore intenzionale biologico. Si ravvisa infatti il contrasto di tale interpretazione con l'art. 117 Cost., comma 1, in relazione all'art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo e agli artt. 2, 3, 7, 8, 9, 10 e 18 della Convenzione di New York del 20 novembre 1989 delle Nazioni Unite nonchè all'art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea.

Al riguardo, a parere del giudice rimettente, non è possibile una interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente conforme delle norme in questione attraverso un'esegesi adeguatrice. Se è vero che una tale verifica è un obbligo del giudice a quo perchè la prospettazione d'incostituzionalità delle norme costituisce sempre una extrema ratio tuttavia, nella fattispecie in esame, utilizzando gli ordinari poteri ermeneutici, la soluzione conforme a Costituzione e alla C.E.D.U. non è praticabile, se non contraddicendo la recente statuizione delle Sezioni Unite. Parallelamente la verifica della rispondenza del diritto vivente ai principii costituzionali in relazione a quelli convenzionali non potrebbe che avvenire mediante la richiesta, che anche le Sezioni Unite sarebbero tenute a prospettare, di un intervento interpretativo del Giudice delle leggi, o che, eventualmente, si estrinsechi in una pronuncia additiva o manipolativa delle norme che s'intendono sottoporre al vaglio di costituzionalità.

In particolare, va osservato che la sentenza delle Sezioni Unite, per l'autorevolezza dell'organo giudiziario da cui promana - la cui funzione è appunto quella di assicurare con le sue decisioni nel territorio nazionale l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione delle norme di diritto, vale a dire la cosiddetta funzione nomofilattica della Suprema Corte - ha certamente formato un diritto vivente sull'interpretazione delle norme applicate nella fattispecie concreta da cui il giudice a quo non può prescindere nella sua opera diretta a rinvenire nell'ordinamento giuridico un'interpretazione costituzionalmente conforme delle medesime norme.

E' noto che nella giurisprudenza della stessa Corte Costituzionale, in conformità di autorevole insegnamento dottrinale, il tenore letterale della norma o il diritto vivente sono, in astratto, riguardati come principali ostacoli alla ricerca di una soluzione conforme a Costituzione. Ma al riguardo, il collegio rimettente non ignora anche che, in particolare, l'eventuale resistenza opposta dalla prevalente interpretazione giurisprudenziale della disposizione normativa è ritenuta in molte occasioni superabile, in quanto uniformarsi al diritto vivente è considerata "facoltà" e non "obbligo" per il giudice a quo (v. Corte Cost., sent. n. 350 del 1997).

Nel caso concreto, però, non appare possibile che il Collegio decida la causa fornendo un'interpretazione della fattispecie astratta che si contrapponga e superi quella adottata dalle Sezioni Unite, essendo ciò precluso, per quanto esposto, dalla natura della pronuncia che è ontologicamente orientata a radicare il diritto vivente al fine di garantire la certezza e l'uniformità dell'applicazione del diritto, quale bene fondamentale dell'ordinamento giuridico. Ciò appare viepiù evidente se si considera che le Sezioni Unite, nel pronunciare la sentenza predetta, sono state espressamente investite da una sezione semplice della Suprema Corte al fine di affermare il principio di diritto nella complessa materia in esame.

Ora, tenuto anche conto del sopravvenuto parere espresso dalla Grande Camera della CEDU - come sopra illustrato - il Collegio ritiene che la formulazione delle disposizioni normative applicate nella fattispecie offra una resistenza insuperabile ad essere interpretata in modo conforme alla Convenzione e alla Costituzione, se interpretate secondo la citata sentenza delle Sezioni Unite e del diritto vivente così formatosi.

Al riguardo, in conformità di quanto ritiene la dottrina, a norma dell'art. 374 c.p.c., comma 3, va osservato che il Collegio della sezione semplice della Suprema Corte non è posto di fronte alla secca alternativa tra l'uniformare la propria decisione al principio di diritto enunciato dalle sezioni unite - per dirimere un contrasto o una questione di massima di particolare importanza - e la rimessione con ordinanza interlocutoria del ricorso alle Sezioni Unite, esponendo le ragioni del dissenso. Il Collegio della sezione semplice può sottrarsi a questa alternativa attivando l'incidente suscettibile di condurre a una declaratoria di incostituzionalità, e quindi alla rimozione, della disposizione sottostante al principio enunciato dalle Sezioni Unite.

La stessa Corte costituzionale ha convalidato questo percorso interpretativo con la sentenza n. 3 del 2015, esaminando la questione sollevata dal giudice a quo il quale aveva prospettato l'impossibilità di un'interpretazione costituzionalmente conforme delle norme impugnate attesa la sussistenza del diritto vivente formatosi a seguito di una sentenza delle Sezioni Unite.

Conflitto con i principi d'inviolabilità dei diritti fondamentali del minore, d'uguaglianza, non discriminazione, ragionevolezza e proporzionalità.

Il contrasto del diritto vivente appare peraltro a questo Collegio sussistere anche in relazione ai principi fondamentali affermati dalla Carta e dalla giurisprudenza costituzionale italiana in materia di diritti inviolabili del minore e diritto d'eguaglianza correlato ai rapporti di filiazione e pertanto il Collegio intende altresì prospettare questione di legittimità costituzionale delle stesse disposizioni citate in precedenza per contrasto con gli artt. 2, 3, 30 e 31 Cost., se interpretate secondo la sentenza n. 12193/19 delle Sezioni Unite.

I principi di uguaglianza e di non discriminazione, specificamente in relazione alla nascita, sono consacrati nella Costituzione negli artt. 2, 3, 30 e 31. Al riguardo, va osservato che l'interpretazione - fatta propria dalle Sezioni Unite - secondo cui il riconoscimento del provvedimento straniero di inserimento del padre d'intenzione nello stato di nascita del minore è precluso dal limite dell'ordine pubblico, sulla base del disvalore espresso dalla sanzione penale comminata per la fattispecie della gestazione per altri (cd. maternità "surrogata"), si pone in contrasto con gli artt. 2, 30 e 31 Cost.. Invero, l'interpretazione delle Sezioni Unite è d'ostacolo all'inalienabile diritto del minore all'inserimento e alla stabile permanenza nel nucleo familiare, inteso come formazione sociale tutelata dalla Carta Costituzionale, attesa l'impossibilità di sancire la paternità legale del genitore d'intenzione. E' evidente che la tutela del diritto del minore alla propria identità e alla formazione e al consolidamento del rapporto di filiazione all'interno della propria famiglia, legittimamente costituitasi in conformità della legge canadese, sia infirmata da un riconoscimento parziale dell'atto di stato civile che escluda il padre d'intenzione sulla base di considerazioni estranee alla tutela del minore.

Al riguardo, il Collegio intende sottoporre al Giudice delle leggi la questione di costituzionalità anche sotto il profilo del bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti, che, a giudizio del Collegio, è stato realizzato con modalità tali da determinare il sacrificio e la compressione dell'interesse superiore del minore in una ottica incompatibile con il dettato costituzionale (cfr., da ultimo, Corte Cost., sent. n. 236 del 2018) e comunque con modalità e in una misura irrazionale sproporzionata ed eccessiva con l'effetto di ribaltare la gerarchia di valori sottesa alla Carta costituzionale, incentrata sul principio personalistico di tutela dei diritti fondamentali della persona. Occorre, in proposito, muovere dal rilievo che l'ordine pubblico internazionale costituisce, anche secondo l'orientamento di una autorevole dottrina, il criterio di ragionevolezza sulla base del quale s'istituisce la gerarchia assiologica tra norme, postulando che l'applicazione di una legge straniera o il riconoscimento di efficacia di un atto straniero può spingersi sino al punto di creare, nel caso concreto, una frattura, rispetto all'ordinamento interno, derivante dall'applicazione della legge straniera o dal riconoscimento dell'atto straniero, ma non oltre il punto in cui il contrasto concerna i principi fondamentali e irrinunziabili del nostro sistema ordinamentale, ossia, in particolare, i principi ispirati alla tutela dei diritti fondamentali della persona umana e della sua dignità.

Invero, la stessa nozione di ordine pubblico recepita dalle Sezioni Unite, attraverso il riferimento primario ai principi costituzionali, implica che, dinanzi a valori fondamentali dell'individuo, l'interesse pubblico (anche se assistito da una sanzione penale) passi necessariamente in secondo piano, secondo il principio ermeneutico di bilanciamento tra principi di ordine pubblico di rango costituzionale e principi di ordine pubblico derivanti da discrezionalità legislativa, con la conseguenza che, in questo caso, la nozione di ordine pubblico va circoscritta ai soli valori supremi e vincolanti contenuti nella Costituzione e nelle Carte dei diritti fondamentali sovranazionali.

E' quindi possibile affermare che la nozione di ordine pubblico internazionale, anche se intesa come comprensiva della rilevanza di norme interne inderogabili, e di rilevanza penale, nella tradizione giuridica domestica (cd. ordine pubblico discrezionale) non possa mai comportare la lesione di diritti fondamentali dell'individuo, manifestazione di valori supremi e vincolanti della cultura giuridica che ci appartiene, trasfusi nella Costituzione, nella Convenzione Europea del 1950 e nella Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea, che rappresentano un ordine pubblico gerarchicamente superiore (cd. ordine pubblico costituzionale).

Invero, come è stato rilevato da autorevole dottrina, la tutela dell'interesse superiore del minore - anche sotto il profilo della sua identità personale, familiare e sociale - e il principio di ordine pubblico solo apparentemente possono apparire due entità contrapposte perchè, invece, è proprio il preminente interesse del minore, in quanto espressione della inviolabilità dei diritti della persona umana, a concorrere alla formazione del principio di ordine pubblico, ed a costituire un valore che è parte integrante e costitutiva dell'ordine giuridico italiano.

In questo contesto di principi fondanti dell'ordinamento costituzionale italiano la legislazione e la giurisprudenza costituzionale e ordinaria hanno delineato progressivamente la unificazione e l'unicità dello stato di figlio a prescindere dalle condizioni di nascita e dalle modalità con le quali viene a istituirsi il rapporto di filiazione. Nè può affermarsi che sia principio generale del nostro ordinamento giuridico che lo stato di filiazione sia esclusivamente legato al contributo biologico del genitore al concepimento e alla nascita del figlio; invero, l'adozione e la legittimità dell'accesso alle tecniche di procreazione eterologa smentiscono tale assunto.

Per altro verso la possibilità per la donna di partorire anonimamente e di non costituire il legame di filiazione smentisce un nesso indissolubile fra genitorialità biologica e giuridica.

Nè tale compressione del diritto del minore alla sua identità personale e sociale può trovare la sua legittimazione in quanto espressiva della rilevanza del principio di dignità della donna come elemento anche esso costitutivo e indefettibile dell'ordine pubblico. Il riconoscimento della decisione straniera non comporta alcun riconoscimento del contratto di "maternità surrogata" - la cui illiceità nell'ordinamento italiano non viene in discussione nel caso in esame - ma ha come effetto il riconoscimento dello status e dell'identità del figlio, acquisite insieme alla cittadinanza canadese, e al diritto fondamentale a instaurare un rapporto familiare con coloro che si sono liberamente impegnati ad accoglierlo assumendone le relative responsabilità e formando una famiglia che ha pieno riconoscimento sia nell'ordinamento canadese, in cui si consente il matrimonio fra persone dello stesso sesso e la gestazione per altri, sia nell'ordinamento italiano in cui tale riconoscimento è già concretamente in atto come unione civile. Un bilanciamento fra i diritti inviolabili del minore e l'interesse dello Stato a impedire una forma di procreazione che ritiene lesiva della dignità della donna appare pertanto del tutto improprio. Nessuna tutela deriva alla donna dal mancato riconoscimento del rapporto di filiazione con il genitore intenzionale. Mancato riconoscimento che, come si è detto, lede invece gravemente il figlio. Lo Stato tutela la dignità della donna vietando la gestazione per altri nel suo ordinamento ma non può affievolire i diritti inviolabili di un minore, che è nato all'estero e vi ha acquisito legalmente il proprio status e la propria identità personale, come conseguenza di un improprio bilanciamento dei diritti inviolabili del minore con la propria legittima volontà di scoraggiare i propri cittadini a recarsi all'estero per eludere il divieto della gestazione per altri. Come ha affermato chiaramente nel suo parere consultivo la Corte di Strasburgo, seguendo una linea interpretativa pienamente aderente ai nostri valori costituzionali, la compressione del diritto del minore alla sua identità personale, familiare e sociale non può verificarsi per effetto di una condotta altrui, anche se penalmente illecita nel nostro ordinamento.

L'interpretazione ostativa al riconoscimento appare dunque in contrasto con gli artt. 2 e 3 Cost., in quanto il diniego di trascrizione dell'atto di stato civile, nella parte afferente all'inserimento del padre d'intenzione, sovrapponendo il divieto penalistico inerente alla cd. "maternità surrogata" alla tutela del diritto del minore alla pienezza del suo status, comporta la conseguenza di discriminare i nati nell'attribuzione dello stato di figlio a seconda delle circostanze della nascita e della modalità di gestazione. Oltre a questa lesione del principio di non discriminazione che ha una chiara codificazione nella Costituzione italiana, nella C.E.D.U., nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea e, come si è detto, nella Convenzione di New York del 1989 sui diritti dei minori, l'interpretazione appare irragionevole perchè distingue i genitori riconosciuti come tali dall'ordinamento straniero sulla base del loro apporto biologico alla procreazione. Infatti, se alla base della interpretazione seguita dalle Sezioni Unite vi è la ricognizione del disvalore della maternità surrogata e della rilevanza della sanzione penale comminata dalla L. n. 40 del 2004, art. 12, comma 6, appare del tutto irragionevole e contraddittorio consentire la trascrizione dell'atto di stato civile in cui è inserito il solo padre biologico, autore della condotta procreativa realizzata in pieno contrasto con la norma penale, e precludere invece il riconoscimento del provvedimento giudiziario straniero che ha legittimato l'inserimento nello stato civile della famiglia anche del padre d'intenzione il quale è rimasto estraneo a tale condotta.

L'affermazione della esclusione in via generale e aprioristica del riconoscimento, attribuita, da parte delle Sezioni Unite, alla scelta sanzionatoria del legislatore non tiene inoltre in alcun conto la legislazione del paese in cui è avvenuta la nascita e il riconoscimento. Invero, non può apparire irrilevante che la gestazione in questione sia avvenuta nel pieno rispetto delle leggi di un Paese, quale il Canada, che condivide i fondamentali valori della nostra Costituzione e legittima solo la "maternità surrogata" altruistica, cioè senza corrispettivo e diretta a fornire sostegno a favore di una nascita, che altrimenti non potrebbe avvenire, con il consenso, accertato dalle autorità giurisdizionali, della madre gestazionale e/o genetica a non assumere lo status di genitore per favorire l'avvento di una nuova vita. Tale fattispecie ispirata da intenti solidaristici va distinta da quelle ipotesi in cui, invece, questa stessa pratica è realizzata con finalità di tipo commerciale. Situazioni, queste ultime, che all'evidenza meriterebbero una differente valutazione in termini assiologici e normativi, alle quali invece - seguendo la linea interpretativa che ricostruisce in termini assoluti il limite dell'ordine pubblico - si è costretti ad accordare il medesimo trattamento.

Seguendo l'interpretazione sin qui contestata il risultato ottenuto dall'opposizione del limite dell'ordine pubblico alla trascrizione è in definitiva quello di far ricadere gli effetti negativi sul soggetto che non ha alcuna responsabilità per le modalità in cui è stato concepito ed è nato e sul soggetto che non ha contribuito alla procreazione mentre alcuna tutela viene ad essere attribuita alla donna che ha portato a termine la gestazione nell'esercizio di un potere di autodeterminazione che le è riconosciuto dal proprio ordinamento. Si tratta in sostanza di un bilanciamento fra diritti e interessi che non hanno alcuna attinenza con i soggetti che ne sono titolari e con le loro condotte.

Secondo le Sezioni Unite il riconoscimento dell'efficacia di un provvedimento giurisdizionale straniero, con il quale sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore, nato all'estero mediante il ricorso alla maternità surrogata, e il genitore d'intenzione, munito della cittadinanza italiana, trova ostacolo nel divieto di surrogazione di maternità che è qualificabile come principio di ordine pubblico, anche in quanto posto a tutela del valore fondamentale rappresentato dall'istituto dell'adozione. Ma anche questa ragione di bilanciamento che determina l'affievolimento dell'interesse del minore non si sottrae a una critica sotto i profili ampiamente esaminati in precedenza della astrattezza del giudizio di prevalenza attribuito al legislatore e della compressione dei diritti inviolabili del minore. Nè appare rispondere a un criterio di ragionevolezza e proporzionalità attribuire al ricorso alla maternità surrogata un attentato all'istituto dell'adozione. L'attribuzione dello status filiationis nei confronti del genitore intenzionale non biologico dipende, allo stesso modo di quanto avviene per la fecondazione eterologa, dalla attuazione di un progetto genitoriale che appartiene alla coppia legata da vincolo matrimoniale. Nè può affermarsi che nell'ordinamento italiano sia presente un principio assoluto di favor adoptionis e anzi questo è da escludere per le coppie dello stesso sesso cui è preclusa l'adozione. Per quanto riguarda poi la sottrazione a un giudizio preventivo sull'idoneità genitoriale il raffronto dell'accesso a una forma di procreazione medicalmente assistita con l'adozione appare improprio perchè l'idoneità genitoriale è attribuita per principio, e salva una verifica giudiziale conseguente a comportamenti pregiudizievoli per il minore nel corso della relazione familiare, a qualsiasi persona e si estende necessariamente al coniuge per garantire il pieno inserimento del futuro nato nella discendenza e nella vita familiare. Un tale giudizio preventivo sull'interesse del minore a veder riconosciuto lo status filiationis nel nostro ordinamento non è comunque estraneo al procedimento di delibazione secondo l'indicazione della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo che ritiene ineliminabile una valutazione caso per caso intesa a verificare la realizzazione in concreto dell'interesse del minore alla trascrizione.

Infine, di non minore rilevanza appare la lesione delle norme costituzionali che tutelano la vita familiare e l'esplicazione della personalità nelle formazioni sociali. Disposizioni che, per i profili che qui interessano, vengono sempre più strettamente ricollegate dalla Corte Costituzionale all'art. 8 della Convenzione E.D.U. e alla giurisprudenza della Corte Europea. L'accezione dell'endiadi "vita privata e familiare" va intesa in senso ampio, comprensiva di ogni espressione della personalità e dignità della persona ed anche del diritto all'identità dell'individuo. In questa prospettiva si è sempre più chiaramente affermata una valorizzazione dei legami familiari secondo i principi di uguaglianza e di bigenitorialità affinchè i minori possano fruire pienamente della relazione genitoriale e i genitori possano entrambi partecipare a pieno titolo alla cura e alla educazione dei figli e ad adottare congiuntamente le decisioni più importanti che li riguardano.

Ora, richiamando quanto sopra esposto circa il parere espresso dalla Grande Camera il 10.4.19, occorre evidenziare che esso ha valorizzato tali parametri, che ha ritenuto decisivi, evocando specificamente il migliore interesse del minore ed il ridotto margine di apprezzamento riservato ai Paesi contraenti in materia, ribadendo il carattere sopraordinato del primo e le ragioni delle restrizioni del secondo. A parere del Collegio, tale ultimo rilievo appare rivestire un'inequivoca decisività nell'orientare ogni interpretazione del giudice nazionale nel senso di considerare la discrezionalità del singolo Paese come recessiva laddove essa si esprima attraverso norme che non garantiscano, come si è detto, la tutela piena dei diritti del minore alla propria identità ma anche alla piena fruizione ed espressione della propria vita familiare. L'applicazione della sanzione penale - che la giurisprudenza ha comunque escluso per la coppia che vi ricorre, se praticata all'estero, anche in ordine al reato di alterazione di stato, previsto dall'art. 567 c.p., comma 2 (Cass. penale, sezione V n. 13525 del 10.3.2016 e Cass. penale, sezione VI n. 48696 del 10.3.2016) - e la predisposizione di misure dissuasive per la sua elusione non può legittimare altresì la incisione dei rapporti familiari successivi alla condotta sanzionata. Un limite questo che costituisce un principio generale e fondamentale dell'ordinamento italiano per come si è configurato attraverso le più importanti riforme in materia familiare che hanno inteso eliminare qualsiasi discriminazione dei figli in relazione alla loro nascita e realizzare una condizione di pari dignità dei genitori nel loro rapporto con i figli, finalità che sono una chiara espressione dei valori riconosciuti dalla Costituzione italiana (artt. 30 e 31) e dalla Unione Europea oltre che dalle Convenzioni internazionali cui l'Italia ha aderito sin dall'immediato dopoguerra, nello spirito che attraversa tutta la Costituzione, di piena adesione alla nuova rilevanza dei diritti umani anche nella sfera dei rapporti internazionali.

Il disconoscimento del rapporto di filiazione nei confronti di uno dei genitori legalmente riconosciuti dall'ordinamento del paese di nascita e di cittadinanza comporta la alterazione dei rapporti familiari con ripercussioni gravemente nocive nei confronti del minore che vede messa in discussione e negata la unicità e inscindibilità della sua relazione genitoriale nello spazio e subisce una grave menomazione ex post della relazione con il genitore intenzionale e gli effetti negativi di una artificiale situazione di disparità e di potenziale conflittualità fra coloro che ha percepito come entrambi suoi genitori. In questa prospettiva appare quanto mai pertinente l'utilizzazione nel suddetto parere consultivo della CEDU dell'espressione "concretizzazione" del legame come momento in cui viene in essere la irreversibilità del diritto del minore al pieno riconoscimento del suo status filiationis. In altri termini l'appartenenza a una comunità familiare non tollera geometrie variabili in funzioni del luogo in cui si trova o andrà a vivere il minore. Ciò che si è concretizzato deve essere riconosciuto pienamente alla stregua di quello che si realizza con la trascrizione dell'atto di nascita. Il margine di discrezionalità per gli Stati è ampio per ciò che concerne la scelta delle modalità del riconoscimento, ma estremamente limitato per ciò che concerne il contenuto del riconoscimento che deve essere effettivo e tempestivo per non protrarre la situazione di vulnerabilità del minore come conseguenza del mancato riconoscimento immediato. Al riguardo, giova evidenziare che l'opzione ermeneutica formulata dalle Sezioni Unite, secondo la quale la pretesa sanzionatoria dello Stato deve prevalere sui diritti e sull'interesse del bambino, attraverso il filtro dell'ordine pubblico, non trova conferma nella giurisprudenza della Corte Costituzionale che in varie pronunce ha affermato con chiarezza che il disvalore che la legge attribuisce alla condotta dei genitori, al punto anche di sanzionarla penalmente, non può riverberarsi sulla condizione giuridica del figlio, nè per quanto riguarda l'accertamento di status, nè per quanto riguarda le relazioni personali. Al riguardo, va richiamato qui quell'importante filone giurisprudenziale della Corte costituzionale formatosi in riferimento agli automatismi legislativi (cfr., ex multis, Corte Cost., sent. n. 31 del 2012, e n. 7 del 2013): esso, pur riguardando ipotesi differenti da quella qui in discussione, viene comunque in rilievo perchè il Giudice delle leggi ha censurato proprio sotto il profilo della ragionevolezza, ai sensi dell'art. 3 Cost., congegni normativi che, al pari di quello al centro dell'odierna questione, precludono al giudice "ogni possibilità di valutazione e di bilanciamento, nel caso concreto".

Infatti, con tali pronunce la Corte Costituzionale ha, rispettivamente, escluso che la condanna per il reato di alterazione di stato o di soppressione di stato giustifichi, come sanzione accessoria, l'automatica decadenza dalla potestà/responsabilità dei genitori, dovendo anche in tal caso il giudice valutare, nell'esclusivo interesse del bambino, l'effettiva qualità della relazione e l'opportunità di salvaguardarla.

Si pensi, inoltre, nell'ambito del medesimo orientamento, alla sentenza n. 494 del 28.11.2002, che dichiarò costituzionalmente illegittimo l'art. 278 c.c. abr. che, in ordine all'incesto, impediva le indagini sulla paternità e la maternità.

Può dunque dirsi che, in materia di status il legislatore e la giurisprudenza hanno definitivamente abbandonato ogni logica sanzionatoria; invero, se la tutela dei diritti del bambino costituisce fine primario dell'ordinamento, allora essa non può essere sacrificata per condannare il comportamento dei genitori. Il fatto che la nascita sia dovuta ad una condotta degli adulti riprovata dall'ordinamento anche con il ricorso a sanzioni penali (l'adulterio, lo stupro, l'incesto, negli esempi sopra riportati), non impedisce più di costituire legalmente lo stato di figlio.

Incostituzionalità del divieto di trascrizione dell'atto di nascita in mancanza di un modo alternativo e conforme alle prescrizioni dell'art. 8 C.E.D.U. di riconoscimento dello status filiationis.

Alla luce di queste considerazioni non può ritenersi adeguato alle prescrizioni del parere consultivo del 9 aprile 2019 il modo alternativo di riconoscimento cui fa riferimento la decisione delle Sezioni Unite e cioè l'adozione della L. n. 184 del 1983, ex art. 44, lett. d).

In primo luogo, va osservato che tale - forma di adozione non crea un vero rapporto di filiazione ma il riconoscimento di una situazione affettiva cui attribuisce sì diritti e doveri ma che nega comunque al figlio e all'adottante il diritto a una relazione pienamente equiparata alla filiazione e pone il genitore non biologico in una situazione di inferiorità rispetto al genitore biologico.

L'adozione in casi particolari di cui all'art. 44, lett. d), non crea legami parentali con i congiunti dell'adottante ed esclude il diritto a succedere nei loro confronti.

In sostanza vi è - sempre che il procedimento di adozione in casi particolari si concluda positivamente - una sorta di declassamento (downgrade) della relazione genitoriale e dello status filiationis che non può legittimarsi in alcun modo paragonandolo a quello del matrimonio fra persone dello stesso sesso in unione civile previsto dal legislatore del 2016. In quest'ultimo caso la riqualificazione del rapporto non crea alcuna arbitraria discriminazione all'interno del nucleo familiare e preserva comunque i diritti e doveri derivanti per il diritto civile italiano dal matrimonio. Nè una legittimazione può essere ricercata dall'essere il vincolo matrimoniale instaurato fra persone dello stesso sesso, che nel nostro ordinamento non possono accedere alle tecniche di procreazione assistita. La stessa condizione di non riconoscibilità da parte del genitore intenzionale non biologico riguarda anche le coppie eterosessuali e una ipotetica differenziazione del regime di trascrizione degli atti di nascita sulla base della eterosessualità dei coniugi o della loro omosessualità incontrerebbe comunque la preclusione nei principi, a cui si è fatto riferimento in precedenza, di non discriminazione nei confronti del minore e dei suoi genitori e nel carattere inviolabile dei diritti fondamentali del minore alla identità e alla vita familiare. Ne consegue, allora, che l'unica giustificazione rinvenibile del diniego di riconoscimento del provvedimento dello Stato canadese legittimante l'inserimento del padre d'intenzione nell'atto di nascita del minore è appunto quella di un effetto espansivo della sanzione penale nei confronti del minore e del genitore intenzionale non biologico, ma si tratta di una giustificazione della quale ci si è ampiamente occupati sinora evidenziando il suo conflitto con le norme costituzionali, convenzionali e internazionali.

Per altro verso, l'istituto non corrisponde al requisito della tempestività trattandosi di un procedimento finalizzato ad un provvedimento che richiede un lungo e complesso iter processuale e decisionale perchè non consiste in una delibazione di una pronuncia giurisdizionale straniera che, se pure effettuata con riferimento all'interesse superiore del minore e quindi con una attenzione specifica al caso concreto, comporta come esito finale il recepimento di uno status già codificato in una statuizione giurisdizionale da dichiarare efficace nel nostro ordinamento. Il procedimento di adozione è invece finalizzato a una creazione di una situazione soggettiva ad hoc e specificamente propria del nostro ordinamento. Pertanto, tale procedimento comporta una articolazione e complessità decisamente superiore rispetto al procedimento di delibazione di una sentenza straniera, esponendo pertanto il minore a un lungo periodo di incertezza giuridica sulla propria condizione personale e determinando una preclusione o, comunque, una serie di ostacoli gravi all'esercizio della responsabilità genitoriale da parte del genitore intenzionale che la richiede.

Inoltre, l'adozione in casi particolari ex art. 44, lett. d), è soggetta alla volontà del genitore intenzionale di adire l'autorità giudiziaria italiana per richiederla e quindi lascia aperta la sua possibilità di sottrarsi all'assunzione di responsabilità già manifestata e legittimata nel paese in cui il minore è nato; ipotesi questa che potrà verificarsi specificamente nel caso di crisi della coppia genitoriale. Più grave è, per altro verso, la condizione inversa e cioè la soggezione dell'adozione ex art. 44, lett. d), all'assenso all'adozione da parte del genitore biologico che potrebbe venir meno in caso di separazione o divorzio, ma anche di sopravvenuto decesso.

In definitiva, il Collegio non ritiene esistenti nel sistema normativo italiano attuale istituti che consentano una forma di riconoscimento del legame di filiazione alternativa alla trascrizione dell'atto di nascita o al riconoscimento del provvedimento giurisdizionale straniero che instauri il legame di filiazione anche con il genitore intenzionale non biologico nei confronti del minore nato mediante ricorso all'estero alla pratica della gestazione per altri. Conformemente alla ratio sottesa al parere consultivo della Corte di Strasburgo sembra potersi affermare che l'istituto dell'adozione in casi particolari potrebbe semmai costituire una forma di tutela del rapporto affettivo insorto con il genitore intenzionale nei casi particolari in cui il pieno riconoscimento dello status filiationis non si dimostri concretamente rispondente all'interesse del minore.

Anche sotto questo profilo relativo al deficit di istituti alternativi vanno pertanto sollevate le precedenti questioni di legittimità costituzionale.

In definitiva, le valutazioni che precedono inducono a prospettare al giudice delle leggi la questione di legittimità costituzionale della L. n. 40 del 2004, art. 12, comma 6L. n. 218 del 1995, art. 64, comma 1, lett. g) e D.P.R. n. 396 del 2000, art. 18 (che vieta la trascrizione negli atti dello stato civile degli atti formati all'estero se contrari all'ordine pubblico), perchè in contrasto con gli artt. 2, 3, 30, 31 Cost. e art. 117 Cost., comma 1 - in relazione all'art. 8 CEDU - se interpretati, secondo l'attuale conformazione del diritto vivente, come impeditivi, in via generale e senza valutazione concreta dell'interesse superiore del minore, della trascrizione dell'atto di nascita legalmente costituito all'estero di un bambino nato mediante gestazione per altri nella parte in cui esso attesta la filiazione dal genitore intenzionale non biologico, specie se coniugato con il genitore intenzionale biologico.

P.Q.M.

Letti gli artt. 134 e 137 Cost.L. Cost. 9 febbraio 1948, n. 1, art. 1 e L. Cost. 11 marzo 1953, n. 87, art. 23.

DICHIARA rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della L. n. 40 del 2004, art. 12, comma 6D.P.R. n. 396 del 2000, art. 18 e L. n. 218 del 1995, art. 64, comma 1, lett. g), nella parte in cui non consentono, secondo l'interpretazione attuale del diritto vivente, che possa essere riconosciuto e dichiarato esecutivo, per contrasto con l'ordine pubblico, il provvedimento giudiziario straniero relativo all'inserimento nell'atto di stato civile di un minore procreato con le modalità della gestazione per altri (altrimenti detta "maternità surrogata") del cd. genitore d'intenzione non biologico, per contrasto con gli artt. 2, 3, 30, 31 Cost.art. 117 Cost., comma 1, quest'ultimo in relazione all'art. 8 della Convenzione Europea per la Protezione dei Diritti Umani e delle Libertà Fondamentali, artt. 2, 3, 7, 8, 9 e 18 della Convenzione 20 novembre 1989 delle Nazioni Unite sui diritti dei minori, ratificata in Italia con L. 27 maggio 1991, n. 176 e dell'art. 24 della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea. Dispone che la presente ordinanza sia notificata alle parti, al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata al Presidente del Senato e al Presidente della Camera dei Deputati.

Dispone che, all'esito, il fascicolo sia trasmesso, unitamente alla prova delle eseguite notificazioni e comunicazioni, alla Corte Costituzionale. Dispone che sia omessa l'indicazione dei nominativi e dei dati identificativi delle parti.

Sospende il giudizio.

Dispone che sia omessa l'indicazione dei nominativi e dei dati identificativi delle parti.

Sospende il giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 5 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 29 aprile 2020

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Rapporto tra la qualità di erede del coniuge superstite e il diritto di abitazione.

Con decisione del 20 luglio 2020, il Tribunale di Palermo ha stabilito che il diritto di abitazione non ha alcuna funzione di tutela della legittima e la sua ratio è quella di realizzare una nuova concezione della famiglia tendente ad una completa parificazione dei coniugi non solo sul piano patrimoniale ma anche sotto quello etico e sentimentale, sul presupposto che la ricerca di un nuovo alloggio per il coniuge superstite potrebbe essere fonte di un grave danno psicologico e morale per la stabilità delle abitudini di vita della persona.

(T. Palermo, Sez. II Civ., 20/7/2020, n. 2315)

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Termine a quo della prescrizione decennale per il rimborso del mantenimento del figlio naturale.

Con ordinanza n. 16561 depositata il 31 luglio 2020 la Corte di Cassazione ha stabilito che il genitore che ha riconosciuto il figlio, e che sia adempiente agli obblighi di mantenimento, ha diritto al rimborso pro quota delle spese di mantenimento. Tale diritto non incorre nell'ordinaria prescrizione decennale prima del passaggio in giudicato della sentenza che accerta la filiazione naturale.

(Cass. civ. Sez. I, Ord., 31.7.2020, n. 16561)

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Delitto di percosse anche se sul corpo della vittima non permangono segni lesivi.

Con sentenza 23 luglio 2020, n. 22045, la Corte di Cassazione ha affermato che, con particolare riferimento al reato di percosse, l'assenza tracce sul corpo della figlia dello schiaffo assestato dalla madre, non esclude l'integrazione del delitto di cui all'art. 581 c.p., atteso che tale delitto deve ritenersi, comunque, provato, non solo sulla scorta delle dichiarazioni della persona offesa e del padre, ma anche da eventuali riscontri documentali, come ad esempio, dal referto medico nel quale sia riportato che la vittima aveva riferito, nell'immediatezza dei fatti, al personale del Pronto Soccorso di essere stata colpita da uno schiaffo al volto dalla madre.

(Cass. pen. Sez. V, 23.7.2020, n. 22045)

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Il diritto degli ascendenti di frequentare i nipoti minorenni è recessivo rispetto al diritto di questi ultimi di crescere in maniera serena ed equilibrata.

I procedimenti in tema di provvedimenti riguardanti i minori non sono soggetti ad una rigida applicazione del principio della domanda, in quanto, per esigenze e finalità pubblicistiche, la tutela degli interessi morali e materiali della prole è sottratta all'iniziativa ed alla disponibilità delle parti, ed è sempre riconosciuto al giudice il potere di adottare d'ufficio, in ogni stato e grado del giudizio di merito, tutti i provvedimenti necessari per la migliore protezione dei minori, nonché di esercitare, in deroga alle regole generali sull'onere della prova, i poteri istruttori officiosi necessari nella specie, i contrasti insorti tra le parti, che avevano peraltro coinvolto anche altri componenti della famiglia, e le ripercussioni di ordine psicologico subite dalle minori, già affette da difficoltà fisiche e/o di attenzione segnalate nella relazione del Servizio sociale, nonché il rischio di destabilizzazione della stessa coppia genitoriale, dovuto all'irrigidimento dei rapporti familiari, mettendo in pericolo la realizzazione del progetto formativo ed educativo al quale il nonno paterno avrebbe dovuto collaborare, si configuravano infatti come fattori sopravvenuti ostativi all'esercizio del diritto riconosciuto dal precedente provvedimento, almeno secondo le modalità da quest'ultimo stabilite, giustificando pertanto non solo il rigetto della domanda proposta dal ricorrente, ma anche l'intervento officioso del giudice, volto a modificare la predetta disciplina al fine di assicurare la compatibilità del mantenimento dei rapporti con il nonno con l'equilibrato sviluppo delle nipoti.

(Cass. civ. Sez. I, Ord., 19.5.2020, n. 9145)

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Il mutamento del cognome del minore, per l'aggiunta di quello della madre, necessita l'accordo dei genitori.

Il mutamento del cognome del minore, coinvolgendo un diritto fondamentale dell'individuo, è ricompreso tra le decisioni di maggiore interesse per le quali, nell'esercizio della responsabilità genitoriale, è necessario l'accordo dei genitori. Infatti, l'effettiva realizzazione dell'identità personale si attua anche attraverso l'affermazione del diritto del figlio ad essere indidivuato tramite l'attribuzione del cognome di entrambi i genitori, considerato il riconoscimento del paritario rilievo di tali figure nel processo di costruzione dell'identità medesima.

(Tribunale di Napoli 27 marzo 2020)

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Danno endofamiliare: risarcibile solo in caso di violazione di un diritto fondamentale di natura costituzionale.

Si ha illecito endofamiliare allorquando i comportamenti sono illeciti solo perché commessi da persone legate da vincoli famigliari, mentre non lo sarebbero nel caso di commissione da parte di persone non legate da tali vincoli. Tuttavia, il risarcimento del danno da illecito famigliare può essere effettuato solo nel caso in cui venga violato un diritto fondamentale di rango costituzionale, quale la dignità della persona, e la violazione sia di particolare gravità, essendo posta in essere con modalità insultante, ingiuriosa ed offensiva.

(Trib. di Reggio Emilia, 24 giugno 2020)

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Non delibabile la sentenza straniera di divorzio che maschera un ripudio.

Con ordinanza n. 17170, depositata il 14 agosto 2020, la prima sezione della Cassazione civile ha affermato che il giudizio di delibazione di un provvedimento straniero deve mantenersi aderente al dettato della L. n. 218 del 1995, art. 64, c. I, lett. g), secondo cui il riconoscimento della sentenza straniera non può avere luogo se le sue disposizioni producono "effetti contrari all'ordine pubblico" e, per l'effetto, è necessario che il giudice, senza estendere la propria cognizione altrove, valuti gli "effetti" della decisione nel nostro ordinamento e non la correttezza della soluzione adottata alla luce dell'ordinamento straniero, ovvero della legge italiana, non essendo consentita un'indagine sul merito del rapporto giuridico dedotto. Pertanto, non è delibabile nel nostro ordinamento una sentenza iraniana di divorzio che in realtà consisteva in un ripudio.

(Cass. civ., Sez. I, ord., 14.8.2020, n. 17170)

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Accordo integrativo a latere del contratto di locazione: nullo per contrarietà a norme imperative.

In tema di locazioni non abitative, l'accordo integrativo concluso tra locatore e conduttore, a latere del contratto di locazione, volto a far ottenere al locatore un canone maggiorato rispetto a quello previsto nel contratto di locazione, deve ritenersi nullo per contrarietà a norme imperative ex art. 1418, comma 1, c.c. e 79, comma 1, L. n. 392/1978 in quanto volto ad eludere la normativa di natura tributaria che deve ormai ritenersi norma imperativa. 

(Cass. Civ., Sez. III, n. 22126 del 13 ottobre 2020)

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L'accertamento della maternità ex art. 269 c.p.c., in caso di parto anonimo è sottoposta alla revoca della rinuncia alla genitorialità giuridica da parte della madre.

L’azione giudiziale di accertamento della maternità ex art. 269 c.p.c., nel caso in cui la madre abbia esercitato il diritto al cd. parto anonimo, è sottoposta alla condizione della sopravvenuta revoca della rinuncia alla genitorialità giuridica da parte della madre, ovvero alla morte di quest’ultima, non essendovi più in entrambi i casi elementi ostativi per la conoscenza del rapporto di filiazione e così dovendosi interpretare, secondo una lettura costituzionalmente e internazionalmente orientata, la suddetta norma.

(Cassazione civile, sez. I, 22 Settembre 2020, n. 19824)

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Cessione in godimento del lastrico solare per ripetitore.

Il programma negoziale con cui il proprietario di un lastrico solare intenda cedere in godimento ad altri, a titolo oneroso, la facoltà di installarvi e mantenervi per un certo tempo un ripetitore, o altro impianto tecnologico, con il diritto di mantenere la disponibilità ed il godimento dell'impianto ed asportare il medesimo alla fine del rapporto, può astrattamente essere perseguito sia attraverso un contratto ad effetti reali, sia attraverso un contratto ad effetti personali; la riconduzione del contratto concretamente dedotto in giudizio all'una o all'altra delle suddette categorie rappresenta una questione di interpretazione contrattuale, che rientra nei poteri del giudice di merito. Qualora le parti abbiano inteso attribuire al loro accordo effetti reali, lo schema negoziale di riferimento è quello del contratto costitutivo di un diritto di superficie, il quale attribuisce all'acquirente la proprietà superficiaria dell'impianto installato sul lastrico solare, può essere costituito per un tempo determinato e può prevedere una deroga convenzionale alla regola che all'estinzione del diritto per scadenza del termine il proprietario del suolo diventa proprietario della costruzione; il contratto con cui un condominio costituisca in favore di altri un diritto di superficie, anche temporaneo, sul lastrico solare del fabbricato condominiale, finalizzato alla installazione di un ripetitore, o altro impianto tecnologico, richiede l'approvazione di tutti i condomini. Qualora le parti abbiano inteso attribuire al loro accordo effetti obbligatori, lo schema negoziale di riferimento è quello del contratto atipico di concessione ad aedificandum di natura personale, con rinuncia del concedente agli effetti dell'accessione; con tale contratto il proprietario di un'area concede ad altri il diritto personale di edificare sulla stessa, di godere e disporre dell'opera edificata per l'intera durata del rapporto e di asportare tale opera al termine del rapporto. Esso è soggetto alla disciplina dettata, oltre che dai patti negoziali, dalle norme generali contenute nel titolo II del libro IV del codice civile (art. 1323 c.c.), nonché, per quanto non previsto dal titolo, dalle norme sulla locazione, tra cui quelle dettate dagli artt. 1599 c.c. e 2643 n. 8 c.c. Ove stipulato da un condominio per consentire ad altri la installazione di un ripetitore, o altro impianto tecnologico, sul lastrico solare del fabbricato condominiale richiede l'approvazione di tutti i condomini solo se la relativa durata sia convenuta per più di nove anni.

(Cassazione Sez. Un. Civili, 30 Aprile 2020, n. 8434. Pres. Mammone. Est. Cosentino)

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Relativamente al progetto educativo dei figli, ciascun genitore deve rispettare il credo dell'altro genitore.

Con decisione del 9 luglio 2020, il Tribunale di Pesaro ha accolto la richiesta della madre di modifica delle condizioni di affidamento della figlia minore, con particolare riguardo al divieto a lei imposto di fare frequentare alla figlia, che aveva praticato sin da piccola la religione Cattolica, le riunioni e le adunanze dei Testimoni di Geova. Il Giudice ha sottolineato che ciascun genitore dovrà rispettare il credo dell'altro genitore, permettendo e non impedendo al figlio minore non solamente di praticare e frequentare le celebrazioni religiose dell'altro genitore, ma anche tutte quelle tradizioni ed attività, direttamente o indirettamente legati alla religione di ciascun, genitore, anche se in contrasto con i principi della propria religione, come, a titolo meramente esemplificativo, feste, compleanni e recite scolastiche.

(Tribunale Pesaro, 09/07/2020)

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Il potere di pattuire con i condomini morosi dilazioni di pagamento o di concludere accordi transattivi non spetta all'amministratore ma all'assemblea.

Non rientra tra le attribuzioni dell'amministratore il potere di pattuire con i condomini morosi dilazioni di pagamento o accordi transattivi, spettando all'assemblea il potere di approvare una transazione riguardante spese d'interesse comune, ovvero di delegare l'amministratore a transigere, fissando gli eventuali limiti dell'attività dispositiva negoziale affidatagli.

(Cassazione civile, sez. VI, 08 Giugno 2020, n. 10846. Pres. D'Ascola. Est. Scarpa)

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Vessatoria la clausola che attribuisce al mediatore il diritto alla provvigione anche in caso di recesso del venditore.

La clausola che attribuisca al mediatore il diritto alla provvigione anche in caso di recesso da parte del venditore può presumersi vessatoria quando il compenso non trova giustificazione nella prestazione svolta dal mediatore. Si presume vessatoria anche la clausola che consente al professionista di trattenere una somma di denaro versata dal consumatore se quest'ultimo non conclude il contratto o recede da esso, senza prevedere il diritto del consumatore di esigere dal professionista il doppio della somma corrisposta se è quest'ultimo a non concludere il contratto oppure a recedere.

(Cassazione civile, sez. II, 18 Settembre 2020, n. 19565. Pres. D'Ascola. Est. Rossana Giannaccari)

*** ***

Fatto

1. Con decreto n. 11779 del 09/13.06.2011, il Giudice di Pace di Roma ingiungeva a A.B. ed a C.D. il pagamento in favore della D. Immobiliare S.r.l. dell'importo pari ad Euro 4.100,00, oltre interessi e spese, a titolo di penale per l'anticipato recesso dal contratto di mediazione stipulato in data 07.02.2011.

1.1. Con il citato contratto, A.B. e C.D. affidavano alla D. Immobiliare s.r.l. l'incarico di alienare un immobile di loro proprietà in Roma, prevedendo all'art. 4, comma 3, il diritto di ciascuna parte di recedere anticipatamente dall'accordo, previa corresponsione, in favore dell'altra, di un corrispettivo pari all'1% del prezzo di vendita dell'immobile, stimato in complessivi Euro 410.000,00.

1.2. Con comunicazione del 15.02.2011, A.B. e C.D. recedevano dal contratto, ritenendo che la stima del prezzo di vendita fosse incongruo ed inferiore di circa Euro 30.000.00 rispetto a quello effettuato da altre due agenzie immobiliari.

1.3. Con atto di citazione notificato il 20.10.2011, A.B. e C.D. proponevano opposizione a decreto ingiuntivo, deducendo, da un lato, il carattere vessatorio della clausola di cui all'art. 4, comma 3, del mandato di mediazione immobiliare e rilevando, dall'altro, l'errore essenziale in cui sarebbero incorsi ad opera della controparte nella determinazione del prezzo di vendita. Con riguardo al primo dei due profili, gli opponenti, in qualità di consumatori D.Lgs. n. 206 del 2005, ex art. 3, comma 1, denunciavano il significativo squilibrio contrattuale derivante dall'applicazione della previsione di cui all'art. 4, che, nel commisurare il corrispettivo dovuto dai preponenti in caso di recesso, non contemplava un adeguamento dello stesso all'attività concretamente espletata dall'agenzia, costringendo, in tal modo, i mandanti a riconoscere in favore di controparte l'importo pattuito a prescindere dall'attività svolta e dai risultati conseguiti dal mediatore. L'iniquità di tale previsione negoziale risultava avvalorata dall'inconsistente differenza tra la percentuale riconosciuta in favore dell'agente in caso di conclusione dell'affare - pari a 1,5% del prezzo di vendita dell'immobile - e quella stabilita in caso di recesso del cliente - pari all'1% del medesimo prezzo. Quanto, poi, alla seconda censura formulata, gli opponenti sostenevano di essere stati indotti in errore dall'agenzia in errore in ordine al prezzo dell'immobile, essendo lo stesso di ammontare notevolmente inferiore a quello risultante dalle quotazioni del mercato immobiliare.

1.4. Con sentenza n. 28598/2013 del 16.11.2012, il Giudice di Pace di Roma accoglieva l'opposizione e, per l'effetto, revocava il decreto ingiuntivo opposto, dichiarando nullo ed inefficace il contratto stipulato tra le parti e rilevando, in ogni caso, la legittimità del recesso esercitato dagli opponenti per avere l'agente sottostimato il prezzo di vendita dell'immobile, inducendoli, in tal modo, alla stipula di un negozio in base ad una distorta rappresentazione della realtà.

1.5. Con atto di citazione notificato in data 20.01.2014, la D. Immobiliare s.r.l. appellava la sentenza del Giudice di pace.

1.6. Instauratosi il contraddittorio con la costituzione di A.B. e C.D., il Tribunale di Roma, con sentenza dell'11.3.2016, accoglieva l'appello e, per l'effetto confermava il decreto ingiuntivo opposto.

1.7. Il Tribunale applicava la disciplina di cui agli artt. 1469 bis e ss. relativa ai contratti del consumatore e non riconosceva natura vessatoria alla clausola di cui all'art. 4, comma 3 del contratto di mediazione. In particolare, osservava il giudice d'appello come la previsione negoziale censurata ponesse le parti su di un piano di assoluta parità, riconoscendo alle stesse la facoltà di recedere dal contratto previa corresponsione del medesimo importo. La stessa quantificazione del corrispettivo dovuto non era indice, secondo il Tribunale, del carattere vessatorio della clausola negoziale, essendo lo stesso di ammontare inferiore di un terzo rispetto all'importo previsto a titolo di compenso provvigionale. Infine, quanto al profilo dell'errore essenziale in cui sarebbe incorsi i mandanti al momento della stipula del negozio, il giudice del gravame ne motivava l'insussistenza in ragione del mancato assolvimento dell'onere probatorio ex art. 2697 c.c., non avendo gli stessi dimostrato l'effettiva sussistenza del vizio denunciato, limitandosi a produrre in atti stime del valore del proprio immobile eseguite da altre agenzie immobiliari, inidonee a comprovare l'anomalia occorsa nel procedimento di formazione della volontà.

2. Per la cassazione della sentenza hanno proposto ricorso A.B. e C.D. sulla base di sei motivi.

2.1. Ha resistito con controricorso D. Immobiliare S.r.l..

 

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1418, 1419, 1342, 1362 e 1469 bis c.c. e del D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, artt. 18, 19, 20, 21, 22, 33, 34, 35, 36 e 64, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. I ricorrenti muovono dalla disposizione contenuta nel D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 33, la quale prevede la nullità di una clausola che imponga al consumatore, in caso di inadempimento, il pagamento di una somma di denaro eccessivo a titolo di risarcimento, clausola penale o altro titolo equivalente di importo manifestamente eccesivo. Il giudice di merito avrebbe errato nel riconoscere al mediatore il diritto alla provvigione in caso di recesso anticipato, sulla base dell'art. 4, comma 3 del contratto, omettendo di accertare in concreto se il contratto avesse avuto un inizio di esecuzione e se un'attività affettiva fosse stata dal medesimo svolta, tenendo conto che la revoca era intervenuta solo una settimana dopo il conferimento dell'incarico. La determinazione concreta dell'importo dovuto in caso di recesso, stabilita nella misura pari a due terzi, comporterebbe, secondo i ricorrenti, uno squilibrio nel sinallagma contrattuale, in quanto nessun tipo, di attività sarebbe stata svolta dal mediatore. Infine, il giudice di merito non avrebbe considerato che il recesso sarebbe avvenuto entro dieci giorni dalla conclusione del contratto, sicchè sussisterebbe il diritto ex lege del consumatore, ai sensi dell'art. 64 del Codice del Consumo, di recedere senza corrispondere alcuna penalità.

2. Con il terzo motivo di ricorso, sotto la rubrica "violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., n. 3 con riferimento agli artt. 1725 e 1759 c.c. e del D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 64, (applicabili ratione tempons) in relazione all'art. 2697 c.c. ed agli artt. 115 e 116 c.p.c. ", il ricorrente lamenta che il giudice di merito non avrebbe valutato la sussistenza di una giusta causa di recesso e l'attività concretamente effettuata dal mediatore fino a tale data. Sarebbe mancata l'indagine sull'adeguatezza del corrispettivo pattuito, ai sensi dell'art. 4, comma 3 del contratto di mediazione, in quanto la comunicazione del recesso era avvenuta dopo sette giorni dalla stipula del contratto.

3.1. I motivi, che vanno esaminati congiuntamente per la loro connessione, sono fondati nei limiti di cui in motivazione.

3.2. Non sussiste, in primo luogo, la violazione del D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 64 -secondo cui per i contratti e per le proposte contrattuali a distanza ovvero negoziati fuori dai locali commerciali, il consumatore ha diritto di recedere senza alcuna penalità e senza specificarne il motivo, entro il termine di quattordici giorni lavorativi - non risultando dalla motivazione della sentenza impugnata che il contratto di mediazione sia stato concluso fuori dai locali commerciali.

3.3. Quanto alla natura abusiva della clausola che prevede una penale pari all'1%, del prezzo di vendita in caso di revoca dell'incarico prima della scadenza, si impongono, preliminarmente, alcune premesse di inquadramento.

3.4. Il D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206 - noto con l'accezione di Codice del Consumo - rappresenta il plesso normativo finalizzato ad apprestare una tutela incisiva e pregnante ad una parte - consumatore - generalmente dotata di minor forza contrattuale dell'altra - professionista - nella definizione dell'assetto negoziale, atto a disciplinare l'operazione perseguita dalle parti contraenti.

3.5. A questo proposito occorre ricordare che, in base alla giurisprudenza costante della Corte di Giustizia, il sistema di tutela istituito con la direttiva 93/13 si fonda sull'idea che il consumatore si trova in una posizione di inferiorità nei confronti del professionista per quanto riguarda sia il potere negoziale sia il livello di informazione (v., in particolare, sentenza del 17 luglio 2014, Sanchez Mordilo e Abril Garcfa, C-169/14, EU:C:2014:2099, punto 22 e giurisprudenza ivi citata).

3.6. La normativa speciale, introducendo una specifica disciplina diretta ad appianare le disuguaglianze sostanziali fra soggetti titolari di poteri contrattuali differenti, integra la normativa codicistica, enucleando una forma di tutela privatistica differenziata su base personale, applicabile esclusivamente in ragione della qualifica soggettiva rivestita dalle parti contraenti.

3.7. La forte connotazione soggettiva dell'impianto così strutturato emerge chiaramente dalla previsione di cui all'art. 3 del Codice del Consumo che, circoscrivendo l'ambito applicativo della normativa, definisce le contrapposte categorie di consumatore e professionista.

3.8. Precisamente, ai sensi della lett. a) della previsione de qua, con l'accezione "consumatore ed utente" si intende "la persona fisica che agisce per scopi estranei all'attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta"; di contro, il termine "professionista" individua, ai sensi della lett. e) della medesima disposizione, "la persona fisica o giuridica che agisce nell'esercizio della propria attività imprenditoriale o professionale".

3.9. Tracciati i confini soggettivi della normativa di cui al D.Lgs. n. 206 del 2005, risulta, a questo punto, necessario perimetrarne l'ambito oggettivo, focalizzando l'attenzione sulle c.d. clausole vessatorie, la cui disciplina, in forza del rinvio operato dall'art. 1469 bis c.c., è cristallizzata negli artt. 33 e ss. del Codice del Consumo.

3.10. Mette conto evidenziare che l'art. 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13 prevede che "le clausole abusive non vincolino i consumatori se, malgrado la buona fede determina un significativo squilibrio in danno del consumatore. Si tratta di una disposizione imperativa tesa a sostituire all'equilibrio formale, che il contratto determina fra i diritti e gli obblighi delle parti contraenti, un equilibrio reale, finalizzato a ristabilire l'uguaglianza tra queste ultime (v., in particolare, sentenze del 17 luglio 2014, Sanchez Mordilo e Abril Garcia, C-169/14, EU:C:2014:2099, punto 23, nonchè del 21 dicembre 2016, Gutierrez Naranjo e a., C-154/15, C-307/15 e C-308/15, EU:C:2016:980, punti 53 e 55).

3.11. Secondo la giurisprudenza costante della Corte di Giustizia, tale, disposizione deve essere considerata come una norma equivalente alle disposizioni nazionali che occupano, nell'ambito dell'ordinamento giuridico interno, il rango di norme di ordine pubblico (v. sentenze del 6 ottobre 2009, Asturcom Telecomunicaciones, C-40/08, EU:C:2009:615, punti 51 e 52, nonchè del 21 dicembre 2016, Gutierrez Naranjoe a., C-154/15, C-307/15 e C-308/15, EU:C:2016:980, punto 54; Corte di Giustizia UE sez. I, 26/01/2017, n. 421). 3.12.L'art. 33, comma 1 del Codice del Consumo pone un'enunciazione di ordine generale, definendo vessatorie le clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto.

3.13. Indice univoco del carattere abusivo di una clausola, alla stregua della definizione poc'anzi enunciata, è, dunque, rappresentato dallo squilibrio avente ad oggetto non già il mero valore delle reciproche prestazioni delle parti, bensì il complesso dei diritti e degli obblighi derivanti dal regolamento contrattuale predisposto.

3.14. L'indagine giudiziale circa la natura vessatoria delle clausole è agevolata dalla tipizzazione, all'interno del Codice del Consumo, di un elenco di clausole per le quali sussiste una presunzione assoluta di vessatorietà, che hanno l'effetto di indebolire ulteriormente la posizione contrattuale del consumatore.

3.15. L'automatica comminazione della sanzione della nullità parziale della clausola, e non dell'intero rapporto contrattuale, associata a tali previsioni subisce una deroga espressa con riguardo alle c.d. clausole presumibilmente vessatorie.

3.16. L'art. 33, comma 2 del Codice del Consumo contiene un elenco di venti clausole soggette ad una presunzione relativa di vessatorietà, in forza della quale una previsione negoziale astrattamente riconducibile ad una o più delle clausole espressamente contemplate dal suddetto elenco si presume vessatoria, salvo che il professionista fornisca la prova contraria.

3.17. L'onere probatorio gravante sul professionista al fine di confutare la natura presumibilmente vessatoria di una clausola contrattuale si considera assolto al ricorrere di determinati presupposti.

3.18. In primis, la presunzione di vessatorietà può essere vinta dal professionista, in conformità a quanto espressamente previsto dall'art. 34, comma 4 del Codice del Consumo, mediante la dimostrazione che la clausola censurata non sia stata unilateralmente imposta dallo stesso, ma abbia, di contro, formato oggetto di specifica trattativa individuale tra le parti, sempre che la medesima risulti caratterizzata dagli indefettibili requisiti dell'individualità, serietà ed effettività (Cass. civ., 20/03/2016, n. 6802; Cass. civ., 26/09/2008, n. 24262).

3.19. In primo luogo, ai sensi dell'art. 34, comma 2 del Codice del Consumo, non possono considerarsi vessatorie le clausole che attengono alla determinazione dell'oggetto del contratto nè all'adeguatezza del corrispettivo dei beni,e dei servizi, purchè tali elementi siano individuati in modo chiaro e comprensibile. - 3.20.Secondo quanto stabilito da Cass. civ., sez. III, 03/11/2010, n. 22357, la clausola che attribuisca al mediatore il diritto alla provvigione anche nel caso di mancata effettuazione dell'affare per fatto imputabile al venditore può presumersi vessatoria, e quindi inefficace a norma dell'art. 1469 bis c.c., se le parti non abbiano espressamente pattuito un meccanismo di adeguamento di tale importo all'attività sino a quel momento concretamente espletata dal mediatore.

3.21. La ratio dell'introduzione di tale principiò di gradualità va ravvisata nell'esigenza di garantire, nei contratti a prestazioni corrispettive come il contratto di mediazione "atipica" il rispetto del sinallagma contrattuale, dovendo trovare la prestazione di una parte il proprio fondamento nella controprestazione, al fine di evitare il ricorrere di situazioni di indebito arricchimento ai danni del contraente debole del negozio perfezionato.

3.22. Come argomentato nella citata sentenza, il compenso del mediatore, in caso di mancata conclusione dell'affare, trova giustificazione nello svolgimento di una concreta attività di ricerca di terzi interessati all'affare, attraverso la predisposizione dei propri mezzi e della propria organizzazione. 3.23.L'accertamento relativo all'abusività della clausola va svolto anche nell'ipotesi in cui sia previsto il diritto potestativo di recesso, al fine di evitare che il diritto al compenso possa essere fissato in misura indipendente dal tempo e dall'attività svolta dal mediatore.

3.24. Non si tratta, pertanto, di un inammissibile sindacato sull'oggetto del contratto, vietato dall'art. 34 comma 2 del Codice del Consumo in quanto non è messo in gioco la congruità del corrispettivo nell'ambito del regolamento dei rapporti contrattuali; l'accertamento sulla; vessatorietà della clausola costituisce, invece, un dovere officioso del giudice, tenuto a rilevare, anche d'ufficio la nullità di una clausola che, nel contratto concluso tra il consumatore ed il professionista, determina, a carico del consumatore, un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto.

3.25. Il giudice di merito ha reputato non squilibrata in favore del professionista la clausola citata sia perchè l'indennità dell'1% per il diritto di recesso è stabilite anche a carico dell'agenzia sia perchè oggetto di trattativa tra le parti. Non ha però tenuto conto che il compenso andava parametrato all'attività concretamente svolta dal mediatore, che, in relazione al breve lasso temporale intercorrente tra la conclusione del contratto e l'esercizio del diritto di recesso, meritava di attenta valutazione da parte del giudice di merito.

3.26. La clausola contrattuale, che riconosce il diritto al compenso in via automatica, se svincolata dall'effettivo svolgimento dell'attività di ricerca dei terzi interessati all'affare e delle attività ad esse propedeutiche, conduce al risultato di costituire, a favore dell'agente immobiliare una rendita di posizione, andando ad incidere negativamente sull'equilibrio contrattuale nel rapporto tra professionista e consumatore espressamente previsto dall'art. 33 del Codice del Consumo.

3.27. La valutazione in concreto dell'attività svolta impedisce che il diritto alla provvigione da parte del mediatore possa essere svincolato dallo svolgimento di qualsiasi controprestazione, determinando inevitabilmente non tanto uno squilibrio nella prestazioni ma addirittura l'assenza della prestazione.

3.29. Il sindacato sull'equilibrio contrattuale, che costituisce uno dei cardini dell'operazione ermeneutica in materia di contratto concluso con il consumatore risulta del tutto omessa, indagine che, invece avrebbe dovuto essere svolta, secondo l'orientamento di questa Corte espresso da Cassazione Sez. III del 3.11.2010 n. 23357.

3.30. Il principio espresso dalla citata decisione, che demanda al giudice di merito la valutazione della vessatorietà della clausola che prevede un importo eccessivo in favore del mediatore, nell'ipotesi di mancata conclusione dell'affare deve essere quindi estesa anche nel caso in cui sia stato esercitato il diritto potestativo di recesso.

3.31. La decisione impugnata si pone in contrasto con la giurisprudenza della Corte di Giustizia, che, in più occasioni ha affermato che, in assenza di un controllo efficace del carattere potenzialmente abusivo delle clausole del contratto da parte del giudice, il rispetto dei diritti conferiti dalla direttiva 93/13 non può essere garantito (sentenza del 13.9.2018, Profit Credit Polska, C-176/17, EU: C.2018:711).

3.32. Tale penetrante controllo è previsto anche in via officiosa affine di ovviare allo squilibrio che esiste tra il consumatore ed il professionista, come affermato nella sentenza dell'11 marzo 2020, Lintner, C-511/17, EU:C:2020:188, in materia di credito al consumo. Nella citata decisione, la corte di Lussemburgo demanda al giudice, anche in caso di mancata comparizione del consumatore, il compito di adottare i mezzi istruttori necessari per verificare il carattere potenzialmente abusivo delle clausole rientranti nell'ambito di applicazione della direttiva 93/13, per garantire al consumatore la tutela dei diritti che gli sono conferiti dalla direttiva stessa.

3.33. Più recentemente, la Corte di Giustizia, con la sentenza del 4.6.2020, nella causa C-495/19, avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Tribunale Regionale di Poznan, Polonia, concernente l'acquisizione d'ufficio, da parte del giudice, dei mezzi istruttori per accertare la natura abusiva delle clausole, in caso di procedimento contumaciale, ha affermato che tale indagine deve essere effettuata, qualora sussistano dubbi sul carattere abusivo delle clausole. E' stato ribadito che spetta ai giudici nazionali, tenendo conto di tutte le norme del diritto nazionale e applicando i metodi di interpretazione riconosciuti da quest'ultimo, decidere se e in quale misura una disposizione nazionale possa essere interpretata conformemente alla direttiva 93/13, senza procedere ad un'interpretazione contra legem di tale disposizione nazionale (v., per analogia, sentenza del 17 aprile 2018, Egenberger, C-414/16, EU:C: 2018:257, punto 71 e giurisprudenza ivi citata). La Corte ha peraltro stabilito che l'esigenza di un'interpretazione conforme include l'obbligo, per i giudici nazionali, di modificare, se del caso, una giurisprudenza consolidata se questa si basa su un'interpretazione del diritto nazionale incompatibile con gli scopi di una direttiva (sentenza del 17 aprile 2018, Egenberger, C-414/16, EU:C:2018:257, punto 72 e giurisprudenza ivi citata).

3.34. La corte di merito ha omesso di valutare il profilo di vessatorietà della clausola contrattuale, anche con riferimento all'art. 33, lett. e) del Codice del Consumo, che stabilisce la presunzione di vessatorietà della clausola che consente al professionista di trattenere una somma di denaro versata dal "consumatore se quest'ultimo non conclude il contratto o recede da sso, senza prevedere il diritto del consumatore di esigere dal professionista il doppio della somma corrisposta se è quest'ultimo a non concludere il contratto oppure a recedere.

3.35. La sentenza impugnata va cassata in relazione ai motivi accolti, nei limiti di cui in motivazione, e rinviata, anche per le spese del giudizio di legittimità, innanzi al Tribunale di Roma, in diversa composizione, che si atterrà ai seguenti principi di diritto:

"La clausola che attribuisca al mediatore il diritto alla provvigione anche in caso di recesso da parte del venditore può presumersi vessatoria quando il compenso non trova giustificazione nella prestazione svolta dal mediatore. E' compito del giudice di merito valutare se una qualche attività sia stata svolta dal mediatore attraverso le attività propedeutiche e necessarie per la ricerca di soggetti interessati all'acquisto del bene".

"Si presume vessatoria la clausola che consente al professionista di trattenere una somma di denaro versata dal consumatore se quest'ultimo non conclude il contratto o recede da esso, senza prevedere il diritto del consumatore di esigere dal professionista il doppio della somma corrisposta se è quest'ultimo a non concludere il contratto oppure a recedere".

4. Con il secondo motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 con riferimento all'art. 1176 c.c., comma 2, e art. 1375 c.c. in relazione agli artt. 1427,1428,1429,1469 bis, 1759,2697 e 2729 c.c. e art. 115 c.p.c., per non aver il Giudice di merito riconosciuto l'errore essenziale in cui sarebbero incorsi i ricorrenti ad opera della controparte nella determinazione del prezzo di vendita dell'immobile, unilateralmente determinato e sottostimato rispetto alle valutazioni compiute da altre agenzie.

4.1. Il motivo è infondato.

4.2. L'errore, quale vizio del consenso idoneo ad incidere sul libero processo di formazione della volontà, deve, per assumere rilevanza ai fini dell'annullamento contrattuale, essere dotato degli specifici requisiti normativamente tipizzati ex art. 1428 c.c. dell'essenzialità e della riconoscibilità.

4.3. L'errore sulla valutazione economica della cosa oggetto del contratto non rientra nella nozione di errore di fatto idoneo a giustificare una pronuncia di annullamento del contratto, in quanto non incide sull'identità o qualità della cosa, ma attiene alla sfera dei motivi in base ai quali la parte si è determinata a concludere un certo accordo ed al rischio che il contraente si assume, nell'ambito dell'autonomia contrattuale, per effetto delle proprie personali valutazioni sull'utilità economica dell'affare (Cass. civ., sez. II, 03/09/2013, n. 20148; Cass. civ., sez. I, 12/06/2008, n. 15706; Cass. civ., sez. Ili, 03/04/2003, n. 5139). 4.4.Il Tribunale di Roma, con apprezzamento di fatto, incensurabile in sede di legittimità, ha tratto la prova relativa all'assenza dei requisiti dell'errore di fatto proprio dalla disparità della valutazione dell'immobile da parte delle altre due agenzie immobiliari, che prevedevano un'oscillazione di circa Euro 30.000,00. 4.5.In secondo luogo, il Tribunale ha accertato che" la censura relativa alla presunta unilaterale determinazione del prezzo di vendita da parte della Do.Ro Immobiliare s.r.l. risultava smentita dalla lettera del regolamento contrattuale, in cui sì menziona espressamente l'accordo raggiunto tra le parti in merito alla quantificazione del corrispettivo di vendita dell'immobile (cfr. pag. 6 sentenza Tribunale).

4.6. Ebbene, nel caso di specie, l'errore invocato dagli odierni ricorrenti esula dalla nozione di errore di fatto essenziale e riconoscibile, traducendosi semplicemente in una falsa rappresentazione avente ad oggetto il valore del bene e, quindi, la convenienza stessa dell'affare concluso dalle parti contraenti.

5. Con il quarto motivo di ricorso si deduce il vizio di omessa motivazione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, con riferimento all'art. 1418 c.c., comma 1, artt. 1419 e 1725 c.c., per non aver il Giudice di merito statuito in ordine alla difformità dei modelli di incarico predisposti dalla D. Immobiliare rispetto alla modulistica di settore approvata e recepita da F.I.A.I.P. e dalle Camere di Commercio.

6. Con il quinto motivo di ricorso si deduce l'omessa motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5 con riferimento all'art. 1418 c.c., comma 1, artt. 1419 e 1725 c.c., per non aver il Tribunale di Roma proceduto all'esame delle clausole di cui agli artt. 6 e 7 del contratto di mediazione, rispettivamente disciplinanti la durata del vincolo negoziale ed il diritto di esclusiva, sulle quali sarebbe mancata la trattativa.

7. Con il sesto motivo di ricorso si deduce l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5 con riferimento all'art. 2697 c.c. e art. 115 c.p.c., per aver il Giudice di merito errato nell'applicazione del c.d. fatto notorio concernente la documentazione prodotta dai ricorrenti in relazione alla stima del valore dell'immobile effettuata da altre agenzie, con ciò disattendo le norme di cui agli artt. 2697 c.c. e ss., in materia di onere della prova.

8.I motivi, che vanno esaminati congiuntamente per la loro connessione, sono inammissibili.

8.1. I ricorrenti, nella formulazione delle suddette doglianze, si sono limitati ad addurre, in violazione del principio di autosufficienza di cui all'art. 366 c.p.c., critiche generiche alla sentenza impugnata, impedendo a codesta Corte di avere una completa cognizione del significato e della portata delle censure formulate.

8.2. I motivi di cui ai nn. 4 e 5 del ricorso, oltre ad essere privi del summenzionato carattere della completezza ed esaustività, risultano, altresì, estranei al thema decidendum del giudizio, con conseguente violazione del consolidato orientamento di questa Corte, secondo cui i motivi di ricorso per cassazione devono investire, a pena di inammissibilità, questioni che abbiano formato oggetto del thema decidendum del giudizio di secondo grado, fissato dalle impugnazioni e dalle richieste delle parti (Cass. civ., sez. II, 11/08/1990, n. 8230).

8.3. Non può, pertanto, alla stregua delle considerazioni svolte, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, che ha ad oggetto il fatto storico e non la diversa ricostruzione delle emergenze istruttorie da parte del giudice di merito, con motivazione che deve assicurare il "minimo costituzionale" (Cassazione civile sez. un., 07/04/2014, n. 8053.

8.4. Anche il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione è inammissibile perchè presuppone come ancora vigente il controllo di legittimità sulla motivazione della sentenza nei termini in cui esso era possibile prima della modifica dell'art. 360 c.p.c., n. 5, apportata dal D.L n. 83 del 2012, convertito - nella L. n. 134 del 2012, essendo viceversa denunciabile soltanto l'omesso esame di uno specifico fatto decisivo che sia stato oggetto di discussione tra le parti (Cass. civ., SS.UU., Sent. n. 8053/2014).

 

P.Q.M.

Accoglie il primo ed il terzo motivo di ricorso nei limiti di cui in motivazione, rigetta i restanti, cassa la sentenza in relazione ai motivi accolti e rinvia al Tribunale di Roma in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Seconda Sezione Civile della Corte di cassazione, il 5 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 18 settembre 2020.


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Revisione dell'assegno divorzile per giustificati motivi sopravvenuti.

In tema di revisione dell'assegno divorzile, ai sensi dell'art. 9 della legge n. 898 del 1970, il mutamento sopravvenuto delle condizioni patrimoniali delle parti attiene agli elementi di fatto e rappresenta il presupposto necessario che deve essere accertato dal giudice perché possa procedersi al giudizio di revisione dell'assegno, da rendersi, poi, in applicazione dei principi giurisprudenziali attuali. Ne consegue che consentire l'accesso al rimedio della revisione attribuendo alla formula dei "giustificati motivi" un significato che includa la sopravvenienza di tutti quei motivi che possano far sorgere un interesse ad agire per conseguire la modifica dell'assegno, ricomprendendo tra essi anche una diversa interpretazione delle norme applicabili avallata dal diritto vivente giurisprudenziale, è opzione esegetica non percorribile poiché non considera che la funzione della giurisprudenza è ricognitiva dell'esistenza e del contenuto della "regula iuris", non già creativa della stessa. 

(Cassazione civile, sez. I, 20 Gennaio 2020. Pres. Maria Cristina Giancola. Est. Maria Giovanna C. Sambito)

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Concezione soggettiva della condizione di intollerabilità della convivenza.

In tema di separazione personale dei coniugi, la condizione di intollerabilità della convivenza deve essere intesa in senso soggettivo, non essendo necessario che sussista una situazione di conflitto riconducibile alla volontà di entrambi i coniugi, ben potendo la frattura dipendere dalla condizione di disaffezione e distacco di una sola delle parti, che sia verificabile in base a fatti obiettivi, come la presentazione stessa del ricorso ed il successivo comportamento processuale, con particolare riferimento alle risultanze negative del tentativo di conciliazione, dovendosi ritenere venuto meno, al ricorrere di tali evenienze, quel principio del consenso che caratterizza ogni vicenda del rapporto coniugale.

(Cassazione civile, sez. I, 05 Agosto 2020. Pres. Valitutti. Est. Solaini)

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La Cassazione chiarisce il termine a quo della prescrizione decennale per il rimborso del mantenimento del figlio naturale.

Con ordinanza n. 16561 depositata il 31 luglio 2020 la Corte di Cassazione ha stabilito che il genitore che ha riconosciuto il figlio, e che sia adempiente agli obblighi di mantenimento, ha diritto al rimborso pro quota delle spese di mantenimento. Tale diritto non incorre nell'ordinaria prescrizione decennale prima del passaggio in giudicato della sentenza che accerta la filiazione naturale (Cass. civ. Sez. I, Ord., 31.7.2020, n. 16561).

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Sì al parental control su cellulari e computer dei figli adolescenti.

Nel corso di un giudizio di divorzio i coniugi, residenti in regioni diverse e genitori di due gemelli quattordicenni, scoprono la presenza di materiale pedopornografico sul cellulare dei figli, ricevuto tramite una chat di WhatsApp a cui partecipavano un centinaio di adolescenti; nonché di due video trasgressivi girati da uno dei due ragazzi. Il Tribunale richiama la madre, con la quale i minori convivono prevalentemente, a un maggiore controllo dei figli, anche in considerazione della delicata fase adolescenziale che questi trascorrono; stabilisce che i contenuti presenti sui telefoni cellulari e computer usati dai minori siano costantemente supervisionati da entrambi i genitori, anche tramite l’applicazione dei necessari dispositivi di filtro, al fine di evitare la comparsa di materiali non adatti all’età e alla formazione educativa dei ragazzi; e dispone per il periodo estivo il loro collocamento prevalente presso il padre, in considerazione dell’importanza di salvaguardare il più possibile il ruolo e la presenza della figura paterna nonostante la distanza abitativa. La sentenza del Tribunale di Parma del 5 agosto 2020, n. 698, ha sicuramente il merito di aver ribadito che tra i poteri-doveri che il codice civile, ma ancor prima la Costituzione all’art. 30, assegna ai genitori, vi è innanzitutto quello di educare i propri figli, e che dunque il controllo e l’imposizione del genitore non solo sono leciti, ma diventano doverosi ogni qual volta si tratti di impartire ai figli quantomeno quel minimo di disciplina comportamentale, conforme ai principi costituzionali e alle norme penali, indispensabile per una civile convivenza, sia all’interno della famiglia, sia al di fuori di essa; come pure quando ciò sia oggettivamente ed effettivamente giustificato dalla necessità di proteggere il figlio dal pericolo concreto di un serio pregiudizio. Non c’è dubbio che oggi il web rappresenti una delle principali insidie per i minori, in quanto potenzialmente in grado di condurli ad abbracciare disvalori e a tenere condotte illegali e antisociali, così come di esporli a pericoli anche gravi per la loro incolumità psicofisica. Dunque, al fine di proteggerlo da tali rischi, il genitore ha il potere e il dovere di controllare l’attività del figlio su internet e sui social, anche tramite l’attivazione di sistemi c.d. di parental control, e quindi di intervenire laddove si renda necessario.

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Cognome della coppia unita civilmente.

Non sono fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 3, lett. c), n. 2), D.Lgs. n. 5/2017, in riferimento agli artt. 2, 3, 11, 76 e 117, comma 1, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con L. 4 agosto 1955, n. 848, e agli artt. 1 e 7 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007. Ed infatti, la natura paritaria e flessibile della disciplina del cognome comune da utilizzare durante l'unione civile e la facoltà di stabilirne la collocazione accanto a quello originario - anche in mancanza di modifiche della scheda anagrafica - costituiscono garanzia adeguata dell'identità della coppia unita civilmente e della sua visibilità nella sfera delle relazioni sociali in cui essa si trova ad esistere.

(Corte cost., 22/11/2018, n. 212)

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Riconoscimento di un minore concepito mediante il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita.

Il riconoscimento di un minore concepito mediante il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo da parte di una donna legata in unione civile con quella che lo ha partorito, ma non avente alcun legame biologico con il minore, si pone in contrasto con l'art. 4, comma 3, della legge n. 40 del 2004 e con l'esclusione del ricorso alle predette tecniche da parte delle coppie omosessuali, non essendo consentita, al di fuori dei casi previsti dalla legge, la realizzazione di forme di genitorialità svincolate da un rapporto biologico, con i medesimi strumenti giuridici previsti per il minore nato nel matrimonio o riconosciuto.

(Cass. civ. Sez. I, 22/04/2020, n. 8029)

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Tre anni di convivenza dopo le nozze: no alla delibazione della sentenza di nullità del matrimonio religioso.

La Cassazione civile, sez. II, con ordinanza del 17 settembre 2020, n. 19329, ha stabilito che la sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio canonico non può essere delibata e resa efficace nell’ordinamento italiano se i coniugi, dopo la celebrazione del matrimonio, hanno convissuto come tali per uno spatium temporis superiore a tre anni ostando a ciò i principi di ordine pubblico italiano.

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E' dovere anche dei figli maschi di occuparsi dei genitori anziani.

Con ordinanza n. 14477/2020 depositata il 9 luglio, la Corte di cassazione ha ribadito che spetta tanto alle figlie quanto ai figli occuparsi dei genitori anziani e che di conseguenza il ricorrente, pur avendo altri due figli, non ha perduto per effetto della morte dell'unica figlia la ragionevole probabilità di un mutuum adiutorium negli anni a venire.

(Cass. Civ., Ord., 9.7.2020, n. 14477).

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La Cassazione: il minore è parte del processo che lo riguarda.

L'attribuzione ai minori del concetto di "parte" del processo si esprime non nella necessità di una partecipazione "formale" (implicata dalla nozione di parte in senso proprio), ma nel diritto del minore di essere ascoltato ai fini del merito, in quanto parte sostanziale: soggetto portatore di interessi comunque diversi, quando non in certi casi anche contrapposti, da quelli dei genitori.

Secondo la Cassazione, i minori non possono considerarsi parti vere e proprie (formali) del procedimento finché la legittimazione processuale non sia loro attribuita da una specifica disposizione di legge. I minori sono in tal senso portatori di interessi diversi da (o in qualche caso contrapposti a) quelli dei genitori, sia in sede di affidamento sia in sede di disciplina dei diritti correlati, e per tale profilo sono qualificati parti. Lo sono però solo in senso sostanziale, infatti la finalità del loro ascolto è funzionale alla miglior tutela dei relativi interessi, cosicché il mancato ascolto non determina alcuna nullità (procedimentale), nè la regressione del procedimento che ne dovrebbe altrimenti conseguire secondo il disposto ex art. 354 c.p.c.; determina invece la possibilità di impugnare nel merito la decisione finale, in quanto adottata pretermettendo il dato essenziale della valutazione delle opinioni del minore.

(Cass. civ., Sez. I, 30.7.2020, n. 16410).

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Danni da infiltrazioni. Il Condominio deve dimostrare il caso fortuito.

Il Tribunale di Teramo, con la sentenza n. 685 del 4 settembre, ha stabilito che il proprietario non è tenuto a pagare per i lavori di riparazione del tetto, causa di infiltrazioni al suo appartamento, se il condominio non prova il caso fortuito o un fattore esterno che escluda la propria responsabilità.

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Per il mantenimento del figlio minore vige il principio di proporzionalità.

L'art. 155 c.c., nell'imporre a ciascuno dei coniugi l'obbligo di provvedere al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito, individua, quali elementi da tenere in conto nella determinazione dell'assegno, oltre alle esigenze dei figli, il tenore di vita dallo stesso goduto in costanza di convivenza, i tempi di permanenza presso ciascuno di essi e la valenza economica dei compiti domestici e di cura da loro assunti, nonché, appunto, le risorse economiche di entrambi i genitori. Lo stabilisce la Cassazione civile, sez. VI-1, sentenza 16 settembre 2020, n. 19299

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Il giudice di legittimità può sindacare le modalità di esercizio del diritto di visita solo se il giudice di merito si è ispirato a criteri diversi da quello dell’esclusivo interesse del minore.

I giudici di legittimità, con ordinanza n. 24937/2019, hanno precisato che nonostante il fatto che il minore sia collocato presso uno soltanto dei genitori, questo non preclude la configurabilità dell'affido condiviso, il quale si prospetta anche nel caso in cui il minore viva con uno soltanto dei genitori, osservando specifiche modalità di visita con l'altro. 

Le modalità concrete di esercizio del diritto di visita, inoltre, sono sempre disposte dal giudice di merito e, conseguentemente, non costituiscono oggetto di sindacato di legittimità. La Corte di Cassazione, confermando l’orientamento consolidato in tema di diritto di visita del genitore, ha stabilito che il giudice di legittimità può esprimersi in merito a tali profili solo “allorché il giudice di merito si sia ispirato, nel disciplinare le frequentazioni del genitore non convivente con il minore, a criteri diversi da quello fondamentale previsto dall’articolo 155 c.c. dell’esclusivo interesse del minore”.

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L’accordo transattivo intervenuto dopo il divorzio è idoneo a disciplinare i rapporti patrimoniali tra gli ex coniugi.

Secondo la Sentenza n. 36392/2019 della VI Sezione Penale della Corte di Cassazione, “l’accordo transattivo relativo alle attribuzioni patrimoniali, concluso tra le parti ai margini di un giudizio di separazione o di divorzio, ha natura negoziale e produce effetti senza necessità di essere sottoposto al giudice per l’omologazione”. Pertanto non si configura la fattispecie penale di omesso versamento dell’assegno divorzile per l’ex coniuge che rispetta tale accordo.

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La mala gestio del condominio va sempre provata.

Per individuare la mala gestio del condominio occorre provare il nesso causale tra sospensione lavori e danni subiti. Nel caso analizzato dalla Corte di Cassazione (ordinanza n. 14711 del 10 luglio 2020) la ditta incaricata allo svolgimento dei lavori di manutenzione del fabbricato avrebbe abbandonato i lavori a causa del mancato pagamento degli stessi. La Cassazione condivide l'assunto della Corte d'appello: la società ricorrente non avrebbe fornito la prova dell'esistenza del nesso causa-effetto tra l'evento e il pregiudizio subito. In altre parole, la società avrebbe omesso di fornire la prova sul concatenamento tra l'omesso versamento degli oneri condominiali, l'inerzia dell'amministratore, il mancato pagamento nei confronti dell'appaltatore e la sospensione dei lavori circostanza che, da ultimo, avrebbe determinato (secondo il ricorrente) il crollo del valore degli immobili il che, a cascata, avrebbe costretto la società alla vendita (o meglio, alla svendita) del proprio patrimonio immobiliare ad un prezzo notevolmente inferiore rispetto ai valori di mercato.

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Ascensore. Innovazione pregiudizievole. Serve il consenso unanime dei condomini.

Per individuare la mala gestio del condominio occorre provare il nesso causale tra sospensione lavori e danni subiti. Nulla la delibera dell'assemblea, non adottata ad unanimità, per l'installazione dell'ascensore che riduce lo spazio dei pianerottoli, pregiudica e limita la luce e la veduta delle finestre è nulla. La Corte d'appello di Roma, con sentenza n. 3449 del 14 luglio, ha ritenuto esente da censure la pronuncia del giudice di 1° grado che, sulla base degli accertamenti eseguiti dal CTU, ha ritenuto che l'opera fosse vietata dalla normativa degli artt. 1102 e 1120 c.c. in quanto l'uso più intenso del bene comune da parte di alcuni condomini non consentiva il pari uso degli altri, mutava la destinazione naturale dello stesso, ledeva il decoro architettonico dell'edificio comportando una modifica e riduzione dei pianerottoli, una importante e pregiudizievole limitazione della luce e veduta delle finestre, incideva sul diritto di ciascuno all'uso delle parti comuni in quanto comprometteva il godimento della colonna d'aria e di luce e della funzione naturale del bene essendo le finestre destinate a dare aria e luce all'edificio.

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Lavori straordinari. Con l'approvazione assembleare si legittima l'amministratore a riscuotere i contributi.

Nessun ostacolo alla riscossione dei contributi per interventi straordinari nei confronti dei condomini morosi se vi è la mancata approvazione del consuntivo. La delibera dell'assemblea, che dispone l'esecuzione degli interventi straordinari, ha "ex se" valore costitutivo della relativa obbligazione di contribuzione, per cui l'amministratore di condominio, in forza dell'art. 1130, n. 3, c.c., è comunque munito di legittimazione all'azione per il recupero degli oneri condominiali promossa nei confronti del condomino moroso (Cass. civ., Ord., 23 luglio 2020, n. 15696).

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Spese dei lavori di manutenzione. Solo con l'unanimità si possono derogare le tabelle millesimali.

La Cassazione, con ordinanza n. 18044 del 28 agosto 2020, ha stabilito che la deroga alle tabelle millesimali, sui criteri di ripartizione delle spese condominiali, è possibile solo se approvata ad unanimità. Nel caso analizzato, viene impugnata la deliberazione assembleare che determinava le quote di alcuni lavori di riparazione e miglioramento sismico dell'edificio. 

In tema di condominio, mentre la deliberazione che approva le tabelle millesimali, non ponendosi come fonte diretta dell'obbligo contributivo del condomino, non deve essere approvata con il consenso unanime dei condòmini, la tabella da cui risulti espressamente che si sia inteso derogare al regime legale di ripartizione delle spese rivela, viceversa, natura contrattuale.

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Assegno divorzile per l'ex e il figlio minorenne: solo al figlio spetta il mantenimento dello stesso tenore di vita.

Con sentenza 23 luglio 2020, n. 15774, la Corte di Cassazione, sez. I civile, circa la funzione ed i criteri di determinazione dell’assegno divorzile a favore dell’ex coniuge ex art. 5, comma 6, della L. 898/70, ha confermato l’orientamento giurisprudenziale da ultimo formatosi e consolidatosi nella giurisprudenza di legittimità relativo alla funzione compensativa/perequativa di detto assegno e sulla conseguente necessità di determinarne l’entità in ragione del dimostrato sacrificio delle aspirazioni e prospettive economiche dell’ex coniuge istante a favore della conduzione della vita familiare nonché del concreto apporto da questo dato al patrimonio familiare. Cassa perciò, con rinvio, l’impugnata sentenza della Corte d’Appello di Milano che, in linea con il precedente orientamento giurisprudenziale sussistente al momento di tale pronuncia, aveva ritenuto l’assegno divorzile a favore dell’ex coniuge con funzione assistenziale e di entità da commisurarsi, tra l’altro, al tenore di vita goduto dall’ex coniuge istante in costanza di matrimonio. Quanto all’assegno divorzile per il mantenimento del figlio minorenne, la Corte di Cassazione conferma invece la decisione dei precedenti giudici di merito di ritenere, ai sensi dell’art. 337-ter, comma 4, cod. civ., che l’entità di detto assegno vada commisurata, tra l’altro, al tenore di vita goduto dal figlio minorenne in costanza della convivenza con entrambi i genitori.

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Autovelox sul lato opposto della strada: la sanzione è illegittima.

La Cassazione, con l'ordinanza del 23 luglio 2020, n. 15760, ribadisce l’orientamento precedentemente seguito nel disegnare il perimetro di legalità riferito alla contestazione della violazione amministrativa di cui all’art. 142 del codice della strada fondata sull’accertamento della violazione eseguito a mezzo di autovelox, il cui verbale è affetto da illegittimità derivata se nonostante il decreto prefettizio abbia previsto la legittima installazione dell'autovelox lungo un solo senso di marcia, l'accertamento sia stato invece effettuato mediante la rilevazione di un autovelox posizionato sul contrapposto senso di marcia, difettando “a monte” l'adozione di uno specifico provvedimento autorizzativo.

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Niente addebito al marito traditore se la moglie ne accetta i tradimenti per anni.

Per la Cassazione, non scatta l'addebito della separazione per il marito infedele se la moglie ne accetta i tradimenti per anni e nonostante tutto continua a conviverci. 

Con l'ordinanza n. 16691/2020 la Cassazione respinge il ricorso di una moglie che, in sede di merito, si vede rigettare la richiesta di addebito della separazione al marito perché ha tollerato per anni l'infedeltà del coniuge con cui ha continuato a convivere. Senza nesso di causa tra tradimenti e sopravvenuta intollerabilità della convivenza, quindi, niente addebito al marito traditore.

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Il Dpcm che ha dichiarato l'emergenza sanitaria Covid 19 è illegittimo?

Il Giudice di Pace di Frosinone, con la sentenza n. 516/2020, accoglie il ricorso di un cittadino, multato per aver violato il divieto di spostamento imposto durante il lockdown, in quanto il Dpcm che ha dichiarato lo stato di emergenza e i successivi, che hanno imposto un obbligo generalizzato di permanenza domiciliare sono illegittimi per le seguenti ragioni:

1. perché il dlgs n. 1/2018 contenente il Codice della Protezione Civile all'art. 7 qualifica come eventi emergenziali quelli legati a eventi calamitosi naturali o derivanti dall'attività dell'uomo, senza che vengano menzionati fenomeni di natura sanitaria; 

2. perché in base al testo della Costituzione il Governo può esercitare poteri peculiari solo in stato di guerra. 

3. La dichiarazione dello stato di emergenza adottata dal Consiglio dei Ministri il 31 gennaio 2020 quindi è illegittima perché esercitata in assenza di una legittimazione legale o costituzionale. 

4. Stante l'illegittimità del Dpcm iniziale, che è un atto di Alta Amministrazione e quindi non un atto legislativo, devono considerarsi illegittimi tutti gli atti amministrativi conseguenti emanati nei mesi successivi, con conseguente disapplicazione da parte del Giudice di Pace. 

5.Il GdP segnala infine come i Dpcm sono illegittimi perché emanati in assenza di una preventiva delega, come accade invece per i decreti legislativi.

Per il Giudice di Pace occorre inoltre considerare che, per contrastare la diffusione del Covid19, è stata limitata fortemente la libertà di movimento dei cittadini, salvi i casi di comprovate esigenze lavorative, di saluti o di necessità. Un divieto così ampio e generale ha imposto nella sostanza un obbligo di permanenza domiciliare, che è una misura sanzionatoria restrittiva della libertà personale contemplata dal nostro ordinamento penale. L'art. 13 della Costituzione prevede infatti che le misure restrittive personali possono essere imposte solo su atto motivato del giudice. Nemmeno una legge quindi può imporre un obbligo di permanenza domiciliare generale a tutti i cittadini. Poiché nel caso di specie tale obbligo è stato imposto da un Dpcm, che è un atto amministrativo, il giudice deve procedere alla sua disapplicazione perché illegittimo.

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Area condominiale adibita a parcheggio.

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 5059/2020, ha ribadito che in mancanza di una espressa riserva di proprietà nel titolo originario di costituzione del condominio, i cortili e le aree destinate a parcheggio rientrano nell'elenco dei beni condominiali di cui all'art. 1117 c.c. Pertanto, la loro trasformazione in un'area destinata alla istallazione, con stabili opere edilizie, di box e autorimesse, a beneficio di alcuni soltanto dei condomini, comporta "sia un'alterazione della consistenza strutturale della cosa comune, sia una sottrazione della destinazione funzionale della stessa". La Suprema Corte, infatti, ribadisce che l'uso della cosa comune da parte di ciascun condomino è soggetto, ai sensi dell'art. 1102 c.c., al duplice divieto di alterarne la destinazione e di impedire agli altri partecipanti di fare parimenti uso della cosa stessa secondo il loro diritto. Si è ritenuto quindi "configuri un abuso agli effetti dell'art. 1102 c.c. la condotta del condomino consistente nella stabile occupazione - mediante il parcheggio per lunghi periodi di tempo della propria autovettura - di una porzione del cortile comune, poiché impedisce agli altri condomini di partecipare all'utilizzo dello spazio comune, ostacolandone il libero e pacifico godimento e alterando l'equilibrio tra le concorrenti ed analoghe facoltà".

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La stipula di un mutuo consente la riduzione dell'assegno di mantenimento.

Il mutuo contratto dal marito per liquidare la sorella nell'ambito di un accordo conciliativo relativo alla divisione ereditaria nell'ambito della sua famiglia depone per una diminuzione di reddito, piuttosto che per un suo incremento, e giustifica, pertanto, la riduzione dell'assegno di mantenimento in favore della moglie. 

(Cass. civ., Sez. VI-1, 30.6.2020, n. 13184).

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Revoca dell’assegnazione della casa familiare: non impone l’adeguamento delle statuizioni economiche.

La Corte di cassazione, con l’ordinanza Sez. 1 -6, n. 16286 del 30 luglio 2020, affronta, sotto due distinti profili, la questione dei presupposti e degli effetti della revoca dell’assegnazione della casa coniugale disposta, nel caso di specie dalla Corte di appello di Brescia, con la sentenza di divorzio. In particolare, la Suprema Corte ha ribadito il principio secondo cui è estranea alla valutazione circa l’assegnazione della casa familiare qualsivoglia profilo relativo alla ponderazione tra interessi di natura solo economica dei coniugi o dei figli, ove in tali valutazioni non entrino in gioco le esigenze della prole di rimanere nel quotidiano ambiente domestico, ai sensi dell'attuale art. 337 sexies cod. civ. (in tal senso, Cass. civ., Sez. 1, n. 25604 del 12/10/2018). Sotto un diverso profilo, si afferma che, ai fini della revoca dell'assegnazione della casa coniugale all’ex coniuge (nella specie, collocatario di un figlio maggiorenne con grave deficit psico-fisico), è richiesto un accertamento rigoroso del venir meno dell'esigenza abitativa con carattere di stabilità, e dunque di irreversibilità, in considerazione del prioritario interesse della prole convivente con l'assegnatario, nonché dei sopravvenuti fatti modificativi delle condizioni economiche di ciascuno dei coniugi, in funzione dell’eventuale adeguamento delle statuizioni economiche. 

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Grande conflittualità tra i coniugi: per la Cassazione niente affido condiviso del figlio.

La Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 5604/2020, si è pronunciata in merito all’adeguatezza dell’affido congiunto del figlio minore nei casi in cui, tra i genitori, vi sia una situazione di grave conflittualità. 

La vicenda sottoposta alla Suprema Corte vedeva come protagonisti una coppia di genitori che, essendo incapaci di elaborare in modo adeguato il fallimento della loro relazione e del loro progetto di vita comune, avevano dato origine ad una situazione di grande conflittualità. Alla luce di tale situazione, il Tribunale rigettava la domanda di affido condiviso presentato dalla coppia, e sospendeva la loro responsabilità genitoriale, affidando il minore al Comune di residenza con collocazione prevalente presso la madre. Tale decisione veniva, poi, confermata anche dalla Corte d’Appello, secondo cui, stante l’elevata conflittualità dei genitori, era da escludere l’affido condiviso del figlio. Il caso giunge poi dinanzi alla Corte di Cassazione. 

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, confermando quanto disposto dalla Corte d’Appello. Secondo i Giudici di legittimità, infatti, quest’ultima ha fornito una motivazione molto ampia e dettagliata della propria decisione, descrivendo come i due genitori fossero incapaci di esercitare in modo idoneo la propria responsabilità genitoriale. Come deciso dai giudici di merito, dunque, la soluzione migliore per gli interessi del minore non può che consistere nel suo affidamento al Comune di residenza, considerato che gli stessi Servizi Sociali interpellati hanno evidenziato la sussistenza di un clima di assoluta conflittualità tra le parti, in cui entrambi i genitori cercano di screditare la figura dell’altro, senza dimostrare in alcun modo una seppur minima intenzione di affrontare un percorso di mediazione.

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Sulla sentenza parziale di separazione.

Con l'ordinanza n. 12057 del 22 giugno 2020 la Corte di Cassazione chiarisce in merito ai rapporti tra sentenza parziale di separazione /divorzio e pronuncia di accertamento sulla domanda di addebito, precisando che: 

a)  l'articolo 709 bis c.p.c. prevede espressamente la possibilità' di emettere una pronuncia immediata di separazione tra coniugi separatamente dalla pronuncia sulla domanda di addebito; 

b) Il legislatore ha quindi previsto, sia nel giudizio di separazione personale dei coniugi (articolo 709 bis c.p.c.) sia nel giudizio per lo scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio (L. n. 898 del 1970, articolo 4, comma 12), che il Tribunale emetta sentenza non definitiva relativa, rispettivamente, alla separazione o al divorzio. 

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Cassazione: il diritto dei nonni di frequentare i nipoti può essere limitato in caso di conflitto con i loro genitori.

Secondo la Corte di Cassazione (ordinanza n.9145/2020) "il diritto di instaurare e mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni, riconosciuto agli ascendenti dall'art. 317 bis c.c., costituisce una posizione soggettiva piena soltanto nei confronti dei terzi, rivestendo invece una portata recessiva nei confronti dei minori, titolari dello speculare quanto prevalente diritto di conservare rapporti significativi con i parenti: è stato, infatti, precisato che tale diritto non ha carattere incondizionato, essendo il suo esercizio subordinato ad una valutazione del giudice avente di mira l'interesse esclusivo del minore, e potendo quindi essere escluso o assoggettato a restrizioni qualora non risulti funzionale ad una crescita serena ed equilibrata di quest'ultimo, in quanto la frequentazione con i nonni comporti per lui turbamento e disequilibrio affettivo”.

Nel caso di specie, pur dando atto dell'atteggiamento di chiusura manifestato dai genitori, in dipendenza della soggettiva attribuzione alle iniziative legali del nonno della finalità di legittimare la moglie nel ruolo di nonna, da essi non gradito, La Corte ha comunque ritenuto di dover considerare prevalente, nella situazione di conflitto originatasi, l'interesse delle minori a crescere in un clima di serenità, anche a costo di un parziale sacrificio del rapporto con l'ascendente.

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Assegno di divorzio ridotto in caso di eredità e se il matrimonio dura poco.

Secondo la Cassazione l'assegno di divorzio va ridotto se il matrimonio dura poco e se una delle parti eredita consistenti somme di denaro/immobili. 

In particolare, "la revisione dell'assegno divorzile di cui alla L. n. 898 del 1970, art. 9, postula l'accertamento di una sopravvenuta modifica delle condizioni economiche degli ex coniugi idonea a mutare il pregresso assetto patrimoniale realizzato con il precedente provvedimento attributivo dell'assegno, secondo una valutazione comparativa delle loro condizioni, quale presupposto fattuale (dei "giustificati motivi" di cui parla l'art. 9) necessario per procedere al giudizio di revisione dell'assegno, da rendersi, poi, in applicazione dei principi giurisprudenziali attuali (cfr. Cass. n. 1119 del 2020)". Va quindi verificato "se siano sopravvenuti elementi fattuali idonei a destabilizzare l'assetto patrimoniale in essere, nel qual caso il giudice di merito dovrà fare applicazione dei nuovi principi, quali emergenti dalle recenti pronunce di questa corte in materia da ultimo, Cass. n. 21234 e 21228 del 2019), per modificarlo e adeguarlo all'attualità".

Nel caso specifico, il giudice di merito non ha tenuto conto di numerosi elementi fattuali: "non ha considerato la non trascurabile eredità (consistente in denaro e un immobile) acquisita dalla G.; i sopravvenuti oneri familiari dell'obbligato derivanti dal nuovo matrimonio, cui è collegato il sorgere di nuovi obblighi di carattere economico, la cui rilevanza è riconosciuta dalla giurisprudenza quale circostanza sopravvenuta che può portare alla modifica delle condizioni originariamente stabilite (cfr. Cass. n. 6289 del 2014, n. 14175 del 2016); ha mancato di accertare la disponibilità di ulteriori fonti di reddito sopravvenute da parte della G.; lo stesso reddito del M. è stato determinato dal giudice di merito in un importo contestato dal ricorrente senza indicare la fonte del proprio convincimento; inoltre, la limitata durata del vincolo matrimoniale (sei anni) potrebbe assumere nuova luce se si considera che l'assegno divorzile è stato di fatto corrisposto per diversi anni dal momento in cui è stato attribuito e determinato (con sentenza del 2013), al fine di giustificare potenzialmente una attualizzazione dell'assetto patrimoniale post-coniugale, in applicazione di un criterio, qual è quello della durata del matrimonio, rilevante anche ai fini della revisione delle condizioni patrimoniali degli ex coniugi (cfr. L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, come modificato dalla L. n. 74 del 1987)". La Corte dunque accoglie il ricorso, cassa il provvedimento impugnato e rinvia nuovamente alla Corte d'Appello competente.

(Cass. civ. Sez. VI - 1, Ord., (ud. 14/02/2020) 05-06-2020, n. 10647)

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Coppie gay, il nome della madre intenzionale non può essere scritto negli atti di stato civile insieme a quello della madre naturale.

Posto che nell'ordinamento italiano una sola persona ha diritto di essere menzionata come madre nell'atto di nascita, in virtù di un rapporto di filiazione che presuppone il legame biologico e/o genetico con il nato, ne consegue che il divieto di doppia maternità si applica agli atti di nascita formati o da formare in Italia, a prescindere dal luogo dove sia avvenuta la pratica fecondativa.

(Cass. civ. Sez. I, 03/04/2020, n. 7668)

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Il marito che ruba alla moglie la credenziali dell’home banking rischia condanna penale.

Secondo la Cassazione (Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 23/09/2019) 03-04-2020, n. 11288), il marito che ruba alla moglie la credenziali dell’home banking va incontro alla condanna per il reato di «Detenzione e diffusione abusiva di codici di accesso a sistemi informatici o telematici» previsto dall'art. 615-quater c.p.

Più precisamente, il predetto articolo testualmente recita: "Chiunque, al fine di procurare a sé o ad altri un profitto o di arrecare ad altri un danno, abusivamente si procura, riproduce, diffonde, comunica o consegna codici, parole chiave o altri mezzi idonei all'accesso ad un sistema informatico o telematico, protetto da misure di sicurezza, o comunque fornisce indicazioni o istruzioni idonee al predetto scopo, è punito con la reclusione sino ad un anno e con la multa sino a euro 5.164. La pena è della reclusione da uno a due anni e della multa da euro 5.164 a euro 10.329 se ricorre taluna delle circostanze di cui ai numeri 1) e 2) del quarto comma dell'articolo 617-quater".


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Illecito endofamiliare (in pillole).

-  La categoria dell'illecito endofamiliare non è oggetto di specifica tipizzazione normativa, ma, come evidenziato dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, questo non deve indurre a ritenere che l'illecito avente le proprie radici all'interno del tessuto familiare trovi la sua sanzione esclusivamente nel diritto di famiglia, bensì impone un raccordo tra la disciplina sanzionatoria specifica dei rapporti familiari e quella dell'illecito civile extracontrattuale (Cass. sez. III, 7 marzo 2019, n.6598).

-  L'illecito endofamiliare comprende al suo interno una molteplicità di ipotesi che hanno come comune presupposto logico-giuridico la lesione del diritto inviolabile della dignità e della personalità di ogni componente del nucleo familiare quale conseguenza di una violazione dei doveri familiari e rientra nell'ambito del danno esistenziale, ossia non patrimoniale.

-  Poiché sia configurabile l'illecito endofamiliare è necessario che sussistano i seguenti elementi costitutivi: 
-) condotta dolosa o colposa; 
-) il nesso causale tra la condotta e l'evento di danno che deve qualificarsi come ingiusto; 
-) danno derivante dalla condotta (danno-conseguenza).

-  La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha chiarito che l'onere della prova ricade sulla parte che richiede il risarcimento del danno.

-  Il danno endofamiliare sfugge a precise quantificazioni e pertanto viene liquidato in via equitativa ex art. 1226 c.c.


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Cassazione: la Corte d’Appello adita in sede di reclamo avverso l’ordinanza del Presidente del Tribunale non deve statuire sulle spese.

In tema di separazione dei coniugi, la Corte d’Appello adita in sede di reclamo avverso l’ordinanza del Presidente del Tribunale, ai sensi dell’art. 708 c.p.c., non deve statuire sulle spese del procedimento, poiché, trattandosi di provvedimento adottato in pendenza della lite, resta riservato al tribunale provvedere sulle spese nella sentenza emessa a conclusione del giudizio anche per la fase di reclamo. (massima ufficiale)

(Cassazione civile, sez. I, 30 Aprile 2020, n. 8432. Pres. Giancola. Est. Mercolino.)

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Calcolo dell'assegno divorzile: i parametri della Corte d'Appello di Roma.

Con provvedimento del 12 marzo 2020, la Corte d'Appello di Roma ha specificato che in sede di calcolo dell'assegno divorzile il giudice, in prima battuta, procede alla comparazione delle condizioni economico-patrimoniali delle parti e, qualora risulti l'inadeguatezza dei mezzi del richiedente o, comunque, l'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, ne accerta le cause in base ai parametri dell'art. 5, comma 6, prima parte, L. n. 898/1970, appurando se quella sperequazione sia o meno conseguenza del contributo fornito dal medesimo istante alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno dei due, con sacrificio delle proprie aspettative professionali e reddituali, in relazione all'età e alla durata del matrimonio, quindi quantifica l'assegno parametrandolo non al pregresso tenore di vita familiare, né al parametro della autosufficienza economica, bensì in misura tale da assicurare, all'avente diritto, un livello reddituale adeguato al contributo sopra richiamato.

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Quando può dirsi raggiunta l'indipendenza economica dei figli?

Con l'ordinanza n. 1448 del 23 gennaio 2020, la Corte di Cassazione ha precisato quando il figlio può essere ritenuto economicamente autosufficiente così da escludere il contributo al suo mantenimento da parte del genitore. In particolare:

a) l'obbligo del genitore separato di concorrere al mantenimento del figlio non cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età da parte di quest'ultimo, ma perdura finché il genitore interessato non dia prova che il figlio ha raggiunto l'indipendenza economica; 

b) il raggiungimento di detta indipendenza economica non è dimostrato dal mero conseguimento di una eventuale borsa di studio, correlata ad un dottorato di ricerca, sia per la sua temporaneità sia per la modestia dell'introito in rapporto alle incrementate, presumibili, necessità del beneficiario.

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Il danno all'immagine ed alla reputazione inteso come danno conseguenza non sussiste "in re ipsa".

Il danno all'immagine ed alla reputazione (nella specie, per un articolo asseritamente diffamatorio), inteso come "danno conseguenza", non sussiste "in re ipsa", dovendo essere allegato e provato da chi ne domanda il risarcimento. Pertanto, la sua liquidazione deve essere compiuta dal giudice, con accertamento in fatto non sindacabile in sede di legittimità, sulla base non di valutazioni astratte, bensì del concreto pregiudizio presumibilmente patito dalla vittima, per come da questa dedotto e dimostrato, anche attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti, che siano fondate, però, su elementi indiziari diversi dal fatto in sé, ed assumendo quali parametri di riferimento la diffusione dello scritto, la rilevanza dell'offesa e la posizione sociale della vittima. (massima ufficiale)

(Cassazione civile, sez. III, 18 Febbraio 2020, n. 4005. Pres. Spirito. Est. Francesca Fiecconi.)

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Revisione dell’assegno di mantenimento per i figli.

I provvedimenti in tema di mantenimento dei figli minori di genitori divorziati passano in giudicato, ma essendo sempre rivedibili, divengono definitivi solo "rebus sic stantibus", sicché il giudice in sede di revisione non può procedere ad una diversa ponderazione delle pregresse condizioni economiche delle parti, né può prendere in esame fatti anteriori alla definitività del titolo stesso o che comunque avrebbero potuto essere fatti valere con gli strumenti concessi per impedirne la definitività. (Nella specie la S.C. ha confermato il rigetto della domanda proposta dal coniuge onerato del pagamento di un assegno di mantenimento per la prole, il quale aveva introdotto un nuovo procedimento di revisione dell'assegno, invocando fatti modificativi delle condizioni economiche delle parti, intervenuti prima della conclusione di altro procedimento di modifica nel quale essi avrebbero potuto essere fatti valere). (massima ufficiale)

(Cassazione civile, sez. I, 09 Gennaio 2020. Pres. Maria Cristina Giancola. Est. Maria Giovanna C. Sambito.)

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Cessione in godimento del lastrico solare per ripetitore.

Il programma negoziale con cui il proprietario di un lastrico solare intenda cedere in godimento ad altri, a titolo oneroso, la facoltà di installarvi e mantenervi per un certo tempo un ripetitore, o altro impianto tecnologico, con il diritto di mantenere la disponibilità ed il godimento dell'impianto ed asportare il medesimo alla fine del rapporto, può astrattamente essere perseguito sia attraverso un contratto ad effetti reali, sia attraverso un contratto ad effetti personali; la riconduzione del contratto concretamente dedotto in giudizio all'una o all'altra delle suddette categorie rappresenta una questione di interpretazione contrattuale, che rientra nei poteri del giudice di merito. 

Qualora le parti abbiano inteso attribuire al loro accordo effetti reali, lo schema negoziale di riferimento è quello del contratto costitutivo di un diritto di superficie, il quale attribuisce all'acquirente la proprietà superficiaria dell'impianto installato sul lastrico solare, può essere costituito per un tempo determinato e può prevedere una deroga convenzionale alla regola che all'estinzione del diritto per scadenza del termine il proprietario del suolo diventa proprietario della costruzione; il contratto con cui un condominio costituisca in favore di altri un diritto di superficie, anche temporaneo, sul lastrico solare del fabbricato condominiale, finalizzato alla installazione di un ripetitore, o altro impianto tecnologico, richiede l'approvazione di tutti i condomini. 

Qualora le parti abbiano inteso attribuire al loro accordo effetti obbligatori, lo schema negoziale di riferimento è quello del contratto atipico di concessione ad aedificandum di natura personale, con rinuncia del concedente agli effetti dell'accessione; con tale contratto il proprietario di un'area concede ad altri il diritto personale di edificare sulla stessa, di godere e disporre dell'opera edificata per l'intera durata del rapporto e di asportare tale opera al termine del rapporto. Esso è soggetto alla disciplina dettata, oltre che dai patti negoziali, dalle norme generali contenute nel titolo II del libro IV del codice civile (art. 1323 c.c.), nonché, per quanto non previsto dal titolo, dalle norme sulla locazione, tra cui quelle dettate dagli artt. 1599 c.c. e 2643 n. 8 c.c. Ove stipulato da un condominio per consentire ad altri la installazione di un ripetitore, o altro impianto tecnologico, sul lastrico solare del fabbricato condominiale richiede l'approvazione di tutti i condomini solo se la relativa durata sia convenuta per più di nove anni. (massima ufficiale)

(Cassazione Sez. Un. Civili, 30 Aprile 2020, n. 8434. Pres. Mammone. Est. Cosentino)

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Cassazione: legittima la disposizione del Giudice di aggiungere il cognome paterno a quello della madre, se funzionale all'interesse del figlio e alla tutela della sua identità personale


Con l'ordinanza n. 772/2020, la VI Sezione Civile della Corte di Cassazione si è pronunciata relativamente alla legittimità che al minore riconosciuto dalla madre venga attribuito, oltre al cognome di quest’ultima, anche quello del padre.

La pronuncia in esame trae origine dal decreto con cui il giudice di primo grado aveva accolto la domanda proposta da una donna, disponendo che il figlio di costei assumesse, in aggiunta al suo, anche il cognome del padre naturale, e stabilendo, inoltre, l'affido esclusivo del minore presso la madre.

Il padre del bambino proponeva reclamo presso la Corte d'Appello, la quale, però, lo rigettava.

Il reclamante decideva così di ricorrere dinanzi alla Corte di Cassazione.  Eccependo, in primo luogo, la violazione e falsa applicazione dell'art. 262 del c.c, il ricorrente  contestava l'affermazione dei giudici d'appello secondo cui "l'aggiunta del patronimico non lede l'interesse del minore, che non versa ancora nella fase adolescenziale".        
Secondo l’uomo, infatti, oltre a non essere consentita una distinzione tra minore in fase adolescenziale e minore in fase preadolescenziale, in ogni caso non era stato tenuto conto del fatto che suo figlio avesse già acquisito, nella trama dei rapporti sociali, una definitiva e formale identità attraverso il cognome materno, tale da sconsigliare l'uso del cognome del padre. Pertanto, secondo l'uomo, i giudici di merito non avevano valutato in modo adeguato l'interesse del minore.

Ancora, il ricorrente riteneva che la Corte d'Appello adita non avesse debitamente tenuto conto nemmeno della totale inesistenza di rapporti tra padre e figlio, nonché la sua assoluta inidoneità all'esercizio della responsabilità genitoriale., circostanza, questa, confermata dal fatto che fosse stato disposto l’affido esclusivo in capo alla madre.

Ciononostante, la Suprema Corte dichiarava il ricorso inammissibile.

I giudici di legittimità, infatti, rilevavano come la decisione di merito fosse del tutto conforme alla costante giurisprudenza di legittimità, secondo cui, in tema di attribuzione giudiziale del cognome al figlio nato fuori del matrimonio e riconosciuto in maniera non contestuale dai genitori, "i criteri di individuazione del cognome del minore si pongono in funzione del suo interesse, che è quello di evitare un danno alla sua identità personale, intesa anche come proiezione della sua personalità sociale, avente copertura costituzionale assoluta; la scelta, anche officiosa, del giudice è ampiamente discrezionale e deve avere riguardo al modo più conveniente di individuare il minore in relazione all'ambiente in cui è cresciuto fino al momento del successivo riconoscimento, non potendo essere condizionata dall'esigenza di equiparare il risultato a quello derivante dalle diverse regole, non richiamate dall'art. 262 c.c., che presiedono all'attribuzione del cognome al figlio nato nel matrimonio" (Cass. Civ., n. 12640/2015).

Come già più volte evidenziato dalla Cassazione, infatti, "Il giudice è investito dall'art. 262 commi 2 e 3, c.c. del potere-dovere di decidere su ognuna delle possibilità previste da detta disposizione avendo riguardo, quale criterio di riferimento, unicamente all'interesse del minore e con esclusione di qualsiasi automaticità, che non riguarda nè la prima attribuzione, essendo inconfigurabile una regola di prevalenza del criterio del prior in tempore, nè il patronimico, per il quale non sussiste alcun favor in sè nel nostro ordinamento" (cfr. Cass. Civ., n. 18161/2019; Cass. Civ., n.2644/2011).

Secondo i giudici di legittimità, dunque, la decisione presa dai giudicanti di merito è perfettamente coerente con il principio di diritto per cui "in tema di minori, è legittima, in ipotesi di secondo riconoscimento da parte del padre, l'attribuzione del patronimico, in aggiunta al cognome della madre, purché non gli arrechi pregiudizio in ragione della cattiva reputazione del padre e purché non ne sia lesivo dell'identità personale, ove questa si sia definitivamente consolidata con l'uso del solo matronimico nella trama dei rapporti personali e sociali" (Cass. Civ., n. 26062/2014).

Pertanto, secondo gli Ermellini, la Corte territoriale aveva disposto del tutto legittimamente l'attribuzione al minore del cognome paterno, in aggiunta a quello materno.  I giudici di merito, infatti, avevano preliminarmente individuato il relativo concreto interesse del minore, nonché evidenziato l'auspicabile evoluzione positiva del rapporto con il genitore, anche per effetto dell'assunzione dell'ulteriore cognome, oltre all'interesse del fanciullo a stabilire un legame con gli altri figli del padre e ad affermare e palesare la propria appartenenza alla famiglia paterna.

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Tribunale di Modena: il cittadino straniero ha diritto al ricongiungimento col partner italiano

Tribunale di Modena, 7.2.2020 n. 370.
Il  cittadino straniero ha diritto di fare ingresso nel nostro Paese e di ricongiungersi col partner italiano se intrattiene con quest'ultimo una relazione stabile, anche se non registrata, purché debitamente attestata da documentazione ufficiale . Pertanto, va riconosciuto carattere di ufficialità all'accordo di convivenza sottoscritto dallo straniero e dal partner italiano di fronte all'avvocato, ai sensi dell'art. I, co. 50 e 51 della Legge 76/2016 con disposizione di iscrizione anagrafica del partner straniero privo di autonomo titolo di soggiorno ai fini del mantenimento dell'unità familiare. 

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Cassazione penale: no alla compensazione tra obbligo di mantenimento e credito con l'ex coniuge

La sentenza n. 9553 del 10.03.2020 della VI sezione penale della Corte di Cassazione stabilisce che la concezione penalistica dell'obbligo di mantenimento esclude la compensabilità del proprio debito di mantenimento con un credito pregresso nei confronti dell'ex coniuge. 

Dopo una condanna in Corte di Appello per il reato di cui all’art. 570 c.p., l’imputato ricorreva in Cassazione, deducendo, in particolare, di aver operato la compensazione tra debito di mantenimento e un suo precedente credito con controparte poiché in ogni caso, a differenza dei crediti alimentari, per i crediti di mantenimento (compreso quello del figlio minore) non opera il divieto di cui all'articolo 477 c.c., se a porre la compensazione è il beneficiario.

Gli Ermellini rigettavano il ricorso con le seguenti motivazioni:

a) dalla lettura della documentazione istruttoria non risultava pacifico che fosse stata l'ex moglie dell’imputato a chiedere la compensazione;

b) La definizione penalistica dell’obbligo di mantenimento differisce da quella civilistica. Quest’ultima indica l’obbligo di corrispondere le somme indicate nel provvedimento come mantenimento; la definizione penalistica afferisce invece al dovere di non fare mancare ai beneficiari i mezzi di sussistenza. Non è pertanto possibile escludere la configurabilità dell’art. 570 cp attraverso la compensazione del debito da mantenimento con un credito pregresso, avendo l’obbligato il preminente dovere di sopperire, comunque, allo stato di bisogno dei figli minorenni e del coniuge soddisfacendone le esigenze primarie;

c) lo stato di bisogno della ex coniuge era inoltre ravvisabile nel pignoramento di un terzo dello stipendio effettuato  per pagare il mutuo stipulato per l'acquisto della casa, nella vendita degli oggetti in oro, nella richiesta al datore di lavoro di un parziale anticipo del Tfr e nel riscatto di polizza assicurativa. Per i figli minorenni lo stato di bisogno è invece presunto.

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Integra il reato di atti persecutori tormentare la propria ex con la richiesta continua e pretestuosa di vedere il figlio


La Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 10904/2020, ha ritenuto configurabile il reato di atti persecutori (o stalking) ex. 612 bis del c.p., in capo a un soggetto che perseguiti l'ex coniuge o compagno con comportamenti ossessivi sfruttando il proprio diritto alla genitorialità come scusa. 


Tribunale e Corte d’Appello avevano infatti condannato un uomo per il delitto in parola, poiché aveva perseguitato l'ex compagna con la scusa di esercitare il suo diritto di padre, chiamandola in continuazione a ogni ora del giorno e della notte e arrivando a danneggiare la sua automobile. 

L'imputato adiva così la Cassazione, sostenendo che le sue condotte fossero scriminate ex art. 51 c.p. dalla sua volontà di esercitare il proprio diritto di visita al figlio minorenne avuto durante la relazione con la vittima.

La Suprema Corte accoglieva il ricorso ma solo limitatamente al mancato riconoscimento del vincolo di continuazione.

Relativamente alla configurazione del reato, gli Ermellini hanno evidenziato come non rientri tra i loro poteri quello di eseguire una sostanziale rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione di merito, con la conseguenza che una richiesta formulata in tal senso è sempre da ritenere inammissibile (cfr. Cass. Pen., n. 15977/2015).


La Suprema Corte ha poi osservato che giudici di merito non avevano assolutamente errato nell'escludere la configurabilità della scriminante ex art. 51 c.p., poiché le chiamate, le minacce e i pedinamenti da parte dell'imputato non potevano ritenersi finalizzati ad incontrare il figlio.


In ultimo, gli Ermellini hanno accolto la contestazione sull'esclusione del vincolo continuativo. La Corte d’Appello si era infatti limitata ad escluderlo sostenendo che non fosse sufficiente l'allegazione della sentenza per vedersi riconosciuta la continuatività.

Al contrario, secondo gli Ermellini,i giudici di merito ben avrebbero potuto valutare un vincolo di continuazione tra i fatti di cui alla precedente sentenza e quelli attuali. 

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Coronavirus e genitori divorziati residenti in Comuni diversi: il Tribunale di Roma modifica temporaneamente il regime di affido condiviso per garantire salute e bigenitorialità.

A fronte dell'emergenza sanitaria da pandemia di covid-19, con una soluzione di compromesso, la Sezione Famiglia del Tribunale di Roma ha modificato temporaneamente le condizioni di affidamento condiviso tra due genitori divorziati residenti in Comuni diversi, piuttosto che limitarsi a riaffermare la validità del regime vigente o a sospenderlo per il genitore non collocatario prevalente. 

Con Decreto n. 7852 del  17.04.2020, la Sezione I Civile del Tribunale Ordinario di Roma ha modificato un proprio provvedimento inaudita altera parte del 30.03.2020 con cui aveva ordinato a un uomo di riaccompagnare i figli presso l’ex moglie, secondo quanto previsto dalle modalità di affidamento condiviso.    
Tale provvedimento aveva accolto un ricorso ex art. 700 cpc presentato dalla donna, collocataria principale dei minori, dopo che l’ex marito aveva mancato per giorni di ricondurre i bambini al domicilio materno. Nello specifico, all’entrata in vigore su suolo nazionale delle misure d’emergenza anti-coronavirus, l’uomo stava trascorrendo il regolare periodo di spettanza con i figli presso la sua residenza, in un Comune diverso da quello della madre. Data la situazione, il padre aveva deciso – secondo le parole del Collegio - di “sottoporre a quarantena” presso di sé i minori fino al concludersi dell’emergenza sanitaria, anche offrendosi di ospitare controparte, ritenendo la propria abitazione in campagna più salubre rispetto al contesto urbano in cui ella risiedeva.  


Il Decreto in esame, dopo aver ritenuto il ricorso riconducibile al modello ex art. 709 ter cpc, pur considerando arbitraria la decisione dell’uomo poiché “non è risultata suffragata da alcun consulto medico ed ha integrato, pertanto, la violazione delle modalità di affido condiviso stabilite”,  non si è limitato a confermare le modalità di affido condiviso o a sospenderle nei confronti del padre, ma le ha provvisoriamente modificate, disponendo una cadenza settimanale per alcuni mesi e quindicinale per i successivi.           
Inoltre, il Decreto in parola ha statuito il mantenimento diretto
dei minori e ha rinviato, per la trattazione del procedimento principale di modifica delle condizioni di divorzio, a una ulteriore udienza  fissata per un periodo (sperabilmente) successivo alla fine dell’emergenza sanitaria.     


Nel fare ciò, il Collegio ha tenuto conto della “contingente situazione di emergenza epidemiologica, durante la quale i minori sono a casa per la sospensione dell’attività scolastica, presumibilmente fino al prossimo settembre” e ha ritenuto “necessario superare la fase emergenziale in atto, la quale altera la modalità ordinaria di permanenza dei genitori con i figli, per addivenire alla modifica definitiva delle condizioni della separazione [sic] solo all’esito della sopra richiamata emergenza epidemiologica”, anche in ragione del fatto che “in concomitanza delle restrizioni governative adottate in ragione della emergenza epidemiologica da covid-19, il dissidio tra le parti si è manifestato chiaramente nella incapacità di gestire i tempi di permanenza dei minori presso ciascun genitore, la quale ha causato ulteriore tensione tra le parti in danno della prole”.



Segue il testo integrale del Decreto.




                        TRIBUNALE ORDINARIO DI ROMA

                                 SEZIONE PRIMA CIVILE 


 Il Tribunale, in composizione collegiale nelle persone dei seguenti magistrati:

                                                                  (...omissis...)

con l'intervento del P.M. presso il Tribunale ha pronunciato il seguente

                                             

                                                                          DECRETO

                                            
                                                             (…omissis…)

Rilevato che le parti hanno formulato istanza di modifica delle condizioni di affidamento e di mantenimento dei figli minori, lamentando reciprocamente condotte dell’altro genitore tali da compromettere l’equilibrio dei figli e da ingenerare discredito della figura dell’altro genitore agli occhi della prole;

Rilevato che il Collegio preso atto della elevatissima conflittualità, della incapacità di comunicare e del possibile pregiudizio che tali condotte possono arrecare al benessere dei figli ha disposto CTU per verificare la condizione dei minori, con espressa delega a procedere al loro ascolto, per valutare le capacità genitoriali delle parti e per verificare la situazione dei figli in ambito scolastico e nelle relazioni con gli altri componenti della famiglia allargata (in particolare con l’attuale marito della resistente, convivente con i minori);
Rilevato che la CTU ha concluso suggerendo che “il collocamento dei bambini rimanga prevalente presso la mamma. La frequentazione padre figli può essere così organizzata. Frequentazione ordinaria: a weekend alterni dal giovedì (uscita di scuola) al lunedì mattina (a scuola). Mentre nella settimana senza il weekend dal martedì (uscita di scuola) fino al giovedì mattina (a scuola). Settimana di Ognissanti (finché i bambini saranno alla scuola ...) 11 gg. divisa a metà, sempre 5 alla madre e 6 al padre. Natale dal 20.12 al 25.12 entro le ore 12.00 alternato - dal 25.12 al 31.12 mattina entro le ore
12.00  alternato – dall’01.01 al 07.01 (a scuola) alternato. Pasqua e Pasquetta: alternate da fine scuola per 4 giorni ogni genitore (compleanno M… alternato) Ponti alternati Settimana Bianca alternata Estate dalla fine delle scuole a settimane alterne dal lunedì pomeriggio al lunedì pomeriggio successivo una settimana con un genitore e una con l’altro. Dall’01.07 al 16.07 con un genitore dal 16.07 al 31.07 con altro, dal 31.07 al 16.08 con un genitore e dal 16.08 al 31.08 con l’altro genitore. Settembre  regime ordinario. I compleanni dei bambini si festeggeranno a rotazione nell’anno, uno con la madre, uno con  il padre. Compleanno e Festa della mamma con la mamma. Compleanno e Festa del papà con il papà.: Si suggerisce che i genitori si facciano aiutare mediante un percorso di sostegno alla genitorialità, che li aiuti a rispondere alle richieste dei bambini, ovvero maggiore comunicazione, minori ambiguità, abbassamento dell’aggressività mascherata e diminuzione del conflitto”.


Rilevato che dagli atti di causa nulla risulta in merito al percorso psicologico intrapreso dalle parti, nell'interesse preminente della prole, come suggerito dal CTU;
Rilevato che all'esito della CTU ed in concomitanza delle restrizioni governative adottate in ragione della emergenza epidemiologica da covid-19, il dissidio tra le parti si è manifestato chiaramente nella incapacità di gestire i tempi di permanenza dei minori presso ciascun genitore, la quale ha causato ulteriore tensione tra le parti in danno della prole, e l’apertura di un procedimento incidentale su richiesta di parte resistente finalizzato di ordinare allo S… di riaccompagnare i figli minori presso il domicilio materno, dopo 25 giorni di permanenza non autorizzata dei minori presso il padre; 
Rilevato che il Tribunale con provvedimento d’urgenza inaudita altera parte del 30.3.2020 ha accolto il ricorso d’urgenza di parte resistente;

Ritenuto che tale provvedimento si è reso necessario in quanto, a prescindere dalla forma del ricorso impropriamente denominata ex art. 700 cpc, anziché ex art. 709 ter cpc la domanda di parte resistente è risultata fondata e suffragata dalla documentazione in atti attestante il rifiuto dello S… di riaccompagnare i figli dalla madre, al pari del verosimile pregiudizio subito dalla prole impossibilitata a ricongiungersi con la madre; 

Ritenuto che la decisione dello S… del tutto unilaterale di sottoporre a quarantena a ... (Provincia di ...) i propri i figli minori, ritenendo che tale luogo fosse più salubre alla salute dei medesimi e pretendendo inoltre che fosse la madre a doversi recare a casa sua in campagna, per eventualmente soggiornarvi anch’ella fino alla fine della quarantena, non è risultata suffragata da alcun consulto medico ed ha integrato, pertanto, la violazione delle modalità di affido condiviso stabilite;

Rilevato che nelle note da ultimo depositate dalle parti si evince la volontà comune di mantenere l’affidamento dei minori in via alternata per quindici giorni consecutivi;

Ritenuto che la richiesta di cui sopra appare condivisibile in considerazione della contingente situazione di emergenza epidemiologica, durante la quale i minori sono a casa per la sospensione dell’attività scolastica, presumibilmente fino al prossimo settembre, mentre non può concretarsi nella modifica definitiva delle condizioni di affidamento e collocamento dei minori, stante le risultanze della CTU come sopra riportate;

Ritenuto pertanto necessario superare la fase emergenziale in atto, la quale altera la modalità ordinaria di permanenza dei genitori con i figli, per addivenire alla modifica definitiva delle condizioni della separazione solo all’esito della sopra richiamata emergenza epidemiologica;

Ritenuto peraltro necessario che le parti intraprendano il percorso di sostegno alla genitorialità suggerito dalla CTU, e che le medesime ne diano conto alla prossima udienza fissata per le conclusioni;

                                                         P.Q.M.

 

1) Conferma il provvedimento adottato in data 30.3.2020;

 2)  Dispone provvisoriamente la conferma dell’affido condiviso dei minori ad entrambi i genitori con la seguente modalità di permanenza: dal lunedì pomeriggio al lunedì pomeriggio successivo una settimana con un genitore e una con l’altro. Dall’01.07 al 16.07 con un genitore dal 16.07 al 31.07 con altro, dal 31.07 al 16.08 con un genitore e dal 16.08 al 31.08 con l’altro genitore.

 3)  Dispone in via provvisoria che ciascun genitore provveda al mantenimento diretto dei minori.

 4)Fissa la nuova udienza innanzi al giudice relatore (…omissis…)

SI COMUNICHI ALLE PARTI.

 

                  Il Presidente


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Solo circostanze eccezionali, e tra queste non sussiste la notorietà, possono consentire alla moglie di mantenere il cognome dell'ex marito dopo il divorzio.

La possibilità di consentire la conservazione del cognome del marito, accanto al proprio, dopo il divorzio, è da considerarsi una ipotesi straordinaria affidata alla decisione discrezionale del giudice di merito secondo criteri di valutazione propri di una clausola generale, ma che non possono coincidere con il mero desiderio di conservare come tratto identitario il riferimento a una relazione familiare ormai chiusa quanto alla sua rilevanza giuridica. Né può escludersi che il perdurante uso del cognome maritale possa costituire un pregiudizio per il coniuge che non vi acconsenta e che intenda ricreare, esercitando un diritto fondamentale a mente dell'art. 8 C.E.D.U., un nuovo nucleo familiare che sia riconoscibile, come legame familiare attuale, anche nei rapporti sociali e in quelli rilevanti giuridicamente.

(Cass. civ. Sez. I Ord., 12/02/2020, n. 3454)

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Non coercibile il dovere del genitore non collocatario di frequentare il figlio minore.

Il diritto-dovere di visita del figlio minore che spetta al genitore non collocatario non è suscettibile di coercizione, trattandosi di un potere-funzione che è destinato a rimanere libero nel suo esercizio quale esito di autonome scelte che rispondono, anche, all’interesse superiore del minore a una crescita sana ed equilibrata.

Il diritto-dovere del genitore di far visita al figlio minore si caratterizza, al contempo, per essere attiva e passiva. Sul lato attivo, essa si estrinseca nel diritto a mantenere rapporti con la prole, senza essere in ciò ostacolato dal comportamento dell’altro genitore. Sul lato passivo, invece, il dovere di visita resta invece fondato sulla autonoma, autoresponsabile e spontanea osservanza del genitore interessato, nell’ambito del proprio fondamentale diritto all’autodeterminazione e sempre in vista dell’attuazione del superiore interesse del minore a una crescita sana ed equilibrata. Conseguentemente, ove il genitore scelga di non adempiere al proprio dovere, tale condotta omissiva non risulta coercibile.

(Cassazione civile, sez. I, ordinanza 6 marzo 2020, n. 6471)

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Screditare il padre: conseguenze giuridiche.

Il Tribunale di Cosenza, dopo aver accertato un nuovo caso di alienazione parentale, ha condannato la madre al risarcimento del danno per aver pregiudicato la relazione affettiva del figlio con il padre.

Accertato che il distacco del minore dal padre derivasse da condizionamenti esercitati dalla madre collocataria, il Tribunale ha potuto  affermare che la causa dell’allontanamento tra padre e figlio fosse imputabile alla condotta colpevole della madre che aveva deciso - unilateralmente - di interrompere ogni rapporto tra padre e figlio e, da tale momento, il bambino era rimasto sotto l’influenza esclusiva della madre. 

In casi di alienazione parentale, le conseguenze giuridiche vanno dall'ammonimento del giudice alla condanna al risarcimento del danno nei confronti del figlio e dell’altro genitore; dalla perdita della collocazione del minore (per essere fissata in capo all'altro genitore) all'affidamento esclusivo, con revoca di quello condiviso. Nel caso in argomento, il Giudice ha ammonito la madre ad astenersi dal tenere condotte ostative agli incontri padre-figlio e condannato la donna al risarcimento dei danni in favore del marito e del figlio.

(Trib. Cosenza, sent. del 7.11.2019)

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L’inadempimento all'obbligo alimentare ripetuto nel tempo può comportare la revoca dell’affidamento condiviso.

Secondo un recente orientamento giurisprudenziale, quando l’inadempimento all'obbligo alimentare è ripetuto nel tempo e non è giustificato da una valida ragione, il giudice può revocare l’affidamento condiviso al genitore che fa mancare al figlio i mezzi di cui vivere. Il suo comportamento è, infatti, indice di totale indifferenza verso il benessere del minore, il che mal si concilia con la potestà genitoriale.

La condotta dell’uomo può essere qualificata come «violenza economica» in base alla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, sottoscritta a Istanbul e ratificata dall’Italia con la legge 77/2013. 

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L’inadempimento all'obbligo alimentare ripetuto nel tempo comporta la revoca dell’affidamento condiviso.

Secondo un recente orientamento giurisprudenziale, quando l’inadempimento all'obbligo alimentare è ripetuto nel tempo e non è giustificato da una valida ragione, il giudice può revocare l’affidamento condiviso al genitore che fa mancare al figlio i mezzi di cui vivere. 
Il suo comportamento infatti è indice di totale indifferenza verso il benessere del minore, il che mal si concilia con la potestà genitoriale, e la condotta dell’uomo può essere qualificata come «violenza economica» in base alla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, sottoscritta a Istanbul e ratificata dall’Italia con la legge 77/2013.



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Legittima l'ttribuzione del cognome del padre in aggiunta a quello della madre purché non arrechi pregiudizio al minore.

In tema di minori, secondo la Cassazione è legittimo, in ipotesi di secondo riconoscimento da parte del padre, l'attribuzione del patronimico in aggiunta al cognome della madre, purché non gli arrechi pregiudizio in ragione della cattiva reputazione del padre e purché non sia lesivo della sua identità personale, ove questa si sia definitivamente consolidata con l'uso del solo matronimico nella trama dei rapporti personali e sociali.

(Cass. Civ., Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 772 del 16/01/2020)

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Niente assegno divorzile se l'ex coniuge lavora in nero.

Per la Cassazione non si può riconoscere l'assegno divorzile alla ex moglie se non è stata raggiunta la prova del suo effettivo guadagno, derivante dallo svolgimento saltuario e irregolare di prestazioni di manicure.

(Ordinanza Cassazione n. 5603/2020)

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Il figlio dottorando di ricerca non è economicamente indipendente e il genitore deve versargli il mantenimento.

L'obbligo del genitore separato di concorrere al mantenimento del figlio non cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età da parte di quest'ultimo, ma perdura finché il genitore interessato non dia prova che il figlio ha raggiunto l'indipendenza economica; il raggiungimento di detta indipendenza economica non è dimostrato dal mero conseguimento di una borsa di studio correlata ad un dottorato di ricerca, sia per la sua temporaneità, sia per la modestia dell'introito in rapporto alle incrementate, presumibili necessità, anche scientifiche, del beneficiario.

(Cass. civ. Sez. VI - 1 Ord., 23/01/2020, n. 1448)

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Separazione: per l'addebito basta una foto che ritrae il coniuge in atteggiamenti intimi con un'altra persona.

Con l'ordinanza n. 4899/2020, la Cassazione conferma che in una separazione l'addebito per infedeltà può disposto sulla base di documentazione fotografica che ritrae uno dei coniugi in atteggiamenti intimi con un'altra persona.

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L'onere probatorio per l'assegno alimentare provvisorio ricade sulla parte che ne fa richiesta.

Secondo la Cassazione, l'onere probatorio dello stato di bisogno e di non essere in grado di provvedere al proprio mantenimento grava sul coniuge che richiede la prestazione alimentare ex art. 446 c.c. 

(Cass. civ., Sez. I, 16.1.2020, n. 770).

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L'accordo di separazione relativo ad attribuzioni patrimoniali, dopo l'omologazione, è titolo per la trascrizione.

Con ordinanza 27409/2019 la Corte di Cassazione ha stabilito che gli accordi di separazione personale tra coniugi, contenenti attribuzioni patrimoniali concernenti beni mobili o immobili, hanno effetti immediatamente traslativi della proprietà ed il verbale nel quale sono trasfusi costituisce, dopo l'omologazione, titolo per la trascrizione a norma dell'art. 2657 c.c. 

Secondo la Cassazione, infatti, gli accordi di separazione personale tra coniugi contenenti attribuzioni patrimoniali afferenti a beni mobili o immobili, rispondono alla volontà di regolare i rapporti in occasione dell'evento di separazione consensuale, che sfugge alle connotazioni tradizionali dell'atto di donazione e dell'atto di vendita, manifestando una sua tipicità propria la quale poi, di volta in volta, può assumere i tratti dell'onerosità o della gratuità, in ragione dell'eventuale ricorrenza, in concreto, degli aspetti di una sistemazione solutorio-compensativa più estesa e globale, di tutta quell'ampia serie di possibili rapporti aventi significati patrimoniali, anche solo riflessi, maturati durante la vita matrimoniale.

(Cass. civ., Sez. II, Ord., 25.10.2019, n. 27409).

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Il cognome paterno è attribuito al figlio tardivamente riconosciuto solo se rientra nel suo superiore interesse.

Lo ha ribadito la Cassazione con la decisione 772/2020, individuando in concreto l'interesse del minore, nonché evidenziandone plurimi profili segnatamente a) l'auspicabile evoluzione positiva del rapporto con il genitore, anche per effetto dell'assunzione dell'ulteriore cognome; b) la facilitazione del legame con gli altri figli del padre; c) l'interesse del figlio ad affermare e palesare la propria appartenenza alla famiglia paterna. 

Secondo la Cassazione, infatti, in tema di minori è legittima, in ipotesi di secondo riconoscimento da parte del padre, l'attribuzione del patronimico, in aggiunta al cognome della madre, purché non gli arrechi pregiudizio in ragione della cattiva reputazione del padre e purché non ne sia lesivo dell'identità personale, ove questa si sia definitivamente consolidata con l'uso del solo matronimico nella trama dei rapporti personali e sociali.

(Cass. civ., Sez. VI - 1, Ord., 16.1.2020, n. 772).

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La negoziazione assistita tra coniugi in sede di separazione o divorzio va autenticata dal notaio se è previsto anche il trasferimento di un immobile

Per la Cassazione, la negoziazione assistita tra coniugi in sede di separazione o divorzio deve essere autenticata dal notaio qualora sia previsto anche il trasferimento di un immobile, ad esempio parte della casa familiare. Non può riconoscersi un analogo potere certificativo in capo agli avvocati che assistono le parti.

(Cass., II civ., sent. n. 1202/2020)

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Rifiuto del padre di sottoporsi ad indagini ematologiche per l'accertamento della paternità naturale.

Nel giudizio promosso per l'accertamento della paternità naturale, il rifiuto del preteso padre di sottoporsi ad indagini ematologiche costituisce un comportamento valutabile dal giudice, ex art. 116, comma 2, c. p.c., di così elevato valore indiziario da consentire, esso solo, di ritenere fondata la domanda.

(Cass. Civ., Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 28886 del 08/11/2019.)

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Riconoscimento della sentenza straniera di adozione legittimante.

Si rimette alle Sezioni Unite della Cassazione la decisione di stabile se, in assenza di un legame biologico tra il minore adottato ed entrambi i genitori adottivi dello stesso sesso, è possibile il riconoscimento della sentenza straniera di adozione legittimante, e se, in tal caso, il sindacato del Giudice italiano si debba estendere anche alla fase della valutazione straniera sullo stato di adottabilità.

(Corte di Cassazione, Sez. I, Ord. 11 novembre 2019, n. 29071)

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Figli minori non residenti in Italia.

In tema di giudizio di divorzio introdotto innanzi al Giudice italiano, qualora siano avanzate domande inerenti la responsabilità genitoriale ed il mantenimento di figli minori non residenti abitualmente in Italia (ma in un altro Stato membro dell'Unione Europea), la giurisdizione su tali domande spetta all'Autorità giudiziaria dello Stato di residenza abituale dei minori al momento della loro proposizione, dovendosi salvaguardare l'interesse superiore e preminente dei medesimi a che i provvedimenti che li riguardano siano adottati dal Giudice più vicino al luogo di residenza effettiva degli stessi.
(Corte di Cassazione, Sezioni Unite, Ord. 2 ottobre 2019, n. 24608)

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Saranno le Sezioni unite a stabilire se il trasferimento immobiliare tra coniugi ed ex coniugi è valido anche senza il Notaio.

Le Sezioni Unite stabiliranno se il trasferimento immobiliare tra coniugi ed ex coniugi sotto la supervisione del Giudice è valido anche senza «la verifica di conformità ipocatastale da parte del notaio». La Cassazione, con ordinanza interlocutoria 3089, consapevole dell’impatto che l’interpretazione delle norme potrebbe avere, rimette la questione alle Sezioni unite.

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Assegno di mantenimento: per la Cassazione non è reato versare di meno.

La Cassazione, con la sentenza n. 5236/2020, accoglie il ricorso di un padre condannato per violazione degli obblighi di assistenza familiare in caso di separazione e divorzio ai sensi dell'art. 570 bis c.p., perché in virtù di un accordo con la ex moglie ha ridotto l'importo mensile a 800 euro. Gli Ermellini ribadiscono infatti che non rileva che l'accordo intercorso con la moglie non sia stato omologato dal giudice e che il fatto stesso che l'uomo abbia comunque continuato a contribuire, seppur in misura ridotta, al mantenimento dei figli, fa venire meno il dolo, elemento costitutivo fondamentale del reato contemplato dall'art. 570 bis c.p.

(Cassazione, sentenza n. 5236/2020)

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Sezioni Unite: sì ad adeguata remunerazione per i medici specializzandi tra il 1982 e il 1990

Con sentenza n. 20348 del 31 luglio 2018, la Corte di Cassazione Sezioni Unite ha stabilito che una adeguata remunerazione spetta di diritto a tutti coloro che abbiano intrapreso qualsiasi tipo di formazione come medico specialista dall'anno 1982 fino all'anno 1990, tenendo conto del periodo che va dal primo gennaio 1983 fino alla conclusione della formazione stessa.
Tale obbligo di remunerazione è imposto dalla direttiva 75/363/CE e prescinde dalla misure di trasposizione dell'ulteriore direttiva 82/76/CEE da parte dello Stato membro.

La pronuncia in esame è frutto dell'adeguamento della Cassazione italiana alla sentenza dell'Ottava Sezione della Corte di Giustizia dell'Unione Europea del 24 gennaio 2018, e segna l'inizio di un inevitabile adattamento alla giurisprudenza comunitaria che d'ora in poi il Giudice nazionale dovrà operare a seguito della predetta sentenza di CGUE. Tale provvedimento ha infatti stabilito che:" qualsiasi formazione (...) come medico specialista iniziata nel corso dell'anno 1982 e proseguita fino all'anno 1990 deve essere oggetto di remunerazione adeguata."

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Danno da mancato consenso informato risarcibile anche nel caso di intervento correttamente eseguito

L'Ordinanza n. 31234 del 04.12.2018 della 3° sezione civile della Suprema Corte di Cassazione ha chiarito che il danno da mancata prestazione del consenso informato è risarcibile anche nel caso di un intervento chirurgico correttamente eseguito, qualora da esso siano derivate delle conseguenze di cui il paziente non era stato informato e che lo avrebbero spinto a rifiutare l'operazione se ne fosse stato messo al corrente.

Gli ermellini hanno infatti sposato la tesi per cui la mancata prestazione del consenso informato comporti un danno all'autodeterminazione del paziente, risarcibile indipendentemente da una lesione incolpevole del diritto alla salute.
Autodeterminazione e salute, infatti, devono considerarsi come due beni giuridici distinti. Il primo bene sarà dunque oggetto di danno risarcibile tutte le volte che si verifichino conseguenze non anticipate al paziente, anche nel caso in cui non vi sia stata una lesione del secondo bene. 

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Stalking: la querela è revocabile solo se le minacce non sono gravi.

La denuncia querela per stalking, stando alla lettera dell'art. 612 bis c.p. che punisce gli atti persecutori, è irrevocabile solo se le minacce rivolte alla persona offesa sono reiterate ma anche gravi.

(Cassazione, Sentenza n.5092/2020)

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L'ex moglie abbia declinato offerte di lavoro: non è decisivo ai fini dell'esclusione dell'assegno di divorzio.

In tema di sentenza civile, ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un'espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l'impostazione logico-giuridica della pronuncia.

(Cass. civ. Sez. VI - 1 Ord., 25/11/2019, n. 30638)

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Trascorsi i tre anni successivi al matrimonio, il matrimonio non è annullabile.

Il dato incontroverso della convivenza continuativa ultratriennale non può essere messo in discussione, al fine di escludere la condizione ostativa al riconoscimento in Italia della sentenza di annullamento ecclesiastico del matrimonio, deducendo una non adesione affettiva al rapporto di convivenza da parte di uno o di entrambi i coniugi. Occorre, perché tale dedotta mancanza di affectio coniugalis sia rilevante, che entrambi i coniugi la riconoscano, al momento della proposizione della domanda di delibazione, ovvero che gli stessi abbiano manifestato nettamente all'esterno la piena volontà di non considerare la convivenza come un elemento fondamentale integrativo della relazione coniugale ma come una semplice coabitazione. Occorre altresì che sia manifesta la consapevolezza delle conseguenze giuridiche di tale esteriorizzazione e cioè l'affermazione comune dell'esclusione degli effetti giuridici propri del matrimonio per effetto della semplice coabitazione.

(Cass. civ. Sez. VI - 1 Ord., 26/11/2019, n. 30900)

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Separazione: chi paga l'IMU se l'immobile è di proprietà di terzi?

L'articolo 4 comma 12 quinques D.L. n. 16/2012 conv. in L. n. 44/2012, sancisce la traslazione della soggettività passiva dell'IMU dal proprietario all'assegnatario dell'alloggio a seguito di separazione, cosicché l'imposizione ricade sempre in capo all'utilizzatore, anche nel caso in cui la proprietà dell'immobile sia di un terzo e non già del coniuge non assegnatario. 

La disposizione normativa in parola, non integrando una norma tributaria disciplinante un'ipotesi di agevolazione o di esenzione, ovvero di norma speciale, può essere interpretata estensivamente e non vale per la stessa il divieto di interpretazione analogica nonché di interpretazione estensiva ai sensi dell'art. 14 delle disposizioni preliminari del codice civile.

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Assegno di divorzio fondato sul criterio del tenore di vita godibile durante il matrimonio.

I criteri attributivi e determinativi dell'assegno divorzile non dipendono dal tenore di vita godibile durante il matrimonio, operando lo squilibrio economico patrimoniale tra i coniugi unicamente come precondizione fattuale, il cui accertamento è necessario per l'applicazione dei parametri di cui all'art. 5, comma 6, prima parte, della l. n. 898 del 1970, in ragione della finalità composita - assistenziale perequativa e compensativa - del detto assegno (nella specie la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che, nel riconoscere l'assegno di divorzio, aveva fondato il proprio accertamento esclusivamente sul criterio del tenore di vita godibile durante il matrimonio, senza verificare in concreto l'incidenza dei parametri integrati).

(Cass. Civ., Sez. 1 - , Sentenza n. 32398 del 11/12/2019)

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Affido temporaneo etero familiare.

In materia di affido anche temporaneo dei minori, il giudizio sull'adeguatezza del familiare prescelto quale affidatario temporaneo, ai sensi dell'art. 333 c.c., a soddisfare le esigenze del minore ed a salvaguardarne il sano ed equilibrato sviluppo psico-fisico, deve essere svolto dal giudice del merito valorizzando, fra le figure vicarie interfamiliari, il contributo al mantenimento del rapporto con la famiglia di origine, che è criterio guida di ogni scelta in tema di affido minorile.

(Cassazione civile, sez. I, 04 Novembre 2019, n. 28257. Pres. Maria Cristina Giancola. Est. Laura Scalia)

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La prova della simulazione mediante interrogatorio formale ed escussione di testimoni

Con la sentenza  n. 13857 del 07.07.2016 la I Sezione della Suprema Corte di Cassazione ha chiarito che, in alcune condizioni, è comunque esperibile la prova della simulazione di un negozio mediante interrogatorio formale ed escussione dei testimoni.
Infatti, non è estendibile all'interrogatorio formale la preclusione di cui all'art. 1417 c.c., in forza della quale la prova per testimoni della simulazione, se proposta dalle parti, è ammissibile solo quando sia diretta a fare valere l'illiceità del contratto dissimulato. Il dato letterale della suddetta disposizione riguarda - appunto - la sola prova per testimoni.
Per quanto concerne quest'ultima, la Corte specifica che può essere validamente esperita per dimostrare la simulazione qualora sia stato acquisito l'interrogatorio formale e dalle risposte della parte escussa sia emerso un principio di prova, essendo parso altamente probabile il carattere simulato del negozio.
La prova per testimoni è in ogni caso esperibile - anche per dimostrare la simulazione - nei casi previsti dall'art. 2724 c.c.
Nei fatti di cui alla pronuncia, il ricorrente aveva addotto una impossibilità morale di procurarsi prova scritta ex art. 2724 n. 2 c.c., consistente nel timore reverenziale e nella profonda gratitudine nutriti nei confronti dello zio e datore di lavoro, controparte nel giudizio. 

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Violazione degli obblighi di assistenza familiare.

Con D.Lvo 21/18 è stato introdotto il nuovo art. 570 bis c.p. in tema di mancata corresponsione di quanto dovuto a titolo di mantenimento a seguito di separazione o in caso di affidamento dei figli minori. In particolare, l'articolo in argomento recita testualmente: "Le pene previste dall’articolo 570 si applicano al coniuge che si sottrae all’obbligo di corresponsione di ogni tipologia di assegno dovuto in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio ovvero vìola gli obblighi di natura economica in materia di separazione dei coniugi e di affidamento condiviso dei figli".

Nonostante l'art.570, comma 1, cp stabilisca che "Chiunque, abbandonando il domicilio domestico, o comunque serbando una condotta contraria all'ordine o alla morale delle famiglie, si sottrae agli obblighi di assistenza inerenti alla responsabilità genitoriale, alla tutela legale o alla qualità di coniuge, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa da centotre euro a milletrentadue euro", la giurisprudenza, mutando nel tempo il proprio orientamento, ha ritenuto giustificato l'abbandono della casa familiare qualora vengano meno le condizioni oggettive di intesa materiale e spirituale tra i coniugi (o uniti civilmente) e/o condizioni oggettive di sofferenza relazionale che possano rendere difficile o impossibile adempiere agli obblighi nascenti dal matrimonio. Pertanto, la fattispecie prevista dall'art. 570 cp si configura quando uno dei coniugi si allontana senza alcuna causa giustificante e tale condotta sia tale da creare una situazione di grave disagio al coniuge. Il reato si configurerebbe, quindi, quando emerge la volontà di abbandonare il domicilio domestico in modo imprevisto e definitivo.

Le pene previste dal citato art. 570 cp si applicano anche a chi "malversa (ndr appropriazione o distrazione a proprio favore di beni mobili o immobili) o dilapida i beni del figlio minore o del coniuge; fa mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore, ovvero inabili al lavoro, agli ascendenti o al coniuge, il quale non sia legalmente separato per sua colpa".


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Vishing: attenzione alla truffa telefonica.

Il vishing è una forma di truffa simile al phishing; il termine infatti nasce dall'unione di due parole inglesi: voice, voce, e phishing, i tentativi di truffa che arrivano sulle mail che ci chiedono dati personali e protetti. 

Il vishing ha lo scopo di carpire, con l'inganno, informazioni private, sfruttando la tecnologia per simulare, durante la telefonata, l'esistenza di un call center e chiedendo alla vittima di fornire i propri dati ad un operatore. Il truffatore avverte la vittima che la carta di credito è stata oggetto di una truffa o di un tentativo di truffa, chiedendo così tutta una serie di informazioni personali (pin, ad esempio) in modo da confermare che i dati del titolo siano ancora protetti. Tale truffa è tipica soprattutto degli Stati Uniti d'America e del Regno Unito, ma è sbarcata da poco anche in Europa e in Italia.

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Ecografista responsabile anche se l'esame non mostra la malformazione del feto.

Se gli esami strumentali non consentono la visualizzazione del feto nella sua interezza, il sanitario ha l'obbligo di informare la paziente della possibilità di ricorrere a un centro di più elevato livello di specializzazione. L'ecografista che durante l'esame, non per sua colpa, non rileva la malformazione del feto e formula una diagnosi di normalità morfologica rischia l'addebito di responsabilità.

Secondo la Corte di Cassazione (sentenza n. 30727/2019), il sanitario che formuli una diagnosi di normalità morfologica del feto anche sulla base di esami strumentali che non ne hanno consentito, senza sua colpa, la visualizzazione nella sua interezza, ha l'obbligo d'informare la paziente della possibilità di ricorrere ad un centro di più elevato livello di specializzazione, in vista dell'esercizio dcl diritto della gestante di interrompere la gravidanza, ricorrendone i presupposti.

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Se l'autovelox è posizionato sul senso di marcia sbagliato la multa è nulla.

Con sentenza n. 31411/2019, la Cassazione ha rigettato il ricorso di un Comune, confermando l'annullamento della contravvenzione per eccesso di velocità perché l'autovelox si trovava sul senso di marcia diverso da quello indicato nel provvedimento del Prefetto.

Nel caso specifico, "... l'apposizione del prefabbricato contenente uno strumento per la rilevazione della velocità degli autoveicoli in transito era stata autorizzata per entrambi i sensi di marcia ma veniva realizzata per un solo senso di marcia apponendo il prefabbricato di rilevazione in una carreggiata opposta al senso di marcia indicato nel provvedimento di autorizzazione. Il Comune (...), insomma, ha ritenuto di collocare un semplice prefabbricato considerandolo, e non lo avrebbe potuto fare, operativo per entrambi i sensi di marcia, senza tenere conto che il prefabbricato installato, per il senso stesso dell'autorizzazione, era legittimato a rilevare la velocità dei soli veicoli provenienti in quel senso di marcia ma non anche, come è avvenuto, nel caso in esame, per le autovetture che provenivano dalla direzione opposta. Piuttosto, era necessario che fosse installato altro rilevatore per il contrapposto senso di marcia corredato da ogni elemento di identificazione e preventivamente segnalato, con appositi cartelli, opportunamente collocati nello stesso senso di marcia".

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A chi usufruisce dei permessi per l'allattamento spetta il diritto ai buoni pasto?

La Cassazione ha stabilito che il diritto ai buoni pasto può essere riconosciuto solo ove il lavoratore svolga l’attività lavorativa per più di sei ore, dato che solo in questo caso, egli deve beneficiare di un intervallo di almeno 30 minuti per la pausa pranzo. Per quanto riguarda, dunque, i fruitori dei permessi per l’allattamento, sarà necessaria una verifica caso per caso, al fine di accertare se siano soddisfatti i presupposti necessari per il riconoscimento del diritto (Cass. civ., sez. lav., 28 novembre 2019, n. 31137).

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In caso di morte di un cane di razza per errore diagnostico dei medici veterinari non spetta al padrone il risarcimento del danno non patrimoniale.

In caso di morte di un cane di razza per errore diagnostico dei medici veterinari (i quali non avevano immediatamente sottoposto a radiografia l’animale che aveva ingerito una noce), poiché non sussistono gli estremi di reato né ricorre la lesione di alcun valore della persona costituzionalmente protetto, non spetta al padrone il risarcimento del danno non patrimoniale. A stabilirlo è il Tribunale di Rieti con sentenza 4 maggio 2019 n. 347.

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Nella valutazione degli interessi, anche economici e patrimoniali, dei minori il giudice può assumere la prova d'ufficio.

Con l'ordinanza n. 26593/2019, i Supremi Giudici di Cassazione hanno affermato che la tutela degli interessi morali e materiali della prole è sottratta all'iniziativa ed alla disponibilità delle parti, ed è sempre riconosciuto al giudice il potere di adottare d'ufficio, in ogni stato e grado del giudizio di merito, tutti i provvedimenti necessari per la migliore protezione dei figli.

L'acquisizione agli atti del documento contestato, da cui risulta esclusivamente e genericamente la prestazione dell'attività di docente, ha costituito un mero esercizio del potere di libera valutazione del giudice del merito - in un procedimento attinente alla tutela dell'interesse dei minori - di un documento che ha fornito un semplice riscontro alla deduzione della capacità lavorativa in atto che la ricorrente non ha mai contestato. La Corte di Appello ha ritenuto rilevante, ma non evidentemente in via esclusiva tale acquisizione, e ha ritenuto superflua l'acquisizione di una ulteriore indagine sull'entità del reddito che la ricorrente possa ritrarre dalla sua attuale capacità lavorativa ritenendo comunque congrua la misura dell'assegno di mantenimento e del contributo alle spese straordinarie già riconosciuto in primo grado. La contestazione mossa dalla ricorrente all'acquisizione e alla valutazione della prova non risulta pertanto aderente al contenuto della motivazione della decisione impugnata e alla specificità del procedimento in cui è stata emessa.

(C. civ., Sez. VI - 1, Ord., 18.10.2019, n. 26593).

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Affido temporaneo di minori: il Giudice deve preferire i nonni.

Secondo la Cassazione, il Giudice di merito chiamato a valutare l'adeguatezza di un familiare a essere affidatario temporaneo di un minore deve valorizzare il contributo che le figure vicarianti inter-familiari (come i nonni) possono dare al mantenimento del rapporto con la famiglia di origine.

L'affido temporaneo endo-familiare è una misura offerta al minore in difficoltà per malattia del genitore, violenza psico-fisica, isolamento sociale, trascuratezza, ecc., e quindi in casi che temporaneamente possono impedire la funzione educativa o la convivenza tra genitore e figlio. Si tratta quindi di un intervento "ponte", con la funzione di rimuovere la situazione di difficoltà del minore, garantendogli il diritto di crescere nella propria famiglia.

La misura, disciplinata all'art. 333 c.c., intende quindi superare la condotta pregiudizievole del genitore senza dar luogo però ad una pronuncia di decadenza dalla potestà genitoriale.

(Cassazione, sentenza 28257 del 4 novembre 2019)

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Conflitto di competenza tra il Tribunale ordinario ed il Tribunale per i minorenni per l'affidamento condiviso del minore.

Il conflitto di competenza tra il tribunale ordinario, adito per l'affidamento condiviso del minore, ed il tribunale per i minorenni, relativamente ai provvedimenti ex artt. 330 ss. c.c. richiesti dal P.M., dev'essere risolto secondo il criterio della prevenzione, atteso che l'art. 38 disp. att. c.c., nel testo sostituito dall'art. 3 della legge n. 219 del 2012, la cui "ratio" risiede nell'evidente interrelazione tra i due giudizi, limita la "vis attractiva" del tribunale ordinario, anche per i detti provvedimenti, all'ipotesi in cui il procedimento dinanzi a questo sia stato instaurato per primo e si svolga tra le stesse parti dell'altro, in tal modo implicitamente escludendo l'ipotesi in cui il procedimento dinanzi al tribunale per i minorenni sia stato instaurato anteriormente, riservata in ogni caso al giudice minorile la pronuncia sulla decadenza dalla potestà genitoriale.

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L'obbligo di mantenere il figlio si protrae se risulta ancora dipendente dai genitori.

L'obbligo di mantenere il figlio non cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età, ma si protrae, qualora questi, senza sua colpa, divenuto maggiorenne, sia tuttavia ancora dipendente dai genitori. In tale ipotesi, il coniuge separato o divorziato, già affidatario è legittimato, "iure proprio" (ed in via concorrente con la diversa legittimazione del figlio, che trova fondamento nella titolarità, in capo a quest'ultimo, del diritto al mantenimento), ad ottenere dall'altro coniuge un contributo per il mantenimento del figlio maggiorenne. 

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Azione di disconoscimento della paternità e diritto al mantenimento del cognome paterno.

Nell'azione di disconoscimento della paternità, il mantenimento da parte del figlio disconosciuto del cognome paterno è espressione di un diritto potestativo e personalissimo che deve tradursi in una espressa domanda di accertamento da proporsi in sede giudiziale, anche in via riconvenzionale ed eventualmente subordinata all'accoglimento di quella principale, non potendosi ritenere ricompresa nella generica opposizione all'azione di disconoscimento proposta nei suoi confronti. (Nella specie la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva dichiarato la perdita del cognome paterno del figlio disconosciuto, nonostante il padre che aveva intrapreso l'azione di disconoscimento, avesse manifestato la volontà di non opporsi al mantenimento del suo cognome).

(Cassazione civile, sez. I, 06 Novembre 2019. Pres. Maria Cristina Giancola. Est. Laura Scalia)

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Responsabilità medica: la rivalsa delle strutture sanitarie nei confronti dei sanitari direttamente coinvolti.

Le strutture sanitarie che abbiano risarcito per intero un danno cagionato da ipotesi di responsabilità medica ai propri pazienti hanno il diritto di rivalsa nei confronti dei sanitari direttamente coinvolti.

Tuttavia, le strutture sanitarie hanno spesso dei profili di colpa loro propri che si uniscono a quelli dei sanitari. Di conseguenza, la struttura sanitaria che voglia addebitare un danno all'esclusiva responsabilità del medico, e quindi eventualmente rivalersi per l'intero su di questi, deve dimostrare che il fatto dipenda esclusivamente dalla condotta del sanitario e non sia in alcun modo ricollegabile a proprie carenze tecnico-organizzative. In caso contrario, per la giurisprudenza, la responsabilità si presume del 50% ciascuno (v. Trib. Milano n. 5923/2019 e Cass. n. 24167/2019).

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Niente provvedimenti ex art. 709-ter c.p.c. se il figlio rifiuta di vedere il padre per sua scelta.

Secondo la Cassazione non scattano i provvedimenti ex art. 709-ter c.p.c. contro l'altro genitore se il figlio, quasi maggiorenne, rifiuta di vedere il padre per sua scelta e senza essere stato plagiato.

La Cassazione, con l'ordinanza n. 27207/2019, evidenzia come la Corte territoriale avesse debitamente valutato, sulla base delle risultanze della consulenza tecnica di ufficio e delle relazioni dei Servizi sociali, sia i comportamenti delle parti, sia l'atteggiamento della minore nei confronti del padre, riconducibile alla sua volontà e non ad un plagio perpetrato dalla madre. Per questi motivi, La Corte respinge il ricorso proposto dal padre con il quale aveva chiesto i provvedimenti ex art. 709-ter c.p.c. contro l'altro genitore.

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Responsabilità del medico specializzando.

Con la sentenza numero 26311/2019, la Corte di cassazione ha affermato che lo specializzando "non può essere considerato un mero esecutore d'ordini del tutore anche se non gode di piena autonomia". 

Il fatto che si tratti di medico, anche se specializzando, determina l'impossibilità di disconoscere che comunque una certa autonomia gli deve essere riconosciuta; dall'altro lato, la circostanza che è in corso la sua formazione specialistica comporta che, in ogni caso, ogni attività deve essere sempre svolta sotto le direttive del tutore. Gli specializzandi hanno dunque un'autonomia "vincolata" ma, allo stesso tempo, non può che ricondursi agli stessi le attività compiute direttamente. Di conseguenza, il medico specializzando che è chiamato a compiere delle attività che non è in grado di compiere, o che non si ritiene in grado di compiere, deve rifiutarne lo svolgimento. In caso contrario, se ne assume la responsabilità sotto tutti i punti di vista.

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La domanda di addebito della separazione può essere introdotta nella memoria ex art. 709 c.p.c.

Con sentenza n. 17590, pubblicata il 28 giugno 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha affermato che in materia di separazione personale tra coniugi, la domanda di addebito della separazione può essere introdotta per la prima volta con la memoria integrativa di cui all'art. 709 c.p.c., comma 3, in ragione della natura bifasica del giudizio, in conseguenza del passaggio tra la fase di conciliazione dei coniugi e quella contenziosa, caratterizzato da una progressiva formazione della vocatio in ius.

(Cass. civ. Sez. I, 28/06/2019, n. 17590)

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La violenze, le minacce, l'abbandono della casa coniugale e la relazione extra-coniugale non solo non sono giustificati da una presunte gelosia e indifferenza del coniuge, ma determinano l'addebito della separazione.

Tribunale di Brescia ha stabilito che i plurimi i comportamenti messi in atto dal marito e contrari ai doveri coniugali, quali le violenze e le minacce, l'abbandono della casa coniugale e la relazione extra-coniugale non sono giustificati da una asserita gelosia e di un'indifferenza nei confronti della moglie nei suoi confronti. Tali presunte gelosia e indifferenza non scriminano i fatti provati e più gravi e determinanti la crisi coniugale: la violenza e l'infedeltà. Pertanto, la separazione risulta addebitabile ai comportamenti violenti e infedeli del marito nonché all'abbandono della casa coniugale.

Sulla parte che richieda, per l'inosservanza dell'obbligo di fedeltà, l'addebito della separazione all'altro coniuge, grava l'onere di provare la relativa condotta e la sua efficacia nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza. L'inosservanza dell'obbligo di fedeltà rappresenta, di per sé, una violazione particolarmente grave determinando normalmente l'intollerabilità della prosecuzione della convivenza sempre che non si constati, attraverso un accertamento rigoroso ed una valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi, la mancanza di un nesso causale tra l'infedeltà e la crisi coniugale tale che ne risulti la preesistenza di una crisi già irrimediabilmente in atto in un contesto caratterizzato da una convivenza meramente formale.

(Tribunale Brescia Sez. III Sent., 06/07/2019).

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Tenore di vita familiare e il nuovo orientamento delle Sezioni Unite.

Con una recente sentenza, la Cassazione ha affermato che il giudice deve quantificare l'assegno rapportandolo non al pregresso tenore di vita familiare, ma in misura adeguata innanzitutto a garantire, in funzione assistenziale, l'indipendenza economica del coniuge non autosufficiente, intendendo l'autosufficienza in una accezione non circoscritta alla pura sopravvivenza, ed inoltre, ove ne ricorrano i presupposti, a compensare il coniuge economicamente più debole, in funzione perequativo-compensativa, del sacrificio sopportato per aver rinunciato, in funzione della contribuzione ai bisogni della famiglia, a realistiche occasioni professionali-reddituali, attuali o potenziali, rimanendo in ciò assorbito, in tal caso, l'eventuale profilo assistenziale.

(Cass. civ. Sez. I, 09/08/2019, n. 21228)

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Raggiungimento della maggiore età durante il procedimento per la dichiarazione di decadenza della responsabilità genitoriale.

Il conseguimento della maggiore età da parte del minore determina automaticamente la cessazione della responsabilità genitoriale, determinando, ancorché avvenga nel corso del procedimento per la dichiarazione di decadenza dalla stessa (nella specie, in pendenza del termine per proporre reclamo avverso il provvedimento medesimo), la cessazione della materia del contendere e la caducazione dei provvedimenti in precedenza pronunciati, posto che ad assumere rilievo è la sola tutela del minore dai comportamenti pregiudizievoli dei genitori, non anche l'interesse del genitore all'accertamento negativo dei fatti allegati a sostegno della domanda.

(Cassazione civile, sez. VI, 16 Settembre 2019, n. 23019. Pres. Scaldaferri. Est. Mercolino)

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La bigenitorialità non fa scattare il diritto per ciascun genitore a passare lo stesso tempo con il figlio.

Secondo la Cassazione (sentenza n. 31902/2018), la bigenitorialità non fa scattare il diritto per ciascun genitore a passare lo stesso tempo con il figlio. E' escluso quindi che esista una proporzione matematica che garantisca sia al padre sia alla madre, separati, di trascorrere un pari numero di ore con i figli. 

Il criterio da seguire è quello di assicurare una presenza significativa «nella vita del figlio nel reciproco interesse», fermo restando «in ogni caso il rispetto del principio della bigenitorialità, da intendersi quale presenza comune dei genitori nella vita del figlio, idonea a garantirgli una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi, i quali hanno il dovere di cooperare nella sua assistenza, educazione ed istruzione».

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La Cassazione apre all'adozione di minori anche ai single e alle coppie di fatto.

La Suprema Corte di Cassazione, con l'ordinanza n. 17100 depositata il 26 giugno 2019, ha consentito anche a persone singole e a coppie di fatto l'adozione di minori, precisando che l’adozione non presuppone necessariamente una situazione di abbandono dell’adottando, ma ciò che rileva è la qualità del legame instauratosi tra il minore e chi se ne è preso cura, ben potendosi valorizzare la consolidata relazione affettiva creatasi tra adottante ed adottato, nel preminente interesse del minore a preservare tale rapporto.

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Il mancato esame delle risultanze della CTU può essere fatto valere nel giudizio di Cassazione.

La Cassazione, sez. I, (sentenza n. 9763 dell'8.4.2019), ha enunciato il seguente principio di diritto: “Il mancato esame delle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio – in quanto, come nella specie relativa alla decadenza dalla potestà genitoriale, veicola nel processo un fatto idoneo a determinare una decisione di segno diverso – integra un vizio della sentenza che può essere fatto valere, nel giudizio di cassazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c, come omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”.

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Affido condiviso del cane a settimane alterne anche per il benessere dell'animale stesso.

Secondo il Tribunale di Sciacca (decreto 19 febbraio 2019), in caso di separazione dei coniugi, in mancanza di diversi accordi tra le parti, è legittimo disporre l’affidamento condiviso del cane, sul presupposto che il sentimento per gli animali costituisce un valore meritevole di tutela, anche in relazione al benessere dell'animale stesso.

In particolare, il Tribunale, all’esito dell’udienza ex art. 708 c.p.c., adottando i provvedimenti temporanei ed urgenti, ha deciso per l’“assegnazione” del cane ad entrambi i coniugi, a settimane alterne, con spese veterinarie e straordinarie al 50%.

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Assegno alla ex moglie se le foto del detective non sono idonee a dimostrare una stabile convivenza con il nuovo compagno.

Il Tribunale di Rimini (sentenza n. 747/2019), dopo aver pronunciato la cessazione degli effetti civili del matrimonio, ha dovuto decidere in ordine alla domanda di assegno di divorzio formulata dall’ex moglie.

Dopo aver riscontrato la disparità di condizioni economiche tra i due (ex) coniugi, ha confermato il diritto della resistente all’assegno di divorzio, sostenendo che dal materiale prodotto in giudizio era emerso che l’unica fonte di sostegno economico per la donna fosse proprio il contributo di cui era onerato l’ex marito e che gli elementi dell’investigatore privato non erano idonei a dimostrare una stabile convivenza con il nuovo compagno o che quest’ultimo contribuisse al menage familiare, ma al più avrebbero potuto far presumere una relazione sentimentale.

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Sale l'assegno in favore dei figli se viene a mancare il nonno che contribuiva al mantenimento.

La Corte di cassazione, con l'ordinanza n. 3206 del 4 febbraio 2019, ha respinto il ricorso di un padre di una adolescente condannato a versare alla minore 1.200 euro al mese, sostenendo che "contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente l'aggravarsi delle condizioni di salute del padre della donna e il suo decesso costituiscono una circostanza sopravvenuta e rilevante ai fini della modifica delle condizioni economiche della separazione per il venir meno dell'importante contributo economico destinato dall'anziano al mantenimento della figlia e della nipote. E' privo di fondamento il rilievo del ricorrente circa la prevedibilità dell'evento morte del padre, intervenuto all'età di 71 anni, evento che non era certamente stato previsto e valutato al momento della separazione consensuale e che comunque costituisce una circostanza sopravvenuta".

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Revoca dell'assegnazione della casa coniugale qualora la figlia del genitore collocatario si trasferisce.

La Corte di Cassazione, sesta sezione civile, con l'ordinanza n. 16134/2019, ha chiarito che è irrilevante la perdurante dipendenza economica se il figlio recide il legame con la famiglia d'origine per studiare in un'altra città e vivere con la famiglia del fidanzato. In particolare, qualora la figlia del genitore collocatario decida di trasferirsi in un'altra città presso i genitori del fidanzato, iscrivendosi poi all'università nello stesso paese e manifestando così l'intenzione di costituire un autonomo habitat domestico distinto da quello originario, nonostante non si tratti di un legame stabile e non sia stata raggiunta l'indipendenza economica, la situazione è comunque idonea a far venir meno il presupposto per l'assegnazione della casa coniugale.

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E' reato non versare l'assegno di mantenimento al figlio anche se nato fuori dal matrimonio.

Non sono fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 570-bis c.p., degli artt. 2, comma 1, lett. c), e 7, comma 1, lett. o), del D.Lgs. n. 21 del 2018 in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, 30 e 76 Cost., di talché, anche dopo l'entrata in vigore del D.Lgs. n. 21 del 2018, è tuttora vigente l'art. 4, comma 2, L. n. 54 del 2006.

Il nuovo art. 570-bis cod. pen. abbraccia, quinmdi, oltre il fatto compiuto dal «coniuge», anche quello compiuto dal genitore nei confronti del figlio nato fuori dal matrimonio, e ciò anche dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 21 del 2018, vige l’art. 4, comma 2, della legge n. 54 del 2006.

(Corte cost., 18/07/2019, n. 189)

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Il marito non versa integralmente il mantenimento alla moglie rischia la condanna per la violazione degli obblighi di assistenza familiare.

L'ex coniuge che non versa integralmente il mantenimento dovuto all'altro, facendogli mancare i mezzi di sussistenza e riducendolo progressivamente in uno stato di grave indigenza, rischia la pena di giustizia di cui all'art. 570 c.p., secondo comma, c.p. Lo ha deciso la Corte di Cassazione, sesta sezione penale, con la sentenza n. 30184/2019.

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Opposizione a precetto relativo a credito per assegno di mantenimento fissato in sede di separazione.

Con l'opposizione al precetto relativo a crediti maturati per il mancato pagamento dell'assegno di mantenimento, determinato a favore del figlio in sede di separazione o di divorzio, possono essere dedotte soltanto questioni relative alla validità ed efficacia del titolo e non anche fatti sopravvenuti, da farsi valere col procedimento di modifica delle condizioni della separazione di cui all'art. 710 c.p.c. o del divorzio di cui all'art. 9 della legge n. 898 del 1970. (Ribadendo il principio di cui in massima, la S.C. ha sottolineato che, nella specie, il fatto sopravvenuto costituito dalla collocazione del minore presso il padre non aveva privato il titolo esecutivo in materia di famiglia di efficacia e validità in quanto assistito da un'attitudine al giudicato, cd. "rebus sic stantibus", riguardo alla quale i fatti sopravvenuti potevano rilevare soltanto attraverso la speciale procedura di revisione del provvedimento sul contributo del mantenimento del figlio, devoluta al giudice della separazione o del divorzio e a questi riservata a tutela del superiore interesse pubblicistico di composizione della crisi familiare, rilevante per l'ordine pubblico).

(Cassazione civile, sez. III, 02 Luglio 2019. Pres. Roberta Vivaldi. Est. De Stefano)

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L'attribuzione giudiziale del cognome al figlio naturale riconosciuto non contestualmente dai genitori.

In tema di attribuzione giudiziale del cognome al figlio naturale riconosciuto non contestualmente dai genitori, il giudice è investito ex art. 262, commi 2 e 3, c.c. del potere-dovere di decidere su ognuna delle possibilità previste dalla disposizione in parola avendo riguardo, quale criterio di riferimento, unicamente all'interesse del minore e con esclusione di qualsiasi automaticità, che non riguarda né la prima attribuzione (essendo inconfigurabile una regola di prevalenza del criterio del "prior in tempore"), né il patronimico (per il quale parimenti non sussiste alcun "favor" in sé).

(Cassazione civile, sez. I, 05 Luglio 2019, n. 18161. Pres. Maria Cristina Giancola. Est. Bisogni)

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Squilibrio economico tra le parti e alto livello reddituale dell'ex coniuge

Ai fini dell'attribuzione e della quantificazione dell'assegno divorzile si deve tenere conto della funzione assistenziale e, a determinate condizioni, anche compensativo-perequativa cui tale assegno assolve. Da ciò consegue che, nel valutare l'inadeguatezza dei mezzi dell'ex coniuge che ne faccia richiesta, o l'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, si deve tener conto, utilizzando i criteri di cui all'art. 5, comma 6, della l. n. 898 del 1970, sia della impossibilità di vivere autonomamente e dignitosamente da parte di quest'ultimo e sia della necessità di compensarlo per il particolare contributo, che dimostri di avere dato, alla formazione del patrimonio comune o dell'altro coniuge durante la vita matrimoniale, senza che abbiano rilievo, da soli, lo squilibrio economico tra le parti e l'alto livello reddituale dell'altro ex coniuge, tenuto conto che la differenza reddituale è coessenziale alla ricostruzione del tenore di vita matrimoniale, ma è oramai irrilevante ai fini della determinazione dell'assegno, e l'entità del reddito dell'altro ex coniuge non giustifica, di per sé, la corresponsione di un assegno in proporzione delle sue sostanze.

(Cassazione civile, sez. I, 09 Agosto 2019. Pres. Maria Cristina Giancola. Est. Lamorgese.)

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Comunione legale dei coniugi: espropriazione di un bene comune per crediti personali di uno solo dei coniugi.

La natura di comunione senza quote della comunione legale dei coniugi comporta che l'espropriazione, per crediti personali di uno solo di essi, di uno o più beni in comunione abbia ad oggetto la "res" nella sua interezza e non per la metà o per una quota; ne consegue che, in ipotesi di divisione, è esclusa l'applicabilità sia della disciplina sull'espropriazione dei beni indivisi (artt. 599 ss. c.p.c.) sia di quella contro il terzo non debitore. (Nella specie, la S.C. ha chiarito che non era consentito al giudice disporre la separazione, ai sensi dell'art. 600 c.p.c., della quota spettante al coniuge comproprietario non debitore, né circoscrivere la vendita ad una porzione del tutto, poiché si doveva, invece, procedere ex art. 720 c.c. alla vendita o all'attribuzione dell'intero complesso, costituendo esso una singola unità immobiliare in comunione, nel caso in esame non comodamente divisibile).

(Cassazione civile, sez. II, 24 Gennaio 2019. Est. Fortunato).

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Accertamento dello stato di adottabilità e assistenza legale del minore.

Il procedimento volto all'accertamento dello stato di adottabilità deve svolgersi fin dalla sua apertura, ai sensi degli artt. 8, ultimo comma, e 10, comma 2, della legge n. 184 del 1983, con l'assistenza legale del minore, il quale ne è parte, e, in mancanza di una disposizione specifica, sta in giudizio a mezzo di un rappresentante legale ovvero, se sussista conflitto di interessi, di un curatore speciale, soggetti cui compete la nomina del difensore tecnico; ne consegue, in caso di omessa nomina cui non segua la designazione di un difensore d'ufficio, la nullità del procedimento "de quo", non avendo potuto il minore esercitare il suo diritto al contraddittorio su tutti gli atti processuali che hanno costituito il presupposto per la decisione del giudice di merito. Ricorrendo tali circostanze, deve essere peraltro escluso il rinvio del giudizio in primo grado, giacché tale rimessione, comunque contraria alle esigenze di speditezza del procedimento diretto all'accertamento dello stato di adottabilità, risulta preclusa dalla natura tassativa delle ipotesi di cui agli art. 353 e 354 c.p.c., ed il giudice di appello deve pertanto procedere, a norma dell'art. 354, comma 4, c.p.c., alla rinnovazione degli atti del procedimento che risultano viziati a causa del loro compimento in assenza della costituzione, a mezzo difensore, del rappresentante legale o del curatore speciale del minore.

(Cassazione civile, sez. I, 07 Maggio 2019, n. 12020. Est. Falabella)

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I figli sfrattano il padre, ma il Tribunale di Roma dichiara in suo favore l'intervenuto acquisto per usucapione dell'immobile.

Un parente che occupa un appartamento per 20 anni può diventarne proprietario per usucapione. Lo ha deciso il Tribunale di Roma andando controcorrente rispetto a una giurisprudenza che in casi del genere sosteneva che l'occupazione anche per lungo periodo di un immobile non desse diritto alla proprietà essendo una forma di "tolleranza" tra familiari. 

In seguito alla grave crisi economica cominciata nel 2008 e in seguito alla perdita del lavoro di uno dei due fratelli, i figli non sono stati più in grado di assicurare al loro genitore la detenzione a titolo gratuito del cespite. Così, a causa del rifiuto del loro padre di concludere un regolare contratto di locazione, gli stessi hanno invitato il padre a restituire l'immobile, sostenendo che il padre occupasse quell'alloggio in forza di un contratto di comodato d'uso gratuito ad un certo punto scaduto (contratto verbale e mai sottoscritto). Hanno sostenuto anche l'impossibilità per il loro padre di usucapire visto che il possesso sarebbe stato acquisito da quest'ultimo con la tolleranza. In buona sostanza i figli avrebbero tollerato l'utilizzo del loro appartamento da parte del padre che (in parte) gliel'aveva donato. 

Il Giudice, invece, ha escluso sia l'esistenza di un accordo contrattuale tra il padre e i figli, sia che il padre avesse utilizzato l'immobile per tolleranza dei figli. Di contro ha riconosciuto al padre di aver ampiamente dimostrato di aver tenuto, in relazione all'appartamento conteso, un comportamento "come se ne fosse stato il proprietario", dichiarando in suo favore l'intervenuto acquisto per usucapione ultraventennale dell'immobile.

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Affido esclusivo non può fondarsi solo sulla diagnosi della PAS.

La diagnosi di alienazione parentale non avendo basi scientifiche certe, non basta per allontanare il figlio dal genitore: il giudice dovrà tener conto non solo della CTU che l’ha accertata, bensì di ulteriori, approfondite indagini. La Cassazione ha rilevato che, qualora le risultanze della CTU si allontanino dalla scienza medica ufficiale, come nel caso in esame in cui è stata formulata la diagnosi della PAS, non essendovi certezze scientifiche al riguardo, il Giudice del merito avrebbe dovuto verificarne il fondamento.

(Cassazione Civile, Sez. I, sentenza n. 13274 depositata il 18 maggio 2019)

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Educazione religiosa del minore in caso di conflitto tra i genitori.

In tema di affidamento dei figli minori, atteso il diritto preminente dei figli ad una crescita sana ed equilibrata, in caso di conflitto genitoriale sull'educazione religiosa del minore possono essere adottati anche provvedimenti contenitivi o restrittivi dei diritti individuali di libertà religiosa dei genitori purché intervengano all'esito di un accertamento in concreto, basato sull'osservazione e sull'ascolto del minore, dell'effettiva possibilità che l'esercizio di tali diritti possa compromettere la salute psico-fisica o lo sviluppo dei figli minori. 

(Cassazione civile, sez. I, 30 agosto 2019, n.21916).

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Casa familiare al coniuge solo se il figlio maggiorenne convivente dimora stabilmente presso di essa


Con Ordinanza n. 16134/19 del 17 giugno 2019, la Sezione VI Civile della Suprema Corte di Cassazione ha chiarito che la nozione di convivenza, rilevante ai fini dell’assegnazione della casa familiare ex art. 337 sexies c.c., implica la stabile dimora del figlio maggiorenne presso di essa.        
Il requisito di “stabile dimora”, afferma la Corte, non impedisce che il figlio maggiorenne si allontani sporadicamente e per brevi periodi dalla casa familiare, purché egli vi faccia ritorno appena possibile e vi sia effettivamente presente per un arco temporale prevalente in relazione a una determinata unità di tempo (anno, semestre, mese).        
Esso è, al contrario, escluso qualora il maggiorenne ritorni all’abitazione solo raramente, poiché in tal caso sussisterebbe un mero rapporto di ospitalità, anziché di convivenza.         
In altre parole, perché la casa familiare sia e continui ad essere assegnata deve sussistere un collegamento stabile del figlio con l’abitazione del genitore.        
Nel caso concreto, la Suprema Corte ha confermato il decreto di revoca dell’assegnazione della casa coniugale sulla base dei rientri per pochi giorni della figlia - iscritta all’università in un’altra città - durante le sole vacanze natalizie, pasquali ed estive.

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Al minore deve essere garantito il mantenimento dei legami affettivi con il “genitore sociale”.

La sentenza n. 506/2019 del Tribunale di Como affronta un tema delicato come quello del “genitore sociale”. Nello specifico, il caso vede coinvolti una bambina in minore età, la madre biologica e il “padre sociale”.

La decisione in argomento si segnala perché il “genitore sociale” viene addirittura privilegiato a quello biologico nella scelta del collocamento. Avendo le consulenze, espletate in corso di causa, rivelato delle fragilità psichiche della signora e adeguate risorse genitoriali per il marito, il Tribunale ha infatti affidato la bimba ai servizi sociali disponendo che abiti con il papà, ciò con l’obiettivo di “tutelare il legame da lui positivamente instaurato con la piccola, legame consolidato nel tempo che ha per così dire compensato le carenze dell’altro genitore, assicurando alla minore (collocata presso di lui sin dal 2014) benessere psicologico e serenità nel suo percorso di crescita; né costituisce valore di rilevanza costituzionale assoluta la preminenza della verità biologica rispetto allo status di figlio (cfr. Cass. 5653/12)”.

L’ultimo aspetto di interesse, oltre che un po’ sorprendente, è che al genitore sociale è fatto obbligo di mantenere direttamente la bimba, mentre alla madre soltanto di concorrere al 50% delle spese di cura, istruzione ed educazione.

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Suicidio assistito: la Consulta ritiene non punibile chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio.

Ha fatto molto discutere la sentenza del 24.9.2019 della Consulta con la quale “La Corte ha ritenuto non punibile ai sensi dell’articolo 580 del codice penale, a determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.

La Corte subordina la possibilità di ricorrere alla “morte a comando” “al rispetto delle modalità previste sul consenso informato, sulle cure palliative e sulla sedazione profonda continua”, nonché “alla verifica sia delle condizioni richieste che delle modalità di esecuzione da parte di una struttura pubblica del Servizio sanitario nazionale, sentito il parere del comitato etico territorialmente competente”.

Queste ultime condizioni, precisa la Consulta, si sono rese necessarie “per evitare rischi di abuso nei confronti di persone specialmente vulnerabili, come già sottolineato nell’ordinanza 207 del 2018”. Pur ormai con questi vincoli, la Corte continua ad auspicare “un indispensabile intervento del legislatore”.

Immancabili, vista la delicatezza del tema, le reazioni alla predetta sentenza, che non accennano ad attenuarsi. Secondo la Conferenza episcopale italiana “Si può e si deve respingere la tentazione - indotta anche da mutamenti legislativi – di usare la medicina per assecondare una possibile volontà di morte del malato, fornendo assistenza al suicidio o causandone direttamente la morte con l’eutanasia”.

Di parere contrario rispetto alla Conferenza episcopale italiana è invece Marco Cappato, il tesoriere dell’associazione radicale Luca Coscioni che aveva dato vita al procedimento, il quale, nel febbraio del 2017, aveva accompagnato in una clinica svizzera che eroga il suicidio assistito Fabiano Antoniani, cieco e tetraplegico a seguito di un incidente stradale. Ed era stato sempre lui, una volta ritornato a Milano, ad autodenunciarsi ai Carabinieri per creare il caso giuridico e mediatico. “Ora siamo tutti più liberi”, è il suo commento a caldo.

Forti perplessità anche tra i medici. Il presidente della Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (Fnomceo), Filippo Anelli, dichiara "Quello che chiediamo ora al Legislatore è che chi dovesse essere chiamato ad avviare formalmente la procedura del suicidio assistito, essendone responsabile, sia un pubblico ufficiale rappresentante dello Stato e non un medico".

Secondo la Senatrice Binetti, poi, "Il rischio è che una narrazione molto giocata sui casi pietosi, che meritano tutta la nostra sensibilità, diventerà una prassi che servirà a inaugurare un'epoca in cui sarà possibile aggirare i criteri dettati dalla Corte".

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Responsabilità medica: la ragionevole, umana certezza.

La Corte di Cassazione nella sentenza numero 37767/2019 ribadisce le modalità attraverso le quali svolgere l’accertamento di nesso causale tra il danno lamentato da un paziente e il comportamento del medico: la regola di giudizio da seguire è quella della ragionevole, umana certezza. Ricordiamo i due parametri per procedere all’accertamento: 1- la probabilità statistica e 2-le contingenze nel caso concreto. La condanna, quindi, può essere pronunciata solo se "il dato probatorio acquisito lasci fuori soltanto eventualità che, pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili in rerum natura, siano remote".

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Responsabilità medica: grava sulla clinica l’onere di provare la colpa del medico.

La Corte di Cassazione, nella recentissima sentenza numero 24167/2019, afferma che la clinica convenuta in giudizio da un paziente per risarcimento del danno, ed essendo responsabile in solido con il medico di cui intende far valere la responsabilità, ha l’onere di provare che quanto accaduto, sia riconducibile esclusivamente all’imperizia del sanitario. Il caso prevedeva l’azione di regresso di una clinica nei confronti di un medico chirurgo, e la Corte D’Appello aveva posto in capo al sanitario di provare la corresponsabilità della clinica, violando così il principio dell’onere della prova.

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E’ nullo il licenziamento ritorsivo per la prolungata assenza del lavoratore per malattia.

La Corte di Cassazione sez. Lav. Con sentenza n. 23583 del 23 settembre 2019 ha stabilito che è nullo il licenziamento intimato per ritorsione al lavoratore che si sia assentato per un lungo periodo, ma occorre che l’intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro dovendosi escludere altri fattori idonei a giustificare il licenziamento.

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Responsabilità indiretta dell’imprese di assicurazioni.

La Corte di Cassazione, sez. III, con sentenza n. 23973 del 26 settembre 2019 ha sostenuto che la responsabilità indiretta dell’impresa di assicurazioni per l’atto illecito del sub-agente ricorre quando il suo inserimento nell’impresa abbia agevolato o reso possibile tale attività e sia stata realizzata nell’ambito e coerentemente alle finalità dell’incarico conferito, in modo da far ritenere al terzo in buona fede che l’attività posta in essere per la consumazione dell’illecito, rientrasse nell’incarico affidato alla società mandante.

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Ricettazione compatibile con la causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di cronaca

La Corte di Cassazione con sentenza 17 settembre 2019, n. 38277 ha affermato che la causa di giustificazione di cui all’art 51 c.p. è compatibile con il diritto di ricettazione, accogliendo la tesi difensiva secondo cui erroneamente i giudici di merito non avevano riconosciuto la causa di giustificazione dell’esercizio di un diritto di due giornalisti, ritenuti colpevoli del reato di ricettazione di un CD rom contenente telefonate illecitamente registrate ed utilizzate per un servizio giornalistico, nonostante l'unico fine fosse la pubblicazione di un articolo.

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Separazione e assegno di mantenimento: l’apprezzamento di fatti e prove è sottratto al sindacato di legittimità.

La Cassazione civile con ordinanza del 26 settembre 2019 n. 23999 ribadisce che la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso in Cassazione conferisce al giudice di legittimità la sola facoltà di controllo circa la correttezza giuridica e la coerenza logico-formale, non il potere di riesaminare l’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio.

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La risoluzione è l'unico strumento con il quale i creditori possono liberarsi di tutti gli effetti prodotti dal concordato.

I debiti concordatari possono fondare la dichiarazione di fallimento dell'impresa della quale sia stato omologato il concordato preventivo solo a seguito della risoluzione del concordato.

(Corte App. Firenze, 16.5.2019)

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Il patto di compensazione è opponibile indipendentemente dal fatto che il debito dell'istituto di credito sia divenuto liquido ed esigibile dopo la domanda di concordato.

Il patto di compensazione stipulato contestualmente al deposito dei titoli acquistati presso la banca ed a garanzia del credito derivante dal finanziamento da questa concesso al debitore ammesso alla procedura è opponibile indipendentemente dal fatto che il debito dell'istituto di credito sia divenuto liquido ed esigibile dopo la domanda di concordato. 

(Cass. civ., sez. I ord., 10.4.2019, n. 10091).

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La prededuzione dei crediti opera anche tra procedure concorsuali consecutive.

Il fenomeno della consecuzione funge da elemento di congiunzione tra procedure distinte e consente di traslare dall'una all'altra procedura la precedenza procedimentale in cui consiste la prededuzione, facendo sì che la stessa valga non solo nell'ambito in cui è maturata, ma anche nell'altro che alla prima sia conseguito. Tale il principio di diritto espressamente enunciato dal giudice di legittimità in una recente pronuncia.

(Cass. civ., sez. I, 11.6.2019, n. 15724).

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IVA: data a decorrere dalla quale si può emettere la nota di credito in presenza di un concordato preventivo con continuità aziendale.

L'Agenzia delle Entrate, con la risposta ad istanza di interpello del 18 dicembre 2018, n. 113, ha resi nuovi chiarimenti in merito alla tempistica per l'emissione delle note di variazione IVA nel caso di società sottoposta alla procedura di concordato preventivo con continuità aziendale. Il piano prevedeva: 

- la focalizzazione dell'attività sui prodotti con maggiori margini di guadagno; 

- la liquidazione di beni che non erano più funzionali allo svolgimento dell'attività ridefinita; 

- la suddivisione in tre classi dei creditori chirografari, con diverse percentuali di soddisfacimento dei relativi crediti.

Per effetto del concordato, sarebbe rimasta insoddisfatta una parte dei crediti vantati dai creditori chirografari nei confronti della società assoggettata alla procedura di concordato (falcidia dei crediti). L'Agenzia delle Entrate ha specificato che le note di variazione devono essere emesse dai creditori chirografari (i cui crediti sono stati falcidiati) dal momento in cui il piano di riparto viene portato a compimento (dies a quo). Inoltre, l'Agenzia delle Entrate ha specificato che le note di variazione devono essere emesse dai creditori chirografari (i cui crediti sono stati falcidiati) dal momento in cui il piano di riparto viene portato a compimento (dies a quo). Pertanto, l'emissione della nota di variazione emessa decorsi i termini per poter esercitare il diritto alla detrazione di cui all'art. 19, comma 1, D.P.R. n. 633/1972, non legittima l'emittente alla detrazione e non obbliga alla registrazione chi la riceve. 

(Interpello 18 dicembre 2018, n. 113).

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Non riconosciuta la deducibilità degli oneri se il contribuente non provvede a trasmettere la dichiarazione di esecuzione delle opere con attestazione del loro costo.

Non può essere riconosciuta la deducibilità degli oneri se il contribuente non provvede a trasmettere la dichiarazione di esecuzione delle opere con attestazione del loro costo. La Cassazione ha precisato che l'art. 1, comma 1, lett. d), del D.M. n. 41 del 1998 prevede che il contribuente, per potersi avvalere, nei limiti previsti, della deducibilità degli oneri sostenuti per interventi di ristrutturazione edilizia debba tra l'altro trasmettere, per i lavori il cui importo complessivo supera la somma di € 51.645,69, dichiarazione di esecuzione dei lavori con indicazione del loro costo, sottoscritta da un soggetto iscritto negli albi degli ingegneri, architetti e geometri, ovvero da altro soggetto abilitato all'esecuzione degli stessi. L'art. 4 del D.M. citato dispone, poi, che la detrazione non è riconosciuta in caso di violazione di quanto previsto all'art. 1, commi 1 e 2. Non può essere riconosciuta la deducibilità degli oneri, pertanto, se il contribuente non provvede a trasmettere la dichiarazione di esecuzione delle opere con attestazione del loro costo.

(Cass. civ., sez. V, 11 luglio 2019, n. 18611).

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Il ritardo del conduttore nella riconsegna della cosa locata legittima soltanto la condanna generica al risarcimento del danno da occupazione.

Il mero ritardo del conduttore nella riconsegna della cosa locata legittima soltanto la condanna generica al risarcimento del danno da occupazione; ogni differente danno, sia esso derivante da danneggiamento dell'immobile o da perdita di opportunità di vendita-locazione, deve essere adeguatamente provato.

(Cass. civ., sez. III, 16 luglio 2019, n. 18946)

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In caso di pluralità di locatori il singolo può agire al fine di ottenere il rilascio dell'immobile.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 17933 del 4 luglio 2019, ha stabilito che in caso di pluralità di locatori ciascuno di essi gode di pieni poteri gestori. In difetto di prova contraria, il singolo può agire al fine di ottenere il rilascio dell'immobile, dovendosi pertanto escludere la necessità di integrazione del contraddittorio.

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Il pignoramento delle quote di proprietà dell'immobile determina l'automatica cessazione di efficacia del contratto di locazione.

Il pignoramento di alcune quote di proprietà dell'immobile determina l'automatica cessazione di efficacia del contratto di locazione. La Corte di Cassazione con sentenza del 19 luglio 2019, n. 19522 ha precisato che la comune volontà dei comproprietari locatori, in ipotesi diretta a consentirne l'eventuale rinnovazione, si sarebbe dovuta necessariamente formare previa autorizzazione del giudice dell'esecuzione.


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Anche il condomino danneggiato dalle infiltrazioni d'acqua paga pro quota i lavori di riparazione.

Secondo la Corte di Appello di Catania (sentenza del 4 giugno 2019, n. 1273) anche "il condomino danneggiato dalle infiltrazioni d'acqua paga pro quota i lavori di riparazione in quanto comproprietario della stessa corte comune e come tale corresponsabile, al pari degli altri condomini, della manutenzione della stessa corte comune". Qualora, quindi, si debba procedere alla riparazione del cortile o viale di accesso all'edificio condominiale, che funga anche da copertura per i locali sotterranei di proprietà esclusiva di un singolo condomino, ai fini della ripartizione delle relative spese non si può ricorrere ai criteri previsti dall'art. 1126 c.c., ma si deve, invece, procedere ad un'applicazione analogica dell'art. 1125 c.c., il quale costituisce ipotesi particolare del principio generale dettato dall'art. 1123, comma 2, c.c.

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Sequestro dei beni intestati a persona estranea al reato.

In tema di reati tributari, nel caso di sequestro preventivo per equivalente avente ad oggetto beni formalmente intestati a persona estranea al reato, incombe sul giudice una pregnante valutazione sulla disponibilità effettiva degli stessi. A tal fine, è necessaria la prova, con onere a carico del Pubblico Ministero, della riferibilità concreta degli stessi all'indagato. 

(cfr. Cass. Pen., 2 luglio 2019, n. 28583).

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Conferimento d'azienda e successiva cessione totalitaria delle partecipazioni.

Ai fini dell'imposta di registro, l'operazione di conferimento d'azienda e successiva cessione totalitaria delle partecipazioni, posti in essere dal contribuente e unitariamente considerati, non comporta il conseguimento di un vantaggio d'imposta indebito e quindi non è abusiva.

(Agenzia delle entrate, risp. 18 giugno 2019, n. 196).

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Il diritto di difesa dei genitori nel procedimento di dichiarazione di stato di adottabilità verso le relazioni degli assistenti sociali.

Con ordinanza n. 1883/2019 la Cassazione ha stabilito che nel procedimento per la dichiarazione dello stato di adottabilità di un minore le relazioni degli assistenti sociali e degli psicologi, ancorché non asseverate da giuramento, costituiscono, nel quadro dei rapporti informativi, degli accertamenti e delle indagini da compiere in via sommaria e secondo il rito camerale, indizi sui quali il giudice può fondare il proprio convincimento e la cui valutazione non comporta violazione del diritto di difesa dei genitori.

(Cass. civ., Sez. I, Ord., 23.1.2019, n. 1883).

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Sequestro preventivo annullabile solo in caso di sgravio dell'Amministrazione finanziaria

Non è possibile disporre o mantenere il sequestro preventivo, in caso di annullamento della cartella esattoriale da parte della Commissione Tributaria, con sentenza anche non definitiva, e di correlato provvedimento di "sgravio" da parte dell'Amministrazione finanzia in quanto il provvedimento di sgravio dell'Agenzia delle entrate produce l'effetto estintivo del debito erariale.

(cfr. Cass. Pen., 2 luglio 2019, n. 28575).

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Il procedimento di adottabilità in cui il minore non sia assistito da un legale è nullo.

Con l'ordinanza n. 12020/2019 la Cassazione ha stabilito che il procedimento volto all'accertamento dello stato di adottabilità deve svolgersi, fin dalla sua apertura, con l'assistenza legale del minore, il quale ne è parte, e, in mancanza di una disposizione specifica, sta in giudizio a mezzo di un rappresentante legale ovvero, se sussista conflitto di interessi, di un curatore speciale, soggetti cui compete la nomina del difensore tecnico.

(Cass. civ., Sez. I, Ord., 7.5.2019, n. 12020).

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Il diritto di impugnazione della delibera assembleare del rappresentante comune.

L'art. 2347, co. 1 c.c. (secondo cui "…nel caso di comproprietà di un'azione, i diritti dei comproprietari devono essere esercitati da un rappresentante comune…"), in quanto diretto ad assicurare un corretto e trasparente svolgimento dei rapporti tra società e comunisti, comporta che il diritto di impugnazione della delibera assembleare spetti esclusivamente al rappresentante comune.

(cfr. Trib. di Roma, sez. specializzata in materia di impresa, 3 luglio 2018).

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Coppie coniugate e coppie conviventi sono equiparate anche nel caso del ricongiungimento familiare.

Il TAR di Reggio Calabria, con decisione del 10 maggio 2019 n. 231, ha affermato che l'equiparazione tra coppie coniugate e quelle conviventi deve ritenersi sussistente anche nel caso del ricongiungimento familiare, anche quando richiesto da un appartenente al Corpo dell'Arma dei Carabinieri, in quanto siffatto istituto è diretto a rendere effettivo il diritto all'unità della famiglia: tale diritto si esprime nella garanzia della convivenza del nucleo familiare e, pur nel silenzio della L. n. 76/2016, può essere invocato non solo dai coniugi e dai soggetti uniti civilmente, ma anche dai conviventi di fatto.

(TAR Reggio Calabria, 10 maggio 2019, n. 231)

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Domanda di scioglimento dell'unione civile e mancato invio della raccomandata e della formale dichiarazione innanzi all'Ufficiale dello Stato Civile.

In tema di accoglimento della domanda di scioglimento dell'unione civile, il Tribunale adito può deliberare la predetta domanda pur in difetto di invio della raccomandata e della formale dichiarazione innanzi all'Ufficiale dello Stato Civile, nel caso in cui l'attore abbia notificato il ricorso introduttivo del giudizio al partner, abbia ribadito in sede di udienza presidenziale la propria volontà di sciogliere il vincolo e tra la fase presidenziale e quella in cui viene emesso il provvedimento definitivo sia trascorso un lasso di tempo pari o superiore a tre mesi.

(Tribunale Civile di Novara, 5 luglio 2018, Presid. Lamanna - Est. Iaquinta)

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La formazione di una famiglia di fatto.

La formazione di una famiglia di fatto costituisce espressione di una scelta di vita esistenziale e consapevole, con assunzione del rischio della cessazione del rapporto, rescindendo ogni collegamento con il tenore ed il modello di vita legati al coniugio e quindi escludendo la solidarietà post-matrimoniale dell'altro coniuge.

(Tribunale di Como, Ord. 12 aprile 2018, Est. Montanari)

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Il rifiuto della moglie ad intrattenere rapporti intimi con il marito e l'addebito della separazione.

Non è addebitabile alla moglie la separazione della coppia se il rifiuto della stessa ad intrattenere rapporti intimi con il marito è causato da circostanze oggettive che ostacolano la normale vita di coppia, come ad esempio una malattia o l'atmosfera opprimente instaurata in casa dal marito.

(Cassazione Civile, Sez. VI, Ord. 15 febbraio 2019, n. 4653)

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Linea guida per l'assegno di divorzio.

Il contrasto giurisprudenziale venutosi a creare conseguentemente al differente orientamento assunto di recente dalla Corte di Cassazione è stato chiarito dalle SS.UU. con la sentenza dell'11 luglio 2018 n. 18287.

Secondo la Corte, il riconoscimento dell'assegno di divorzio, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale e in pari misura compensativa e perequativa, richiede l'accertamento dell'inadeguatezza dei mezzi o comunque dell'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, attraverso l'applicazione dei criteri di cui alla prima parte della norma di cui all'art. 5, comma 6, della L. n. 898/1970, e successive modifiche, i quali costituiscono il parametro di cui si deve tenere conto per la relativa attribuzione e determinazione, ed in particolare, alla luce della valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e dell'età dell'avente diritto (funzione assistenziale).

All'assegno va poi riconosciuta una funzione compensativa perequativa che conduce al riconoscimento di un contributo volto a consentire al coniuge richiedente il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate. Da qui ne consegue che la funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi non è finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita familiare, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall'ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi.

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IL RISARCIMENTO DEL DANNO DA DIFFAMAZIONE.

Il nostro codice penale parla di “diffamazione” all’art 595, dicendo che per diffamazione si intende una condotta che mira ad offendere l’altrui reputazione, bene giuridico tutelato dal nostro ordinamento. Il reato di ingiuria prevede sempre l’offesa alla reputazione di qualcuno ma, al contrario della diffamazione, vi è una minore offensività del fatto poiché la persona offesa è presente e quindi può difendersi. L’insulto della diffamazione invece è molto più subdolo poiché si consuma in assenza della persona offesa, pertanto la pena sarà maggiore.

La “Diffamazione a mezzo stampa” ex art 595.3 c.p. costituisce la forma aggravata del reato di diffamazione, tenendo conto della notevole diffusività del mezzo, l’offesa è condotta a un numero indeterminato di soggetti, la norma prende in considerazione la stampa periodica (giornali, settimanali ecc), quella non periodica (libri ecc.) e quella clandestina.

Ma al reato di diffamazione a mezzo stampa, si accosta il “diritto di cronaca e di critica” sancito dall’art 21 della Costituzione. La Sentenza n.5259/1984 della Corte di Cassazione “Il decalogo del giornalista” disciplina l’esercizio di questo diritto rispettando nel contempo il bene giuridico della reputazione. Infatti, affinchè il diritto di cronaca non integri il reato di diffamazione occorrono tre condizioni:

1) la verità della notizia pubblicata= i fatti come sono accaduti e i fatti come sono narrati.
2) l’interesse pubblico alla conoscenza del fatto (c.d. pertinenza) = impone che notizie e fatti riportati abbiano un concreto interesse per l’opinione pubblica, non necessariamente intesa nella sua totalità.
3) la correttezza formale nella esposizione (c.d. continenza) = consiste nella forma civile dell’esposizione dei fatti e della loro valutazione, cioè non eccedente rispetto allo scopo informativo da conseguire.

Come agire in caso di lesione da diffamazione?

Dopo la sentenza sopracitata è stato riconosciuto ai soggetti diffamati il diritto di tutelare la propria reputazione in sede civile senza necessità di attivare l’azione penale. Il soggetto offeso ha il diritto al risarcimento del danno, a prescindere dalla circostanza che il fatto lesivo integri o meno un reato, poiché ai fini risarcitori è del tutto irrilevante che il fatto sia stato commesso con dolo o con colpa. La condotta in questo caso integrerà l’illecito civilistico di cui. all’art. 2043 c.c e quindi si risolverà in un’attività che ha causato un danno ingiusto: bisogna specificare però che costituisce illecito civile ove la lesione del diritto all’identità personale avviene mediante distorsione dell’effettiva identità personale o alterazione, travisamento, offuscamento del patrimonio intellettuale, politico, sociale, religioso, ideologico, professionale, mentre si ritiene sussistente il reato di diffamazione ex art 595 c.p. quando, invece, alla lesione si pervenga mediante offesa alla reputazione.

Liquidazione del danno.

L’Osservatorio sulla Giustizia Civile di Milano, ha pubblicato, i criteri orientativi per la liquidazione del danno che sono:

 -la notorietà del diffamante, carica pubblica o ruolo istituzionale o professionale ricoperto dal diffamato;

-la natura della condotta diffamatoria condotte reiterate, intensità dell’elemento psicologico in capo all’autore della diffamazione (se vi sia animus diffamandi, se il dolo sia eventuale);

-il mezzo con cui è stata perpetrata la diffamazione e relativa diffusione, eventualmente anche con edizione on line del giornale

-la risonanza mediatica suscitata dalle notizie diffamatorie imputabile al diffamante(es. falso scoop con la consapevolezza di avvio di campagna stampa diffamatoria, ovvero notizia data ad agenzia tipo Ansa che la diffonde universalmente), natura ed entità delle conseguenze sull’attività professionale e sulla vita del diffamato, se siano evidenziati profili concreti di danno o meno, reputazione già compromessa (es. ampio coinvolgimento in procedimento penale), limitata riconoscibilità del diffamato (es. foto di spalle, mancata indicazione del nome), ampio lasso temporale tra fatto e domanda giudiziale, rettifica successiva e/o spazio dato a dichiarazioni correttive del diffamato o rifiuto degli stessi, pubblicazione della sentenza.

L’Osservatorio sulla Giustizia Civile di Milano ha in sostanza, individuato, cinque tipologie di diffamazione a cui ha parametrato la liquidazione equitativa del danno:

·         Diffamazione di tenue gravità, con un danno liquidabile nell’importo da euro 1.000,00 ad euro 10.000,00: la diffamazione di tenue gravità si ha in presenza dei seguenti elementi: limitata/assente notorietà del diffamante, tenuità dell’offesa considerata nel contesto fattuale di riferimento, minima/limitata diffusione del mezzo diffamatorio, minimo/limitato spazio della notizia diffamatoria, assente risonanza mediatica, tenue intensità elemento soggettivo, intervento riparatorio/rettifica del convenuto.

·         Diffamazione di modesta gravità, con danno liquidabile da euro 11.000,00 ad euro 20.000,00. La diffamazione di modesta gravità, ricorre in presenza dei seguenti elementi: limitata notorietà del diffamante, limitata diffusione del mezzo diffamatorio, modesto spazio della notizia diffamatoria.

·         Diffamazione di media gravità, con danno liquidabile da euro 21.000,00 ad euro 30.000,00. La diffamazione di media gravità, ricorre in presenza dei seguenti elementi: media notorietà del diffamante, significativa gravità delle offese attribuite al diffamato sul piano personale/professionale, uno o più episodi diffamatori, media/significativa diffusione del mezzo diffamatorio, eventuale pregiudizio al diffamato sotto il profilo personale e professionale, natura eventuale del dolo.

·         Diffamazione di elevata gravità, con danno liquidabile da euro 31.000,00 ad euro 50.000,00.La diffamazione di elevata gravità, elevata notorietà del diffamante, ricorre in presenza dei seguenti elementi: uno o più episodi diffamatori di ampia diffusione (diffusione su quotidiano/trasmissione a diffusione nazionale), notevole gravità del discredito e eventuale rilevanza penale/disciplinare dei fatti attribuiti al diffamato, eventuale utilizzo di espressioni dequalificanti/denigratorie/ingiuriose, elevato pregiudizio al diffamato sotto il profilo personale, professionale e istituzionale, risonanza mediatica della notizia diffamatoria, elevata intensità elemento soggettivo.

·         Diffamazioni di eccezionale gravità, con un danno liquidabile in importo superiore ad euro 50.000,00.

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LE QUOTE DI PROPRIETÀ DI UN IMMOBILE SOTTOPOSTE A PIGNORAMENTO DETERMINANO LA CESSAZIONE DEL CONTRATTO DI LOCAZIONE

La Corte di Cassazione con sentenza del 19.07.2019 n 19522 ha precisato che la volontà comune dei comproprietari locatori, si sarebbe dovuta necessariamente formare previa autorizzazione del giudice dell'esecuzione per consentirne l’eventuale rinnovazione in caso di pignoramento di alcune quote di proprietà dell’immobile.

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DEQUALIFICAZIONE PROFESSIONALE DEL LAVORATORE E VALUTAZIONE EQUITATIVA DEL DANNO

La Corte di Cassazione in una recente ordinanza n.16595 20.6.2019, cassando con rinvio la pronuncia impugnata, ha ribadito che in sede di determinazione del danno da dequalificazione professionale del lavoratore, i criteri di valutazione equitativa, scelti dal giudice, devono consentire una valutazione adeguata e proporzionata, in modo tale da ristorare il pregiudizio effettivamente subito dal danneggiato.

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LA MAGGIORE ETÀ DELL’ADOTTANDO

Se durante il procedimento per l’adottabilità l’adottando raggiunge la maggiore età, il processo si estingue per cessazione della materia del contendere perché il risultato del procedimento non è più conseguibile.

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LEGITTIMAZIONE AL RISARCIMENTO DEL DANNO

L’art. 82 GDPR dispone che il risarcimento del danno riguardi i danni "materiali e immateriali",ricalcando la formulazione inglese “material or non-material damage” e richiamando il concetto di “danno patrimoniale” e “danno non patrimoniale”. Questo articolo prevede che il legittimato passivo sia in primo luogo il titolare del trattamento coinvolto nelle operazioni di trattamento, ma l’elemento innovativo concerne il riconoscimento della legittimazione passiva anche in capo al responsabile del trattamento. Bisogna specificare però che il responsabile è tenuto al risarcimento quando: 1) ha agito in modo difforme o contrario alle istruzioni impartite dal titolare del trattamento violando l’obbligo contrattuale, 2) quando il titolare ha violato gli obblighi posti a suo carico dal GDPR.

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Le quote di proprietà di un immobile sottoposte a pignoramento determinano la cessazione del contratto di locazione.

La Corte di Cassazione con sentenza del 19.07.2019 n 19522 ha precisato che la volontà comune dei comproprietari locatori, si sarebbe dovuta necessariamente formare previa autorizzazione del giudice dell'esecuzione per consentirne l’eventuale rinnovazione in caso di pignoramento di alcune quote di proprietà dell’immobile.

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Dequalificazione professionale del lavoratore e valutazione equitativa del danno.

La Corte di Cassazione in una recente ordinanza n.16595 20.6.2019, cassando con rinvio la pronuncia impugnata, ha ribadito che in sede di determinazione del danno da dequalificazione professionale del lavoratore, i criteri di valutazione equitativa, scelti dal giudice, devono consentire una valutazione adeguata e proporzionata, in modo tale da ristorare il pregiudizio effettivamente subito dal danneggiato.

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Assegno divorzile: pur in presenza di un evidente divario economico tra i coniugi non sussiste il diritto all’assegno qualora tale disparità non possa essere ricondotta ad alcun apprezzabile sacrificio compiuto dalla richiedente durante la vita matrimonia

Secondo il Tribunale di Milano (sentenza n. 6665/2019), le condizioni economiche e patrimoniali dei coniugi non costituiscono più il punto di riferimento principale per l’attribuzione del diritto a un assegno di mantenimento, poiché le stesse rilevano solo ove eziologicamente connesse al contributo di ciascuno nel corso della vita matrimoniale. L’eventuale e rilevante squilibrio tra le posizioni economico-patrimoniali dei coniugi, quindi, non solo non è condizione necessaria e sufficiente al riconoscimento dell’assegno, ma deve anche essere riferibile a scelte fatte in conseguenza del matrimonio o all’interno di esso.

Più precisamente, non sussiste il diritto all’assegno di divorzio – pur in presenza di un evidente divario economico tra i coniugi – qualora tale disparità non possa essere ricondotta ad alcun apprezzabile sacrificio compiuto dalla richiedente durante la vita matrimoniale (Trib. Treviso, 8 gennaio 2019, ivi). Tale conclusione si giustifica in quanto all’assegno divorzile in favore dell’ex coniuge deve attribuirsi, oltre alla natura assistenziale, anche natura perequativo-compensativa, che discende direttamente dalla declinazione del principio costituzionale di solidarietà, e conduce al riconoscimento di un contributo volto a consentire al coniuge richiedente non il conseguimento dell’autosufficienza economica sulla base di un parametro astratto, bensì il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate (App. Genova, 1 marzo 2019, ivi).

(Tribunale di Milano, sentenza 5 luglio 2019, n. 6665)

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Alienazione parentale.

L’alienazione parentale (anche detta Sindrome da alienazione parentale PAS) secondo il Dott. Richard Gardner, è il risultato di una programmazione dei figli da parte di uno dei due genitori (genitore alienante) che porta i figli a rappresentare un rifiuto nei confronti dell’altro genitore (genitore alienato). È una dinamica psicologica disfunzionale che si manifesta nei figli minori durante le separazioni dei genitori caratterizzate da conflittualità, ed è inoltre un concetto molto usato nei contenziosi legali di separazione. Questa condotta ha lo scopo di lacerare il rapporto con l’altro genitore, facendo leva sulla limitata capacità di discernimento del minore, ed è in netto contrasto con l’art 337 ter c.c. che così recita “Il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale (…) La responsabilità genitoriale è esercitata da entrambi i genitori. Le decisioni di maggiore interesse per i figli relative all'istruzione, all'educazione, alla salute e alla scelta della residenza abituale del minore sono assunte di comune accordo tenendo conto delle capacità, dell'inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli.” L’alienazione parentale però è compiuta anche attraverso la strumentalizzazione del diniego del figlio e la costruzione di “realtà virtuali familiari”. Tale condotta ostruzionistica protratta conduce a recidere il rapporto con l’altra figura genitoriale, la cui presenza è fondamentale per la crescita ed educazione del minore. Sia la figura materna che quella paterna possono rappresentare il “genitore alienante” ma l’Avvenire in un articolo dell’anno 2017 sostiene come nel 90 per cento dei casi siano i padri a subire l’alienazione da parte delle madri. Al momento della separazione genitoriale si tende ad affidare i figli ad entrambi i genitori, si parla infatti di bigenitorialità, introdotta con L. n. 54/2006, che prevede il mantenimento economico e morale del figlio da parte di entrambi i genitori. Il genitore alienante può incorrere in varie conseguenze giuridiche se disattende i provvedimenti definiti dall’autorità giudicante: infatti vi è la possibilità che vengano modificate le condizioni riguardanti il collocamento del figlio e nei casi più gravi può essere disposto l’affidamento esclusivo presso il genitore alienato e il risarcimento del danno subito. Inoltre il genitore alienante può essere condannato ai sensi dell’art 388, 2 c.p. per mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice e ai sensi dell’art 572 c.p. per maltrattamenti contro familiari o conviventi.

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In fase di attuazione di un piano urbanistico, il vicino può fare ricorso per bloccare i lavori..

È stato stabilito dal Consiglio di Stato nella Sentenza 4233/2019 che “la lesione di un interesse o di un diritto deve essere direttamente collegata agli atti adottati dall’Amministrazione”, infatti il vicino che si sente danneggiato in fase di attuazione di un piano urbanistico, può fare ricorso per bloccare i lavori.

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La figura dell'Avvocato Istruttore.

La figura dell’Avvocato Istruttore è una novità che potrebbe avere un effetto incisivo nel processo civile infatti è deputato a raccogliere confessioni e dichiarazioni in fase di negoziazione assistito, con la possibilità di utilizzare tali mezzi di prova nel successivo giudizio. È una figura volta ad alleggerire il carico di lavoro del giudice ma non è apprezzato dall’Associazione nazionale magistrati poiché si vedrebbero privati di questo compito. L’Anm infatti sostiene che l'attività di ammissione ed espletamento dei mezzi di prova è ineliminabile infatti è una parte dell'attività giurisdizionale che ha ad oggetto l'accertamento dei fatti che concorrono alla decisione e che, pertanto, devono poter essere governati dal giudice terzo ed imparziale sin dalla loro preliminare selezione in punto di ammissibilità e rilevanza.

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Il coniuge superstite non ha diritto di abitazione se separato.

L’art. 540, comma 2, sancisce che “al coniuge del defunto sia riservato il diritto di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare, nonché quello di uso sui mobili che la corredano, se di proprietà del defunto o comuni.” Ma la Corte di Cassazione, seconda sezione civile, nell’ordinanza n. 15277/ 2019 ha ritenuto questo diritto non spettante al coniuge superstite qualora sia precedentemente intervenuta una separazione legale dal de cuius: infatti non vi è un’effettiva esistenza, al momento dell'apertura della successione, di una casa adibita ad abitazione familiare, evenienza che non ricorre allorché sia cessato lo stato di convivenza tra i coniugi dopo la separazione.

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Principio di continuità affettiva.

La Corte Costituzionale con ordinanza n. 4524/ 2019 ha stabilito che non è impugnabile con ricorso in Cassazione, il provvedimento tramite il quale il Tribunale per i Minorenni regolamenta gli incontri tra gli affidatari e i minori adottandi abbinati ad altra coppia in violazione del principio di continuità affettiva.  Questo principio infatti pone al centro il minore e il rapporto affettivo continuato e stabile nel tempo è un bene prezioso che il legislatore non può non tutelare.

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Art 2477 c.c. in tema di SRL

L’art 2477 modificato ex art. 2-bis, D.L.18 aprile 2019, n. 32, convertito in L. 14 giugno 2019, n. 55, dice che la nomina dell’organo di controllo o del revisore è obbligatoria se la società:

a)       è tenuta alla redazione del bilancio consolidato;

b)       controlla una società obbligata alla revisione legale dei conti;

c)       ha superato per due esercizi consecutivi almeno uno dei seguenti limiti: 1) totale dell'attivo dello stato patrimoniale: 4 milioni di euro; 2) ricavi delle vendite e delle prestazioni: 4 milioni di euro; 3) dipendenti occupati in media durante l'esercizio: 20 unità.

L'obbligo di nomina dell'organo di controllo o del revisore di cui alla lettera c) del secondo comma cessa quando, per tre esercizi consecutivi, non è superato alcuno dei predetti limiti.

L'assemblea che approva il bilancio in cui vengono superati i limiti su indicati deve provvedere, entro trenta giorni, alla nomina dell'organo di controllo o del revisore. Se l'assemblea non provvede, alla nomina provvede il Tribunale su richiesta di qualsiasi soggetto interessato o su segnalazione del conservatore del registro delle imprese.

Si applicano le disposizioni dell'art. 2409 c.c. (denunzia al Tribunale) anche se la società è priva di organo di controllo.


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Separazioni e divorzi: agevolazioni e esenzioni fiscali.

La Commissione Tributaria della Regione Liguria accoglie il ricorso di un notaio a cui è stato richiesto il pagamento dell'imposta di registro in seguito a un trasferimento immobiliare avvenuto in virtù di un accordo di separazione, perché formalizzato a 22 anni di distanza. Per l'Agenzia delle Entrate il contribuente non ha diritto all'esenzione a causa dell'intento elusivo del rinvio e della prescrizione dell'accordo. La CTR Liguria però non è d'accordo non solo perché dal rinvio del trasferimento formale il contribuente non ottiene alcun beneficio fiscale, ma anche perché la prescrizione non può essere invocata da un soggetto diverso a quello nel cui interesse è prevista.


La Commissione però non è d'accordo, non solo perché non rileva un intento elusivo da parte degli ex coniugi, poiché il rinviare il trasferimento immobiliare su cui era è raggiunto l'accordo in sede di separazione di fatto non produce alcun beneficio dal punto di vista fiscale, ma anche perché l'eccezione del termine di prescrizione può essere sollevata solo dalla parte nel cui interesse è posta e non dall'Amministrazione tributaria.

(Ctr Liguria sentenza 437-2019)

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Gli atti di nascita formati all'estero di minori nati da surrogacy non sono trascrivibili nel nostro ordinamento.

Con la decisione n. 12193 depositata il giorno 8 maggio 2019, le Sezioni Unite hanno stabilito che gli atti di nascita formati all'estero di minori nati da surrogacy non sono trascrivibili nel nostro ordinamento perché contrari all'ordine pubblico, tuttavia non viene esclusa la possibilità di conferire rilievo al rapporto genitoriale mediante il ricorso ad altri strumenti giuridici quali l'adozione in casi particolari prevista dall'art. 44, comma 1, lett d), L. n. 184 del 1983.

Il processo di armonizzazione tra gli ordinamenti, di cui costituisce espressione il riferimento ai valori giuridici condivisi dalla comunità internazionale, non esige la realizzazione di un’assoluta uniformità nella disciplina delle singole materie, spettando alla discrezionalità del legislatore l'individuazione degli strumenti più opportuni per dare attuazione a quei valori, compatibilmente con i principi ispiratori del diritto interno, senza che ciò consenta di declassare automaticamente a mera normativa di dettaglio le disposizioni a tale fine adottate. In tal senso depongono gli artt. 64 e ss della legge n. 218 del 1995, i quali nel disciplinare l'ingresso nel nostro ordinamento di atti e provvedimenti formati all'estero non prevedono affatto il recepimento degli istituti ivi applicati, così come sono disciplinati dagli ordinamenti di provenienza, ma si limitano a consentire la produzione dei relativi effetti, nella misura in cui gli stessi risultino compatibili con la nozione di ordine pubblico.

(C. civ., S.U., 8.5.2019, n. 12193)

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È legittima l'assegnazione della casa familiare nella quale la famiglia non vi abbia abitato in precedenza.

Secondo la I Sezione Civile della Corte di Cassazione è legittima l'assegnazione della casa familiare alla madre collocataria della minore, in esecuzione di una pattuizione convenzionale tra gli ex coniugi, in base alla quale le parti, intendendo assicurare una stabile dimora per la figlia minore, hanno destinato a tale scopo un'abitazione diversa da in cui in precedenza aveva abitato il nucleo familiare.

La separazione consensuale è un negozio di diritto familiare avente un contenuto essenziale - il consenso reciproco a vivere separati, l'affidamento dei figli, l'assegno di mantenimento ove ne ricorrano i presupposti - ed un contenuto eventuale, che trova solo occasione nella separazione, costituito da accordi patrimoniali del tutto autonomi che i coniugi concludono in relazione all'instaurazione di un regime di vita separata, tanto che "in relazione a questi ultimi, detti patti non sono suscettibili di modifica (o conferma) in sede di ricorso "ad hoc" ex art. 710 c.p.c. o anche in sede di divorzio, la quale può riguardare unicamente le clausole aventi causa nella separazione personale, ma non i patti autonomi, che restano a regolare i reciproci rapporti ai sensi dell'art. 1372 c.c. Va altresì ricordato che i patti di separazione in tanto possono essere omologati in quanto siano conformi ai superiori interessi della famiglia.

(Cass. civ., Sez. I, 7.5.2019, n. 12023)

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E' ammissibile la prova per testimoni per dimostrare l'esistenza di un testamento smarrito?

La prova testimoniale per gli atti per i quali è richiesta la forma scritta, o ad substantiam o ad probationem, è ammessa solo dopo che sia acquisita la prova di una serie di circostanze di fatto preliminari, quali: a) l'esistenza del documento; b) il suo contenuto, onde controllare la sua validità formale e sostanziale; c) la prestazione di ogni possibile diligenza, tipica del buon padre di famiglia, nella custodia del documento ovvero di una condotta priva di elementi di imprudenza e di negligenza, nel caso di perdita; d) l'evento naturale o imputabile a terzi, che abbia determinato la perdita del documento. In caso di sparizione di un presunto testamento, è dunque necessario rispettare la condizione di cui all'art. 2724 c.c., n. 3, interpretando la sua formula nel senso che, dove si parla di contraente, deve intendersi richiamato l'interessato alla ricostruzione del testamento (che nella specie è sicuramente anche il ricorrente, in quanto largamente beneficiato dall'atto), il quale, ove sia stato in possesso del documento, deve dimostrare di essere incolpevole in ordine al suo smarrimento, mentre nel caso in cui egli non sia stato custode della scheda, il suo onere probatorio riguarda, oltre al fatto di non averla mai posseduta, anche la circostanza che egli non fosse particolarmente tenuto a procurarsene la detenzione, pertanto di non essere stato in colpa circa il fatto di non averla posseduta.

(Cass. civ. Sez. II, 30/04/2019, n. 11465)

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Fornitura di gas interrotta. L'amministratore è responsabile se non agisce contro i condomini morosi.

Non basta la morosità di alcuni condomini per escludere la responsabilità dell'amministratore verso il condominio in caso di interruzione della fornitura di gas condominiale. L'amministratore, per andare esente da responsabilità, deve, infatti, dimostrare la mancanza in cassa del denaro per corrispondere quanto dovuto all'azienda fornitrice del gas e di essersi attivato tempestivamente, anche per via giudiziale, per il recupero degli oneri condominiali non pagate, in base ai poteri che la legge gli conferisce.


(Tribunale di Roma, 15 maggio 2018, n. 9877)

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Responsabilità civile derivante da sinistro stradale: quando il conducente è persona diversa dal proprietario del veicolo.

A norma dell’art. 2054 c.c. “Il conducente di un veicolo senza guida di rotaie è obbligato a risarcire il danno prodotto a persone o a cose dalla circolazione del veicolo se non prova di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno.”. Il terzo comma dell’articolo citato prevede poi che “Il proprietario del veicolo (..) è responsabile in solido col conducente, se non prova che la circolazione del veicolo è avvenuta contro la sua volontà.” Dunque la responsabilità civile derivante da sinistro stradale prevede l’obbligo di risarcire il danno prodotto a persona o cosa dalla circolazione del veicolo, ad eccezione che non si provi di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno. La norma prosegue definendo la responsabilità del conducente e del proprietario del veicolo come solidale, salvo che quest’ultimo dimostri che la circolazione sia accaduta senza il suo consenso. Invero, per escludere la responsabilità solidale del proprietario, è necessario che lo stesso dimostri che la circolazione sia avvenuta contro la sua volontà. In particolare, non è sufficiente dimostrare che la condotta sia avvenuta semplicemente a sua insaputa. “Tale volontà contraria deve desumersi da un concreto ed idoneo comportamento ostativo, specificamente inteso a vietare ed impedire la circolazione del veicolo ed estrinsecatosi in atti e fatti rivelatori della diligenza e delle cautele allo scopo adottate”[1] [2]. A tal proposito al proprietario che non voglia incorrere nella responsabilità da sinistro stradale condotto da terzo, è richiesto l’utilizzo di alcune misure in grado di prevenire ed impedire concretamente la circolazione del veicolo a terzi quale ad esempio l’attenta custodia delle chiavi. La Suprema Corte, chiamata a pronunciarsi su di un caso analogo a quello descritto, ha ritenuto non potersi escludere la responsabilità del proprietario in solido con il conducente, poichè il proprietario dell’autovettura custodiva le chiavi in luogo noto e pertanto accessibile a tutti[3].



[1] Cassazione civile, Sez. VI-3, ordinanza n. 1820 del 29 gennaio 2016. 
[2] Costante giurisprudenza (Cass. 14.7.2011 n. 15478; Cass., sez. 3, 07-07-2006, n. 15521; Cass., sez. 3, 01-08-2000, n. 10027; Cass., Sez. 3, 17-10-1994, n. 8461; Cass., 12-04-1990, n. 3138; Cass., 14-12-1989, n. 5601; Cass., 18-11-1987, n. 8495; Cass., 17-05-1982, n. 3038; Cass. 25.9.1979 n. 4945; Cass. 13.10.1975 n. 3299; Cass. 14.2.1975 n. 591; Cass. 13.12.1974 n. 4260; Cass. 15.11.1972 n. 3406; Cass. 29.10.1971 n. 3062; Cass. 30.1.1968 n. 300; Cass. 23.6.1964 n. 1635). [3] Cassazione civile, Sez. VI-3, ordinanza n. 1820 del 29 gennaio 2016.

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L'assegno divorzile nella nuova sentenza del 23 Aprile 2019 n. 11178 della Corte di Cassazione.

Successivamente al dibattito (dottrinale e giurisprudenziale) acceso dalla sentenza della Cassazione n. 11504/2017, la stessa Corte, con l'intervento nomofilattico della sentenza dell’11 luglio 2018 n.18287 (a Sezioni Unite) ha sancito che, al fine di stabilire se, ed eventualmente in quale entità, debba riconoscersi l’invocato assegno divorzile, il giudice: a) procede alla comparazione delle condizioni economico-patrimoniali delle parti; b) qualora risulti l’inadeguatezza dei mezzi del richiedente, o, comunque, l’impossibilità di procurarseli per ragioni obiettive, deve accertarne rigorosamente le cause e, in particolare, se quella sperequazione sia, o meno, la conseguenza del contributo fornito dal richiedente medesimo alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno dei due, con sacrificio delle proprie aspettative professionali e reddituali, in relazione all’età dello stesso e alla durata del matrimonio; c) quantifica l’assegno rapportandolo non al pregresso tenore di vita familiare, né al parametro dell’autosufficienza economica, ma in misura tale da garantire all’avente diritto un livello reddituale adeguato al contributo sopra richiamato.

Ciò premesso, con sentenza del 23 Aprile 2019, n. 11178, la Corte, in considerazione del fatto che l’applicazione di tale nuova regola giuridica comporta la valorizzazione di aspetti fattuali non considerati dalla vecchia regola sostituita, perché irrilevanti, ha cassato con rinvio la sentenza impugnata con conseguente vincolo per il giudice ad quem di attenersi alla nuova regola e ferma restando la possibilità di rimettere le parti nei poteri di allegazione e prove conseguenti al dictum delle Sezioni Unite.

(Cassazione civile, sez. I, 23 Aprile 2019, n. 11178. Est. Campese)

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L'audizione del minore nei procedimenti di famiglia secondo Giuseppe Buffone (Magistrato).

L'audizione dei minori, già prevista nell'articolo 12 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, è divenuta un adempimento necessario, nelle procedure giudiziarie che li riguardino, ed in particolare in quelle relative al loro affidamento ai genitori, ai sensi dell'articolo 6 della Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996, ratificata con la L. n. 77 del 2003, e dell'articolo 155-sexies c.c., introdotto dalla L. n. 54 del 2006 (v. oggi art. 336-bis c.c.), salvo che l'ascolto possa essere in contrasto con gli interessi superiori del minore. Costituisce, pertanto violazione del principio del contraddittorio e dei principi del giusto processo il mancato ascolto che non sia sorretto da espressa motivazione sull'assenza di discernimento che ne può giustificare l'omissione, in quanto il minore è portatore d'interessi contrapposti e diversi da quelli del genitore, in sede di affidamento e diritto di visita e, per tale profilo, è qualificabile come parte in senso sostanziale. 

L'audizione del minore infradodicenne capace di discernimento può avvenire direttamente da parte del giudice ovvero, su mandato di questi, di un consulente o del personale dei servizi sociali, salvo che il giudice non ritenga, con specifica e circostanziata motivazione, l'esame manifestamente superfluo o in contrasto con l'interesse del minore. 

L'ascolto del minore di almeno dodici anni, e anche di età minore ove capace di discernimento, costituisce una modalità, tra le più rilevanti, di riconoscimento del suo diritto fondamentale ad essere informato e ad esprimere le proprie opinioni nei procedimenti che lo riguardano, nonché elemento di primaria importanza nella valutazione del suo interesse, anche se le sue dichiarazioni non vincolano il giudice nell'adozione dei provvedimenti nel superiore interesse del minore.

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Assegno di divorzio all'ex secondo equità.

La Corte di Cassazione, prima sezione civile, con la sentenza n. 13415/2019 ha respinto il ricorso della ex moglie che aveva contestato l'ammontare dell'assegno come fissato dal giudice di merito. In particolare, l'assegno era stato determinato dalla Corte territoriale in via equitativa in ragione di una serie di parametri, ovvero: del disequilibrio dei redditi delle parti e dell'incapacità della donna, coniuge più debole, di continuare a godere del tenore di vita su cui si fondava l'unione matrimoniale; della percezione da parte della ricorrente di una retribuzione mensile di 700 euro; della cessazione del godimento della ex casa familiare; dell'eta dei coniugi; della durata del matrimonio e del contributo dato della richiedente alla famiglia. 

Il Collegio spiega che vale il principio per il quale "l'esercizio del potere discrezionale di determinazione in via equitativa dell'ammontare dell'assegno di divorzio, espressione del più generale potere di cui all'art. 115 c.p.c., dà luogo non già a un giudizio di equità, che a norma dell'art. 114 c.p.c. attiene alla decisione nel merito della controversia e presuppone sempre una concorde richiesta delle parti, ma a una decisione adottata secondo le norme di diritto, alla stregua della normativa vigente e quindi caratterizzata dalla cosiddetta equità giudiziale correttiva o integrativa, destinata come tale, in applicazione di parametriche, a determinare del primo importo, con la conseguenza che la sentenza pronunciata dal giudice nell'esercizio di tale potere non è ricorribile in cassazione per violazione di legge ai sensi dell'art. 114 c.p.c. ove adottata in difetto di concorde richiesta delle parti (cfr. Cass., n. 21103/2013). 
La Corte d'Appello ha dunque riconosciuto l'assegno divorzile in corretta applicazione delle norme di diritto come sostenute dalla più autorevole affermazione della Cassazione, per poi provvedere a integrarne il quantum facendo ricorso all'equità integrativa.

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Niente mantenimento se la ex è giovane e il matrimonio dura poco.

La Cassazione, nell'ordinanza n. 13902/2019, ha dichiarato inammissibile il ricorso, condividendo le conclusioni a cui è giunta la sentenza oggetto d'impugnazione. Per la Corte d'Appello infatti sono diversi i fattori che le hanno fatto ritenere di non dover riconoscere l'assegno di mantenimento alla ex moglie. La giovane età della donna, lo svolgimento di un'attività lavorativa, la breve durata del matrimonio e l'assenza di prove in relazione al tenore di vita goduto in costanza dello stesso fanno ritenere che alla stessa non spetti l'assegno di mantenimento.

Per la Cassazione, dunque, la motivazione della sentenza d'Appello risulta essere "puntuale, coerente e perfettamente idonea a consentire di individuare il procedimento logico-giuridico che ne costituisce fondamento …. che, infatti, la corte di merito, nel negare al coniuge l'assegno di mantenimento, ha tenuto conto della effettiva capacità di produrre reddito dell'odierna ricorrente (la quale verosimilmente svolge attività lavorativa ed è di giovane età); del tenore di vita goduto dai coniugi durante la convivenza familiare (restando indimostrato il suo carattere elevato), nonché dalla oggettivamente breve durata della coabitazione...".

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L'infedeltà e l'abbandono del tetto coniugale non sono sufficienti a far scattare l'addebito se il partner che lo richiede non dimostra che hanno determinato la crisi di coppia.

La Corte di Cassazione, sesta sezione civile, con l'ordinanza n. 14591/2019 ha ribadito che grava sul coniuge che richiede l'addebito della separazione, contestando al partner l'abbandono del tetto coniugale e l'infedeltà, l'onere di dimostrare che tali comportamenti hanno determinato la crisi di coppia. Queste violazioni dei doveri coniugali, infatti, non sono di per sè sufficienti a far scattare l'addebito se il giudice rileva che la coppia fosse già precedentemente in crisi.

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L'ex perde l'assegnazione della casa familiare se la figlia torna solo nel weekend.

La Cassazione, con ordinanza n. 11844/2019, respinge il ricorso di una mamma in cui contesta la revoca dell'assegnazione della casa familiare e la riduzione del contributo al mantenimento per la figlia maggiorenne. Gli Ermellini motivano la loro decisione precisando che ai fini dell'assegnazione occorre che il figlio del genitore assegnatario dell'abitazione familiare viva stabilmente in essa, requisito che viene meno se torna a casa solo nei week end. In questo caso non si può parlare infatti di convivenza, ma di mera ospitalità.
Per la Corte occorre considerare come "La nozione di convivenza rilevante agli effetti dell'assegnazione della casa familiare comporti la stabile dimora del figlio presso l'abitazione di uno dei genitori, con eventuali, sporadici allontanamenti per brevi periodi e con esclusione, quindi della ipotesi di saltuario ritorno presso detta abitazione per i fine settimana, ipotesi nella quale si configura invece il rapporto di mera ospitalità; deve pertanto sussistere un collegamento stabile con l'abitazione del genitore, benché la coabitazione possa non essere quotidiana, essendo tale concetto compatibile con l'assenza del figlio anche per periodi brevi per motivi di studio o di lavoro, purché egli vi faccia ritorno regolarmente appena possibile, quest'ultimo criterio, tuttavia, deve coniugarsi con quello della prevalenza temporale dell'effettiva presenza, in relazione ad una determinata unità di tempo (anno, semestre, mese)."

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Tribunale di Rieti: divieto alla nuova partner di un padre divorziato di condividere sui social network le foto dei figli di quest’ultimo senza il consenso dei genitori.

Con ordinanza del 7 marzo 2019, il Tribunale di Rieti proibisce alla nuova partner di un padre divorziato di condividere sui social network le foto dei figli di quest’ultimo senza il consenso dei genitori.

Nel caso oggetto del provvedimento, una donna aveva pubblicato a più riprese, sia sul proprio profilo Facebook che su altri social network, le foto dei figli del compagno, nati dal precedente matrimonio di quest'ultimo. La pubblicazione era avvenuta sia prima che dopo il divorzio del compagno dalla madre dei minori e, anzi, era proseguita nonostante l’espresso inserimento nelle condizioni del divorzio congiunto della seguente clausola: “la pubblicazione di fotografie dei figli minori sui social network sarà consentita esclusivamente ai genitori e non a terze persone, salvo consenso congiunto di entrambi”. Da ultimo, fallite le ripetute diffide e le richieste di cessare la pubblicazione delle foto (peraltro, spesso accompagnate da commenti offensivi proprio nei confronti della madre dei minori), l’ex moglie si rivolgeva al Tribunale per ottenere un provvedimento cautelare che inibisse il comportamento, ritenuto pregiudizievole per i figli. Il Giudice monocratico di Rieti accoglieva in toto il ricorso, ritenendo sussistenti entrambi i presupposti della tutela cautelare, cioè rispettivamente il fumus boni iuris e il periculum in mora. In particolare, il Tribunale reatino osserva che tali requisiti, nel particolare ambito della pubblicazione e divulgazione, a mezzo social network, di immagini e dati riguardanti soggetti minori, devono essere valutati “tenendo conto di elementi quali l’a – territorialità della rete, che consente agli utenti di entrare in contatto ovunque, con chiunque, spesso anche attraverso immagini e conversazioni simultanee, nonché la possibilità, insita nello strumento, di condividere dati con un pubblico potenzialmente mondiale e globalizzato, per un tempo non circoscrivibile”.

Inoltre, l’ordinanza in esame passa in rassegna quelle che, nel nostro ordinamento, sono le fonti della tutela della vita privata e dell’immagine dei minori: l’art. 10 del c.c. (concernente la tutela dell’immagine); il combinato disposto degli artt. art. 4 del codice privacy, art. 8 del codice privacy, 8 e art. 145 del codice privacy del D. Lgs. n. 196/2003 (concernenti la tutela della riservatezza dei dati personali); gli artt. 1 e 16 I co. della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 20.11.1989, ratificata dall’Italia con legge n. 176/1991. Tale quadro normativo “tradizionale” si è recentemente arricchito per la necessità di far fronte all’evoluzione dei sistemi di diffusione delle immagini legate allo sviluppo della rete. Così, ad esempio, il Regolamento UE in materia di protezione dei dati personali n. 679/2016 (cosiddetto GDPR), prevede che: “i minori meritano una specifica protezione relativamente ai loro dati personali, in quanto possono essere meno consapevoli dei rischi, delle conseguenze e delle misure di salvaguardia interessate nonché dei loro diritti in relazione al trattamento dei dati personali”.

Inoltre, in tema di consenso, il medesimo GDPR stabilisce che il trattamento di dati personali del minore è lecito ove il minore abbia almeno 16 anni; qualora, invece, il minore abbia un’età inferiore ai 16 anni, tale trattamento è lecito soltanto se e nella misura in cui il consenso è prestato o autorizzato dal titolare della responsabilità genitoriale, salva la facoltà per gli Stati membri di fissare con legge un’età inferiore (comunque non meno di 13 anni: in Italia tale limite è stato stabilito in 14 anni).

 Nel caso oggetto della pronuncia, la fondatezza della domanda in punto di fumus boni iuris deve considerarsi rafforzata proprio dalla menzionata condizione contenuta nell’accordo di divorzio, volta a impedire anche a terzi la condivisione di immagini dei figli minori senza il consenso congiunto di entrambi i genitori. Quanto al profilo del periculum in mora, il Tribunale di Rieti osserva: “l’inserimento di foto di minori sui social network deve considerarsi un’attività in sé pregiudizievole in ragione delle caratteristiche proprie della rete internet. Il web, infatti, consente la diffusione dati personali e di immagini ad alta rapidità, rendendo difficoltose ed inefficaci le forme di controllo dei flussi informativi ex post”. 

La diffusione sui social network delle immagini dei minori, come sottolinea la più recente giurisprudenza, “determina la diffusione delle immagini fra un numero indeterminato di persone, conosciute e non, le quali possono essere malintenzionate e avvicinarsi ai bambini dopo averli visti più volte in foto on-line”, oltre all’ulteriore pericolo rappresentato “dalla condotta di soggetti che “taggano” le foto on-line dei minori e, con procedimenti di fotomontaggio, ne traggono materiale pedopornografico da far circolare fra gli interessati, come ripetutamente evidenziato dagli organi di polizia”. In altri termini il pregiudizio per il minore, secondo la giurisprudenza formatasi in materia, è insito nella stessa diffusione della sua immagine sui social networks. 

Pertanto, in accoglimento del ricorso, il Tribunale ha condannato la responsabile delle condotte lesive alla rimozione dai propri profili social delle immagini relative ai minori, con il contestuale divieto della futura diffusione di tali immagini, in assenza del consenso di entrambi i genitori. Inoltre, l’ordinanza ha fissato anche, ai sensi dell’art. 614 bis del c.p.c. una somma di denaro per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione dell’ordine di rimozione nonché per ogni episodio di violazione dell’inibitoria, in favore dei minori in solido tra loro, da versarsi su conto corrente intestato ai minori stessi.

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Responsabilità medica: la Cassazione affronta il tema della prova del danneggiato e del danneggiante.

Con sentenza numero 5487/2019, la Cassazione ha analizzato nuovamente il tema del risarcimento del danno da responsabilità medica e, più in particolare, l'onere della prova a carico del danneggiato e del danneggiante.

Secondo i Giudici di Piazza Cavour colui che assume di essere stato danneggiato da un trattamento (od omesso trattamento) medico sanitario deve dimostrare la sussistenza del nesso di causalità tra l'insorgenza di una patologia (o il suo aggravamento) e la condotta del sanitario; mentre quest'ultimo - asserito danneggiante - deve invece dimostrare che la prestazione è stata resa impossibile da una causa imprevedibile e inevitabile.

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Contratto di locazione: valida la clausola con cui il conduttore si obbliga a farsi carico di ogni tassa, imposta ed onore.


Con la Sentenza n. 6882 dell'8.3.2019, La Cassazione ha ritenuto valida la clausola del contratto di locazione ad uso diverso da abitazione secondo la quale nel corso dell'intera durata del rapporto il conduttore si farà carico di ogni tassa, imposta e onere relativo al bene locato ed al contratto tenendo conseguentemente manlevato il locatore relativamente agli stessi, il quale sarà, invece, tenuto al pagamento delle tasse, imposte e oneri relativi al proprio reddito. 
Detta clausola non prevede un obbligo diretto del conduttore verso il fisco di pagamento delle imposte a vario titolo gravanti sull'immobile, bensì solo del pagamento dei relativi oneri nei confronti del locatore, non determinando detta pattuizione una traslazione in capo al conduttore delle imposte gravanti sull'immobile a carico del proprietario, ma la mera integrazione del canone di locazione dovuto. 
La clausola va intesa come prevedente una ulteriore voce o componente costituente integrazione del canone locativo, concorrendo a determinarne l'ammontare complessivo a tale titolo dovuto dal conduttore.

(Cass. civ. Sez. Unite, 08/03/2019, n. 6882)

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Parental sharing: giurisprudenza in tema di suddivisione paritetica della frequentazione tra genitori separati e figli minori.

In tema di separazione e divorzi, è sempre più voga il termine “parental sharing”, ovverosia suddivisione paritetica della frequentazione tra genitori separati e figli minori, in luogo del collocamento prevalente presso il padre o presso la madre.

Di recente il Tribunale di Catanzaro ha avuto modo di trattare, in modo articolato, la questione, dapprima esaminando i provvedimenti in tema di collocamento paritario dei minori e la lettura scientifica sull’argomento e poi ripercorrendo il percorso della legislazione e della giurisprudenza in materia.

In particolare, il Decreto n.443/2019 ha dato atto che la giurisprudenza italiana dell’ultimo decennio ha preferito la formula dell’affido condiviso della prole, ma con una tendenza a prevedere il collocamento prevalente presso uno dei due genitori, in barba alla riforma apportata dalla L. n.56/2006. A fronte di una shared legal custody, quindi, permane – di fatto - una sole physical custody.

Concludendo, il Tribunale di Catanzaro afferma che il collocamento dei figli presso entrambi i genitori con tempi paritetici è preferibile laddove ve ne siano le condizioni di fattibilità, tenendo sempre in considerazione le caratteristiche del caso concreto.

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Assegno di divorzio: dietrofront della Cassazione che ritorna al principio del “tenore di vita”

Con l’ordinanza n. 4523 del 14 febbraio 2019 la Prima sezione della Corte di Cassazione ha stabilito che ai fini della determinazione dell’assegno di divorzio in favore dell’ex moglie deve applicarsi il principio del “tenore di vita goduto in costanza di matrimonio”.

Con questa ordinanza, infatti, la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza della Corte di Appello di Catania che a sua volta aveva confermato la sentenza di primo grado in cui era stato liquidato un assegno di divorzio in favore della moglie guardano alle concrete condizioni personali della resistente che si trovava alla soglia dei sessanta anni, priva di attività lavorativa e di possibili prospettive lavorative future visto l’attuale mercato del lavoro e sprovvista altre fonti di reddito.

Con tale pronuncia la Cassazione si distanzia dalla nota sentenza 11504 del 2017 in cui aveva abbracciato il principio secondo cui l’assegno di divorzio deve prescindere dal tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.

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Anche in caso di convivenza more uxorio si deve applicare l’azione di arricchimento dell’art. 2041 cc.

Con l’ordinanza n. 4659 del 15 febbraio 2019 la Sesta Sezione della Corte di Cassazione ha confermato la sentenza della Corte di Appello di Torino che aveva condannato un uomo alla restituzione della somma di 25.000,00 che la ex convivente aveva investito in un immobile intestato al solo convenuto e costruito con il notevole contributo economico dell’attrice.

In tale ordinanza si richiamano espressamente altri precedenti giurisprudenziali che già avevano chiarito che si configura “l’ingiustizia dell’arricchimento da parte di un convivente “more uxorio” nei confronti dell’altro in presenza di prestazioni a vantaggio del primo esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza - il cui contenuto va parametrato sulle condizioni sociali e patrimoniali dei componenti della famiglia di fatto - e travalicanti i limiti di proporzionalità e di adeguatezza (Cass. n. 11330/2009; cfr. anche Cass. n. 1277/2014 e Cass. n. 14732/2018)”.

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I potenziali incrementi di reddito incidono anche sulla somma di mantenimento per i figli

Con l’ordinanza n. 5449 del 25 febbraio 2019 la Sesta sezione della Corte di Cassazione ha nuovamente confermato che l’incremento dei redditi di un professionista genitore non affidatario consente una rideterminazion dell’assegno di mantenimento in favore della prole.

Infatti, secondo quanto previsto dall’art. 147 c.c., i figli conservano il diritto a mantenere un tenore di vita il più possibile corrispondente a quello vissuto in famiglia prima della separazione o del divorzio.

Il giudice di merito dovrà quindi prima analizzare le risorse che la famiglia ha destinato ai figli e, successivamente, il singolo apporto che ciascun genitore potrà e dovrà fornire ai figli a seguito della separazione o del divorzio.

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Affidamento condiviso dell'animale domestico.

Il Tribunale di Sciacca, con ordinanza del 19 febbraio 2019, ha applicato per il cane di una coppia separata le norme previste per l'affido dei figli. Ha infatti stabilito che l'animale starà una settimana con la moglie ed una settimana con il marito. 

Il Tribunale riconosce che "il sentimento per gli animali costituisce un valore meritevole di tutela, anche in relazione al benessere dell’animale stesso". Quindi legittima l’applicazione dei paletti previsti dalla legge per l’affidamento dei figli, alla luce della "mancanza di accordi condivisi" tra i coniugi e a fronte di una evidente lacuna normativa per quanto riguarda gli animali collocati all’interno di una famiglia in crisi.

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La volontà della figlia di non incontrare il padre è irrilevante ai fini dell’assegno di mantenimento.

In caso di separazione, la volontà della figlia di non incontrare il padre non interferisce, in termini economici, col fatto che il ricorrente non vada incontro ad alcun diretto esborso o ad alcuna cura in favore della stessa. Lo stabilisce la Cassazione civile, sez. VI-1, sentenza 30 gennaio 2019, n. 2735.

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Illecito (disciplinare) sportivo e reato: dare una testata all’avversario durante la partita di calcetto è reato se il gioco è fermo.

La sentenza della Cassazione penale n. 3144, del 23 gennaio 2019, consente di affermare che l’utilità sociale dello sport diviene relativa e soccombe di fronte a condotte volontarie poste al di fuori di un collegamento funzionale tra evento di danno e competizione sportiva ovvero sproporzionate e neppure finalizzate al risultato sportivo ma gratuitamente aggressive. Quando il gioco è fermo non può giustificarsi alcun fatto di aggressione, poiché in quel momento l’ansia agonistica non può consentire il raggiungimento, con quella modalizzazione, di alcun risultato "sportivo". In particolare, secondo la Cassazione, "non è applicabile la scriminante del rischio consentito, nè tantomeno quelle dell'esercizio del diritto o del consenso dell'avente diritto, qualora, come nella specie, l'imputato colpisca l'avversario con una testata al di fuori di un'azione ordinaria di gioco, trattandosi di dolosa aggressione fisica per ragioni avulse dalla peculiare dinamica sportiva, considerato che nella disciplina calcistica l'azione di gioco è quella focalizzata dalla presenza del pallone ovvero da movimenti, anche senza palla, funzionali alle più efficaci strategie tattiche (blocco degli avversari, marcamenti, tagli in area ecc.) e non può ricomprendere indiscriminatamente tutto ciò che avvenga in campo, sia pure nei tempi di durata regolamentare dell'incontro (Sez. 5, n. 42114 del 04/07/2011, B., Rv. 251703; Sez. 5, n. 33275 del 28/03/2017, Sansica, Rv. 270498)".

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L'ascolto del minore.

Il termine ascolto risale al XV secolo: ascoltare, significa: porgere, prestare, dare attenzione, dare retta. La nozione è il mondo giuridico è nuova perché l’adempimento era guardato con sospetto in quanto si riteneva che l’audizione fosse traumatizzante ed eccessivamente responsabilizzante per il minore, che era considerato per di più inattendibile, in quanto il suo racconto, spesso alterato da fantasie, può essere condizionato dagli adulti e dalle dinamiche affettive. Solo le nuove acquisizioni delle scienze umane, trafuse poi in importanti documenti internazionali, hanno posto l’ascolto tra i bisogni primari del bambino, anche nei procedimenti giudiziali.

Secondo i nuovi principi il minore ha ora il diritto di essere informato, per quanto possibile, di ogni passaggio procedimentale, perché possa rendersi conto di ciò che accade intorno a lui ed esprimere, entro i suddetti limiti, la sua opinione, così partecipando alla elaborazione di decisioni che incidono profondamente sulla sua vita e sulle sue relazioni familiari.

Alcuni riferimenti alla necessità dell’ascolto del minore erano già presenti nelle leggi : Convenzione europea sul rimpatrio dei minori, sottoscritta all’Aja nel 1970; nella Convenzione europea sul riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia di affidamento dei minori e di ristabilimento dell’affidamento, Lussemburgo 1980; nella Convenzione sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori, Aja 1980. Ancora, il principio dell’ascolto è stato formalmente introdotto e solennemente proclamato da alcune importanti convenzioni internazionali: la fondamentale Convenzione ONU di New York del 1989; Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, Strasburgo 1996; Carta dei diritti fondamentali dell’Unione di Nizza del 2000; Carta dei diritti fondamentali della UE, Strasburgo 2007.

La legislazione italiana si è progressivamente adeguata al principio sovranazionale dell’ascolto, fino a recepirlo pienamente con le novelle del 2012 e 2013.  Nell’ordinamento italiano le norme cardini in merito all’ascolto sono gli artt. 315bis c.c. e 336 bis c.c.

Grande rilievo sul tema assume la Carta di Noto. Premettendo che si rende necessario valutare la capacità del minore di elaborare le informazioni, il contesto di relazioni familiari ed extrafamiliari, con opportuno aiuto di scienze pedagogiche, psicologiche e sessuologiche al fine di poter parlare di attendibilità.

La sopra menzionata Carta di Noto, aggiornata nel 2017, espone le linee guida per l’esame del minore. Il punto 8 di tale Carta riporta: “Durante l’intervista va verificato se il minore ha raccontato in precedenza i presunti fatti ad altre persone e con quali modalità.”.

Il punto 14 invece riporta: “In sede di accertamento dell’idoneità è necessario chiarire e considerare le circostanze e le modalità attraverso cui il minore ha narrato i fatti a familiari, operatori sociali, Polizia Giudiziaria ed altri soggetti”.

La Carta di Noto evidenzia la necessità di analizzare le dichiarazioni rese dal minore considerando le modalità attraverso le quali il medesimo ha narrato i fatti ai familiari, alla Polizia Giudiziaria, all’Autorità Giudiziaria e ad altri soggetti, tenuto conto di sollecitazioni e modalità di racconto, se la narrazione fosse spontanea o sollecitata e fino a che punto sollecitata da parte di figure di rilievo come un genitore o un parente, nonché dal contenuto delle primissime dichiarazioni rilasciate.

Al punto 18 invece, la Carta di Noto riporta: “Non esistono segnali psicologici, emotivi e comportamentali validamente assumibili come rilevatori o “indicatori” di una vittimizzazione. Non è scientificamente fondato […]”.

Infine al punto 19: “Non è possibile diagnosticare un disturbo post-traumatico da stess o un disturbo dell’adattamento ricavandone l’esistenza dalla sola presenza di sintomi, i quali potrebbero avere altra origine”.

Possono influire sulle dichiarazioni dei minori altre circostanze, ovvero:

-          Allarmi generati solo dopo l’emergere di un’ipotesi di abuso;

-          Fenomeni di suggestione e di “contagio dichiarativo”;

-          Condizionamenti o manipolazioni anche involontarie.

Nonostante il giudice possa trarre il proprio convincimento in ordine alla responsabilità penale anche unicamente dalle dichiarazioni rese dalla persona offesa, sempre che sia sottoposta al vaglio positivo la sua attendibilità, senza la necessità di applicare le regole probatorie di cui all’art. 192 co. 3 e 4, c.p.p., è stato tuttavia precisato che nel caso di parte offesa dei reati sessuali di età minore è necessario che l’esame della credibilità sia onnicomprensivo e tenga conto di più elementi.

Benchè, il divieto di porre domande suggestive non operi a proposito delle domande poste dal giudice, non possono comunque essere poste domande nocive, dovendo essere salvaguardata la genuinità delle dichiarazioni e non compromessa l’attendibilità della loro fonte. Si deve inoltre tenere conto della problematicità connessa alla distanza cronologica tra il momento di verificazione dei fatti e quello in cui le persone offese vengono esaminate, con il conseguente onere per il giudice di una motivazione rafforzata che dia conto della inidoneità del distacco temporale ed incidere sull’attendibilità di tali dichiarazioni, in particolare in presenza di fattori di disturbo o comunque in grado di alterare il corretto ricordo dei fatti.

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Modificabilità delle condizioni di separazione: i "giustificati motivi".

In materia di assegno di mantenimento, i "giustificati motivi", la cui sopravvenienza consente di rivedere le determinazioni adottate in sede di separazione dei coniugi, sono ravvisabili nei fatti nuovi sopravvenuti, modificativi della situazione in relazione alla quale la sentenza era stata emessa o gli accordi erano stati stipulati, con la conseguenza che esulano da tale oggetto i fatti preesistenti alla separazione, ancorché non presi in considerazione in quella sede per qualsiasi motivo.

(Cassazione civile, sez. VI, 28 novembre 2017. Pres., est. Scaldaferri)

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Effetti dello scioglimento dell'unione civile.

Un primo profilo di particolare interesse, attiene alla possibilità di prevedere, in caso di scioglimento dell’unione civile, un assegno a titolo di contributo per il mantenimento del partner cd. “debole”, in virtù al principio della cd. Solidarietà post coniugale. Il comma 25 dell’art. 1 della legge n. 76 del 2016, si occupa delle possibili conseguenze di natura personale ed economica connesse alle reciproche aspettative che possano sorgere dopo la fine dell’unione civile.

Al partner più debole potrebbe essere riconosciuto, ove ne ricorrano le condizioni, esclusivamente il diritto agli alimenti a carico dell’altro, e non anche un più ampio diritto al mantenimento, oltre all’assegnazione della casa familiare.

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Ipotesi di scioglimento dell'unione civile.

La prima ipotesi di “scioglimento automatico” dell’unione civile è quella della morte o dichiarazione di morte presunta di una delle parti, prevista all’art. 1, comma 22, della legge n. 76/2016. Il comma 22 equipara espressamente all’evento morte la dichiarazione di morte presunta ai fini dello scioglimento automatico dell’unione civile. Va sottolineato che non si avrà causa di scioglimento dell’unione civile in caso di scomparsa di una delle parti né in caso di assenza dichiarata giudizialmente. Affinchè si abbia scioglimento, occorre che l’assenza segua la dichiarazione di morte presunta dell’assente. Solo in tale ipotesi, la parte successivamente, potrà contrarre nuova unione civile o matrimonio, avendo riacquistato il requisito della libertà di stato.

Le altre ipotesi di “scioglimento automatico dell’unione civile” riprendono la normativa in materia di divorzio. Ai sensi del comma 23, infatti, l’unione civile si scioglie anche nei casi previsti dall’art. 3, n. 1 e n.2, lettere a), c), d9 ed e), della legge n. 898 del 1970.

Il comma 24 dell’art. 1 disciplina lo scioglimento dell’unione civile per “volontà dichiarata” manifestata anche disgiuntamente dai suoi componenti. Il comma 24 prevede che gli uniti civilmente possono sciogliere la loro unione solo dopo che siano trascorsi almeno tre mesi dalla cd. Manifestazione delle volontà di scioglimento, espressa o dinnanzi all’ufficiale dello stato civile del Comune di residenza, ovvero del Comune di iscrizione della costituzione dell’unione civile. Il termine di tre mesi serve per consentire agli uniti di meditare sulla loro reale volontà di scioglimento dell’unione; sino a quando non sarà terminato l’iter previsto dalla normativa, infatti, vi sarà sempre spazio per un ripensamento o una conciliazione.

In caso di mancato accordo sullo scioglimento, la parte che intende sciogliere l’unione lo dovrà preventivamente comunicare all’altra parte, a mezzo lettera raccomandata con avviso di ricevimento, ovvero con altra forma di comunicazione parimenti idonea. Solo successivamente a questo adempimento la parte dovrà recarsi innanzi all’ufficiale di stato civile del comune ove l’unione è stata costituita per consegnare, da un lato, la prova dell’avvenuta previa comunicazione e dall’altro, per manifestare nuovamente in tale sede la sua volontà di procedere allo scioglimento dell’unione.

Al termine di tale procedura, e decorso un tempo minimo non inferiore a tre mesi, le parti potranno proporre disgiuntamente domanda di scioglimento utilizzando una delle seguenti procedure: giudiziale, innanzi al Tribunale ordinario, ai sensi della legge n. 898 del 1970 sul divorzio; amministrativa, innanzi all’ufficiale di Stato civile, ai sensi dell’art 12 della legge n. 162 del 2014; con negoziazione assistita dagli avvocati, ai sensi dell’art. 6 della legge n. 162 del 2014.

Detto ciò sembra potersi concludere che la dichiarazione di cui al comma 24 abbia effetti di natura meramente procedimentale e non anche di natura sostanziale. La mera dichiarazione infatti, non appare idonea a far venir meno il vincolo dell’unione civile, né la comunione legale tra gli uniti.

Gli uniti civilmente, possono concordemente e volontariamente concludere un accordo di scioglimento anche innanzi al Sindaco, quale ufficiale di stato civile del comune di residenza di uno di loro o del comune presso cui è stata costituita unione civile. In tal caso l’assistenza di un avvocato sarà meramente facoltativa. Tale procedura potrà essere utilizzata anche per concludere un accordo di modifiche delle condizioni di scioglimento dell’unione civile. Questo accordo non potrà però contenere patti di trasferimento patrimoniale, sarà invece possibile provvedere in tale sede un assegno di mantenimento a favore di una delle parti, quando ne ricorrano i presupposti di legge.

L’ufficiale di stato civile, quindi, in caso di accordo, riceverà da ciascuna delle parti personalmente la dichiarazione contenente la volontà di scioglimento della unione civile e provvederà alla relativa trascrizione nei registri dello stato civile; inoltre, in accordo con le parti, fisserà la data dell’atto e quella della sottoscrizione della conferma dell’accordo di scioglimento. Il periodo intercorrente tra le due date, non potrà essere inferiore a 30 giorni, durante i quali il sindaco dovrà svolgere idonei controlli sulla veridicità delle dichiarazioni ricevute. Raccolta la conferma dell’atto di scioglimento da parte degli uniti civilmente, procederà con gli adempimenti previsti dalla legge, compresa la comunicazione di variazione dello stato civile al comune di residenza delle parti. Qualora le parti o una di esse non si presenti il giorno fissato per la conferma dell’accordo di scioglimento, tale comportamento cd “diritto al ripensamento”, verrà inteso quale mancata conferma dell’accordo e di tale evento si prenderà atto mediante annotazione nei registri dello stato civile.

È necessario precisare che l’accordo di scioglimento concluso dalle parti innanzi all’ufficiale di stato civile produce gli stessi effetti dei provvedimenti giudiziali in materia. Nel caso in cui, al contrario, la dichiarazione di cui all’art. 1 co. 24 della legge n. 76/2016 sia unilaterale il sindaco potrà procedere con l’iscrizione solo nel caso in cui il dichiarante dia prova di aver informato l’altra parte della sua volontà di scioglimento mediante lettera raccomandata a.r., o altra forma di comunicazione parimenti idonea, inviata all’indirizzo di residenza, o in mancanza all’ultimo indirizzo noto.

Infine, nel caso di manifestazione di volontà di entrambi gli uniti ma in forma disgiunta, ai sensi dell’art 63 d.P.R. n. 396 del 2000, ai fini del computo dei termini dei tre mesi, decorsi i quali sarà possibile proporre domanda di scioglimento innanzi al tribunale competente, rileverà la dichiarazione previamente iscritta in seguito a valida informativa all’altra.

La volontà unilaterale di scioglimento dell’unione, rappresenta una “nuova” ipotesi di divorzio, in presenza della quale il giudice potrà solo prenderne atto, ferme restando le sue competenze ad adottare i provvedimenti susseguenti necessari.

Altra modalità per giungere allo scioglimento  dell’unione è l’utilizzo della negoziazione assistita per volontà delle parti, di cui alla legge n,162 del 2014, nel verbale della quale gli avvocati sono tenuti a dar atto di aver tentato di conciliare le stesse; in caso di mancata conciliazione una copia dell’accordo di scioglimento dell’unione - preventivamente trasmessa al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale competente il quale, quando non ravvisi la irregolarità, abbia comunicato agli avvocati delle parti il nulla osta – dovrà essere trasmessa, entro il termine perentorio di 10 giorni, all’ufficiale dello stato civile del comune davanti al quale era stata formulata la dichiarazione costitutiva dell’unione, in modo che si proceda alla relativa annotazione  e trascrizione nei registri dello stato civile. L’accordo raggiunto dalle parti inseguito a negoziazione assistita, produce gli effetti e tiene luogo dei provvedimenti giudiziali in materia.

Lo scioglimento dell’unione civile si può ottenere, anche tramite ricorso presentato innanzi al Tribunale del luogo in cui si trova l’ultima residenza comune degli uniti civilmente o, in mancanza, del luogo in cui il partner convenuto ha residenza o domicilio. La domanda di scioglimento, può essere presentata, con ricorso, anche disgiuntamente; al ricorso andrà allegata copia autentica della dichiarazione dio voler sciogliere l’unione civile iscritta nei registri dello stato civile.

In caso di domanda proposta da una sola parte nei confronti dell’altra, il ricorso deve contenere l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali la domanda è fondata. Il Presidente del Tribunale fisserà con decreto la data di comparizione delle parti innanzi a sé stesso e durante tale udienza esperirà il tentativo di conciliazione obbligatorio. Se quest’ultimo non ha esito positivo, il Presidente pronuncerà con ordinanza i provvedimenti temporanei ed urgenti che reputa necessari nell’interesse di entrambi i partner, li autorizzerà a vivere separati, nominerà il giudice istruttore e fisserà l’udienza di comparizione innanzi a quest’ultimo.

Il processo si conclude con sentenza che scioglie il vincolo dell’unione. La sentenza costitutiva dello scioglimento produce i suoi effetti con il passaggio in giudicato e deve essere annotata nei registri dello stato civile dall’ufficiale del comune in cui l’unione fu trascritta.

Un particolare caso di scioglimento automatico è presentato dall’art. 1 comma 26, in base al quale si può avere scioglimento per intervenuta sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso di una delle parti. Il comma 27 invece, disciplina la cd. Conversione del vincolo matrimoniale in unione civile, attribuendo ai coniugi la facoltà di optare per la trasformazione del vincolo giuridico in seguito a rettificazione del sesso di uno di essi. Da come si può notare, sussiste una disparità di trattamento tra unione civile e matrimonio dovuta al fatto che mentre i coniugi possono optare per una conversione del loro rapporto in unione civile nel caso di cambiamento di sesso di uno di essi, non è prevista l’ipotesi inversa per gli uniti civilmente.

 

 

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Lo scioglimento dell'unione civile.

Il riconoscimento giuridico delle coppie same sex nel nostro ordinamento ha comportato, l’emersione di un sistema dualistico che vede, accanto al matrimonio, l’affermazione dell’istituto dell’unione civile. Inevitabile il raffronto con il matrimonio, che rappresenta il modello da cui per prossimità o per differenza l’unione civile si taglia, marcando peculiarmente i suoi contorni.

Molteplici e significative appaiono le dissonanze tra matrimonio e unione civile con riferimento alla fase della cessazione della vita comune. Basti pensare che nel caso di crisi dell’unione non è previsto l’istituto della separazione: svanisce, la struttura bifasica dello scioglimento del rapporto matrimoniale. L’unico rimedio previsto per la crisi dell’unione civile è il divorzio.

La legge n.76/2016, realizza ciò che non si era riusciti a fare con la legge n.55/2015 sul cd. Divorzio breve.

Importante è la circostanza in base alla quale l’unione civile si scioglie per “volontà dichiarata” manifestata anche disgiuntamente. Il procedimento tracciato dal comma 24, appare particolare, atteso che: la procedura di scioglimento può avviarsi “decorsi tre mesi dalla data di manifestazione di volontà di scioglimento dell’unione”. Si materializza una sorta di “divorzio immediato” in cui non è previsto alcun dovere di motivazione: in particolare, non va dedotta la intollerabilità della convivenza.

Non solo “dissonanze” ma anche qualche “assonanza”. A tal proposito, gli effetti patrimoniali del divorzio delle coppie dello stesso sesso sono gli stessi previsti dalla legge per coniugi. Pertanto dopo lo scioglimento al partener spetta l’assegno divorzile, assistito dalle garanzie di legge e modificabile al sopravvenire di giustificati motivi, la pensione di reversibilità una quota dell’indennità di fine rapporto.

Anche in materia di unione civile, la violazione dei doveri di lealtà ed assistenza morale e materiale potrà comportare un danno ingiusto risarcibile ex artt. 2043 e 2059 c.c. Diversamente dai coniugi, per gli uniti civilmente, la mancata previsione del dovere di fedeltà, determina l’impossibilità di chiedere un risarcimento del danno endofamiliare basato su tale violazione.

 

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Delitti contro la morale familiare

L’art. 564 c.p. sancisce il delitto di incesto. Fattispecie posta al centro di una grande disputa. Da un lato, vi sono coloro che ne chiedono l’abrogazione o almeno la depenalizzazione, e dall’altro lato, vi è chi la difende quale presidio dell’istruzione familiare nel suo complesso.

Questa fattispecie si trova ad affrontare la sfida della mutata natura del fare famiglia. Non solo per il sentire sociale ma anche per il legislatore: se cambia la famiglia, cambia inevitabilmente anche la morale familiare da preservare quale oggetto di tutela.

La fattispecie in oggetto ha subito gli effetti delle recenti modifiche in tema di diritto di famiglia. Di rilievo nella rinnovata materia civilistica risulta essere il riconoscimento dei figli incestuosi. Dapprima con la legge 10 dicembre 2012, n. 219 e poi con il d. lgs 28 dicembre 2013, n. 154, è, infatti, stato modificato l’art. 251 c.c., con l’obiettivo di rendere la riconoscibilità dei figli nati da rapporti incestuosi non più un’ipotesi, ma la regola generale.

Occorre a questo punto interrogarsi sul rapporto tra riconoscimento del figlio incestuoso e responsabilità penale dei relativi genitori. Il genitore che chiede il riconoscimento del figlio finisce, per auto-accusarsi, esponendosi al rischio di un rimprovero penale, laddove dovesse ritenersi che la dichiarazione resa alle competenti autorità sia sufficiente ad integrare la predetta condizione.

Chi, ritiene che si tratti di elemento costitutivo del reato, non considera sufficiente la conoscenza all’esterno del rapporto, ma richiede che la conoscenza esterna della relazione derivi da un comportamento colpevole dei soggetti coinvolti, così escludendo che il mero riconoscimento, possa determinare l’avverarsi della condizione e quindi il presupposto per l’incriminazione.

Quanto infine, al rapporto tre le fattispecie in esame e le nuove forme di aggregati familiari che si vanno via via sempre più diffondendo nel tessuto sociale, va ricordato come l’incesto sia un esempio di reato proprio, potendo essere commesso solamente dai soggetti indicati in modo tassativo nell’art. 564 c.p.

Ne rimangono, quindi, esclusi tutti i rapporti nascenti dalle famiglie di fatto, sempre che non coinvolgano rapporti diretti di discendenza.

La punibilità dei coniugi protagonisti di una relazione incestuosa è subordinata al verificarsi del cd. Pubblico scandalo. Solo dove la relazione incestuosa sia di pubblico dominio si ritiene giustificabile l’intervento dell’Autorità Giudiziaria, lasciando invece impunite tutte quelle relazioni che rimangono nel segreto delle mura domestiche. Questa limitazione trova per i più giustificazione nella necessità di tutelare l’immagine esteriore della famiglia, evidentemente ormai già compromessa dalla diffusione delle voci popolari circa la relazione incestuosa: laddove invece, tali voci non si diffondano, sarà preferibile lasciare impuniti i colpevoli onde evitare gli effetti ancora più deleteri che sull’aggregato familiare genera il coinvolgimento in un procedimento penale. Ovviamente la valutazione circa il configurarsi del “pubblico scandalo” è rimessa all’interprete nel caso concreto.

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Il delitto di infanticidio


Il Codice Rocco tutela il bene della vita umana fin dal suo momento iniziale attraverso i delitti dell’omicidio e dell’infanticidio. Quest’ultima figura criminis, assurge a fattispecie criminosa autonoma in presenza dell’elemento specializzante delle condizioni.

La condotta prevista dall’art. 578 c.p. si realizza dal momento del distacco, naturale o indotto, del feto dall’utero materno, durante il parto se si tratta di un “feto!” o immediatamente dopo il parto se si tratta di un neonato. Si presuppone quindi, un dato cronologico: l’uccisione deve avvenire nella fase di passaggio tra il distacco del feto dall’alveo materno e il momento in cui il concepito acquista vita autonoma, oppure “immediatamente” dopo, fin quando però durino le condizioni di abbandono connesse al parto.

Qualora la condotta diretta a sopprimere il prodotto del concepimento sia posta in essere dopo il distacco del feto dall’utero materno, il fatto, in assenza dell’elemento specializzante delle condizioni di abbandono materiale e morale della madre, sancito dall’art. 578 c.p., configura il delitto di omicidio volontario di cui agli artt. 575 e 577, n.1, c.p.

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Ai fini del calcolo dell’assegno di mantenimento, vale il reddito netto o lordo?

Con l'ordinanza n. 651/2019 del 14.2.2019, la Corte di Cassazione, oltre a ricordare i criteri di calcolo dell’assegno divorzile e a ribadire le istruzioni fornite dalla sentenza delle Sezioni Unite pubblicata il mese di luglio 2018, chiarisce che la valutazione in ordine alle capacità economiche del coniuge obbligato ai fini del riconoscimento e della determinazione dell’assegno di mantenimento a favore dell’altro coniuge non può che essere operata sul reddito netto e non già su quello lordo, poiché, in costanza di matrimonio, la famiglia fa affidamento sul reddito netto ed ad esso rapporta ogni possibilità di spesa.

(Cass. ord. n. 651/19 del 14.1.2019)

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Riconoscimento del minore infrasedicenne.

Sul tema si è espressa la Suprema Corte con sentenza N.14/2003.

La Cassazione riporta: “In tema di riconoscimento di figlio naturale, l’art.250 cod. civ. che, nell’ipotesi di minore infrasedicenne, subordina la possibilità del secondo riconoscimento al consenso del genitore che detto riconoscimento ha già effettuato, dispone altresì che al compimento del sedicesimo anno il minore divenga titolare di un autonomo potere di incidere sul diritto del secondo genitore al riconoscimento stesso. Ne consegue che il raggiungimento da parte del minore della “maggiore età” ritenuta dal legislatore adeguata ad esprimere un mediato giudizio determina il venir meno della necessità del consenso del primo genitore al riconoscimento da parte dell’altro genitore e, in difetto, dell’intervento del giudice. (Nel caso di specie S.C., preso atto del compimento del sedicesimo anno del minore, ha dichiarato la cessazione della materia del contendere ed ha cassato senza rinvio la sentenza impugnata).”   

Ad oggi, la legge n.219 del 10.12.2012, ha modificato il comma 2 dell’art. 250: “il riconoscimento del figlio che ha compiuto quattordici anni non produce effetto senza il suo assenso”. Si evince come il tetto di età sia stato abbassato e come il principio giurisprudenziale abbia ceduto il passo alla legge.

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Il diritto di pernottamento del figlio con il padre

Con decreto datato il 5 settembre 2018 dal Tribunale di Trieste si era preso in considerazione il caso di una richiesta da parte del padre di pernottamento del figlio di tenera età presso di lui.

Nonostante la madre del bambino non fosse d’accordo con tale richiesta poiché reputava il figlio troppo piccolo e che potesse pernottare con il padre solo dopo aver compiuto il terzo anno di età, il Tribunale di Trieste con il provvedimento sopra citato ha deciso di accogliere la richiesta del padre ritenendo appunto che non ci siamo elementi di inadeguatezza dello stesso ad occuparsi del figlio anche se molto piccolo.

Richiesta questa che fu accolta tendendo conto comunque degli impegni lavorativi di entrambi i coniugi.

Nel caso in esame non avendo quindi le parti contestato le rispettive capacità genitoriali è stato ritenuto pacifico disporre l’affido condiviso del minore.

È stata presa questa decisione da parte del Tribunale ritenendo che il pernotto con entrambi i genitori favorisce e tutela il minore e il suo legame con gli stessi indipendentemente dalla separazione della coppia. Principio questo ribadito anche dall’art. 337-ter c.c in base al quale il figlio minore ha diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi. Tali provvedimenti sono presi quindi dal giudice nell’esclusivo interesse morale e materiale della prole.

 

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Il diritto al risarcimento del danno al coniuge sopravvissuto.

La perdita del coniuge rappresenta uno strazio morale, portando anche se non sempre con se, un danno patrimoniale. Si presume che ci sia tra moglie e marito quel legame affettivo che se rotto crea un danno. Ma ciò rappresenta una presunzione che può essere superata dal fatto che i coniugi sono separati.

Il coniuge superstite deve dimostrare in qualche modo di aver subito tale patimento.

Questo tema è stato affrontato dalla Suprema Corte di Cassazione con sentenza 31950/2018, dove il giudice, decidendo in riferimento ad un sinistro stradale tra l’autovettura condotta da Tizia, deceduta in seguito al sinistro ed il mezzo agricolo non assicurato condotto da Caio, ha ritenuto sussistente un concorso di colpa tra i due conducenti e ha condannato pertanto l’impresa per il fondo di garanzia per le vittime della strada al risarcimento del danno subito dal padre, dai figli e dai fratelli della vittima.  Ha però rigettato l’appello proposto da Tizio, con conseguente respingimento della domanda di risarcimento del danno non patrimoniale subito a seguito del decesso del coniuge.

Il Giudice dell’Appello ha inoltre disposto che, in riferimento alla pari responsabilità dei due conducenti, Caio, che era alla guida del veicolo agricolo, circolava su strada pubblica che versava in condizioni di scarsa visibilità, Tizia invece percorreva la strada senza prestare attenzione all’ostacolo visibile e senza indossare le cinture di sicurezza.

Contro la suddetta sentenza, Tizio proponeva ricorso per cassazione, lamentando che la Corte d’appello, sulla base di una relazione extraconiugale e della nascita di un figlio, abbia ritenuto insussistente il legame affettivo tra i coniugi al momento dell’incidente ed abbia quindi rigettato la richiesta di risarcimento del danno.

Il peso del marito della vittima veniva respinto per infondatezza del motivo, a tal riguardo la corte territoriale ha rilevato che il fatto illecito costituito dalla uccisione di un congiunto appartenente al nucleo familiare genera un danno patrimoniale presunto, dovendosi ritenere sussistente tra detti congiunti un vincolo affettivo ed un progetto di vita in comune. In tal caso solitamente il soggetto danneggiato non ha l’obbligo di provare di aver subito il danno non patrimoniale.

Questa presunzione può essere superata da tali elementi: la separazione legale o l’esistenza di una relazione extraconiugale con conseguente nascita di un figlio tre mesi prima della morte del coniuge. Questi elementi non comportano l’insussistenza del danno non patrimoniale in capo al coniuge superstite, ma impongono allo stesso di provare di aver effettivamente subito tale danno.

A tal riguardo, la corte territoriale ha ritenuto che il tizio non avesse fornito la prova del danno non patrimoniale e ha pertanto rigettato la domanda risarcitoria.

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La Cassazione si pronuncia ancora sul rimborso delle spese straordinarie relative ai figli.

In materia di separazione personale dei coniugi, la controversia relativa al rimborso della quota parte delle spese straordinarie relative ai figli, sostenute dal coniuge affidatario, non è solo soggetta agli ordinari criteri di competenza, in quanto diversa da quella concernente il regolamento dei rapporti tra coniugi, ma, ove le somme non risultino previamente determinate o determinabili, in base al titolo e con un semplice calcolo aritmetico, è anche caratterizzata dalla necessità di un accertamento circa l’insorgenza dell’obbligo di pagamento e dell’esatto ammontare della spesa, da effettuarsi in comparazione con quanto stabilito dal giudice della separazione.

(Cassazione civile, sez. I, 18 gennaio 2017, Est. Terrusi)

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Il ritiro della licenza del porto d'armi durante una separazione "conflittuale"


Il Tar Firenze ha stabilito che il ritiro della licenza del porto d’armi e il divieto di detenzione delle armi durante un processo di separazione “conflittuale” deve essere stabilito dalla Prefettura soltanto dopo un’indagine accurata.

Dall’indagine devono emergere effettive minacce o atti violenti nei confronti dell’altro coniuge o la sussistenza di una concreta situazione conflittuale tra i due tale da indurre “ragionevoli dubbi sull’affidabilità dell’interessato nel corretto utilizzo delle armi. Diversamente opinando, a fronte di qualunque separazione coniugale sarebbe necessario inibire l’uso delle armi poiché ogni separazione comporta inevitabilmente un certo grado di conflittualità”.

Nel caso di specie l’Amministrazione non aveva assunto nessun elemento concreto relativo a episodi di minacce o di violenza nei confronti della ex compagna e in più la denuncia querela (presentata dalla ex coniuge due anni prima) che aveva dato origine al procedimento di ritiro del porto d’armi era risultata completamente falsa al termine del procedimento penale. Il quadro istruttorio è rimasto privo degli elementi univoci idonei a porre in dubbio l’affidabilità del ricorrente nel corretto uso delle armi.

Per tali motivi il Tar Firenze ha annullato il decreto della Prefettura di Livorno con cui era stato predisposto il divieto di detenzione delle armi.

(Tar Firenze, sent. n. 1658/2018, pubblicata il 19/12/2018)

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La donazione ai futuri coniugi.

La comunione della proprietà di una casa tra due coniugi non è esclusa anche quando la somma di denaro necessaria per acquistare l’immobile è stata donata dalla madre di uno dei due coniugi.

Infatti quando il donante (la madre di uno dei due coniugi) consente che la casa sia intestata anche alla futura nuora, sta donando a lei il 50% della proprietà dell’immobile stesso.

(Cassazione, VI Sez., Sent. 20532/2018)

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Applicabilità diretta in Italia dell’istituto kafalah.

Trib. Mantova, sez I., decreto giudice tutelare 10 maggio 2018, Est. Alessandra Venturini

Il provvedimento di kafalah – istituto contemplato dalla Convenzione di New York sui diritti del fanciullo e dalla Convenzione dell’Aja - che consiste nell’affido di un minore a un soggetto che si impegna a curarlo, educarlo e mantenerlo sino al raggiungimento della maggiore età senza che il minore entri a far parte della famiglia dell’affidatario, deve ritenersi direttamente efficace anche nel nostro ordinamento (ai sensi degli artt. 65 e 66 della legge .218/1995).

Ciò significa che non vi è luogo a provvedere alla richiesta di nomina di un tutore per il minore, ex artt. 343 ss. c.c., poiché questo è già stato affidato tramite kafalah ad un adulto che ne ha già la rappresentanza legale.

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Scioglimento dell'unione civile: secondo il Tribunale di Novara la dichiarazione di scioglimento dell'unione civile non costituisce condizione di procedibilità della domanda.

In tema di scioglimento dell’unione civile, il Tribunale di Novara – in composizione collegiale - ha stabilito che, ai fini della legittimità della dichiarazione giudiziale di scioglimento, la c.d. fase amministrativa della dichiarazione di scioglimento dell'unione civile non costituisce condizione di procedibilità della domanda.

Più precisamente, il Collegio ha ritenuto che “al ricorrere di determinate condizioni, che si andranno appresso indicando, il Tribunale adito possa comunque delibare la domanda di scioglimento dell'unione civile, pur in difetto di invio della predetta raccomandata e della formale dichiarazione innanzi all'ufficiale dello stato civile. In particolare, ad avviso del Collegio, nel caso in cui l'attore abbia notificato ritualmente il ricorso introduttivo del giudizio al partner, abbia ribadito in sede presidenziale la propria volontà di sciogliere il vincolo e, tra la fase presidenziale ed il momento in cui viene emesso da parte del Tribunale il provvedimento definitorio del giudizio, sia trascorso un lasso di tempo pari o superiore a tre mesi, allora si deve ritenere che l'omissione della fase amministrativa innanzi all'ufficiale di stato civile non pregiudichi la valutazione nel merito della domanda”.

Secondo il Collegio, infatti, “l'invocato comma 24, pur stabilendo che la parte renda la dichiarazione innanzi all'ufficiale di stato civile, non qualifica espressamente tale dichiarazione come condizione di procedibilità dell'azione, né fa discendere alcuna conseguenza dall'inadempimento di tale incombente. Inoltre e soprattutto, come ha avuto modo di precisare la dottrina, da tale dichiarazione non derivano altre conseguenze se non quella di determinare il dies a quo per la decorrenza di quel termine di tre mesi al quale i commentatori hanno pressoché unanimemente riconosciuto il significato di spatiucm deliberandi, momento di riflessione prodromico alla instaurazione del giudizio. Tanto chiarito, si può allora agevolmente ritenere che la rituale notifica del ricorso al partner possa tenere luogo all'invio della lettera raccomandata, in quanto idonea al raggiungimento dello scopo che la norma si prefigge, ovvero notiziare in maniera formale il partner della propria volontà di sciogliere il vincolo. Parimenti si può ben sostenere che la manifestazione di volontà ribadita innanzi al Presidente del Tribunale possa tenere luogo alla mancata dichiarazione innanzi all'ufficiale di stato civile. Ed invero, vale la pena ribadire in proposito che alla dichiarazione resa innanzi all'ufficiale di stato civile la legge non ha attribuito alcuna conseguenza, ad esempio in ordine allo scioglimento del regime di comunione legale dei beni eventualmente in essere, se non quella di fissare la decorrenza del periodo di riflessione di tre mesi. In definitiva, l'unico scopo attribuito a tale dichiarazione è quello di cristallizzare in maniera formale il momento in cui il partner manifesta la propria volontà di sciogliere l'unione al fine di consentire il decorrere del termine di tre mesi. Stando così le cose, allora, non si rinvengono argomenti di ordine letterale né sistematico che portino ad escludere la possibilità di equiparare, quanto a sacralità e formalità, la dichiarazione resa innanzi all'ufficiale di stato civile a quella resa innanzi al Presidente del Tribunale”.

(Trib. Novara, 05.07.2018)


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Affido condiviso: stessa quantità di tempo da trascorrere con i figli?

Con ordinanza 31902 del 10.12.2018, la Corte di Cassazione ha stabilito che, pur in presenza di un affido condiviso, i genitori separati non hanno diritto a trascorrere la stessa quantità di tempo con i figli, ma passa più giorni con il minore chi è in grado di instaurare un legame affettivo molto forte e di farlo crescere in un ambiente sociale più consono. 

Secondo i Giudici di Piazza Cavour, il principio di bigenitorialità si traduce nel diritto di ciascun genitore a essere presente in maniera significativa nella vita del figlio nel reciproco interesse, ma ciò non comporta una proporzione matematica in termini di parità dei tempi di frequentazione del minore in quanto l'esercizio del diritto deve essere armonizzato in concreto con le complessive esigenze di vita del figlio e dell'altro genitore. Infatti, “in tema di affidamento dei figli minori, il giudizio prognostico che il giudice, nell'esclusivo interesse morale e materiale della prole, deve operare circa le capacità dei genitori di crescere ed educare il figlio nella nuova situazione determinata dalla disgregazione dell'unione, va formulato tenendo conto, in base ad elementi concreti, del modo in cui i genitori hanno precedentemente svolto i propri compiti, delle rispettive capacità di relazione affettiva, attenzione, comprensione, educazione e disponibilità a un assiduo rapporto, nonché della personalità del genitore, delle sue consuetudini di vita e dell'ambiente sociale e familiare che è in grado di offrire al minore, fermo restando, in ogni caso, il rispetto del principio della bigenitorialità, da intendersi quale presenza comune dei genitori nella vita del figlio, idonea a garantirgli una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi, i quali hanno il dovere di cooperare nella sua assistenza, educazione ed istruzione”.


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Case popolari e il vincolo del prezzo massimo di cessione dell'immobile in regime di edilizia agevolata. L'affrancazione.

Il vincolo del prezzo massimo di cessione dell'immobile in regime di edilizia agevolata ex art. 35 della l. n. 865 del 1971, qualora non sia intervenuta la convenzione di rimozione ex art. 31, comma 49 bis, della l. n. 448 del 1998, segue il bene nei passaggi di proprietà, a titolo di onere reale, con efficacia indefinita, attesa la "ratio legis" di garantire la casa ai meno abbienti, senza consentire operazioni speculative di rivendita. In tal caso, il preliminare di compravendita nel quale sia convenuto un prezzo superiore a quello imposto è dunque parzialmente nullo, ai sensi dell'art. 1419 c.c., per contrarietà a norma imperativa, ed opera l'integrazione automatica della clausola di "prezzo imposto", ex art. 1339 c.c.

(Cass. civ. Sez. Unite Sent., 16/09/2015, n. 18135)

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Figlio grande ed economicamente non indipendente: l'assegnazione della casa familiare.

Secondo il Tribunale di Perugia (Sentenza 1082/2018), quando il figlio, seppur non indipendente, raggiunge un’età tale da far ritenere che il suo stato di disoccupazione dipenda dalla sua volontà e non da condizioni esterne, spetta a quest'ultimo dimostrare il motivo per cui dovrebbe continuare a ottenere l’assegno di mantenimento. 

Quanto alla casa familiare, questa può essere attribuita all’ex coniuge soltanto se il figlio maggiorenne non è autonomo senza sua colpa. In base al principio di autoresponsabilità, infatti, deve essere il figlio ormai grande a dimostrare le ragioni per cui dovrebbe persistere il sostentamento a carico del padre. Nel caso di specie, Giudice, ritenendo il giovane in qualche modo inserito nel mondo del lavoro, visto anche l'acquisto da questo effettuato di una macchina di discreto valore, non ha assegnato la casa familiare alla madre.


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Il datore di lavoro del coniuge inadempiente provvede al pagamento dell'assegno di mantenimento.

Con ordinanza pubblicata il 22 agosto 2018 dalla prima sezione civile del Tribunale di Roma, la moglie ottiene che sia il datore di lavoro del marito a versarle ogni mese la somma stabilita dal giudice in sede di separazione, trattenendo la somma dalla retribuzione del coniuge inadempiente.

In base all'art 156 c.c., infatti, "In caso di inadempienza, su richiesta dell'avente diritto, il giudice può disporre il sequestro di parte dei beni del coniuge obbligato e ordinare ai terzi, tenuti a corrispondere anche periodicamente somme di danaro all'obbligato, che una parte di esse venga versata direttamente agli aventi diritto".

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Sì all'affido esclusivo se il minore manifesta il proprio rifiuto nei confronti di un genitore.

Affido esclusivo a uno dei coniugi se durante l'audizione del minore il giudice percepisce il rifiuto verso l'altro genitore, nel caso di specie, manifestato da un ragazzo tredicenne nei confronti del padre arrogante e prevaricatore. 

Il Tribunale di Verbania, nell'ambito di una causa di divorzio, con la sentenza n. 390/2018 ha affidato i figli adolescenti alla madre, assegnandole anche la casa.

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Limitazione del diritto di visita a causa dell'alta conflittualità dei coniugi.

Con l'ordinanza n. 22219 del 12 settembre 2018, la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso di un padre che lamentava di non avere tempo sufficiente per educare e instaurare un rapporto con la figlia. 

La vicenda riguarda una coppia separatasi poco dopo la nascita della figlia. I giudici avevano affidato la minore a entrambi i genitori, collocandola presso la madre alla quale era stata assegnata la casa coniugale. Il diritto di visita del padre era stato fissato in un giorno a settimana, vista l'alta conflittualità fra i due. 

Anche per la Cassazione la decisione è corretta. I Giudici di Piazza Cavour hanno infatti precisato che la regola dell'affidamento condiviso dei figli a entrambi i genitori non esclude che il minore sia collocato presso uno dei genitori e che sia stabilito uno specifico regime di visita con l'altro genitore. Attiene poi ai poteri del giudice di merito fornire una concreta regolazione del regime di visita secondo modalità che non sono sindacabili, nelle loro specifiche articolazioni, in sede di giudizio di legittimità, ove invece è possibile denunciare che il giudice di merito abbia provveduto a disciplinare le frequentazioni dei genitori dichiarando di ispirarsi a criteri diversi da quello fondamentale, previsto in passato dall'art. 155 c.c. e ora dall'art. 337 ter c.c., dell'esclusivo interesse morale e materiale dei figli. 

In particolare, nel caso sottoposto all'esame della Corte, i giudici di merito hanno inteso correttamente riportarsi a tali principi laddove, dopo aver registrato le buone condizioni della minore pur in presenza di una esasperata conflittualità tra i genitori, hanno provveduto a stabilire in maniera rigida tempi e modalità di frequentazione fra il padre e la figlia per sedare il continuo contrasto esistente fra i genitori ed evitare che la bambina fosse costretta a difendersi dai loro conflitti.

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Danno morale per omesso versamento dell'assegno divorzile.

Secondo il Tribunale di Roma, va riconosciuto il danno morale a carico dell'uomo che dopo la sentenza di divorzio non paga il mantenimento ai minori e l'assegno alla ex costringendo la donna al pignoramento presso terzi e esponendola allo sfratto da casa insieme ai figli perché non può più pagare l'affitto.

Il risarcimento va liquidato in via equitativa e oltre al reato dell'omesso versamento a carico dell'onerato si configura anche quello di minaccia, integrato dagli sms sul cellulare della donna in cui l'uomo promette che l'avrebbe fatta morire di fame. 

(Trib. Roma, Sez. I, Sentenza n. 17144/18 del 12 settembre 2018).

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Nozze nulle anche se la convivenza che si protrae oltre i tre anni in caso di incapacità di assumere gli obblighi essenziali del matrimonio.

È legittima la delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio, anche durato oltre tre anni, in caso di incapacità di un coniuge di assumere gli obblighi essenziali del matrimonio. Con una decisione che sembra sconfessare il limite più stringente alla nullità delle nozze, e cioè la convivenza che si protrae oltre i tre anni, con la sentenza n. 24729 dell'8 ottobre 2018 la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso della Procura generale presentato contro la delibazione. 



Cass. civ. Sez. I, Sent., (ud. 21/12/2017) 08-10-2018, n. 24729
MATRIMONIO
Sentenze ecclesiastiche di nullità, delibazione


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TIRELLI Francesco - Presidente -

Dott. DE CHIARA Carlo - rel. Consigliere -

Dott. TRICOMI Laura - Consigliere -

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro - Consigliere -

Dott. NAZZICONE Loredana - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE;

- ricorrente -

contro

P.L., rappresentato e difeso dall'Avv. Aldo Vangi, con domicilio eletto presso il suo studio in Mesagne, Via L. da Vinci n. 34;

- controricorrente -

e nei confronti di:

V.M.L.;

- intimata -

avverso la sentenza della Corte d'appello di Lecce n. 298/2017 depositata il 23 marzo 2017.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 21 dicembre 2017 dal Consigliere Dott. Carlo De Chiara;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Francesca Ceroni, che ha concluso per la rimessione degli atti alle Sezione Unite e, in subordine, per l'accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo

1. La Corte d'appello di Lecce, su domanda del sig. P.L. e nella contumacia della convenuta sig.ra V.M.L., ha dichiarato, con il parere favorevole del PM, efficace nella Repubblica italiana la sentenza del Tribunale ecclesiastico regionale pugliese di Bari dell'8 dicembre 2015, con la quale era stata dichiarata la nullità del matrimonio concordatario delle parti, celebrato il 21 luglio 1983, per grave discrezione di giudizio circa i diritti e doveri matrimoniali e per incapacità di assumere gli obblighi essenziali del matrimonio, per cause di natura psichica, da parte del marito, che aveva promosso il giudizio di nullità.

La Corte ha negato l'esistenza di ostacoli alla dichiarazione di efficacia derivante da principi di ordine pubblico, in particolare quello della tutela dell'affidamento incolpevole dell'altro coniuge, non invocato dalla parte interessata.

2. Il Procuratore generale presso questa Corte ha proposto ricorso per cassazione con tre motivi.

Si è difeso, con controricorso e memoria, l'intimato sig. P..

Motivi della decisione

1. Va preliminarmente affermata l'ammissibilità del ricorso del Procuratore generale presso questa Corte ai sensi dell'art. 72 c.p.c., commi 3 e 5, per le ragioni indicate, da ultima, da Cass. 2486/2017.

2. Con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione degli artt. 7, 29 e 30 Cost., dell'art. 8 CEDU, dell'art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea (c.d. Carta di Nizza), dell'art. 797 c.p.c., della L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 6 e della L. 25 marzo 1985, n. 121, artt. 8 e ss.. Si richiamano i precedenti delle Sezioni Unite di questa Corte nn. 16379 e 16380 del 2014, secondo cui alla favorevole delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio osta, quale limite di ordine pubblico interno, la convivenza delle parti come coniugi protrattasi per almeno un triennio e si fa presente che dagli atti risulta appunto che i coniugi P. - V. avevano convissuto per circa 27 anni e avevano avuto due figli.

3. Con il secondo motivo, denunciando violazione degli artt. 2, 29 e 30 Cost., degli artt. 167 e 797 cod. proc. civ. e della L. 25 marzo 1985, n. 121, art. 8, si critica tuttavia la statuizione, contenuta nelle suddette sentenze delle Sezioni Unite, secondo cui tale limite di ordine pubblico non sarebbe rilevabile d'ufficio dal giudice, ma esclusivamente su eccezione di parte (eccezione in senso stretto), ravvisando in tale affermazione un contrasto, riguardante la "categoria processuale dell'eccezione in senso stretto con riferimento specifico alla compatibilità con la nozione di ordine pubblico", rispetto alla precedente giurisprudenza di legittimità, che si conforma invece alla regola della rivelabilità d'ufficio delle eccezioni, salvi i casi espressamente previsti dalla legge o nei quali l'iniziativa di parte è strutturalmente prevista quale elemento integrativo della fattispecie difensiva (come nel caso di eccezioni corrispondenti alla titolarità di un'azione costitutiva); contrasto per la risoluzione del quale si chiede quindi rimettersi nuovamente gli atti alle Sezioni Unite.

4. Con il terzo motivo, denunciando violazione degli artt. 6-8 CEDU e degli artt. 291 e 292 cod. proc. civ., si sostiene che la qualificazione del limite di ordine pubblico in questione quale oggetto di eccezione in senso stretto, configura una lesione del diritto al giusto processo del coniuge contumace e si chiede, pertanto, rimettersi gli atti alle Sezioni Unite di questa Corte anche su tale questione, quale questione di massima di particolare importanza, nonché investirsi la Corte di giustizia dell'Unione Europea di un rinvio pregiudiziale, ai sensi dell'art. 267 TFUE, sull'interpretazione del Regolamento n. 2201/2003, artt. 22 ("La decisione di divorzio, separazione personale o annullamento del matrimonio non è riconosciuta... quando è resa in contumacia, ovvero la domanda giudiziale o un atto equivalente non è stato notificato o comunicato al convenuto contumace in tempo utile e in modo tale da poter presentare le proprie difese, salvo che sia stato accertato che il convenuto ha accettato inequivocabilmente la decisione") e 46 ("Gli atti pubblici formati e aventi efficacia esecutiva in uno Stato membro nonché gli accordi tra le parti aventi efficacia esecutiva nello Stato membro di origine sono riconosciuti ed eseguiti alle stesse condizioni previste per le decisioni").

5. I motivi di ricorso possono essere esaminati congiuntamente, attesa la loro connessione, e vanno respinti per le seguenti ragioni.

5.1. Premesso che il Collegio ritiene di conformarsi, condividendone il contenuto, ai richiamati precedenti delle Sezioni Unite nn. 16379 e 16380 del 2014, anche quanto alla non rilevabilità di ufficio del limite di ordine pubblico alla dichiarazione di efficacia della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario costituito dalla convivenza triennale delle parti come coniugi, va osservato che il Collegio neppure ritiene di dover rimettere gli atti alle Sezioni Unite affinché risolvano il contrasto giurisprudenziale denunciato con il ricorso.

Le Sezioni Unite, infatti, nelle più volte richiamate sentenze "gemelle", si sono date carico del consolidato orientamento giurisprudenziale restrittivo in tema di eccezioni in senso stretto, richiamato nel ricorso della Procura generale, concludendo tuttavia motivatamente che l'eccezione relativa alla convivenza triennale come coniugi, ostativa alla positiva delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio, rientra appunto tra quelle che l'ordinamento riserva alla disponibilità della parte interessata; e ciò argomentando sia dalla "complessità fattuale" delle circostanze sulle quali essa si fonda e dalla connessione molto stretta di tale complessità con l'esercizio di diritti, con l'adempimento di doveri e con l'assunzione di responsabilità personalissimi di ciascuno dei coniugi, sia dalla espressa previsione della necessità dell'eccezione di parte nell'analoga fattispecie dell'impedimento al divorzio costituito dall'interruzione della separazione, ai sensi della L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 3.

5.2. Non si ravvisano inoltre ragioni per ritenere che la rilevabilità solo ad eccezione di parte del limite di ordine pubblico in discussione contrasti con il diritto al giusto processo della parte rimasta contumace, considerato il carattere volontario della contumacia stessa, dichiarabile solo in presenza della prova della rituale notifica della domanda giudiziale.

Nè, infine, ricorrono i presupposti per il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell'Unione Europea, ai sensi dell'art. 267 TFUE, sulla interpretazione delle norme del regolamento CE n. 2201/2003 richiamate nel ricorso, per l'assorbente ragione che tale regolamento è "relativo alla competenza, al riconoscimento e all'esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale" adottate in un diverso Stato membro dell'Unione Europea, non delle decisioni dei tribunali ecclesiastici.

6. Il ricorso va in conclusione respinto.

Non vi è luogo a provvedere sulle spese processuali attesa la natura della parte ricorrente.

Poichè dagli atti il processo risulta esente dal contributo unificato, non trova applicazione il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 21 dicembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 8 ottobre 2018



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Decadenza del diritto al mantenimento dell’altro coniuge che ha formato una nuova famiglia di fatto.

Trib. Como, Sent. n. 19800 del 30.5.2018

Nonostante il persistente status di separazione, il diritto al mantenimento dell’altro coniuge decade quando quest’ultimo ha formato una nuova famiglia di fatto, pur non convivendo con il nuovo partner. Tale atto è espressione di una scelta di vita esistenziale e consapevole e rescinde ogni collegamento con il tenore e il modello di vita legati al coniugio e quindi esclude la solidarietà post-matrimoniale.

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Pensione di reversibilità: il requisito della titolarità dell'assegno dell'assegno divorzile.

Ai fini del riconoscimento della pensione di reversibilità, in favore del coniuge nei cui confronti è stato dichiarato lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, ai sensi dell’art. 9 della legge 1 dicembre 1970 n. 898 (così come modificato dall’art. 13 della legge 6 marzo 1987 n. 74) la titolarità dell’assegno, di cui all’art. 5 della stessa legge 1 dicembre 1970 n. 899, deve intendersi come titolarità attuale e concretamente fruibile dell’assegno divorzile, al momento della morte dell’ex coniuge, e non già come titolarità astratta del diritto all'assegno divorzile che è stato in precedenza soddisfatto con la corresponsione in un’unica soluzione.

(Cassazione, Sezioni Unite, Sent. 22434/2018)

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La Corte di Giustizia sul diritto di visita dei nonni nei confronti dei loro nipoti.

Corte di Giustizia, sez. I, sent. 31 maggio 2018 (Valcheva c/ Babanarakis)

La nozione di “diritto di visita”, contenuta all’art. 1, par. 2, lett. a) nonché all’art.2, punti 7 e 10, del regolamento CE n. 2201/2003 del Consiglio, del 27 novembre 2003, relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, che abroga il regolamento CE n. 1347/2000, deve essere interpretata nel senso che essa comprende il diritto di visita dei nonni nei confronti dei loro nipoti.




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Coniuge divorziato: spetta la pensione di reversibilità?

Cass. S.U. sent. n. 22434/18 del 24.09.2018.

Secondo la Corte (Cass. S.U. sent. n. 22434/18 del 24.09.2018.), in caso di divorzio, il coniuge superstite ha diritto al riconoscimento della pensione di reversibilità, o di una quota della stessa, solo se:
a) non si è risposato; 
b) se il giudice gli ha riconosciuto un assegno divorzile; 
c) l’assegno divorzile veniva versato mensilmente; 
d) il rapporto di lavoro per il quale il defunto ha maturato il diritto al trattamento pensionistico deve essere stato avviato prima della sentenza di divorzio.

Come si è visto poc'anzi, condizione per avere la reversibilità dopo il divorzio è l’essere titolare di un assegno divorzile versato mensilmente. Se l’ex coniuge superstite ha ricevuto l’assegno divorzile in unica soluzione, la prestazione previdenziale non gli è più dovuta. Essa, infatti, viene riconosciuta come sostegno per il venir meno dell’aiuto economico costituito, in precedenza, dall’assegno divorzile versato in vita dal defunto. "Se infatti la finalità del legislatore è quella di sovvenire a una situazione di deficit economico derivante dalla morte dell’avente diritto alla pensione, l’indice per riconoscere l’operatività in concreto di tale finalità è quello dell’attualità della contribuzione economica venuta a mancare; attualità che si presume per il coniuge superstite e che non può essere attestata che dalla titolarità dell’assegno, intesa come fruizione attuale di una somma periodicamente versata all’ex coniuge come contributo al suo mantenimento. Viceversa un diritto che è già stato completamente soddisfatto non è più attuale e concretamente fruibile o esercitabile, perché di esso si è esaurita la titolarità".

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Riforma affido: alcuni tratti del Disegno di Legge del senatore Pillon.

La disgregazione di una coppia, specialmente quando ci sono dei figli, non incide solo sui sentimenti ma anche sulle questioni più materiali. Di fronte a un’emergenza sociale la politica dovrebbe studiare forme di supporto serio per impedire che le famiglie, con la separazione, siano gettate sul lastrico. Il Disegno di Legge del senatore Pillon di riforma dell’affidamento sembra invece andare nel senso opposto. Le nuove norme prevedono che chi vorrà separarsi dovrà obbligatoriamente rivolgersi a un “mediatore familiare” (art.7 e art. 22), figura professionale, a pagamento, che trova una sua collocazione proprio nel progetto di riforma (art. 1). 

Il DDL prevede l’eliminazione - salvo rari casi - dell’assegno di mantenimento a favore del genitore meno capace economicamente. Ma non è tutto, all'art. 11 è previsto che chi non ha la possibilità di ospitare il figlio in spazi adeguati non ha il diritto di tenerlo con sé secondo tempi “paritetici”. Vanno inoltre considerate le norme sulla casa: se la casa viene, in via del tutto eccezionale, assegnata a uno dei due genitori, costui deve versare all’altro un’indennità di occupazione che, però, sarà soggetta a tassazione.

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Concorso scuola: profili di legittimità costituzionale

La VI Sezione del Consiglio di Stato, con ordinanza n. 5134 pubblicata il 3 settembre 2018, ha sollevato due diverse questioni di legittimità costituzionale per i commi 2 lettera b) e 3 dell’art. 17 del decreto legislativo 59 del 2017 (attuativo della riforma Buona Scuola).

La prima questione riguarda la parte del decreto in cui è stato indetto un concorso riservato ai soli docenti in possesso del titolo abilitante poiché “il possesso, ovvero il mancato possesso, di un’abilitazione all’insegnamento dipende da circostanze non legate al merito, ma soltanto casuali”.

La seconda, invece, sul fatto che, qualora fosse ritenuta legittima la natura straordinaria del concorso –  ovvero qualora fosse corretta la previsione che inibisce la partecipazione ai docenti non abilitati –, il decreto non include tra i titoli abilitanti anche il dottorato di ricerca.

In attesa della decisione ha disposto l’ammissione al concorso con riserva dei ricorrenti.

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Vacanze rovinate: fino a 3 anni per chiedere il risarcimento dei danni.

Con il nuovo d.lgs. n. 62/2018, in vigore dal 1° luglio 2018, vengono prescritte maggiori tutele, maggiori informazioni precontrattuali e una migliore assistenza nei confronti dei viaggiatori che acquistano pacchetti turistici.

Infatti, il decreto sostituisce in toto il Capo I del Titolo VI dell'Allegato 1 al d.lgs. n. 79/2011 (Codice del Turismo) con tutta una serie di nuove disposizioni che si applicano ai c.d. pacchetti turistici offerti in vendita o venuti da professionisti ai viaggiatori e ai c.d. servizi turistici collegati la cui offerta o vendita ai viaggiatori sia agevolata da professionisti.

Si pone una particolare attenzione alla materia degli eventuali "difetti di conformità", ovvero laddove si realizzi un inadempimento dei servizi turistici inclusi nel pacchetto. Il viaggiatore, infatti, avrà diritto di ricevere dall'organizzatore, senza ingiustificato ritardo, il risarcimento adeguato per qualunque danno che può aver subito in conseguenza di un difetto di conformità.

Il risarcimento, tuttavia, non gli sarà riconosciuto ove l'organizzatore dimostri che il difetto di conformità è imputabile al viaggiatore o a un terzo estraneo alla fornitura dei servizi turistici inclusi nel contratto di pacchetto turistico ed è imprevedibile o inevitabile oppure è dovuto a circostanze inevitabili e straordinarie. Il diritto alla riduzione del prezzo o al risarcimento dei danni, chiarisce il decreto, si prescrive in due anni, a decorrere dalla data del rientro del viaggiatore nel luogo di partenza. Sempre a partire dalla data di rientro, si prescriverà in tre anni il diritto al risarcimento dei danni alla persona. Il documento menziona anche il c.d. "Risarcimento del danno da vacanza rovinata" laddove l'inadempimento delle prestazioni che formano oggetto del contratto sia di non scarsa importanza ex art. 1455 del codice civile. In tal caso, il viaggiatore potrà chiedere all'organizzatore o al venditore, secondo la responsabilità derivante dalla violazione dei rispettivi obblighi assunti con i rispettivi contratti, oltre e indipendentemente dalla risoluzione del contratto, anche un risarcimento del danno correlato al tempo di vacanza inutilmente trascorso e all'irripetibilità dell'occasione perduta.

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Chi allontana con un comportamento ostruzionistico i figli dall'altro genitore perde l'affidamento dei figli.

Con la separazione i genitori devono impegnarsi a crescere i figli psico-fisicamente in corretta bigenitorialità. Ove questo non dovesse accadere, chi allontana ad esempio con un comportamento ostruzionistico i figli dall'altro genitore perde l'affidamento dei figli.

Vedasi sul punto le determinazioni del Tribunale di Castrovillari (sentenza numero 728/2018) dove alla madre è stato tolto l'affidamento dei figli:

https://mega.nz/#!3r5F1B7D!L1EEjUEZFvhr76cEcVKnncimY_qbV2Gw2WIKWS9oW5U


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Responsabilità medica: condizioni di procedibilità della domanda.

Prima di avviare una causa per responsabilità medica, devono essere svolte alcune indispensabili attività preliminari: rivolgersi a un medico specialista del settore di interesse per chiedere una consulenza tesa a valutare l'effettiva sussistenza di un errore tale da giustificare un risarcimento; inviare, per il tramite dell'avvocato, una lettera contenente la richiesta di risarcimento al medico o alla struttura sanitaria (eventualmente anche alle compagnie presso le quali gli stessi sono assicurati).

Se non vi sono margini di accordo, prima di procedere con l'azione giudiziaria nei confronti del medico o della struttura sanitaria, è necessario avviare il procedimento di consulenza tecnica preventiva previsto e disciplinato dall'articolo 696-bis cpc o, in alternativa, il procedimento di mediazione di cui al decreto legislativo numero 28/2010. In difetto di risoluzione, il paziente non potrà far altro che agire in giudizio ricorrendo al procedimento di cui all'articolo 702-bis cpc.

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Fondo patrimoniale: debiti contratti per finalità estranee ai bisogni della famiglia.

Il criterio identificativo dei crediti, il cui soddisfacimento può essere realizzato in via esecutiva sui beni conferiti nel fondo, va ricercato non già nella natura delle obbligazioni, bensì nella relazione esistente tra il fatto generatore di esse ed i bisogni della famiglia, con la conseguenza che, ove la fonte e la ragione del rapporto obbligatorio, ancorché consistente in un fatto illecito, abbiano inerenza diretta ed immediata con le esigenze familiari, deve ritenersi operante la regola della piena responsabilità del fondo. Da ciò consegue che, in sede di opposizione al pignoramento, spetta al debitore provare che il creditore conosceva l'estraneità del credito ai bisogni della famiglia, sia perché i fatti negativi (v. ignoranza) non possono formare oggetto di prova, sia perché esiste una presunzione di inerenza dei debiti ai detti bisogni.

(Trib. Treviso, Sez. II, 14 marzo 2018)

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Trattamento sanitario: il consenso informato della persona inabilitata.

Il consenso informato della persona inabilitata è espresso dalla medesima persona inabilitata. Nel caso in cui sia stato nominato un amministratore di sostegno la cui nomina preveda l'assistenza necessaria o la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, il cui consenso informato è espresso o rifiutato anche dall'amministratore di sostegno ovvero solo da quest'ultimo, tenendo conto della volontà del beneficiario, in relazione al suo grado di capacità di intendere e di volere.

(Trib. Modena, Sez. II, 27 marzo 2018, Est. Masoni)

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Il decreto ingiuntivo non opposto relativo al pagamento dei canoni di locazione arretrati equivale a una sentenza di condanna esecutiva.

Il decreto ingiuntivo non opposto (relativo al pagamento dei canoni di locazione arretrati) spiega conseguenze giuridiche sia in relazione al rapporto di locazione sottostante e al relativo diritto di credito afferente i canoni rimasti insoluti, che in merito all'inesistenza di fatti impeditivi, estintivi o compensativi del credito azionato in sede monitoria. Più in generale, infatti, oggetto del giudizio è non solo la pretesa ed il relativo obbligo azionato in sede monitoria, ma anche l'intero rapporto nel suo complesso e, pertanto, pure l'inesistenza di tutti i fatti impeditivi, modificativi ed estintivi, dedotti o deducibili.

Ciò perché il decreto ingiuntivo non opposto è equiparabile ad una sentenza di condanna passata in giudicato che copre l'esistenza del credito azionato, ma anche tutte le vicende del credito precedenti al ricorso per ingiunzione e non dedotte con l'opposizione. Questi i principi resi con l'ordinanza n. 19113, della VI Sezione civile della Corte di Cassazione, depositata in data 18 luglio 2018.


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L'efficacia della sentenza straniera di condanna al pagamento degli alimenti al figlio minore.

È efficace la sentenza straniera di condanna al pagamento degli alimenti al figlio minore. Lo ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza n. 13271 del 28 maggio 2018. Gli ermellini hanno dichiarato inammissibile il ricorso di un padre nei confronti delle pretese alimentari del figlio. Secondo la Cassazione, la corte d'appello polacca aveva adeguatamente valutato il merito esecutivo delle prestazioni alimentari attribuite a carico del genitore da un tribunale di primo grado. 

(Cass. civ., Sez. I, Sent. 28.05.2018, n. 13271)

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I principi di ermeneutica contrattuale sono applicabili al testamento?

Con la decisione n. 10882 del 7 maggio 2018, la Corte di Cassazione ha ribadito che nell'interpretazione del testamento, il giudice di merito deve accertare, secondo il principio generale di ermeneutica enunciato dall'art. 1362 c.c., - applicabile, con gli opportuni adattamenti, anche in materia testamentaria - quale sia stata l'effettiva volontà del testatore comunque espressa, considerando congiuntamente ed in modo coordinato l'elemento letterale e quello logico dell'atto unilaterale mortis causa). L'accertamento della volontà del testatore si risolve, infatti, in una indagine di fatto da parte del giudice di merito sindacabile in sede di legittimità solo per violazione delle regole di ermeneutica dettate dal codice civile in tema di contratti (applicabili al testamento con la sola eccezione di quelle incompatibili con la natura di atto unilaterale non recettizio del negozio mortis causa) nonché per vizi logici e giuridici attinenti alla motivazione. 

(Cass. civ. Sez. II, Ord., 07.05.2018, n. 10882)

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La Corte di giustizia dell'Unione Europea si pronuncia sul riconoscimento dei matrimoni tra persone dello stesso.

Con il deposito dell'attesa sentenza "Coman", la Corte di Giustizia ha stabilito che se un cittadino dell'Unione Europea abbia consolidato un legame familiare con un cittadino di uno Stato terzo dello stesso sesso, al quale si sia unito con un matrimonio legalmente contratto nello Stato membro ospitante, l'articolo 21, paragrafo 1, TFUE deve essere interpretato nel senso che le autorità competenti dello Stato membro di cui il cittadino dell'Unione ha la cittadinanza debbano riconoscere il diritto di soggiorno sul territorio di detto Stato membro al coniuge omosessuale appartenente allo Stato terzo, nonostante che l'ordinamento di tale Stato membro non consenta il matrimonio tra persone dello stesso sesso. 

(Corte di Giustizia dell'Unione Europea, 05.06.2018, causa C-673/16).

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Assegno di divorzio: la decisione delle Sezioni Unite.

Ai sensi dell’articolo 5, comma 6, della l. n. 898 del 1970, dopo le modifiche introdotte con la l. n. 74 del 1987, il riconoscimento dell’assegno di divorzio – cui deve attribuirsi una funzione assistenziale e in pari una misura compensativa e perequativa – richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi o comunque dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, attraverso l’applicazione dei criteri di cui alla prima parte della norma i quali costituiscono il parametro di cui si deve tenere conto per la relativa attribuzione e determinazione, ed in particolare, alla luce della valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e dell’età dell’avente diritto. All’assegno di divorzio deve attribuirsi una funzione assistenziale e, in pari misura, compensativa e perequativa. 

Ai fini del riconoscimento dell’assegno si deve adottare un criterio composito che, alla luce della valutazione comparativa delle rispettive condizioni economico-patrimoniali, dia particolare rilievo al contributo fornito dall’ex coniuge richiedente alla formazione del patrimonio comune e personale, in relazione alla durata del matrimonio, alle potenzialità reddituali future e all’età dell’avente diritto. Il parametro così indicato si fonda sui principi costituzionali di pari dignità e di solidarietà che permeano l’unione matrimoniale anche dopo lo scioglimento del vincolo. Il contributo fornito alla conduzione della vita familiare costituisce il frutto di decisioni comuni di entrambi i coniugi, libere e responsabili, che possono incidere anche profondamente sul profilo economico patrimoniale di ciascuno di essi dopo la fine dell’unione matrimoniale.



Cass. civ. Sez. Unite, Sent., (ud. 10/04/2018) 11-07-2018, n. 18287
DIVORZIO
Assegno di divorzio


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAMMONE Giovanni - Primo Presidente -

Dott. SCHIRO' Stefano - Presidente di Sezione -

Dott. CRISTIANO Magda - Presidente di Sezione -

Dott. VIRGILIO Biagio - Presidente di Sezione -

Dott. SCALDAFERRI Andrea - Consigliere -

Dott. FRASCA Raffaele - Consigliere -

Dott. ACIERNO Maria - rel. Consigliere -

Dott. GIUSTI Alberto - Consigliere -

Dott. CIRILLO Francesco Maria - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 23138-2017 proposto da:

C.L., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA XX SETTEMBRE 3, presso lo studio dell'avvocato BRUNO NICOLA SASSANI, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati MARGHERITA BARIE' e FRANCESCA BALDI;

- ricorrente -

C.O., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA QUINTINO SELLA 41, presso lo studio dell'avvocato CAMILLA BOVELACCI, rappresentato e difeso dall'avvocato BRUNELLA BERTANI;

- controricorrente -

avverso la sentenza n. 1429/2017 della CORTE D'APPELLO di BOLOGNA, depositata il 15/06/2017.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/04/2018 dal Consigliere dott.ssa MARIA ACIERNO;

udito il Pubblico Ministero, in persona dell'Avvocato Generale Dott. MATERA MARCELLO, che ha concluso per l'accoglimento, p.q.r., del primo motivo del ricorso, assorbito il secondo motivo;

uditi gli avvocati Bruno Nicola Sassani, Margherita Bariè e Brunella Bertani.

Svolgimento del processo

1. Il matrimonio concordatario tra le parti è stato celebrato nel (OMISSIS). La separazione personale consensuale reca la data del (OMISSIS). Le parti, in questa sede, hanno raggiunto un accordo fondato sul riequilibrio dei loro patrimonio che non prevedeva la corresponsione di alcun assegno da parte di un coniuge il favore dell'altro.

2. La cessazione degli effetti civili del matrimonio è stata pronunciata con sentenza parziale del Tribunale di Reggio Emilia il (OMISSIS). Con sentenza definitiva il Tribunale ha posto a carico dell'ex marito la somma di Euro 4000,00 mensili a titolo di assegno divorzile in favore della ex moglie.

3. La Corte d'Appello, in riforma della sentenza impugnata, ha negato il diritto della ex moglie al riconoscimento di un assegno di divorzio condannandola alla ripetizione delle somme ricevute a tale titolo specifico.

3.1. A sostegno della decisione assunta, la Corte ha applicato l'orientamento espresso nella pronuncia di questa Corte n. 11504 del 2017 secondo il quale il fondamento dell'attribuzione dell'assegno divorzile è la mancanza di autosufficienza economica dell'avente diritto. Nel merito ha escluso che la parte appellata fosse in tale condizione, in quanto titolare e percettrice di uno stipendio decisamente superiore alla media nonchè di un patrimonio mobiliare ed immobiliare molto cospicuo. Ha, pertanto, precisato che l'attribuzione dell'assegno di divorzio si era fondata sull'orientamento, superato da quello più recente cui era stata prestata adesione, fondato sul criterio del tenore di vita, peraltro potenziale, goduto dal richiedente, nel corso dell'unione coniugale, da valutarsi alla stregua delle capacità patrimoniali ed economiche delle parti. Nella specie pur essendovi un'evidente sperequazione delle predette capacità economiche e patrimoniali in favore dell'ex marito, l'agiatezza della ex moglie aveva condotto ad escludere la ricorrenza dei requisiti attributivi dell'assegno, dovendosene escludere il difetto di autosufficienza economica.

4. Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione C.L., con richiesta, accolta con provvedimento del 30 ottobre 2017, di rimessione del ricorso alle Sezioni Unite. Ha resistito con controricorso C.O.. La parte ricorrente ha depositato memoria.

Motivi della decisione

5. Nel primo motivo di ricorso viene dedotta la violazione della L. n. 898 del 1970, art. 5 e successive modificazioni per le seguenti ragioni:

5.1 il criterio dell'indipendenza od autosufficienza economica non trova alcun riscontro nel testo della norma che detta i criteri per l'attribuzione e determinazione dell'assegno di divorzio. Inoltre, non risulta chiaro quali siano i parametri al quale ancorarlo tra le diverse alternative proponibili, ovvero l'indice medio delle retribuzioni degli operai ed impiegati; la pensione sociale; un reddito medio rapportato alla classe economico sociale di appartenenza dei coniugi e alle possibilità dell'obbligato. Nell'ultima ipotesi, peraltro, il tenore di vita verrebbe ripreso in considerazione perchè i mezzi adeguati non potrebbero che essere rapportati alla condizione sociale ed economica delle parti in causa e ai loro redditi;

5.2 la lettura logico sistematica della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6 e successive modificazioni conduce al ripristino del criterio del tenore di vita, tenuto conto che l'art. 5, al comma 9 prevede espressamente la possibilità per il Tribunale, in caso di contestazioni, di disporre indagini sull'effettivo tenore di vita. La stessa Corte Costituzionale con la sentenza n. 11 del 2015 ha ritenuto del tutto legittimo tale criterio, allora costantemente seguito dalla giurisprudenza;

5.3 l'applicazione del criterio dell'autosufficienza economica è foriero di gravi ingiustizie sostanziali, in particolare per i matrimoni di lunga durata ove il coniuge più debole che abbia rinunciato alle proprie aspettative professionali per assolvere agli impegni familiari improvvisamente deve mutare radicalmente la propria conduzione di vita;

5.4 il richiamo, contenuto nella sentenza n. 11504 del 2017, all'art. 337 septies c.c. che fissa il criterio dell'indipendenza economica ai fini del riconoscimento del diritto ad un contributo per il mantenimento dei figli maggiorenni non autosufficienti non risulta condivisibile in quanto le condizioni soggettive rispettivamente dell'ex coniuge e del figlio maggiorenne non autosufficiente non sono comparabili: il figlio maggiorenne ha il compito sociale, prima che giuridico, di mettersi nelle condizioni di essere economicamente indipendente e l'obbligo di mantenimento è definito temporalmente in funzione del raggiungimento dell'obiettivo; il coniuge, specie se non più giovane, che abbia rinunciato, per scelta condivisa anche dall'altro, ad essere economicamente indipendente o abbia ridotto le proprie aspettative professionali per l'impegno familiare si può trovare, in virtù dell'applicazione del criterio dell'indipendenza economica, in una situazione di irreversibile grave disparità. Infine, l'obbligo di mantenimento del figlio maggiorenne non autosufficiente perdura fino a quando non sia raggiunto un livello di indipendenza adeguato al percorso di studi e professionale seguito, mentre all'esito del divorzio per il coniuge che abbia le caratteristiche soggettive sopra delineate, la condizione deteriore in cui versa non ha alcuna possibilità di essere emendata, essendo fondata su una sperequazione reddituale e patrimoniale non più colmabile. Tale è la condizione della ricorrente rispetto al livello economico-patrimoniale molto più elevato dell'ex marito.

5.5 Il nuovo orientamento lede il principio della solidarietà post matrimoniale, sottolineato, invece, dal legislatore sia in ordine al diritto alla pensione di reversibilità che in relazione alla quota del trattamento di fine rapporto spettanti al titolare dell'assegno. Il criterio adottato porta ad una lettura sostanzialmente abrogativa dell'art. 5.

6. Nel secondo motivo viene dedotta la violazione dell'art. 2033 c.c. con riferimento alla condanna alla ripetizione di quanto indebitamente versato. La statuizione della sentenza d'appello non è idonea a configurare un indebito oggettivo perchè dispone per l'avvenire. Inoltre vige, nella specie, il principio dell'irripetibilità, impignorabilità e non compensabilità delle prestazioni assistenziali, del tutto disatteso nella specie.

7. L'esame della questione rimessa alle Sezioni Unite richiede l'illustrazione preliminare del quadro legislativo interno di riferimento, anche sotto il profilo diacronico, dal momento che le modifiche medio tempore intervenute hanno notevolmente influenzato gli orientamenti della giurisprudenza anche di legittimità.

8. IL QUADRO LEGISLATIVO INTERNO. 8.1. Il testo originario della L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 5, comma 6, e gli orientamenti giurisprudenziali relativi.

Il testo originario della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6 della aveva il seguente contenuto:

Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale dispone, tenuto conto delle condizioni economiche dei coniugi e delle ragioni della decisione, l'obbligo per uno dei coniugi di somministrare a favore dell'altro periodicamente un assegno in proporzione alle proprie sostanze e ai propri redditi. Nella determinazione di tale assegno il giudice tiene conto del contributo personale ed economico dato da ciascuno dei coniugi alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di entrambi. Su accordo delle parti la corresponsione può avvenire in una unica soluzione. L'obbligo di corresponsione dell'assegno cessa se il coniuge, al quale deve essere corrisposto, passa a nuove nozze.

Il coniuge, al quale non spetti l'assistenza sanitaria per nessun altro titolo, conserva il diritto nei confronti dell'ente mutualistico da cui sia assistito l'altro coniuge. Il diritto si estingue se egli passa a nuove nozze.

La lettura della norma, già nella sua formulazione originaria, poteva dare luogo ad interpretazioni diverse. Valorizzando la distinzione di significato tra l'espressione "il Tribunale dispone" con la quale si apriva l'elencazione dei criteri di cui si doveva "tenere conto" ai fini del diritto alla corresponsione dell'assegno di divorzio e l'incipit della seconda parte della norma "nella determinazione di tale assegno il giudice tiene conto" emergeva, sul piano testuale una distinzione tra criteri attributivi (le condizioni economiche dei coniugi - profilo assistenziale; le ragioni della decisione - profilo risarcitorio) e determinativi (contributo personale ed economico dato da ciascuno dei coniugi - profilo compensativo).

La dottrina prevalente e la giurisprudenza di questa Corte avevano, tuttavia, ritenuto che l'assegno di divorzio, alla luce della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6 avesse una natura mista senza alcuna diversificazione e graduazione tra i criteri attributivi e determinativi.

In particolare le Sezioni Unite, poco dopo l'entrata in vigore della norma affermarono che l'assegno previsto dalla L. 1 dicembre 1970 n 898, art. 5 aveva natura composita "in relazione ai criteri che il giudice per legge deve applicare quando è chiamato a pronunciarsi sulla richiesta di corresponsione: assistenziale in senso lato, con riferimento al criterio che fa leva sulle condizioni economiche dei coniugi; risarcitoria in senso ampio, con riguardo al criterio che concerne le ragioni della decisione; compensativa, per quanto attiene al criterio del contributo personale ed economico dato da ciascun coniuge alla condizione della famiglia ed alla formazione del patrimonio di entrambi. Il giudice, che pur deve applicare tali criteri nei confronti di entrambi i coniugi e nella loro necessaria coesistenza, ha ampio potere discrezionale, soprattutto in ordine alla quantificazione dell'assegno (S.U. 1194 del 1974; conf. 1633 del 1975).

La coesistenza dei criteri, come espresso efficacemente nella massima, ne evidenziava la equiordinazione e costituiva una prescrizione di primario rilievo per la valutazione che doveva essere svolta dal giudice di merito al quale veniva riconosciuto un ampio potere discrezionale nella determinazione nell'ammontare dell'assegno ma non gli era consentito di considerare recessivo, in astratto ed in linea generale, un criterio rispetto ad un altro, salvo che il rilievo concreto di alcuno di essi non fosse marginale od insussistente. Nella giurisprudenza immediatamente successiva, la formulazione generale del principio venne puntualizzata in relazione a ciascun parametro. In particolare la Corte escluse che l'assegno potesse avere carattere alimentare proprio in relazione allo scioglimento definitivo del vincolo di parentela, dal momento che tale tipologia di obbligazioni postulava la permanenza del vincolo stesso e non la sua cessazione (Cass. 256 del 1975). Venne sottolineato come il fulcro dell'accertamento da svolgere, in questa prima fase storica di applicazione della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, dovesse incentrarsi sulla natura e misura dell'indebolimento della complessiva sfera economico-patrimoniale del coniuge richiedente l'assegno in relazione a tutti i fattori che possano concorrere a determinare questa sperequazione, quali l'età, la salute, l'esclusivo svolgimento di attività domestiche all'interno del nucleo familiare, il contributo fornito al consolidamento del patrimonio familiare e dell'altro coniuge etc. (Cass. 835 del 1975). Gli orientamenti furono certamente influenzati dal contesto socio economico nel quale la L. n. 898 del 1970 si è innestata, in quanto caratterizzato da un modello coniugale formato su ruoli endofamiliari distinti ed eziologicamente condizionanti la posizione economico patrimoniale di ciascuno dei coniugi dopo lo scioglimento dell'unione matrimoniale. Il rilievo paritario attribuito a tutti i parametri venne condizionato dalla vis espansiva del principio di parità ed uguaglianza tra i coniugi così come innovativamente consacrato e reso effettivo dalla riforma del diritto di famiglia.

Il criterio assistenziale, in particolare, assume, già in questa prima fase di applicazione della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, una funzione perequativa della condizione di "squilibrio ingiusto" (Cass. 660 del 1977) che può determinarsi in relazione alla situazione economico-patrimoniale degli ex coniugi, a causa dello scioglimento del vincolo, in particolare quando la disparità di condizioni si giustifica in funzione di scelte endofamiliari comuni che hanno prodotto una netta diversificazione di ruoli tra i due coniugi così da escludere o da ridurre considerevolmente l'impegno verso la costruzione di un livello reddituale individuale autonomo adeguato a quello familiare. Risultava evidente, pertanto, già negli orientamenti degli anni 70 che il profilo strettamente assistenziale si contaminava con quello compensativo, soprattutto in relazione alla durata del matrimonio, così da dar luogo all'inizio degli anni 80 a principi ancora più decisamente ispirati all'esigenza di ristabilire "un certo equilibrio nella posizione dei coniugi dopo lo scioglimento del matrimonio" (Cass. 496 del 1980) da realizzarsi assumendo il parametro relativo alle condizioni economiche dei coniugi non come criterio esclusivo o prevalente ma come elemento di giudizio da porsi in relazione con gli altri concorrenti, in considerazione delle complessive condizioni di vita garantite nel corso dell'unione coniugale e delle aspettative che tali condizioni potevano indurre (Cass. 496 del 1980).

La funzione dell'assegno di divorzio si caratterizza, sempre più, negli anni 80, sotto il vigore del testo originario della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, come strumento perequativo della situazione di squilibrio economico patrimoniale che si sia determinata a vantaggio di un ex coniuge ed in pregiudizio dell'altro. A questo fine i tre criteri contenuti nella norma operano come "presupposti di attribuzione" (Cass. 5714 del 1988) dell'assegno stesso. All'interno di questo orientamento, la funzione dell'assegno si risolve in uno strumento volto ad intervenire su una situazione di squilibrio "ingiusto" non in senso astratto, ovvero fondato sulla mera comparazione quantitativa delle sfere economico-patrimoniali o delle capacità reddituali degli ex coniugi ma in concreto, ponendo in luce la correlazione tra la situazione economico patrimoniale fotografata al momento dello scioglimento del vincolo ed i ruoli svolti dagli ex coniugi all'interno della relazione coniugale. Al riguardo sempre più frequentemente entrava nella valutazione complessiva e paritaria dei criteri ex art. 5, comma 6 il rilievo dell'apporto personale al soddisfacimento delle esigenze domestiche di uno solo dei coniugi (Cass. 3390 del 1985) ed, in particolare, l'effetto negativo sull'acquisizione di esperienze lavorative e professionali che può determinare un impegno versato essenzialmente nell'ambito domestico e familiare (Cass. 3520 del 1983), tanto da far affermare che, anche in relazione all'età, il giudice del merito avrebbe dovuto accertare se fosse in concreto possibile per l'ex coniuge richiedente l'assegno essere competitivo sul mercato del lavoro senza dover svolgere attività lavorative troppo usuranti od inadeguate rispetto al profilo complessivo della persona, (Cass. 3520 del 1983).

Da questi orientamenti emerge l'incidenza del principio costituzionale della parità sostanziale tra i coniugi, così come declinato nell'art. 29 Cost. nella valutazione in concreto dei criteri, ed in particolare di quello assistenziale e compensativo, sempre meno scindibili nel giudizio complessivo relativo al diritto all'assegno. L'interconnessione tra i due parametri viene precisata dall'affermazione contenuta nella pronuncia n. 6719 del 1987, secondo la quale la funzione dell'assegno di divorzio non è remunerativa ma compensativa, essendo preordinata all'obiettivo del "giusto mantenimento" in relazione, non solo all'apporto del coniuge richiedente alla conduzione della vita familiare, ma anche alla formazione del patrimonio comune ed in particolare al rafforzamento della sfera economico patrimoniale dell'altro coniuge.

Deve essere sottolineato come l'applicazione equilibrata dei tre criteri, assistenziale, compensativo e risarcitorio, sia stata ritenuta adeguata alla varietà delle situazioni concrete ed idonea a far emergere l'effettiva situazione di squilibrio (od equilibrio) conseguente alle scelte ed all'andamento effettivo della vita familiare, tenuto conto delle condizioni economico-patrimoniali degli ex coniugi e delle cause, con particolare riferimento a quelle maturate in corso di matrimonio, che hanno concorso a determinarle.

I principi giurisprudenziali illustrati, tuttavia, furono sottoposti a revisione critica dalla dottrina, in particolare per l'eccessiva discrezionalità rimessa ai giudici di merito che l'equiordinazione dei criteri aveva determinato. Si lamentava l'assenza di un fondamento unitario e coerente nella composizione mista dei parametri di attribuzione e determinazione dell'assegno di divorzio. Si sottolineava come l'an ed il quantum dell'assegno fossero stati tendenzialmente stabiliti del tutto discrezionalmente e l'applicazione dei criteri, proprio in quanto composita, fosse stata utilizzata per giustificare ex post la decisione, invece che dettarne le coordinate. Inoltre, vennero poste in luce le profonde mutazioni nella società civile, l'affermazione del principio di autoresponsabilità ed autodeterminazione, da ritenere determinanti anche nelle scelte relazionali, oltre che l'evoluzione del ruolo femminile all'interno della famiglia e nella società. Si gettavano le basi, pur sottolineandosi la funzione complessivamente perequativa dell'assegno di divorzio, per la riforma della norma.

8.2. L'intervento della L. 6 marzo 1987 e la modifica della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6; l'interpretazione del nuovo testo nella giurisprudenza di legittimità.

In questo rinnovato contesto, è stato modificato l'art. 5, comma 6 dalla L. n. 74 del 1987, art. 10 nel modo che segue:

"Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l'obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell'altro un assegno quando quest'ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive. La sentenza deve stabilire anche un criterio di adeguamento automatico dell'assegno, almeno con riferimento agli indici di svalutazione monetaria. Il tribunale può, in caso di palese iniquità, escludere la previsione con motivata decisione. Su accordo delle parti la corresponsione può avvenire in unica soluzione ove questa sia ritenuta equa dal tribunale. In tal caso non può essere proposta alcuna successiva domanda di contenuto economico.

I coniugi devono presentare all'udienza di comparizione avanti al presidente del tribunale la dichiarazione personale dei redditi e ogni documentazione relativa ai loro redditi e al loro patrimonio personale e comune. In caso di contestazioni il tribunale dispone indagini sui redditi, sui patrimoni e sull'effettivo tenore di vita, valendosi, se del caso, anche della polizia tributaria)). L'obbligo di corresponsione dell'assegno cessa se il coniuge, al quale deve essere corrisposto, passa a nuove nozze.

Il coniuge, al quale non spetti l'assistenza sanitaria per nessun altro titolo, conserva il diritto nei confronti dell'ente mutualistico da cui sia assistito l'altro coniuge. Il diritto si estingue se egli passa a nuove nozze.

Il confronto testuale con la formulazione originaria della norma pone immediatamente in luce alcune differenze:

a) il rilievo dell'indagine comparativa dei redditi e dei patrimoni degli ex coniugi, fondato sull'obbligo di deposito dei documenti fiscali delle parti e sull'attribuzione di poteri istruttori officiosi al giudice in precedenza non esistenti in funzione dell'effettivo accertamento delle condizioni economico patrimoniali delle parti, nella fase conclusiva della relazione matrimoniale;

b) l'accorpamento di tutti gli indicatori che compongono rispettivamente il criterio assistenziale ("le condizioni dei coniugi" ed "il reddito di entrambi"), quello compensativo ("il contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune") e quello risarcitorio ("le ragioni della decisione") nella prima parte della norma, come fattori di cui si deve "tenere conto" nel disporre sull'assegno di divorzio;

c) la condizione (che costituisce l'innovazione più significativa, perchè assente nella precedente formulazione della norma) dell'insussistenza di mezzi adeguati e dell'impossibilità di procurarli per ragioni obiettive, in capo all'ex coniuge che richieda l'assegno.

La rigida bipartizione tra criteri attributivi e determinativi, sorta per delineare più specificamente e rigorosamente i parametri sulla base dei quali disporre l'an ed il quantum dell'assegno di divorzio, e la ricerca del parametro dell'adeguatezza/inadeguatezza dei mezzi al di fuori degli indicatori contenuti nell'art. 5, comma 6, novellato, raggruppati nella prima parte della stesso, non costituisce una conseguenza necessaria della nuova formulazione della norma. In primo luogo, come nella versione originaria, il legislatore impone di "tenere conto" dei fattori che compongono i tre criteri, fornendone, rispetto alla formulazione antevigente un'elencazione completa. In secondo luogo nella norma s'introducono, al fine di sottolineare il rilievo indefettibile dell'indagine, poteri istruttori officiosi in capo al giudice del merito in ordine all'accertamento delle condizioni economico-patrimoniali di entrambe le parti, tanto da imporre l'obbligo di produrre la documentazione fiscale fin dagli atti introduttivi del giudizio. Proprio in virtù delle due nuove caratteristiche di questa fase istruttoria (previsione ex lege di produzione della documentazione fiscale e poteri officiosi d'indagine), deve ritenersi che essa costituisca, per tutte le controversie nelle quali si discuta dell'assegno di divorzio, un accertamento ineludibile rivolto ad entrambe le parti, con la conseguenza che la conoscenza comparativa di tali condizioni costituisce, secondo quanto risulta dall'esame testuale della norma, pregiudiziale a qualsiasi successiva indagine sui presupposti dell'assegno. In terzo luogo, il dato testuale dal quale è scaturita l'opzione interpretativa della netta bipartizione tra an e quantum e della individuazione del parametro dell'adeguatezza dei mezzi al di fuori degli indicatori contenuti nella norma, non presenta l'univocità che gli orientamenti, ancorchè contrapposti, in ordine al metro di valutazione dell'adeguatezza dei mezzi, hanno voluto ravvisarvi. La norma stabilisce, nell'ultima parte del primo periodo, che l'obbligo per un coniuge di "somministrare periodicamente a favore dell'altro un assegno (di divorzio n.d.r.)" sorge quando il richiedente non ha mezzi adeguati e non può procurarseli per ragioni oggettive, ma il periodo si apre con la prescrizione espressa e completa dei criteri di cui il giudice deve tenere conto, valutandone il peso in relazione alla durata del matrimonio quando dispone sull'assegno di divorzio.

Al fine di comprendere le ragioni dell'affermazione dell'opzione ermeneutica che ha dato luogo al contrasto di orientamenti su cui si fonda l'intervento delle S.U., deve rilevarsi che il dibattito che ha accompagnato la nascita della novella legislativa, si era incentrato su una netta contrapposizione di posizioni. Da un lato si sosteneva la necessità di ancorare il diritto all'assegno di divorzio esclusivamente all'accertamento di una condizione di non autosufficienza economica, variamente declinata come autonomia od indipendenza economica, od anche capacità idonea a consentire un livello di vita dignitoso, dall'altro si poneva in luce come la comparazione delle condizioni economico-patrimoniali delle parti non potesse dirsi esclusa dall'accertamento rimesso al giudice di merito, essendo una delle novità introdotte dalla novella proprio l'attribuzione di poteri istruttori officiosi all'organo giudicante, oltre al rilievo, del tutto attuale, della sostanziale marginalizzazione degli indici contenuti nella prima parte della norma, ove l'accertamento fosse esclusivamente incentrato sulla condizione economico patrimoniale del creditore. Le S.U. con la sentenza n.11490 del 1990 hanno ritenuto centrali questi ultimi profili, dando vita ad un orientamento, rimasto fermo per un trentennio, fino al mutamento determinato dalla sentenza n. 11504 del 2017. Nella sentenza del 1990 hanno affermato che l'assegno ha carattere esclusivamente assistenziale dal momento che il presupposto per la sua concessione deve essere rinvenuto nell'inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante, da intendersi come insufficienza degli stessi, comprensivi di redditi, cespiti patrimoniali ed altre utilità di cui possa disporre, a conservargli un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio. E' stato però chiarito che non è necessario l'accertamento di uno stato di bisogno, assumendo rilievo, invece, l'apprezzabile deterioramento, in dipendenza del divorzio, delle precedenti condizioni economiche, le quali devono essere tendenzialmente ripristinate, per ristabilire un certo equilibrio. I criteri indicati nella prima parte della norma hanno funzione esclusivamente determinativa dell'assegno, da attribuirsi, tuttavia, sulla base dell'esclusivo parametro dell'inadeguatezza dei mezzi. Ove sussista tale presupposto, la liquidazione in concreto deve essere effettuata in base alla valutazione ponderata e bilaterale dei criteri enunciati dalla legge (condizioni dei coniugi, ragioni della decisione, contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, reddito di entrambi, durata del matrimonio), con riguardo al momento della pronuncia di divorzio.

A questo consolidato orientamento si è di recente contrapposto quello affermato dalla sentenza n. 11504 del 2017 che, pur condividendo la premessa sistematica relativa alla rigida distinzione tra criterio attributivo e determinativo, ha individuato come parametro dell'inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante, la non autosufficienza economica dello stesso ed ha stabilito che solo all'esito del positivo accertamento di tale presupposto possano essere esaminati in funzione ampliativa del quantum i criteri determinativi dell'assegno indicati nella prima parte della norma.

Entrambe le sentenze si sono richiamate ai lavori preparatori della nuova legge. In particolare, la recente sentenza n. 11504 del 2017 ha valorizzato un passaggio contenuto nella relazione accompagnatoria della novella, dal quale poteva desumersi che l'intentio legis fosse quella di limitare l'accertamento sull'an debeatur alle condizioni economico-patrimoniali del creditore-richiedente l'assegno, ma si deve obiettare a questa argomentazione, per un verso, l'intrinseca ambiguità dell'intentio legis e dall'altro che il testo della norma, come ricordato nella sentenza delle S.U. n. 11490 del 1990, ha subito un significativo mutamento rispetto a quello predisposto dalla Commissione Giustizia del Senato, nel quale l'adeguatezza dei mezzi era correlata al conseguimento di un dignitoso mantenimento, disancorato da quello goduto in costanza di matrimonio.

8.2.1. L'interpretazione dell'art. 5, comma 6, novellato, nella giurisprudenza di legittimità.

La lettura del nuovo testo della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, non offre indicazioni applicative univoche, in ordine all'esatta determinazione del sintagma "mezzi adeguati" non essendo espressamente precisato quale sia il parametro di riferimento cui ancorare il giudizio di adeguatezza.

Questa indeterminatezza ha dato luogo a due orientamenti contrapposti, ancorchè entrambi fondati sull'esigenza di limitare la discrezionalità dei giudici di merito, ai quali era lasciata la comparazione, la selezione e, in concreto la graduazione della rilevanza dei tre criteri (assistenziale, compensativo e risarcitorio) contenuti nella norma. In particolare, sia l'orientamento della sentenza n. 1652 del 1990, che legava l'adeguatezza dei mezzi al conseguimento di un'esistenza libera e dignitosa, intesa come autonomia ed indipendenza economica da valutarsi prescindendo dalle condizioni di vita matrimoniale e senza un accertamento comparativo della situazione economico-patrimoniale delle parti al momento dello scioglimento del vincolo, sia l'orientamento opposto (Cass. 1322 del 1989 e 2799 del 1990) fatto proprio dalla sentenza delle S.U. 11540 del 1990, secondo il quale l'inadeguatezza dei mezzi deve riconoscersi quando il richiedente non abbia mezzi adeguati per conseguire un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di rapporto coniugale, partono da un postulato ermeneutico comune dell'art. 5, comma 6 novellato. Entrambi gli orientamenti, forti anche di sostegno dottrinale, ritengono che la norma imponga una distinzione tra il criterio attributivo dell'assegno, di natura assistenziale, e gli altri, meramente determinativi. Il legislatore, avendo condizionato l'obbligo di somministrare periodicamente (od in un'unica soluzione) l'assegno di divorzio all'accertamento sull'inadeguatezza dei mezzi e sull'impossibilità oggettiva di procurarli, avrebbe inteso separare nettamente il piano assistenziale da quello compensativo e risarcitorio.

A questa premessa unitaria si aggiunge, l'ulteriore profilo comune costituito dal rinvenimento del parametro dell'adeguatezza/inadeguatezza al di fuori degli indicatori contenuti nella norma. Entrambi i parametri, il tenore di vita matrimoniale (specie se potenziale) e l'autonomia od indipendenza economica (anche nella nuova versione dell'autosufficienza economica, introdotta dalla sentenza n. 11504 del 2017) sono esposti al rischio dell'astrattezza e del difetto di collegamento con l'effettività della relazione matrimoniale. Tale collegamento diventa meramente eventuale ove si assuma come parametro l'autosufficienza economica ma può perdere di rilievo anche con l'ancoraggio al tenore di vita ove questo criterio venga assunto esclusivamente sulla base della comparazione delle condizioni economico-patrimoniali delle parti e, dunque valutando la potenzialità e non l'effettività delle condizioni di vita matrimoniale.

Le due parti della norma sono state interpretate in modo dicotomico pur essendo legate da un nesso di dipendenza logica testuale che ne impone un esame esegetico unitario. Il giudice dispone sull'assegno di divorzio in relazione all'inadeguatezza dei mezzi ma questa valutazione avviene tenuto conto dei fattori indicati nella prima parte della norma. La scissione tra le due parti della norma e quella conseguente tra i criteri attributivi e determinativi, può condurre ad escludere nella prevalenza dei casi, l'esame degli indicatori la cui valutazione è imposta dall'art. 5, comma 6, oltre che dal contesto costituzionale e convenzionale di riferimento nel quale deve essere inquadrato il diritto all'assegno di divorzio quando ne ricorrano le condizioni.

9. L'ESAME COMPARATIVO DEI DUE ORIENTAMENTI. Esaminati gli aspetti che accomunano i due orientamenti occorre rilevarne le ragioni di forte contrapposizione che li contraddistinguono.

Preliminarmente è necessario evidenziare che l'orientamento fissato nella sentenza n. 11490 del 1990, è stato costantemente seguito dalla giurisprudenza di legittimità e di merito, ancorchè con adattamenti determinati dalle esigenze concrete che di volta in volta si sono prospettate. In particolare, l'astrattezza del criterio del tenore di vita, anche solo potenzialmente, tenuto durante la relazione matrimoniale è stata temperata tanto in funzione della durata del rapporto, (Cass. 7295 del 2013; 6164 del 2015), per cui la estrema limitatezza temporale della relazione coniugale può determinare l'azzeramento del diritto all'assegno, quanto in funzione della creazione di un nuovo nucleo relazionale, caratterizzato dalla convivenza e dalla condivisione della vita quotidiana (c.d. famiglia di fatto), essendo tale circostanza ritenuta, (Cass. 6455 del 2015; 2466 del 2016) fattore definitivamente impeditivo del riconoscimento del diritto dell'assegno.

Tuttavia, nonostante i criteri determinativi possano, in concreto, incidere sull'entità dell'assegno, come fattori limitativi, deve condividersi il duplice rilievo critico che viene mosso al parametro del tenore di vita goduto o fruibile nel corso della relazione coniugale. Il primo rilievo riguarda l'assoluta preminenza della comparazione delle condizioni economico-patrimoniali dei coniugi nel giudizio sul diritto all'assegno. Questa valutazione, ove costituisca il fattore determinante l'an debeatur dell'assegno, non può sottrarsi a forti rischi di locupletazione ingiustificata dell'ex coniuge richiedente in tutte quelle situazioni in cui egli possa godere comunque non solo di una posizione economica autonoma ma anche di una condizione di particolare agiatezza oppure quando non abbia significativamente contribuito alla formazione della posizione economico-patrimoniale dell'altro ex coniuge. I criteri determinativi, ed in particolare quello relativo all'apporto fornito dall'ex coniuge nella conduzione e nello svolgimento della complessa attività endofamiliare, cui il Collegio ritiene di attribuire primaria e peculiare importanza, risultano marginalizzati, con conseguente ingiustificata sottovalutazione dell'autoresponsabilità. Tale aspetto costituisce, invece, uno dei cardini delle scelte individuali e relazionali, sia nelle situazioni analoghe a quella sopradescritta, sia nelle situazioni opposte, caratterizzate da condizioni economico-patrimoniali che presentino uno squilibrio nella valutazione comparativa, nelle quali la situazione di disparità economico-patrimoniale, riscontrabile alla fine del rapporto, sia il frutto esclusivo o prevalente delle scelte adottate dai coniugi in ordine ai ruoli ed al contributo di ciascuno alla vita familiare. In questa peculiare situazione, peraltro molto frequente, il criterio compensativo non può essere esclusivamente un fattore di moderazione, dovendosene tenere conto al pari degli altri elementi alla luce dell'inquadramento costituzionale delle ragioni giustificative del diritto all'assegno di divorzio, così come fattori quali la salute o l'età in relazione alle capacità lavorativo-professionali e di produzione di reddito. Gli indicatori contenuti nella L. n. 898 del 1978, art. 5, comma 6, prima parte, hanno un contenuto perequativo-compensativo che la preminenza assoluta della comparazione quantitativa tra le condizioni economico-patrimoniali degli ex coniugi rischia di offuscare. Tuttavia, il rischio di trascurare del tutto i predetti indicatori, è ancora più incisivo alla luce dell'opposto orientamento, già preesistente e consacrato nella sentenza n. 1564 del 1990 ma, di recente, riaffermato, ed arricchito di rilievi critici e di nuovi elementi di valutazione giuridici e metagiuridici, con la sentenza n. 11504 del 2017.

La ragione di fondo, espressa nella motivazione di quest'ultima pronuncia che ha dato luogo alla modifica del consolidato orientamento giurisprudenziale in ordine al criterio attributivo dell'assegno di divorzio, risiede nell'indicata inattualità del precedente orientamento e nella sua inadeguatezza rispetto ad una mutata valorizzazione delle scelte personali e delle loro conseguenze sotto il profilo dell'autoresponsabilità, da valutarsi nel contesto costituzionale all'interno del quale tali scelte e la loro protezione giuridica si collocano.

L'opzione di fondo della pronuncia coglie un elemento di rilievo ma ne trascura altri. L'autodeterminazione individuale e la libertà di scegliere il percorso da imprimere alla propria esistenza costituisce certamente un valore assiologico portante nel sistema dei diritti della persona, ma è necessario che la declinazione di questo profilo dinamico dell'autodeterminazione sia effettiva ovvero non sia sconnessa dall'altro profilo fondante, quello della dignità personale, atteso che la libertà di scegliere e di determinarsi è eziologicamente condizionata dalla possibilità concreta di esercitare questo diritto. Per questa ragione, i diritti inviolabili della persona sono vivificati nella nostra Costituzione dal principio di effettività che permea l'art. 3 Cost.. Alla luce di tale specifico richiamo, devono essere posti in rilievo alcuni elementi che anche il legislatore, nella composita indicazione di fattori incidenti sull'assegno di divorzio ha inteso valorizzare. In primo luogo deve sottolinearsi che con la cessazione dell'unione matrimoniale si realizza, nella prevalenza delle situazioni concrete, un depauperamento di entrambi gli ex coniugi e si crea uno squilibrio economico-patrimoniale conseguente a tale determinazione.

I ruoli all'interno della relazione matrimoniale costituiscono un fattore, molto di frequente, decisivo nella definizione dei singoli profili economico-patrimoniali post matrimoniali e sono frutto di scelte comuni fondate sull'autodeterminazione e sull'autoresponsabilità di entrambi i coniugi all'inizio e nella continuazione della relazione matrimoniale. Inoltre, non può trascurarsi, per la ricchezza ed univocità dei riscontri statistici al riguardo, la perdurante situazione di oggettivo squilibrio di genere nell'accesso al lavoro, tanto più se aggravata dall'età.

La valutazione svolta nella sentenza n. 11504 del 2017 è rilevante ma incompleta, in quanto non radicata sui fattori oggettivi e interrelazionali che determinano la condizione complessiva degli ex coniugi dopo lo scioglimento del vincolo.

Lo stesso limite dell'incompletezza si deve rilevare in ordine alla ratio posta a sostegno del criterio attributivo dell'assegno di divorzio, individuato nella carenza di autosufficienza economica della parte richiedente. Solo questo parametro viene ritenuto coerente con i principi di autodeterminazione ed autoresponsabilità che permeano la solidarietà post coniugale, su cui, in via esclusiva, si rinviene il fondamento dell'assegno. Il sostegno costituzionale della ratio solidaristica viene desunto dall'art. 2 Cost.dall'art. 23 Cost.. La garanzia costituzionale della riserva di legge in ordine al prelievo fiscale ed ad ogni forma di obbligo tributario anche inteso in senso lato, risulta del tutto estraneo al contesto giuridico-costituzionale all'interno del quale deve collocarsi la cd. solidarietà post coniugale, riguardando esclusivamente la relazione tra il cittadino-contribuente e l'autorità statuale o pubblica in senso ampio. Essa tuttavia costituisce la premessa coerente del contenuto riduttivo che nella pronuncia si attribuisce al principio di autodeterminazione ed autoresponsabilità, ancorchè formalmente ancorati all'art. 2 Cost.. Della norma costituzionale viene, tuttavia, azzerata la parte, di primaria importanza, che colloca il principio di autodeterminazione all'interno delle formazioni sociali nelle quali si sviluppa la personalità dell'individuo.

La giurisprudenza costituzionale ha, del resto, ancorato proprio all'art. 2 Cost. ed alla dignità costituzionale che assume la modalità relazionale nello sviluppo della personalità umana, il fondamento costituzionale delle unioni e delle convivenze di fatto (Corte Cost. n. 404 del 1988; 559 del 1989) estendendo ad esse, strumenti di tutela propri dell'unione matrimoniale (diritto a succedere nella titolarità del rapporto di locazione etc.) mediante un processo di adeguamento incrementato dalla giurisprudenza di merito e di legittimità (Cass. 12278 del 2011; 9178 del 2018). Lo stesso fondamento costituzionale è stato riconosciuto alle unioni omoaffettive (Corte Cost. n. 138 del 2010; Cass. 2184 del 2012) prima dell'entrata in vigore della L. n. 76 del 2016. La liberta di scelta e l'autoresponsabilità, che della libertà è una delle principali manifestazioni, costituiscono il fondamento costituzionale dell'unione matrimoniale, una delle formazioni sociali che la Costituzione riconosce come modello relazionale-familiare preesistente e tipizzato. Il canone dell'uguaglianza, posto a base dell'art. 29 Cost., può essere attuato e reso effettivo soltanto all'interno di una relazione governata da scelte che sono frutto di determinazioni assunte liberamente dai coniugi in particolare in ordine ai ruoli ed ai compiti che ciascuno di essi assume nella vita familiare. L'uguaglianza si coniuga indissolubilmente con l'autodeterminazione e determina la peculiarità della relazione coniugale così come declinata nell'art. 143 c.c., norma che ne costituisce la perfetta declinazione.

L'autodeterminazione non si esaurisce con la facoltà anche unilaterale di sciogliersi dal vincolo ma preesiste a tale determinazione e connota tutta la relazione ed, in particolare la definizione e la condivisione dei ruoli endofamiliari. Ugualmente l'autoresponsabilità costituisce il cardine dell'intera relazione matrimoniale, su di essa fondandosi l'obbligo reciproco di assistenza e di collaborazione nella conduzione della vita familiare così come tratteggiati nell'art. 143 c.c..

Nella sentenza n. 11504 del 2017, invece, lo scioglimento del vincolo coniugale, comporta una netta soluzione di continuità tra la fase di vita successiva e quella anteriore. L'autodeterminazione e l'autoresponsabilità costituiscono la giustificazione di questa radicale cesura e vengono assunti come principi informatori dei residui, limitati effetti, della cessata relazione coniugale. La previsione legislativa relativa all'assegno di divorzio, alle condizioni previste dalla legge, viene ritenuta prescrizione di carattere eccezionale e derogatorio, in relazione al riacquisto dello stato libero realizzato con il divorzio. All'assegno viene, di conseguenza, riconosciuta una natura giuridica strettamente ed esclusivamente assistenziale, rigidamente ancorata ad una condizione di mancanza di autonomia economica, da valutare in considerazione della condizione soggettiva del richiedente, del tutto svincolata dalla relazione matrimoniale ed unicamente orientata, per il presente e per il futuro, dalle scelte e responsabilità individuali. Si deve osservare, tuttavia, che questa impostazione, pur condivisibile nella parte in cui coglie la potenzialità deresponsabilizzante del parametro del tenore di vita, omette di considerare che i principi di autodeterminazione ed autoresponsabilità hanno orientato non solo la scelta degli ex coniugi di unirsi in matrimonio ma, ciò che è più rilevante ai fini degli effetti conseguenti al suo scioglimento così come definiti nella L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, hanno determinato il modello di relazione coniugale da realizzare, la definizione dei ruoli, il contributo di ciascun coniuge all'attuazione della rete di diritti e doveri fissati dall'art. 143 c.c. La conduzione della vita familiare è il frutto di decisioni libere e condivise alle quali si collegano doveri ed obblighi che imprimono alle condizioni personali ed economiche dei coniugi un corso, soprattutto in relazione alla durata del vincolo, anche irreversibile. Alla reversibilità della scelta relativa al legame matrimoniale non consegue necessariamente una correlata duttilità e flessibilità in ordine alle condizioni soggettive e alla sfera economico patrimoniale dell'ex coniuge al momento della cessazione dell'unione matrimoniale.

Il legislatore è stato largamente consapevole del forte condizionamento che il modello di relazione matrimoniale prescelto dai coniugi può determinare sulla loro condizione economico-patrimoniale successiva allo scioglimento. Per questa ragione ha imposto al giudice di "tenere conto" di una serie d'indicatori che sottolineano il significato del matrimonio come atto di libertà e di auto responsabilità, nonchè come luogo degli affetti e di effettiva comunione di vita. Queste declinazioni del modello costituzionale dell'unione coniugale, incentrata sulla pari dignità dei ruoli che i coniugi hanno svolto nella relazione matrimoniale, non possono entrare in via esclusivamente eventuale nella valutazione che il giudice deve effettuare quando dispone sull'assegno di divorzio. La relazione coniugale è orientata fin dall'inizio dai principi di libertà ed autoresponsabilità ed il legislatore ha inteso valorizzare la funzione conformativa di questi principi nel regime giuridico dell'unione matrimoniale anche in relazione agli effetti che possono conseguire dopo lo scioglimento del vincolo, senza incidere sulla efficacia solutoria di tale determinazione, volta al riacquisto dello stato libero ma anche senza azzerare l'esperienza della relazione coniugale alla quale si dà forte rilevanza nella norma che prefigura gli effetti di natura economica che conseguono al divorzio.

L'immanenza del principio di autoresponsabilità risulta cristallizzata nei criteri fissati nell'incipit dell'art. 5, comma 6, individuati dal legislatore nelle condizioni dei coniugi, nelle ragioni della decisione, nel contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, nel reddito di entrambi, nella durata del matrimonio e, di conseguenza non può essere mai tenuta fuori dall'accertamento del diritto alla corresponsione di un assegno divorzile.

Nell'orientamento affermato dalle S.U. n. 11490 del 1990, la comparazione delle condizioni economico-patrimoniali degli ex coniugi conduceva sia pure in modo riflesso a tenere conto dei criteri determinativi, ma in funzione esclusivamente limitativa dell'astratta quantificazione dell'assegno fondata sul parametro del tenore di vita. Nell'orientamento più recente, tali ultimi criteri, ed in particolare quello, direttamente conseguente dal principio costituzionale della pari dignità dei coniugi, relativo al contributo dato da ciascuno di essi nella conduzione della vita familiare e nella formazione del patrimonio comune e di ciascuno, diventano meramente eventuali prospettandosi sostanzialmente una lettura dell'art. 5, comma 6 abrogatrice della prima parte, in quanto l'opzione ermeneutica prescelta è fondata sul rilievo nettamente preminente se non esclusivo del criterio attributivo dell'assegno.

10. LA SOLUZIONE INTERPRETATIVA ADOTTATA. Le rilevanti modificazioni sociali che hanno inciso sulla rappresentazione simbolica del legame matrimoniale e sulla disciplina giuridica dell'istituto, sia per l'attribuzione a ciascuno dei coniugi del diritto unilaterale di sciogliersi dal vincolo sia per la natura di scelta libera e responsabile che caratterizza la decisione di unirsi in matrimonio, hanno determinato l'esigenza di valutare criticamente il criterio attributivo dell'assegno cristallizzato nella sentenza delle S.U. n. 11490 del 1990, soprattutto in relazione al rischio di creare rendite di posizione disancorate dal contributo personale dell'ex coniuge richiedente alla formazione del patrimonio comune o dell'altro ex coniuge, ed a quello connesso della deresponsabilizzazione conseguente all'adozione di un criterio fondato solo sulla comparazione delle condizioni economico-patrimoniale delle parti. Rimangono fermi, tuttavia, i rilevi formulati alla soluzione radicalmente opposta proposta da Cass. 11504 del 2017.

Al fine d'indicare un percorso interpretativo che tenga conto sia dell'esigenza riequilibratrice posta a base dell'orientamento proposto dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 11490 del 1990 sia della necessità di attualizzare il diritto al riconoscimento dell'assegno di divorzio anche in relazione agli standards europei, questa Corte ritiene di dover abbandonare la rigida distinzione tra criteri attributivi e determinativi dell'assegno di divorzio, alla luce di una interpretazione dell'art. 5, comma 6, più coerente con il quadro costituzionale di riferimento costituito, come già evidenziato, dagli artt. 2, 3 e 29 Cost..

Giova premettere che l'inclusione dell'art.29 Cost. nell'orizzonte in cui deve collocarsi l'interpretazione dell'art. 5, comma 6, deriva anche dalla sentenza della Corte Cost. n. 11 del 2015, sollecitata proprio in sede di denunzia d'illegittimità costituzionale del criterio attributivo dell'assegno di divorzio costituito dal tenore di vita goduto durante il matrimonio.

Questo richiamo diretto al modello costituzionale del matrimonio, fondato sui principi di uguaglianza, pari dignità dei coniugi, libertà di scelta, reversibilità della decisione ed autoresponsabilità sono stati tenuti in primaria considerazione dal legislatore in sede di definizione degli effetti economico patrimoniali conseguenti allo scioglimento del vincolo.

L'art. 5, comma 6 attribuisce all'assegno di divorzio una funzione assistenziale, riconoscendo all'ex coniuge il diritto all'assegno di divorzio quando non abbia mezzi "adeguati" e non possa procurarseli per ragioni obiettive. Il parametro dell'adeguatezza ha, tuttavia, carattere intrinsecamente relativo ed impone una valutazione comparativa che entrambi gli orientamenti illustrati traggono al di fuori degli indicatori contenuti nell'incipit della norma, così relegando ad una funzione residuale proprio le caratteristiche dell'assegno di divorzio fondate sui principi di libertà, autoresponsabilità e pari dignità desumibili dai parametri costituzionali sopra illustrati e dalla declinazione di essi effettuata dall'art. 143 c.c..

L'intrinseca relatività del criterio dell'adeguatezza dei mezzi e l'esigenza di pervenire ad un giudizio comparativo desumibile proprio dalla scelta legislativa, non casuale, di questo peculiare parametro inducono ad un'esegesi dell'art. 5, comma 6, diversa da quella degli orientamenti passati. Il fondamento costituzionale dei criteri indicati nell'incipit della norma conduce ad una valutazione concreta ed effettiva dell'adeguatezza dei mezzi e dell'incapacità di procurarseli per ragioni oggettive fondata in primo luogo sulle condizioni economico-patrimoniali delle parti, da accertarsi anche utilizzando i poteri istruttori officiosi attribuiti espressamente al giudice della famiglia a questo specifico scopo. Tale verifica è da collegare causalmente alla valutazione degli altri indicatori contenuti nella prima parte dell'art. 5, comma 6, al fine di accertare se l'eventuale rilevante disparità della situazione economico-patrimoniale degli ex coniugi all'atto dello scioglimento del vincolo sia dipendente dalle scelte di conduzione della vita familiare adottate e condivise in costanza di matrimonio, con il sacrificio delle aspettative professionali e reddituali di una delle parti in funzione dell'assunzione di un ruolo trainante endofamiliare, in relazione alla durata, fattore di cruciale importanza nella valutazione del contributo di ciascun coniuge alla formazione del patrimonio comune e/o del patrimonio dell'altro coniuge, oltre che delle effettive potenzialità professionali e reddituali valutabili alla conclusione della relazione matrimoniale, anche in relazione all'età del coniuge richiedente ed alla conformazione del mercato del lavoro.

Il richiamo all'attualità, avvertito dalla sentenza n. 11504 del 2017, in funzione della valorizzazione dell'autoresponsabilità di ciascuno degli ex coniugi deve, pertanto, dirigersi verso la preminenza della funzione equilibratrice-perequativa dell'assegno di divorzio. Il principio di solidarietà, posto a base del riconoscimento del diritto, impone che l'accertamento relativo all'inadeguatezza dei mezzi ed all'incapacità di procurarseli per ragioni oggettive sia saldamente ancorato alle caratteristiche ed alla ripartizione dei ruoli endofamiliari. L'accertamento del giudice non è conseguenza di un'inesistente ultrattività dell'unione matrimoniale, definitivamente sciolta tanto da determinare una modifica irreversibile degli status personali degli ex coniugi, ma della norma regolatrice del diritto all'assegno, che conferisce rilievo alle scelte ed ai ruoli sulla base dei quali si è impostata la relazione coniugale e la vita familiare. Tale rilievo ha l'esclusiva funzione di accertare se la condizione di squilibrio economico patrimoniale sia da ricondurre eziologicamente alle determinazioni comuni ed ai ruoli endofamiliari, in relazione alla durata del matrimonio e all'età del richiedente. Ove la disparità abbia questa radice causale e sia accertato che lo squilibrio economico patrimoniale conseguente al divorzio derivi dal sacrificio di aspettative professionali e reddituali fondate sull'assunzione di un ruolo consumato esclusivamente o prevalentemente all'interno della famiglia e dal conseguente contribuito fattivo alla formazione del patrimonio comune e a quello dell'altro coniuge, occorre tenere conto di questa caratteristica della vita familiare nella valutazione dell'inadeguatezza dei mezzi e dell'incapacità del coniuge richiedente di procurarseli per ragioni oggettive. Gli indicatori, contenuti nella prima parte dell'art. 5, comma 6, prefigurano una funzione perequativa e riequilibratrice dell'assegno di divorzio che permea il principio di solidarietà posto a base del diritto.

Il giudizio di adeguatezza impone una valutazione composita e comparativa che trova nella prima parte della norma i parametri certi sui quali ancorarsi. La situazione economico-patrimoniale del richiedente costituisce il fondamento della valutazione di adeguatezza che, tuttavia, non va assunta come una premessa meramente fenomenica ed oggettiva, svincolata dalle cause che l'hanno prodotta, dovendo accertarsi se tali cause siano riconducibili agli indicatori delle caratteristiche della unione matrimoniale così come descritti nella prima parte dell'art. 5, comma 6, i quali, infine, assumono rilievo direttamente proporzionale alla durata del matrimonio. Solo mediante una puntuale ricomposizione del profilo soggettivo del richiedente che non trascuri l'incidenza della relazione matrimoniale sulla condizione attuale, la valutazione di adeguatezza può ritenersi effettivamente fondata sul principio di solidarietà che, come illustrato, poggia sul cardine costituzionale fondato della pari dignità dei coniugi. (artt. 2, 3 e 29 Cost.).

Il parametro dell'adeguatezza contiene in sè una funzione equilibratrice e non solo assistenziale-alimentare. Il rilievo del profilo perequativo non si fonda su alcuna suggestione criptoindissolubilista (l'espressione è stata usata nell'ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale che ha dato luogo alla sentenza n. 11 del 2015), ma esclusivamente sul rilievo che tale principio assume nella norma regolativa dell'assegno. La piena ed incondizionata reversibilità del vincolo coniugale non esclude il rilievo pregnante che questa scelta, unita alle determinazioni comuni assunte in ordine alla conduzione della vita familiare, può imprimere sulla costruzione del profilo personale ed economico-patrimoniale dei singoli coniugi, non potendosi trascurare che l'impegno all'interno della famiglia può condurre all'esclusione o limitazione di quello diretto alla costruzione di un percorso professionale-reddituale.

Ne consegue che la funzione assistenziale dell'assegno di divorzio si compone di un contenuto perequativo-compensativo che discende direttamente dalla declinazione costituzionale del principio di solidarietà e che conduce al riconoscimento di un contributo che, partendo dalla comparazione delle condizioni economico-patrimoniali dei due coniugi, deve tener conto non soltanto del raggiungimento di un grado di autonomia economica tale da garantire l'autosufficienza, secondo un parametro astratto ma, in concreto, di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali ed economiche eventualmente sacrificate, in considerazione della durata del matrimonio e dell'età del richiedente. Il giudizio di adeguatezza ha, pertanto, anche un contenuto prognostico riguardante la concreta possibilità di recuperare il pregiudizio professionale ed economico derivante dall'assunzione di un impegno diverso. Sotto questo specifico profilo il fattore età del richiedente è di indubbio rilievo al fine di verificare la concreta possibilità di un adeguato ricollocamento sul mercato del lavoro.

L'eliminazione della rigida distinzione tra criterio attributivo e criteri determinativi dell'assegno di divorzio e la conseguente inclusione, nell'accertamento cui il giudice è tenuto, di tutti gli indicatori contenuti nell'art. 5, comma 6 in posizione equiordinata, consente, in conclusione, senza togliere rilevanza alla comparazione della situazione economico-patrimoniale delle parti, di escludere i rischi d'ingiustificato arricchimento derivanti dalla adozione di tale valutazione comparativa in via prevalente ed esclusiva, ma nello stesso tempo assicura tutela in chiave perequativa alle situazioni, molto frequenti, caratterizzate da una sensibile disparità di condizioni economico-patrimoniali ancorchè non dettate dalla radicale mancanza di autosufficienza economica ma piuttosto da un dislivello reddituale conseguente alle comuni determinazioni assunte dalle parti nella conduzione della vita familiare.

11. IL QUADRO COMPARATISTICO EUROPEO ED EXTRAEUROPEO. La soluzione prospettata è largamente coerente con il quadro della legislazione dei paesi dell'Unione europea. Il confronto, pur non essendo la materia nè di competenza dell'Unione Europea nè oggetto di diversa disciplina convenzionale, non può essere eluso, in considerazione della natura dei diritti in gioco e della composizione del principio solidaristico ad essi sottesi. La comparazione con alcuni ordinamenti europei (in particolare quello francese e tedesco) evidenzia, in particolare, la natura specificamente perequativo-compensativa attribuita all'assegno di divorzio correlata alla previsione della temporaneità dell'obbligo in quanto prevalentemente finalizzato a colmare la disparità economico patrimoniale determinatasi con lo scioglimento del vincolo. Possono, tuttavia, porsi in luce alcuni principi comuni, posti in luce dai lavori svolti dalla Commissione Europea del diritto di famiglia (C.E.F.L.), sorta al fine di armonizzare i principi che regolano il diritto di famiglia in considerazione della competenza del diritto dell'Unione Europea in ordine alla giurisdizione, al riconoscimento ed alla circolazione delle decisioni in materia di scioglimento dell'unione coniugale e responsabilità genitoriale. Si è riscontrata, in particolare, la tendenziale eliminazione del divorzio per colpa che, anche all'interno del nostro ordinamento, trova riscontro nella progressiva riduzione dell'importanza del c.d. criterio risarcitorio fin dall'accertamento dell'addebito in sede di separazione; la natura consensuale del divorzio e la preminenza del principio di autoresponsabilità anche in sede di regolazione dell'assegno le cui caratteristiche sono da cogliere nell'ancoraggio ad un criterio perequativo-assistenziale in funzione di riequilibrio della posizione dell'ex coniuge più svantaggiato (sistema francese); nel favor verso un sistema di riequilibrio economico-patrimoniale realizzato con la ripartizione pregressa delle risorse e del patrimonio familiare cui consegue l'eccezionalità dell'assegno di divorzio (sistema tedesco) ed infine nella temporaneità della disposizione, in quanto finalizzata alla ricomposizione di un quadro di parità economico patrimoniale.

Sia le linee di tendenza comuni che le differenze di regime giuridico sono ispirate dal medesimo obiettivo della pari dignità degli ex coniugi. In questa priorità si coglie l'esclusivo elemento di continuità tra i postulati costituzionali dell'unione matrimoniali e la finalità dell'assegno di divorzio.

La conferma della centralità del principio di uguaglianza effettiva tra i coniugi anche alla luce dell'esame comparatistico delle legislazioni di paesi occidentali trova riscontro effettivo nel VII Protocollo addizionale alla Convenzione Europea dei Diritti Umani, nell'art. 5. Nella norma viene stabilito che: "I coniugi godono dell'uguaglianza di diritti e di responsabilità di carattere civile tra di essi e nelle loro relazioni con i loro figli riguardo al matrimonio, durante il matrimonio e in caso di suo scioglimento. Il presente articolo non impedisce agli Stati di adottare le misure necessarie nell'interesse dei figli".

Il principio è un'evoluzione di quanto già contenuto nell'art. 16 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani proclamata il 10 dicembre 1948. Nell'articolo è indicato che uomini e donne hanno eguali diritti riguardo al matrimonio, durante il matrimonio e all'atto del suo scioglimento.

Emerge, in conclusione, corrispondenza tra la collocazione dell'assegno di divorzio nell'alveo degli artt. 2, 3 e 29 Cost. con la conseguente preminenza della funzione perequativa ad esso attribuibile ed il quadro europeo e convenzionale di riferimento. Gli elementi che appaiono in contrasto con tale quadro, ovvero l'eccezionalità del ricorso all'assegno e la temporaneità dello stesso non scalfiscono la comune provenienza dal principio di parità effettiva.

In particolare la mancanza di temporaneità trova puntuale correttivo nel meccanismo legislativo della revisione delle condizioni della sentenza di divorzio in presenza di fatti sopravvenuti mentre il riconoscimento dell'assegno per importi poco elevati ed in unzione perequativa riguarda una percentuale molto modesta delle controversie in tema di divorzio. L'attenzione deve rivolgersi, al fine di rendere effettiva la funzione perequativa dell'assegno al rigoroso accertamento probatorio dei fatti posti a base della disparità economico-patrimoniale conseguente allo scioglimento del vincolo, dovendo trovare giustificazione causale negli indicatori contenuti nella prima parte dell'art. 5, comma 6 ed in particolare nel contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e, conseguentemente, alla formazione del patrimonio familiare e personale dell'altro coniuge. Di tale contributo la parte richiedente deve fornire la prova con ogni mezzo anche mediante presunzioni. Del superamento della disparità determinata dalle cause sopraindicate, la parte che chiede la riduzione o la eliminazione dell'assegno posto originariamente a suo carico, deve fornire la prova contraria. La sostanziale assenza di preclusioni, salvo l'allegazione di mutamenti di fatto, nel procedimento di revisione, rende reversibile e modificabile sine die la determinazione originaria in ordine all'assegno di divorzio, escludendo anche sotto tale profilo, i rischi della c.d. cripto indissolubilità.

12. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE. Si ritiene utile, prima di procedere alla decisione riguardante il primo motivo di ricorso, fornire un quadro sintetico conclusivo dei principi relativi alla individuazione dei criteri sulla base dei quali può essere riconosciuto il diritto all'assegno di divorzio.

Si deve premettere una considerazione di carattere fattuale. La determinazione e l'attuazione della scelta di sciogliere l'unione matrimoniale, determinano un deterioramento complessivo nelle condizioni di vita del coniuge meno dotato di capacità reddituali, economiche e patrimoniali proprie.

Il legislatore impone di accertare, preliminarmente, l'esistenza e l'entità dello squilibrio determinato dal divorzio mediante l'obbligo della produzione dei documenti fiscali dei redditi delle parti ed il potenziamento dei poteri istruttori officiosi attribuiti al giudice, nonostante la natura prevalentemente disponibile dei diritti in gioco. All'esito di tale preliminare e doveroso accertamento può venire già in evidenza il profilo strettamente assistenziale dell'assegno, qualora una sola delle parti non sia titolare di redditi propri e sia priva di redditi da lavoro. Possono, tuttavia, riscontrarsi più situazioni comparative caratterizzate da una sperequazione nella condizione economico-patrimoniale delle parti, di entità variabile.

In entrambe le ipotesi, in caso di domanda di assegno da parte dell'ex coniuge economicamente debole, il parametro sulla base del quale deve essere fondato l'accertamento del diritto ha natura composita, dovendo l'inadeguatezza dei mezzi o l'incapacità di procurarli per ragioni oggettive essere desunta dalla valutazione, del tutto equiordinata degli indicatori contenuti nella prima parte dell'art. 5, comma 6, in quanto rivelatori della declinazione del principio di solidarietà, posto a base del giudizio relativistico e comparativo di adeguatezza. Pertanto, esclusa la separazione e la graduazione nel rilievo e nella valutazione dei criteri attributivi e determinativi, l'adeguatezza assume un contenuto prevalentemente perequativo-compensativo che non può limitarsi nè a quello strettamente assistenziale nè a quello dettato dal raffronto oggettivo delle condizioni economico patrimoniali delle parti. Solo così viene in luce, in particolare, il valore assiologico, ampiamente sottolineato dalla dottrina, del principio di pari dignità che è alla base del principio solidaristico anche in relazione agli illustrati principi CEDU, dovendo procedersi all'effettiva valutazione del contributo fornito dal coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio comune e alla formazione del profilo economico patrimoniale dell'altra parte, anche in relazione alle potenzialità future. La natura e l'entità del sopraindicato contributo è frutto delle decisioni comuni, adottate in sede di costruzione della comunità familiare, riguardanti i ruoli endofamiliari in relazione all'assolvimento dei doveri indicati nell'art. 143 c.c.. Tali decisioni costituiscono l'espressione tipica dell'autodeterminazione e dell'autoresponsabilità sulla base delle quali si fonda, ex artt. 2 e 29 Cost. la scelta di unirsi e di sciogliersi dal matrimonio.

Alla luce delle considerazioni svolte, ritiene il Collegio che debba essere prescelto un criterio integrato che si fondi sulla concretezza e molteplicità dei modelli familiari attuali. Se si assume come punto di partenza il profilo assistenziale, valorizzando l'elemento testuale dell'adeguatezza dei mezzi e della capacità (incapacità) di procurarseli, questo criterio deve essere calato nel "contesto sociale" del richiedente, un contesto composito formato da condizioni strettamente individuali e da situazioni che sono conseguenza della relazione coniugale, specie se di lunga durata e specie se caratterizzata da uno squilibrio nella realizzazione personale e professionale fuori nel nucleo familiare. Lo scioglimento del vincolo incide sullo status ma non cancella tutti gli effetti e le conseguenze delle scelte e delle modalità di realizzazione della vita familiare. Il profilo assistenziale deve, pertanto, essere contestualizzato con riferimento alla situazione effettiva nella quale s'inserisce la fase di vita post matrimoniale, in particolare in chiave perequativa-compensativa. Il criterio attributivo e quello determinativo, non sono più in netta separazione ma si coniugano nel cd. criterio assistenziale-compensativo.

L'elemento contributivo-compensativo si coniuga senza difficoltà a quello assistenziale perchè entrambi sono finalizzati a ristabilire una situazione di equilibrio che con lo scioglimento del vincolo era venuta a mancare. Il nuovo testo dell'art. 5 non preclude la formulazione di un giudizio di adeguatezza anche in relazione alle legittime aspettative reddituali conseguenti al contributo personale ed economico fornito da ciascun coniuge alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno ed a quello comune. L'adeguatezza dei mezzi deve, pertanto, essere valutata, non solo in relazione alla loro mancanza o insufficienza oggettiva ma anche in relazione a quel che si è contribuito a realizzare in funzione della vita familiare e che, sciolto il vincolo, produrrebbe effetti vantaggiosi unilateralmente per una sola parte. Il superamento della distinzione tra criterio attributivo e criteri determinativi dell'assegno di divorzio non determina, infine, un incremento ingiustificato della discrezionalità del giudice di merito, perchè tale superamento non comporta la facoltà di fondare il riconoscimento del diritto soltanto su uno degli indicatori contenuti nell'incipit dell'art. 5, comma 6 essendone necessaria una valutazione integrata, incentrata sull'aspetto perequativo-compensativo, fondata sulla comparazione effettiva delle condizioni economico-patrimoniali alla luce delle cause che hanno determinato la situazione attuale di disparità. Inoltre è necessario procedere ad un accertamento probatorio rigoroso del rilievo causale degli indicatori sopraindicati sulla sperequazione determinatasi, ed, infine, la funzione equilibratrice dell'assegno, deve ribadirsi, non è finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale ma soltanto al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall'ex coniuge economicamente più debole alla realizzazione della situazione comparativa attuale.

In conclusione, alla pluralità di modelli familiari consegue una molteplicità di situazioni personali conseguenti allo scioglimento del vincolo. Il criterio individuato proprio per la sua natura composita ha l'elasticità necessaria per adeguarsi alle fattispecie concrete perchè, a differenza di quelli che si sono in precedenza esaminati non ha quelle caratteristiche di generalità ed astrattezza variamente criticate in dottrina.

13. ACCOGLIMENTO DEL PRIMO MOTIVO E PRINCIPIO DI DIRITTO. Alla luce delle considerazioni svolte, deve essere accolto il primo motivo di ricorso. La sentenza impugnata si è fondata esclusivamente sul criterio dell'autosufficienza economica, escludendo dalla propria indagine l'accertamento dell'eventuale incidenza degli indicatori concorrenti contenuti nella L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, ed in particolare quello relativo al contributo fornito dalla richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla conseguente formazione del patrimonio comune e personale dell'altro ex coniuge. Al riguardo nel ricorso alle pagine 14 e 15 viene sottolineato l'omesso esame di tale criterio, unitamente a tutti quelli non riconducibili al profilo strettamente assistenziale dell'autosufficienza economica. Limitatamente a tale specifica violazione dell'art. 5, comma 6, pertanto, il motivo deve essere accolto essendo necessario integrare alla luce delle allegazioni fattuali della parte ricorrente ed in relazione alla comparazione della situazione economico patrimoniale delle parti e della intervenuta suddivisione del patrimonio familiare, se possa riconoscersi il diritto all'assegno diverso in funzione specificamente perequativo-compensativa, così come prospettato in ricorso. L'accoglimento del primo motivo determina l'assorbimento del secondo. Alla cassazione della sentenza impugnata consegue il rinvio alla Corte d'Appello di Bologna che dovrà attenersi al seguente principio di diritto:

"Ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, dopo le modifiche introdotte con la L. n. 74 del 1987, il riconoscimento dell'assegno di divorzio, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, richiede l'accertamento dell'inadeguatezza dei mezzi o comunque dell'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, attraverso l'applicazione dei criteri di cui alla prima parte della norma i quali costituiscono il parametro di cui si deve tenere conto per la relativa attribuzione e determinazione, ed in particolare, alla luce della valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e all'età dell'avente diritto".

P.Q.M.

Accoglie il primo motivo di ricorso nei limiti di cui in motivazione. Dichiara assorbito il secondo. Cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese processuali del presente giudizio alla Corte d'Appello di Bologna in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 10 aprile 2018.

Depositato in Cancelleria il 11 luglio 2018

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Responsabilità medica: l'onere della prova.

Nei giudizi di responsabilità medica che rientrano nell'ambito della responsabilità contrattuale è il paziente che deve dimostrare il nesso di causalità tra la condotta del medico e il danno del quale chiede il risarcimento. Se tale nesso, all'esito dell'istruttoria, non risulta provato e la causa del danno lamentato rimane quindi incerta, la domanda risarcitoria deve essere rigettata.

Infatti, con l'ordinanza numero 19204/2018, la Corte di Cassazione ha ribadito che l'articolo 1218 c.c. non esonera il creditore dell'obbligazione che si assume non essere stata adempiuta dall'onere di dimostrare che tra la condotta del debitore e il danno del quale si chiede il risarcimento sussista una nesso di causalità. Tale soggetto è infatti sollevato solo dall'obbligo di provare la colpa del debitore.

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Stalking virtuale

Corte di Cassazione, V Sez. Pen., sent. n. 21693/2018.

È legittima l'applicazione della misura cautelare del divieto di avvicinamento nei confronti dell'ex marito, indagato per stalking nei confronti della moglie: a fondare il provvedimento sono i suoi minacciosi e insistenti messaggi inviati alla donna sul cellulare e sui social, divenuti ancora più asfissianti dopo la separazione e la scoperta della nuova relazione di lei con un altro.

Ininfluente, sotto il profilo degli indizi ex art. 273 c.p.p., il fatto che le minacce siano rimaste puramente "virtuali" senza mai concretizzarsi in reati ulteriori.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, quinta sezione penale, nella sentenza n. 21693/2018 riguardante l'Ordinanza, confermata dal Tribunale del Riesame, con cui il G.I.P. aveva applicato all'ex marito la misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla moglie.

Il provvedimento era conseguenza dell'imputazione provvisoria di atti persecutori del ricorrente nei confronti della donna, reiteratamente minacciata e molestata con continue e asfissianti comunicazioni avvenute a mezzo telefono, Facebook e Whatsapp che le avevano cagionato un perdurante stato di ansia e paura.

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Decadenza dalla responsabilità genitoriale quale provvedimento a tutela del minore.

Con ordinanza n. 15949 del 18 giugno 2018, la Prima Sezione civile della Corte di Cassazione  ha statuito che la decadenza dalla responsabilità genitoriale costituisce un provvedimento non a scopo sanzionatorio, ma a tutela del minore e finalizzato a scongiurare ulteriori condotte pregiudizievoli da parte del genitore. Pertanto, nel caso di specie, la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso e ha confermato la sentenza della Corte di Appello che riteneva che il trasferimento per motivi lavorativi di una madre separata con il figlio in un luogo diverso da dove risiedeva il padre, non integrasse una condotta idonea a far dichiarare la decadenza della stessa madre dalla responsabilità genitoriale.

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Il genitore non convivente paga metà delle spese extra anche se non è stato avvisato dall'altro genitore.

Le spese straordinarie per i figli a carico dovrebbero sempre essere concertate tra gli ex coniugi prima dell’esborso. Tuttavia, anche quando ciò non avviene, e quindi il genitore “collocatorio” procede direttamente alla spesa senza chiedere il permesso all’altro, questo ha diritto a ottenere il rimborso del 50% se la predetta spesa è stata sostenuta nell’interesse del minore ed era necessaria. È questo l’indirizzo oramai consolidatosi all’interno della giurisprudenza e ribadito anche dalla Cassazione con una recente sentenza (Cass. sent. n. 4753/17 del 23.02.2017).

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Cassazione: obbligo al mantenimento e agli alimenti in capo agli ascendenti.

L‘obbligo di mantenimento dei figli minori spetta primariamente e integralmente ai loro genitori per cui, se uno dei due non possa o non voglia adempiere al proprio dovere, l’altro, nel preminente interesse dei figli, deve far fronte per intero alle loro esigenze con tutte le sue sostanze patrimoniali e sfruttando tutta la propria capacità di lavoro, salva la possibilità di convenire in giudizio l’inadempiente per ottenere un contributo proporzionale alle condizioni economiche globali di cosmi.

Dunque, l’obbligo degli ascendenti di fornire ai genitori i mezzi necessari affinché possano adempiere i loro doveri nei confronti dei figli va inteso non solo nel senso che l’obbligazione degli ascendenti è subordinata e, quindi, sussidiaria rispetto a quella dei genitori, ma anche nel senso che agli ascendenti non ci si possa rivolgere per un aiuto economico per il solo fatto che uno dei due genitori non dia il proprio contributo al mantenimento dei figli, se l’altro genitore è in grado di mantenerli.

Similarmente, il diritto agli alimenti (di cui all’articolo 433 c.c.), legato alla prova dello stato di bisogno e dell’impossibilità di reperire attività lavorativa, sorge solo qualora i genitori non siano in grado di adempiere al loro diretto e personale obbligo (Cass. 20509/2010).

(Cassazione civile, sez. VI, 2 maggio 2018, Est. De Chiara)

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Corte di Giustizia UE: la nozione di coniuge comprende anche i coniugi omosessuali.

Con la “sentenza Coman e altri” del 5 giugno 2018 (C-673/16), la Corte di Giustizia UE si è pronunciata per la prima volta sulla nozione di «coniuge» ai sensi della direttiva 2004/38 nel contesto di un matrimonio concluso tra due uomini: secondo gli eurogiudici, la nozione di «coniuge» dettata dal diritto UE sulla libertà di soggiorno dei cittadini europei e dei loro familiari comprende i coniugi dello stesso sesso. 

Nell'occasione la Corte di Giustizia ha da un lato riconosciuto la facoltà degli Stati membri di autorizzare o meno il matrimonio omosessuale, ma dall'altro lato ha precisato che tale discrezionalità non può arrivare sino ad ostacolare la libertà di soggiorno di un cittadino UE rifiutando di concedere al suo coniuge dello stesso sesso (cittadino di un Paese extra-UE) un diritto di soggiorno derivato sul loro territorio.


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L'Europa riconosce il diritto di visita in capo ai nonni.

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La ricerca di relazioni extraconiugali tramite internet giustifica l'abbandono del tetto coniugale.

L'abbandono del tetto coniugale è giustificato dalla violazione degli obblighi di fedeltà da parte del marito, intento alla ricerca di relazioni extraconiugali tramite internet. Ciò costituisce una circostanza oggettivamente idonea a compromettere la fiducia tra i coniugi e a provocare l'insorgere della crisi matrimoniale all'origine della separazione.

(Cass. civ., sez. I, ord. 16 aprile 2018, n. 9384).



REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GIANCOLA Maria Cristina - Presidente -
Dott. BISOGNI Giacinto - Consigliere -
Dott. DE CHIARA Carlo - Consigliere -
Dott. TRICOMI Laura - rel. Consigliere -
Dott. NAZZICONE Loredana - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

B.P. ricorre con quattro motivi per la cassazione della sentenza della Corte di appello di Bologna, in epigrafe indicata, che aveva confermato la prima decisione in controversia concernente la separazione giudiziale da X.Y.: in primo grado, respinta la domanda di addebito a carico della moglie, il marito era stato onerato di un contributo al di lei mantenimento di Euro 600,00 mensili.
X.Y., provvisoriamente ammessa al patrocinio a spese dello Stato, replica con controricorso.
Il ricorso è stato fissato per l'adunanza in Camera di consiglio ai sensi dell'art. 375 c.p.c., u.c. e art. 380 bis c.p.c., comma 1.

che:
1.1. Primo motivo - Violazione e falsa applicazione dell'art. 151 c.c., comma 2 (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).
A parere del ricorrente la Corte di appello ha errato nell'escludere la pronuncia di addebito della separazione a carico della moglie per violazione dei doveri di assistenza materiale e di collaborazione dell'interesse della famiglia, sulla ritenuta "assenza di allegazione e prova di un accordo tra essi in ordine alla gestione del menage familiare da parte della sola moglie", in quanto - a suo dire - il dovere di accudimento non presuppone un accordo, ma consegue agli obblighi nascenti dal matrimonio.
1.2. Il motivo è inammissibile in quanto non coglie la ratio decidendi in rito, espressa dalla Corte di appello circa la mancanza di specificità del motivo di appello redatto in violazione dell'art. 342 c.p.c., rispetto alla statuizione di primo grado.
2.1. Secondo motivo - Omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) individuato negli esiti delle investigazioni private dalle quali sarebbe emerso che la moglie aveva preso in affitto altri appartamenti, all'insaputa del marito, ove si sarebbe recata quotidianamente.
2.2. Terzo motivo - Violazione e falsa applicazione dell'art. 151 c.c. e art. 143 c.c., comma 2 (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3); erronea valutazione dell'obbligo di coabitazione.
Il ricorrente si duole che la Corte di appello abbia ritenuto giustificato l'allontanamento della moglie dalla casa coniugale senza preavviso esclusivamente per la scoperta di un interesse del marito alla ricerca di compagnie femminili sul Web: sostiene che tale circostanza non era sufficiente a provare che l'allontanamento fosse dipeso esclusivamente da ciò, in assenza di pregresse tensioni tra i coniugi.
2.3. Sul piano logico/giuridico l'esame del terzo motivo deve precedere quello del secondo.
2.4. Il terzo motivo è inammissibile perchè la Corte di appello ha escluso la violazione dell'obbligo di coabitazione ravvisando una violazione degli obblighi di fedeltà ex art. 143 c.c., da parte del marito, intento alla ricerca di relazioni extraconiugali tramite internet, ritenendo ciò "circostanza oggettivamente idonea a compromettere la fiducia tra i coniugi e a provocare l'insorgere della crisi matrimoniale all'origine della separazione" (fol. 6 della sent.): su tale statuizione, non oggetto di impugnazione in quanto il ricorrente si è limitato a minimizzare la sua condotta, si è formato un giudicato interno incompatibile con la pronuncia di addebito per abbandono del tetto coniugale perchè questo è stato ritenuto giustificato, dalla Corte territoriale, proprio dalla violazione degli obblighi di fedeltà.
2.5. All'inammissibilità del terzo motivo consegue l'assorbimento del secondo motivo che, oltre ad essere carente sul piano dell'autosufficienza in ordine al momento in cui tali circostanze dedotte, peraltro, in modo generico - siano state introdotte nel giudizio, risulta privo di decisività, sia per il contenuto intrinseco che attiene al libero esercizio del diritto di circolazione della moglie -, sia perchè - come già chiarito - l'abbandono della casa coniugale è stato considerato, con statuizione non impugnata, come conseguenza della violazione dell'obbligo di fedeltà da parte del marito.
3.1. Quarto motivo - Violazione e falsa applicazione dell'art. 156 c.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).
Il ricorrente si duole che la Corte di appello nel determinare l'assegno di mantenimento per la moglie nella somma di Euro 600,00, oltre ISTAT, non abbia tenuto conto della breve durata del matrimonio (nemmeno un anno, così in ricorso, fol. 11); si duole altresì che sia stata considerato solo l'ammontare della pensione dallo stesso percepita di Euro 3.000,00 e non anche la circostanza ammessa dalla stessa moglie di svolgere lavori in nero, la proprietà da parte di questa di automobili di grossa cilindrata, nonchè la nuda proprietà di quote di immobili, oltre che l'intera proprietà dell'immobile ed altre potenzialità economiche a lei favorevoli, che il ricorrente illustra senza precisare se e quando siano state sottoposte al giudice del merito, così violando l'onere di autosufficienza.
Il motivo è inammissibile anche in quanto non coglie la ratio decidendi fondata, quanto al profilo della durata del matrimonio, sulla inconferenza di tale criterio - in quanto proprio dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio - rispetto al riconoscimento del diritto all'assegno ex art. 156 c.c.; quanto al profilo delle possidenze immobiliari della moglie, sulla mancanza di specificità del motivo di appello in violazione dell'art. 342 c.p.c., tenuto conto dello stato di disoccupazione della stessa. La doglianza è inoltre volta ad ottenere una inammissibile rivalutazione del merito.
4.1. Conclusivamente, il ricorso va dichiarato inammissibile.
B.P., in ragione della soccombenza, è tenuto alla refusione delle spese del ricorso.
Posto che il difensore della controricorrente ha allegato che l'assistita è stata provvisoriamente ammessa al patrocinio a spese dello Stato, va statuito ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 133, l'obbligo del soccombente di versare all'Amministrazione Finanziaria dello Stato le spese sostenute dalla parte vittoriosa nel giudizio di legittimità.
Non compete a questa Corte adottare alcun provvedimento di liquidazione, alla stregua della corretta lettura degli artt. 82 e 83 del citato D.P.R., data dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. nn. 22616/2004 - 16986/2006 - 13760/2007 - 11028/2009 - 23007/2010 - Sez. U. n. 22792/2012), tal liquidazione spettando al giudice del merito che ha emesso la pronuncia passata in giudicato per effetto della presente sentenza.
Si dà atto, - ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Va disposto che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52.

P.Q.M.
- Dichiara inammissibile il ricorso;
- Condanna il ricorrente a corrispondere le spese del giudizio di legittimità all'Amministrazione Finanziaria dello Stato;
- Dà atto, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis;
- Dispone che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.
Così deciso in Roma, il 22 marzo 2018.
Depositato in Cancelleria il 16 aprile 2018.

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Sull'ammissibilità dei trasferimenti immobiliari nell'ambito dei procedimenti di separazione e divorzio.

Verbale della riunione del 21 dicembre 2017 Art. 47 quater dell'Ordinamento Giudiziario capo IV punto 35.1 della circolare sulla formazione delle tabelle.


Il giorno 21 dicembre 2017 alle ore 16.00 sono presenti il Presidente di Sezione, Dott. Francesco Mazza Galanti e i giudici Laura Casale, Manuela Casella, Laura Cresta, Maria Antonia Di Lazzaro (estensore del presente verbale), Domenico Pellegrini, Marina Pugliese, Paolo Viarengo.

La Sezione, che già in occasione delle riunioni tenute il 19 ottobre, il 14 e il 18 dicembre aveva approfondito la problematica riguardante la ammissibilità dei trasferimenti immobiliari nell'ambito dei procedimenti di separazione e divorzio, nonché nei procedimenti camerali in materia di mantenimento dei figli nati fuori dal matrimonio, ritiene di dover confermare il mutato orientamento giurisprudenziale maturato nel corso delle menzionate riunioni, nel senso di precludere detti trasferimenti per le seguenti considerazioni:
- non vi è la possibilità di individuare un soggetto che sia tenuto ad effettuare i controlli che, negli atti tra vivi, è chiamato ad eseguire il notaio: il legislatore, infatti (cfr. art. 29 comma 1 bis della legge 52/1985 aggiunto dal D.L. n. 78/2010, convertito nella Legge n. 122/2010) ha espressamente assegnato al notaio il compito della individuazione e della verifica catastale, nella fase di stesura degli atti traslativi; - il provvedimento giurisdizionale avente ad oggetto il trasferimento del diritto reale, non può essere equiparato all'atto pubblico redatto da un notaio ai sensi della legge notarile;
- possono configurarsi elusioni al regime fiscale per il differente regime di tassazione degli atti pubblici rispetto agli importi dovuti a titolo di contributo unificato;
- l'obbligo del Cancelliere di curare la trascrizione deriva dal una norma fiscale (art. 6 TU imposte ipotecarie e catastali) che, se violata, determina una sanzione di tipo pecuniario e non la responsabilità prevista dall'art. 2671 c.c.;
- non vi è alcuna disposizione che attribuisca al magistrato che sottoscrive il verbale avente ad oggetto un trasferimento immobiliare tra coniugi la prerogativa ed il potere di accertare l'identità delle parti, la relativa legittimazione a disporre, né di adeguare le dichiarazioni dei coniugi alla normativa vigente , né di accertare la effettiva titolarità del bene e della sua libertà da ipoteche, vincoli, oneri o trascrizioni pregiudizievoli (cfr. obbligo di visure) ovvero della sua conformità catastale: il magistrato, infatti, non è pubblico ufficiale con poteri certificativi e/o roganti;
- nei casi di trasferimenti immobiliari in favore dei figli si pone il problema della legittimità di un loro eventuale intervento nei giudizi di separazione e/o divorzio tra coniugi;
- non vi è alcuna disposizione che attribuisca al magistrato che sottoscrive il verbale avente ad oggetto un trasferimento immobiliare tra coniugi la prerogativa ed il potere di effettuare il controllo di legalità, come invece espressamente stabilito con riferimento al notaio dall'art. 28 l. notarile.

La Sezione stabilisce la data del 31 dicembre 2017 quale termine ultimo per consentire detti trasferimenti (da intendersi quale data di deposito del ricorso), previa pubblicizzazione del presente verbale che potrà essere citato dai giudici nei rispettivi provvedimenti, recependo così la nuova giurisprudenza della Sezione stessa.

Il Segretario Il Presidente della Sezione 
Dott.ssa Maria Antonia Di Lazzaro Dott. Francesco Mazza Galanti

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Il procuratore generale della Cassazione Marcello Matera ritiene che occorre tornare a valutare il tenore di vita per il calcolo dell’assegno di divorzio"

Nuovo cambio di rotta della Corte di Cassazione; il procuratore generale Marcello Matera ha dichiarato che bisogna tornare a valutare il tenore di vita per il calcolo dell’assegno di divorzio, non considerando quindi esclusivamente l’autosufficienza economica come previsto dal verdetto Grilli.

Secondo il pg della Cassazione, quindi, il tenore di vita va ancora considerato dal momento che “ogni singolo giudizio richiede una valutazione delle peculiarità del caso concreto”. Il tenore di vita quindi non si può escludere a priori altrimenti si rischia di “favorire una giustizia di classe”.

Ascoltando queste parole quindi si potrebbe pensare che la sentenza Grilli non ha apportato alcun cambiamento, ma non è proprio così. Secondo Matera, infatti, è giusto che venga preso come parametro di riferimento l’autosufficienza del coniuge debole, ma allo stesso tempo bisogna tener conto anche di altri criteri stabiliti dalla legge per definire l’importo dell’assegno divorzile, quali appunto “la durata del matrimonio, l’apporto del coniuge al patrimonio familiare, il tenore di vita durante il matrimonio”.

 

"La premessa è che ogni singolo giudizio richiede necessariamente la valutazione delle peculiarità del caso concreto perché l'adozione di un unico principio di giudizio, come quello stabilito dalla sentenza 'Grilli' corre il rischio di favorire una sorta di giustizia di classe". Lo ha sottolineato il pg della Cassazione, Marcello Matera, nella sua requisitoria davanti alle sezioni unite che discutono della 'messa in soffitta' del criterio del tenore di vita dopo il verdetto 'Grilli' del maggio 2017. "Si può anche convenire sul fatto che il criterio dell'autosufficienza - ha proseguito Matera - può essere preso come parametro di riferimento, ma non si può escludere di rapportarsi anche agli altri criteri stabiliti dalla legge quali la durata del matrimonio, l'apporto del coniuge al patrimonio familiare, il tenore di vita durante il matrimonio".

 

"Per due volte la prima sezione civile non ha accolto la richiesta di trasmettere gli atti alle unite, sostenendo che l'orientamento sul tenore di vita non fosse più attuale, dopo 27 anni. Invece vi erano evidenti motivazioni - ha rilevato - perché le sezioni unite si pronunciassero, anche alla luce delle ricadute di una questione del genere su un rilevante numero di persone".

 

Nella requisitoria tenuta dal sostituto procuratore della Corte di cassazione, Marcello Matera, lo stesso ha invitato alla moderazione e a continuare a considerare, accanto al criterio dell’autosufficienza, anche il parametro del tenore di vita goduto durante il matrimonio, insieme agli altri criteri stabiliti dalla legge quali la durata del matrimonio, l’apporto del coniuge al patrimonio familiare.

In ogni caso – ha affermato – è necessario che, per ogni singolo giudizio, si proceda ad una valutazione delle peculiarità del caso concreto “perché l’adozione di un unico principio di giudizio, come quello stabilito dalla sentenza Grilli corre il rischio di favorire una sorta di giustizia di classe”.

Va bene il criterio dell’autosufficienza, ma non solo questo. «Non si può escludere di rapportarsi anche agli altri criteri stabiliti dalla legge quali la durata del matrimonio, l’apporto del coniuge al patrimonio familiare, il tenore di vita» ha aggiunto il procuratore generale della Cassazione.

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Spese condominiali: solidarietà dell'usufruttuario con il nudo proprietario.

Con la Sentenza n. 843/2018, il Tribunale di Milano, nel decidere sulle opposizioni a un decreto ingiuntivo proposte dal nudo proprietario e dalla titolare del diritto di abitazione avverso un decreto ingiuntivo che li condannava in via tra loro solidale al pagamento delle spese condominiali, ha affrontato alcune problematiche interpretative relative all'art. 67 delle Disposizioni di Attuazione del Codice Civile.

In primo luogo, il Giudice ha affrontato la questione dell'ambito di applicazione della norma sotto il profilo soggettivo, chiarendo che la stessa si applica anche ai titolari dei diritti d'uso e di abitazione. In secondo luogo, affrontando il problema dell'individuazione delle spese per le quali opera il vincolo di solidarietà, il Tribunale di Milano ha chiarito che non può essere fatta alcuna distinzione tra spese ordinarie e straordinarie e - pertanto - il vincolo solidale riguarda entrambi i tipi di spesa.

Il Tribunale, toccando anche la questione dell'ambito di applicazione della norma nel tempo, ha poi confermato che il vincolo sussiste solo per le obbligazioni sorte dopo l'entrata in vigore della norma (irretroattività).

Da ultimo, è stato precisato che il mancato esercizio del diritto di abitazione - non accompagnato da una formale rinuncia - non comporta l'esclusione dell'obbligo di pagamento dei contributi condominiali.

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Tribunale di Milano: Nuove Tabelle 2018 e criteri per la liquidazione del danno terminale e di quelli da premorienza, da diffamazione a mezzo stampa e da abuso del processo.

Nel mese di marzo 2018, il Tribunale di Milano ha pubblicato la versione aggiornata e rivista delle proprie tabelle sul danno biologico e, per la prima volta, ha indicato i criteri per la liquidazione del danno terminale e di quelli da premorienza, da diffamazione a mezzo stampa e da abuso del processo.

Il danno terminale è quello patito da chi muore solo a distanza di tempo dalle lesioni che riporta e per il quale è previsto un risarcimento con valori diversi in base alla durata della sofferenza terminale (da 1 a tre giorni e oltre 3 giorni fino a un massimo di 100).

Per il danno da premorienzadetto anche danno biologico "intermittente", è stato proposto  un criterio di liquidazione basato sul risarcimento medio annuale per ciascuna percentuale invalidante, anch'esso basato sulle tabelle milanesi, rapportato all'aspettativa di vita media con la possibilità di un'ulteriore personalizzazione fino al 50%. 

Per quanto riguarda il danno da diffamazione a mezzo stampa e assimilati, sono state individuate 5 tipologie di diffamazione in base alla gravità del reato (tenue, modesta, media, elevata ed eccezionale), determinata in base ad alcuni parametri come la notorietà del diffamante, mezzo e collocazione dell'articolo, risonanza mediatica, reiterazione, ecc.

Infine, per il danno da abuso del processo (mala fede o colpa grave della controparte in una causa civile), si è stabilita una liquidazione pari all'importo del compenso del difensore riducibile e aumentabile del 50% in base alla gravità dell'abuso.

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La negoziazione assistita contrasta con le norme UE

Il Tribunale di Verona, con ordinanza del 27 febbraio 2018, ha dichiarato che la negoziazione assistita va disapplicata perché in contrasto con la normativa europea.

Ritiene il Tribunale che la condizione di procedibilità per determinate cause – quelle relative al recupero crediti fino a 50 mila euro, il risarcimento da incidenti stradali e i contratti di autotrasporto – contrasta con la carta dei diritti fondamentali dell’unione europea. Quest’ultima, in un articolo dedicato al «Diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale» stabilisce infatti che «Ogni persona i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto dell’Unione siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice, nel rispetto delle condizioni previste nel presente articolo.

Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge. Ogni persona ha la facoltà di farsi consigliare, difendere e rappresentare.

A coloro che non dispongono di mezzi sufficienti è concesso il patrocinio a spese dello Stato, qualora ciò sia necessario per assicurare un accesso effettivo alla giustizia».

Non c’è quindi improcedibilità se l’avvocato presenta la domanda giudiziale senza prima esperire la negoziazione assistita obbligatoria. Tra i requisiti richiesti affinché i mezzi di risoluzione alternativa delle liti (cosiddetti ADR) possano essere considerati legittimi vi è l’economicità della procedura, che deve essere gratuita o almeno non generare costi ingenti. Cosa che non succede – secondo la decisione in commento – nel caso della negoziazione assistita non potendo quest’ultima prescindere dall’intervento di un difensore.

Ed era proprio sulla necessaria presenza dell’avvocato – imposta dalla legislazione italiana – che si era già pronunciata la scorsa estate la Corte di Giustizia dell’Ue con riferimento alla mediazione obbligatoria, stabilendo che la stessa, benché condizione preliminare necessaria per adire il giudice, potesse essere intrapresa dal cittadino autonomamente, senza assistenza legale. Simile discorso viene ora riproposto per la negoziazione assistita (ovviamente solo quando obbligatoria): l’assistenza legale infatti «comporta dei costi non contenuti per le parti», visti i criteri attuali di determinazione del compenso di avvocato. Né la questione sarà risolta dal nuovo decreto sui parametri in fase di pubblicazione. Non rileva neanche la possibilità di recuperare i costi dalla parte vittoriosa nel successivo giudizio, perché questi esiti sono incerti. La pronuncia accenna infine alla differenza con le regole per determinare il compenso per i mediatori, regole rivolte a contenere i costi e pertanto compatibili con i principi comunitari.

 

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Trust e fondo patrimoniale: quali differenze?

Il fondo patrimoniale è un istituto tipico del diritto di famiglia – disciplinato da norme di legge inderogabili – che ha come scopo specifico quello di vincolare determinati beni (immobili, mobili registrati, titoli di credito) al soddisfacimento dei bisogni familiari (art. 167 c.c.).

Il trust, invece, è un istituto mutuato dal sistema di common law, avente struttura e funzione atipica, che può adattarsi a varie esigenze, tra cui quelle inerenti ai bisogni della famiglia. Esso dà vita ad un mero rapporto obbligatorio, la validità del quale dipende dalla possibilità e liceità degli interessi perseguiti dal disponente e non dall’osservanza delle norme che disciplinano il fondo patrimoniale, che, altrimenti, finirebbero per svuotare di ogni utilità giuridica l’istituto in questione.

Parte della giurisprudenza ritiene che ove lo schema negoziale del trust venga utilizzato per regolare rapporti familiari, questo debba risultare aderente e sovrapponibile alla disciplina del fondo patrimoniale. In tal modo, viene esclusa la possibilità di ricorrere all’istituto anglosassone ogni qualvolta sia astrattamente utilizzabile il fondo patrimoniale. Una tale impostazione, però, è stata rifiutata da altra giurisprudenza, che chiamata a pronunciarsi sul tema, ha affermato che i due istituti possono, nell’ambito della famiglia fondata sul matrimonio, concorrere o succedersi al fine di garantire, con maggiore efficacia, il soddisfacimento dei bisogni dei figli minorenni. Una sentenza di qualche anno fa - per superare il limite di durata del fondo patrimoniale, connesso all’esistenza stessa del matrimonio - aveva autorizzato la sua conversione in trust, ritenendo quest’ultimo lo strumento più idoneo per la tutela degli interessi dei beneficiari minorenni, in caso di patologia del rapporto coniugale, ma anche in vista del decesso di uno dei due coniugi.

L’affinità ravvisabile tra fondo patrimoniale e trust risiede unicamente nell’effetto segregativo: la separazione patrimoniale è effetto centrale e indefettibile di entrambi gli istituti. Appartiene, invece, unicamente al trust il c.d. affidamento. Il disponente trasferisce al trustee la posizione soggettiva “segregata”, di cui quest’ultimo diviene titolare esclusivo, pur rimanendo obbligato verso i beneficiari, unici titolari di azioni di responsabilità contro il trustee inadempiente. La segregazione conseguente al trust è specchio della priorità giuridica dell’interesse dei beneficiari: il trustee riceve i beni dal disponente, divenendone titolare, ma da questi non può trarre alcun profitto. Egli si occuperà unicamente della gestione del patrimonio segregato per poi trasferirlo al beneficiario della disposizione fiduciaria. La causa del negozio istitutivo del trust consiste, dunque, nella segregazione di posizioni soggettive per la realizzazione del compito affidato al trustee. Il negozio dispositivo, invece, ha come causa tipica l’attuazione del programma segregativo. A differenza del trust, ove i beneficiari sono individuati espressamente dall’atto istitutivo, nel fondo patrimoniale non è dato individuare dei “beneficiari” in senso tecnico. I figli non possono agire contro i genitori che destinino i frutti a finalità estranee ai bisogni della famiglia, né tantomeno i coniugi, ai quali è affidata l’amministrazione dei beni, sono considerati “fiduciari”. Questi ultimi sono titolari sia della posizione gestoria che di quella dominicale e, pertanto, possono amministrare e disporre discrezionalmente dei beni del fondo. Il fondo patrimoniale è, quindi, “vulnerabile” nei confronti dei coniugi, non soltanto per quanto concerne la gestione dei beni che ne sono oggetto, ma altresì con riferimento alla sua durata. Le  cause di estinzione coincidono, infatti, ai sensi dell’art. 171 c.c., con il termine patologico o fisiologico del matrimonio. Solo se vi sono figli minori, la durata del fondo si protrae fino al compimento della maggiore età dell’ultimo figlio. L’atto istitutivo del trust potrebbe, invece, prevedere una durata che prescinda dalle vicende di cui all’art. 171 c.c., garantendo ai familiari una tutela costante nel corso del tempo.

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Il tenore di vita è condizione che permane per i figli

La Corte di cassazione con l'ordinanza n. 3922 della Sesta sezione civile depositata in data 19.2.2018 precisa che il  tenore di vita pur non essendo più una condizione da assicurare all'ex moglie in caso di separazione, persiste come diritto dei figli, nei limiti delle possibilità dei genitori.

Nella determinazione del contributo per il mantenimento dei figli la Suprema Corte ha sottolineato la necessità di tener conto di una pluralità di fattori diversi da quelli legati al semplice sostentamento. 

Vanno cioè tenuti presente anche esigenze relative all'abitazione, alla scuola, allo sport all'ambito sanitario e sociale “con la precisazione che i figli hanno il diritto di mantenere il tenore di vita loro consentito dai proventi e dalle disponibilità concrete di entrambi i genitori”, quelle condizioni cioè nelle quali i figli avrebbero vissuto se l'unione dei genitori non si fosse interrotta.

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No al mantenimento se rapporto non è qualificabile come affectio coniugalis.

No assegno di mantenimento per separazione se matrimonio concordato e fondato su reciproci interessi economici

La Corte di Cassazione, sesta sezione civile, con ordinanza n. 402/2018 ha respinto quanto richiesto dalla ex moglie per l’attribuzione dell’assegno di mantenimento.

I primi due gradi avevano già respinto la richiesta di mantenimento avanzata dalla donna a seguito della separazione dal marito. I giudici rilevavano infatti l’eccessiva brevità del rapporto coniugale.

Le parti, nello svolgimento dei procedimenti, si erano accusate reciprocamente di aver concordato il matrimonio per motivazioni differenti ed altre rispetto all’effettiva unione, nello specifico lui – alto ufficiale dell’esercito USA avrebbe beneficiato di gratifiche economiche conseguenti al matrimonio e lei avrebbe ricevuto assegni pos-datati più un ammontare di contante per 110.000,00 euro.

La Cassazione ha evidenziato come si tratti di una questione “eccezionale”: il rapporto non ha maturato una stabilità tale da essere qualificabile come affectio coniugalis.

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Split Payment

Lo split payment è il meccanismo che prevede nuove regole alla liquidazione dell’IVA da parte della Pubblica Amministrazione.

 

È un sistema introdotto dalla Legge di Stabilità 2015, ampliato dal DL 50/2017 e verrà modificato con la nuova Legge di Bilancio 2018.

L’art.1 della sopraindicata Legge di Stabilità 2015 prevede, per le pubbliche amministrazioni che acquistano beni e servizi, qualora non siano soggetti passivi dell’IVA, di versare direttamente all’erario l’imposta in oggetto addebitata dai loro fornitori in fattura.

Nel concreto, tale meccanismo permette alle imprese private di incassare quanto dovuto dalla PA al netto dell’IVA. La stessa PA si occuperà di versare direttamente l’imposta a debito sull’operazione.

La platea di soggetti obbligati ad applicare lo Split payment ha incamerato oltre ai principali enti pubblici (Istituti  universitari, ASL, Camere di Commercio, enti di previdenza ecc) con la manovra correttiva, dal 1° luglio 2017 tutte le amministrazioni, società controllate dallo Stato. Sempre per effetto del decreto 50/2017 è scattato anche per i professionisti l’obbligo di adottare lo split payment.

 

Per i contribuenti che applicano la scissione dei pagamenti, è prevista la possibilità che queste operazioni di split payment rientrino nel calcolo di quelle che possono ottenere il rimborso Iva.

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La domanda di addebito della separazione e il comportamento dispotico del coniuge.

La domanda di addebito della separazione può avere ad oggetto un comportamento dispotico del coniuge. Proprio i rimproveri e le continue lamentele possono minare irreparabilmente l'affectio coniugalis.

Come avviene nella gestione dell'impresa familiare, i coniugi possono condurre attività lavorative e collaborare e lavorare, insieme, nella gestione delle medesime. Qualora uno dei coniugi abbia un comportamento dispotico, sul lavoro, può avere una diretta influenza nell'evoluzione della vita coniugale.

(Cass., sez. I, 21 aprile 2015, n. 8094)

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Il mobbing familiare e l'addebito della separazione al coniuge autore del comportamento mobbizzante.

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 21296 del 13 settembre 2017, ha ritenuto che gli atti vessatori che in sede di merito i Giudici ritengono dimostrati, integrano un comportamento che permette di addebitare la separazione a colui che li compie in danno dell'altro coniuge.

La Cassazione, dopo aver valutato quanto argomentato dal Giudice di secondo grado in merito alla condotta del coniuge che veniva accertato come l'autore di un comportamento mobbizzante, volto a minare l'unione coniugale ed a porre l'altro nella condizione di andar via di casa, ha ritenuto la condotta colpevole dell'uomo e la sua efficacia causale nel determinarsi della crisi coniugale.

L'effetto mobbizzante è stato valutato anche in merito alla consumazione nel tempo della predetta condotta, che aveva poi costretto la donna ad allontanarsi dal domicilio coniugale. L'allontanamento non è stato ritenuto elemento per addebitare la separazione alla moglie, in quanto la crisi coniugale, per effetto del comportamento mobbizzante del marito, doveva ritenersi già in corso, tanto da aver provocato una reazione (l'allontanamento) dovuta alla condotta del marito che aveva determinato, con il proprio comportamento vessatorio, l'intollerabilità della prosecuzione della convivenza.


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Il genitore che rifiuta i vaccini e propone cure omeopatiche rischia di vedersi escludere dall’affidamento condiviso.

Il caso affrontato dalla Corte di Cassazione riguarda una donna che era stata indotta a rifiutare le cure tradizionali e a prediligere trattamenti omeopatici mediante regolamentazione del regime dietetico. Per tali ragioni, il giudice di prime cure – nel disporre la separazione dei coniugi – aveva disposto l’affido condiviso dei figli, tranne che per le decisioni attinenti la loro salute e alimentazione, nonché la loro collocazione abitativa stabilite presso il padre. Tale decisione era stata confermata dalla Corte d’Appello, nonostante l’impugnazione della donna volta a ottenere l’affidamento congiunto con collocazione preventivamente presso di sè. Il caso giunge fino in Cassazione: la donna sostiene che l’estromissione dall’affidamento condiviso dei figli minori rispetto alle scelte per cure mediche e alimentazione era stata effettuate dal giudice a quo senza indicare alcun nocumento derivante ai minori dall’esercizio della funzione parentale materna rispetto a questi profili. Tuttavia, secondo i Giudici di Piazza Cavour, la Corte territoriale, nel prendere atto della richiesta di affidamento condiviso dell’appellante anche rispetto ad alimentazione e cure mediche, ha registrato che la donna non aveva addotto alcun elemento per supportare le censure mosse alla sentenza di primo grado su questo punto. Da qui la conferma della decisione impugnata sotto questo profilo. La Cassazione rammenta, infatti, che la cognizione del giudice di appello è circoscritta alle questioni dedotte dall’appellante attraverso specifici motivi, tramite argomentazioni che si contrappongano a quelle della sentenza impugnata e idonee a incrinarne il fondamento logico giuridico. Quanto alla collocazione prevalente presso il padre, i giudici di Cassazione condividono la decisione del giudice di prime cure. L’individuazione del genitore collocatario avviene all’esito di un giudizio prognostico compiuto nell’esclusivo interesse morale e materiale della prole, sulla base delle capacità dei genitori di crescere ed educare il figlio. Nel caso di specie, gli accertamenti peritali protratti nel tempo avevano individuato la soluzione migliore nella collocazione presso il padre, poiché la madre aveva dimostrato di non essere adeguata ad assumere decisioni nei confronti dei minori, se non dietro suggerimento e indicazioni di altri.

(Cass., ordinanza n. 3913/2018)

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Contestazione dei tassi e delle condizioni relative ad un leasing immobiliare.

In caso di contestazione dei tassi e delle condizioni relative ad un leasing immobiliare deve procedersi a CTU contabile, onde verificare la determinatezza/determinabilità del tasso, con eventuale ricalcolo ex art. 117 TUB, nonché l'eventuale superamento della soglia, tenendo all'uopo conto degli interessi corrispettivi e moratori di tutte le commissioni, di tutte le spese e delle provvigioni derivanti dalle clausole, comunque denominate, che prevedano una remunerazione in favore del finanziatore.

(Trib. Firenze, 13 febbraio 2018)

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La nullità della clausola contenuta in un contratto di factoring che prevede la decadenza dalla garanzia dal rischio di insolvenza.

E' nulla, per indeterminatezza dell'oggetto, la clausola contenuta in un contratto di factoring che preveda la decadenza dalla garanzia dal rischio di insolvenza qualora sia omessa la puntuale indicazione degli obblighi che le parti hanno ritenuto determinanti nell'ambito del programma negoziale.

(App. Milano, 19 Febbraio 2018. Est. Rossella Milone)

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Presunzione di condominialità dei canali di scarico: la braga.

Premesso che, a norma dell’art. 1117 n. 3 c.c., si presumono comuni i canali di scarico solo “fino al punto di diramazione” degli impianti ai locali di proprietà esclusiva, va escluso che rientri nella proprietà condominiale la c.d. braga (vale a dire, l’elemento di raccordo tra la tubatura verticale di pertinenza del singolo appartamento e quella verticale di pertinenza condominiale), atteso che la stessa, a differenza della colonna verticale, che, raccogliendo gli scarichi di tutti gli appartamenti, è funzionale all’uso di tutti i condomini, serve soltanto a convogliare gli scarichi di pertinenza del singolo appartamento. (massima ufficiale)

(Cass., sez. II, 17 gennaio 2018, n.1027)

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Cessione di unità immobiliare e obbligo di pagamento delle spese condominiali.

E' alla data di approvazione della delibera assembleare che ha disposto l'esecuzione dei lavori che si deve fare riferimento per stabilire il sorgere dell'obbligo del codomino alla partecipazione alle spese e tale momento rileva anche per imputare l'obbligo di partecipazione alla spesa nei rapporti interni tra venditore e compratore, se gli stessi non si siano diversamente accordati, rimanendo, peraltro, inopponibili al condominio i patti eventualmente intercorsi tra costoro. 

Pertanto, non può essere obbligato in via diretta verso il condominio, neppure per il tramite del vincolo solidale ex art. 63, disp. att. c.c., chi non fosse condomino al momento in cui sia insorto l'obbligo di partecipazione alle relative spese condominiali ossia alla data di approvazione della delibera assembleare inerente i lavori.

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Possibilità di "rettificazione" dell'atto di nascita del minore nato all'estero e figlio di due madri coniugate all'estero.

Deve essere accolta la domanda di "rettificazione" dell'atto di nascita del minore nato all'estero e figlio di due madri coniugate all'estero, già trascritto in Italia nei registri dello stato civile con riferimento alla sola madre biologica, non sussistendo contrasto con l’ordine pubblico internazionale italiano. (massima ufficiale) 

(Cass., sez. I, 15 giugno 2017, n.14878)

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Il genitore può rinunziare all’azione di disconoscimento della paternità che ha proposto.

Il genitore può rinunziare all’azione di disconoscimento della paternità che abbia promosso ma, vertendosi in materia di diritti indisponibili, in relazione ai quali non è ipotizzabile rinuncia o transazione, l'azione può essere successivamente riproposta, dallo stesso genitore e pure dal figlio che abbia raggiunto la maggiore età. (massima ufficiale) 

(Cass., sez. I, 15 giugno 2017, n.14879)

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La relazione di un coniuge con estranei rende addebitabile la separazione.

La relazione di un coniuge con estranei rende addebitabile la separazione ai sensi dell'art. 151 c. c. quando, in considerazione degli aspetti esteriori con cui è coltivata e dell'ambiente in cui i coniugi vivono, dia luogo a plausibili sospetti di infedeltà e quindi, anche se non si sostanzi in un adulterio, comporti offesa alla dignità e all'onore dell'altro coniuge. (massima ufficiale) 

(Cass., sez. VI, 19 settembre 2017, n.21657)

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Infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 263.

Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 del codice civile, sollevata dalla Corte d’appello di Milano, in riferimento agli artt. 2, 3, 30, 31 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848. 

L’affermazione della necessità di considerare il concreto interesse del minore in tutte le decisioni che lo riguardano è fortemente radicata nell’ordinamento sia interno, sia internazionale, e questa Corte, sin da epoca risalente, ha contribuito a tale radicamento. Non si vede conseguentemente perché, davanti all’azione di cui all’art. 263 cod. civ., fatta salva quella proposta dallo stesso figlio, il giudice non debba valutare: se l’interesse a far valere la verità di chi la solleva prevalga su quello del minore; se tale azione sia davvero idonea a realizzarlo (come è nel caso dell’art. 264 cod. civ.); se l’interesse alla verità abbia anche natura pubblica (ad esempio perché relativa a pratiche vietate dalla legge, quale è la maternità surrogata, che offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane) ed imponga di tutelare l’interesse del minore nei limiti consentiti da tale verità. 

(Corte Cost., 18 dicembre 2017, n.272).

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Legittimità della domanda di revocatoria di cessione di quota immobiliare in adempimento di un obbligo previsto dalla sentenza di divorzio.

È legittima la domanda di revocatoria di cessione di quota immobiliare in adempimento di un obbligo previsto dalla sentenza di divorzio senza la formulazione della revocatoria della sentenza di divorzio, poiché il disposto dell'art.2901 c.c. richiama espressamente gli atti di disposizione patrimoniale, nel cui ambito non è possibile comprendere le sentenze di divorzio.

(App. Roma 25.5.2017)

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Anche sottotetto e seminterrato fanno diventare la casa di “lusso”.

Accolto il ricorso delle Entrate contro la sentenza della Ctr, che aveva annullato la revoca dell’agevolazione prima casa. Il nodo del contendere è sulla modalità di calcolo della superficie utile complessiva che, secondo i giudici di appello, era al di sotto dei 240 mq previsti dalla legge per considerare l’immobile come “di lusso”. Lo ha precisato la Corte di cassazione con la sentenza n. 2010 dello scorso 26 gennaio. 

I fatti di causa 
A seguito della notifica di un avviso di liquidazione con il quale gli era stata revocata l’agevolazione fiscale relativa all’acquisto della “prima casa” (articolo 1, parte 1, tariffa allegata al Dpr 131/1986), un contribuente impugnava l’atto impositivo contestando il recupero a tassazione dell’ordinaria imposta di registro e l’irrogazione delle conseguenti sanzioni. I giudici di primo grado confermavano l’operato dell’ufficio. La Commissione tributaria regionale accoglieva l’appello del contribuente e riformava la decisione della Ctp che aveva respinto il ricorso. La Ctr riteneva che l’Agenzia delle entrate avesse erroneamente qualificato l’abitazione in questione come “di lusso”, ai sensi del decreto del ministero dei Lavori pubblici 2 agosto 1969, con la conseguente revoca del beneficio; per i giudici del gravame la superficie utile complessiva era in realtà inferiore ai 240 mq previsti dal citato Dm, il cui articolo 6 statuisce che sono da ritenersi “di lusso” “Le singole unità immobiliari aventi superficie utile complessiva superiore a mq. 240 (esclusi i balconi, le terrazze, le cantine, le soffitte, le scale e posto macchine)”. Secondo la Ctr, in particolare, non potevano computarsi, ai fini della superficie utile, né il vano seminterrato né il sottotetto, privi dei requisiti previsti dal regolamento edilizio ai fini dell’abitabilità. Contro la sentenza d’appello, l’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso per cassazione; il contribuente resisteva con controricorso. 

Il giudizio dinanzi alla cassazione 
L’ufficio censurava, ai sensi dell’articolo 360 cpc, comma 1, n. 3, la pronuncia della Commissione tributaria regionale, deducendo violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 1, comma 1 e nota 2-bis, tariffa, parte 1, allegata al Dpr 131/1986, in combinato disposto con il Dm 2 agosto 1969, articolo 6, n. 1072. Con la pronuncia in rassegna la Corte ribadisce, conformandosi a proprie precedenti decisioni sul tema, da un lato il carattere tassativo dei locali da escludere dal calcolo della superficie dell’immobile elencati nell’articolo 6 del Dm 2 agosto 1969 (Cassazione, n. 18483/2016) e, dall’altro, che “In tema di imposta di registro, per stabilire se una abitazione sia di lusso e, quindi, sia esclusa dall’agevolazione per l’acquisto della prima casa … occorre fare riferimento alla nozione di superficie utile complessiva di cui al Dm Lavori Pubblici 2 agosto 1969, articolo 6, in forza del quale è irrilevante il requisito dell’abitabilità dell’immobile, siccome da esso non richiamato, mentre quello della utilizzabilità degli ambienti, a prescindere dalla loro effettiva abitabilità, costituisce parametro idoneo ad esprimere il carattere lussuoso di un’abitazione assumendo rilievo - in coerenza con l’apprezzamento dello stesso mercato immobiliare - la marcata potenzialità abitativa dello stesso (Cassazione, nn. 18480/2016, 10191/2016, 25674/2013). La superficie utile complessiva non può – sostengono i giudici di legittimità – restrittivamente identificarsi nella sola superficie abitabile. È l’utilizzabilità della superficie, ossia un connotato che prescinde dalla sua abitabilità, quello più idoneo a esprimere il carattere lussuoso o meno dell’immobile, considerato anche che esso rappresenta un significativo indice della potenzialità abitativa di quest’ultimo. In particolare, ad avviso della Corte suprema, i giudici di secondo grado hanno errato nell’escludere dal computo della superficie utile complessiva sia il piano seminterrato che il sottotetto, in quanto, secondo la Ctr, “costituiti da ambienti non abitabili ai sensi del regolamento edilizio”. Contrariamente a quanto statuito nella pronuncia di secondo grado, la superficie catastale totale dell’immobile è di 371 mq, come risultante dalla visura allegata all’avviso di liquidazione emesso dall’ufficio, cui corrisponde una superficie utile complessiva, tenendo conto, legittimamente, sia del piano seminterrato che del sottotetto, certamente superiore a 240 mq. Peraltro, i presupposti della revoca dell’agevolazione sussistono anche alla luce dello jus superveniens introdotto dal Dlgs 23/2011, articolo 10, comma 1, lettera a), che ha sancito il superamento del criterio di individuazione dell’immobile di lusso escluso dal beneficio prima casa, sulla base dei parametri indicati nel Dm 2 agosto 1969. Sulla base della nuova disciplina, infatti, l’esclusione dalla agevolazione non dipende più dalle intrinseche caratteristiche qualitative e di superficie dell’immobile (individuate dal citato decreto), ma dall’iscrizione, o meno, dell’abitazione nelle categorie catastali A1, A8 ovvero A9. Le nuove regole si applicano ai trasferimenti realizzati successivamente al 1° gennaio 2014, per cui la compravendita in esame, anteriore a tale data, continua a essere disciplinata in base al regime previgente. Ferma restando la revoca dell’agevolazione “prima casa”, la Corte ha ritenuto diversamente, tuttavia, per quanto concerne le sanzioni irrogate con l’avviso di liquidazione, ravvisando, nella presente fattispecie, i presupposti per l’applicazione del secondo comma dell’articolo 3 del Dlgs 472/1997, secondo cui, in materia di sanzioni amministrative per violazioni tributarie “salvo diversa previsione di legge, nessuno può essere assoggettato a sanzioni per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce violazione punibile”. Il ricorso è stato, pertanto, accolto e la sentenza impugnata cassata. Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la controversia è stata decisa nel merito, ai sensi dell’articolo 384 cpc, comma 1, con il rigetto del ricorso originario, il riconoscimento della legittimità della revoca dell’agevolazione e la non debenza delle sanzioni.

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Responsabilità del veterinario ex art. 2052 c.c.

Responsabilità del veterinario ex art. 2052 c.c.

L’art. 2052 c.c. tratta del danno cagionato da animali e recita: “Il proprietario di un animale o chi se ne serve per il tempo che lo ha in uso è responsabile dei danni cagionati dall’animale, sia che fosse sotto la sua custodia, sia che fosse smarrito o fuggito, salvo che provi il caso fortuito”.

Pertanto, il veterinario - chiamato ad eseguire un intervento su un animale di cui abbia la custodia - risponde per eventuali danni cagionati dallo stesso.

In altri termini, si ravvisa la responsabilità del veterinario ogniqualvolta l'animale, sottoposto alla sua custodia per ragioni curative, durante l'intervento abbia reazioni violente, improvvise, ma prevedibili da parte dello stesso sanitario.


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Divorzio: per i figli vale sempre il tenore di vita.

L'addio al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, che non rientra più nei parametri per la concessione dell'assegno divorzile all'ex, non riguarda i figli, i quali quindi, in caso di divorzio dei genitori, hanno diritto a mantenere il medesimo tenore di vita del quale godevano quando mamma e papà erano ancora una coppia. La Corte di Cassazione, con la sentenza numero 3922/2018 del 19 febbraio, afferma chiaramente che "i figli hanno il diritto di mantenere il tenore di vita loro consentito dai proventi e dalle disponibilità concrete di entrambi i genitori, e cioè quello stesso che avrebbero potuto godere in costanza di convivenza". I giudici hanno poi precisato che la determinazione in concreto del mantenimento non può basarsi solo sui costi necessari al mero sostentamento dei figli, ma deve essere parametrata anche su quelli che rispondono a esigenze connesse "all'aspetto abitativo, scolastico, sportivo, sanitario e sociale".

Nel caso di specie, i giudici hanno respinto il ricorso proposto da un padre avverso la decisione della Corte d'appello di L'Aquila di determinare in 600 euro l'assegno dovuto per il mantenimento dei due figli, conviventi con la madre, e di porre interamente a suo carico il mantenimento del figlio con lui convivente. Per la Cassazione il giudizio circa la congruità del contributo costituisce un giudizio di merito rispetto al quale, comunque, va tenuto conto di tutto quanto sopra detto con riferimento ai costi da considerare nella sua determinazione e ai parametri posti alla base della stessa.

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La Cassazione e il risarcimento a titolo di straining.

Si riconosce al dipendente il risarcimento, a titolo di straining, a causa delle azioni ostili o discriminatorie poste in essere dal datore di lavoro anche se sporadiche in quanto lo straining rappresenta una forma di attenuata di mobbing che non richiede il requisito della continuità. L'ampia tutela è stata ribadita dalla Corte di Cassazione, sezione lavoro, nell'ordinanza n. 3977/2018 con cui è stato respinto il ricorso del Ministero dell'Istruzione.


La Corte d'Appello, infatti, aveva accolto il ricorso di un'impiegata colpita dalle vessazioni del suo diretto superiore e aveva condannato il Ministero al risarcimento del danno cagionato alla dipendente, quantificato in oltre 15mila euro. La donna, dichiarata inidonea all'insegnamento, era stata assegnata alla segreteria, ma erano sorte tensioni con la dirigenza scolastica allorquando l'appellata aveva rappresentato che occorreva ulteriore personale per l'espletamento dei servizi amministrativi. Rimostranze che erano costate alla donna la sottrazione degli strumenti di lavoro, l'attribuzione di mansioni didattiche (sia pure in compresenza con altri docenti, nonostante l'accertata inidoneità) e, infine, la privazione di ogni mansione fino al punto di essere lasciata totalmente inattiva. Per la Corte d'Appello tale condotta, seppure non propriamente mobbizzante, avrebbe integrato un'ipotesi di straining, ossia di stress forzato deliberatamente inflitto alla vittima dal superiore gerarchico con un obiettivo discriminatorio. In conclusione, il giudice a quo aveva ritenuto provato il nesso causale fra le condotte denunciate e il danno biologico di natura temporanea occorso alla donna, così confermando la liquidazione effettuata dal Tribunale sulla base delle indicazioni fornite dal consulente tecnico d'ufficio.

In Cassazione, il Ministero ritiene che il cosiddetto straining non costituisca una categoria giuridica e che, anche in medicina legale, la sua configurabilità sia controversa sicché, una volta escluse la sistematicità e la reiterazione dei comportamenti vessatori, non vi sarebbe stato spazio per l'accoglimento della domanda risarcitoria. Per gli Ermellini, in realtà, non ha errato il giudice di merito a utilizzare la nozione medico-legale dello straining anziché quella del mobbing, poichè lo straining altro non è che una forma attenuata di mobbing nella quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie. Azioni che, precisa la Cassazione, ove si rivelino produttive di danno all'integrità psico-fisica del lavoratore, giustificano la pretesa risarcitoria fondata sull'art. 2087 c.c. norma della quale da tempo la giurisprudenza di legittimità ha fornito un'interpretazione estensiva, costituzionalmente orientata al rispetto di beni essenziali e primari quali sono il diritto alla salute, la dignità umana e i diritti inviolabili della persona, tutelati dagli artt. 32, 41 e 2 della Costituzione. La responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c., precisa il Collegio, sorge, pertanto, ogniqualvolta l'evento dannoso sia eziologicamente riconducibile a un comportamento colposo, ossia o all'inadempimento di specifici obblighi legali o contrattuali imposti o al mancato rispetto dei principi generali di correttezza e buona fede, che devono costantemente essere osservati anche nell'esercizio dei diritti. Dunque, la Corte territoriale ha ritenuto sussistente la responsabilità del Ministero in quanto la dipendente era stato oggetto di azioni ostili, puntualmente allegate e provate nel giudizio di primo grado, consistite nella privazione ingiustificata degli strumenti di lavoro, nell'assegnazione di mansioni non compatibili con il suo stato di salute ed infine nella riduzione in una condizione umiliante di totale inoperosità. Il ricorso va dunque respinto.

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Risarcimento del danno al coniuge in buona fede indotto in errore sulle qualità personali dell'altro coniuge in caso di nullità del matrimonio.

La Corte di Bari ha accolto la domanda di risarcimento del danno del coniuge in malafede a favore di quello in buona fede nel caso in cui la nullità del matrimonio pronunciata dal giudice ecclesiastico per un vizio concernente la psiche di uno dei coniugi non possa essere ritenuta imputabile all'altro coniuge. (C. App. Bari, 20.07.2017)

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I termini di decadenza per la revocazione della donazione da parte del donante.

Con decisione del 5 gennaio 2018, la Seconda Sezione Civile della Corte di Cassazione ha affermato che la revocazione della donazione è rimessa ad un'iniziativa del donante ovvero dei suoi eredi ed è assoggettata ad un breve termine di decadenza. In tal modo, la perdita di efficacia della donazione è ricollegata ad una specifica iniziativa individuale e che il ripensamento del donante debba intervenire in un tempo contenuto. (Cass. civ., Sez. II, 05.01.2018, n. 169).

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Sulla restituzione al marito della metà delle rate del mutuo pagate per intero.

Con la decisione n. 1072 depositata il 17 gennaio 2018 la Cassazione rinvia alla Corte d'appello una complessa vicenda nella quale il ricorrente si doleva che il giudice inferiore desumesse la prova della sua volontà di accollarsi per intero le rate del mutuo della casa familiare, senza che in giudizio fosse emersa alcuna prova al riguardo. (Cass. civ., Ord., 17.01.2018, n. 1072)

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Non si possono produrre in giudizio foto del coniuge fedifrago senza l'autorizzazione del Garante della Privacy.

Secondo il Tribunale di Larino, non si possono produrre in giudizio foto del coniuge fedifrago senza l'autorizzazione del Garante della Privacy. Si tratta infatti di dati che esprimendo la vita sessuale del coniuge accusato di infedeltà coniugale e pertanto sono sottoposti alla disciplina dettata dall'art. 26 del codice della privacy. (Trib. Larino, 09.08.2017)

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Litisconsorzio necessario: parti necessarie nel giudizio di impugnazione del testamento

Nel giudizio di impugnazione di un testamento olografo per nullità, stante l'unitarietà del rapporto dedotto in giudizio, sussiste litisconsorzio necessario anche nei confronti di tutti gli eredi legittimi, atteso che l'eventuale accoglimento della domanda porterebbe alla dichiarazione di invalidità del testamento ed alla conseguente apertura della successione legittima. (Cassazione civile, sez. II, 07/03/2016,  n. 4452)

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Delibazione di sentenza ecclesiastica che scaturisce dal c.d. processus brevior.

La Corte d’Appello di Lecce affronta il problema della delibazione di una sentenza ecclesiastica che scaturisce dal c.d. processus brevior a seguito della riforma di Papa Francesco del 2015. La Corte Leccese ha affrontato la vicenda dell’ammissibilità nell’Ordinamento civile di questa sentenza emessa dal Vescovo della Diocesi di Nardò-Gallipoli sia sotto il profilo processuale sia del merito, evidentemente superando tutte quelle perplessità che in dottrina 1 erano state sollevate in merito alla delibabilità delle sentenza frutto del processo breve. Così i Giudici Leccesi: “Quanto al merito deve rilevarsi che nel caso in esame sono stati rispettati tutti i principi espressamente previsti ed attinenti: 1) alla competenza del giudice che ha pronunciate la sentenza; 2) alla conoscenza dell’atto introduttivo per entrambe le parti; 3) all’osservanza del diritto di difesa e della regolare costituzione delle parti in giudizio secondo la legge dello Stato in cui si è svolto il processo; 4) al passaggio in giudicato della sentenza secondo la stessa legge; 5) alla non contrarietà ad altra sentenza resa da un giudice italiano e passata in giudicato; 6) alla mancata pendenza dinanzi al giudice italiano di una causa avente lo stesso oggetto e le stesse parti ed iniziata prima del processo straniero ed alla carenza di effetti contrari all’ordine pubblico. Nella fattispecie, inoltre, è pacifico che entrambe le parti abbiano partecipato regolarmente al giudizio: che la causa sia stata decisa con accoglimento della domanda di nullità del matrimonio per esclusione dell’indissolubilità e della prole da parte della donna; che sia stata notificata la sentenza di primo grado con l’avvertenza di proporre eventualmente appello nei termini previsti dalla legge canonica” (sottolineatura dell’autore). Non ha quindi creato obice all’accoglimento in sede di Ordinamento Italiano l’estrema celerità del processus brevior, laddove sia escluso, come in effetti lo è stato, qualsiasi pregiudizio per la difesa delle parti. Anche il dubbio avanzato in vari sedi circa la non delibabilità di queste sentenze in quanto il processo deve svolgersi dinanzi a un giudice imparziale e predeterminato per legge che potrebbe non essere rispettato nel processo breve, non ha destato problematiche nella Corte Leccese. Così come le critiche circa la natura effettivamente giudiziaria di questo processo che, ribadiamo, la Corte non ha ritenuto fondate, riconoscendo, invece piena dignità processuale all’iter procedimentale svoltosi innanzi al Vescovo Diocesano. Quanto, infine, al rispetto del principio dell’ordine pubblico, la sentenza Leccese stabilisce che: “… la pronuncia ecclesiastica non contrasta con i principi dell’ordine pubblico italiano poiché la causa di nullità ivi ritenuta sussistente si atteggia in modo non dissimile dall’ipotesi della simulazione prevista dall’art. 123 cc … Nel caso di specie non viene neppure in discussione, in particolare,la violazione dell’inderogabile principio di ordine pubblico della tutela della buona fede e dell’affidamento incolpevole, perché “tale principio, ancorché inderogabile si ricollega ad un valore individuale che appartiene alla sfera di disponibilità del soggetto ed è quindi rivolto a tutelare detto valore contro gli ingiusti attacchi esterni, non contro la volontà del suo titolare, al quale deve essere riconosciuto il diritto di optare per la non conservazione di un rapporto viziato per fatto dell’altra parte”, con la conseguenza “che l’indicato ostacolo alla delibazione non può essere ravvisato quando il coniuge (che ignorava o non poteva conoscere il vizio del consenso dell’altro coniuge) chiede la declaratoria di esecutività della sentenza ecclesiastica da parte della Corte d’Appello ovvero non si opponga a tale declaratoria” (per tutte Cass. 7/12/2005 n. 27078)”.

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Affido condiviso: i figli restano nella casa familiare e i genitori si alternano

Incardinato un procedimento per separazione giudiziale, accade che spesso la figura paterna venga letteralmente messa alla porta all'indomani del fatidico provvedimento presidenziale che "autorizza i coniugi a vivere separatamente". Occorre invece fare un distinguo, perché ci sono padri che curano e seguono i propri figli nella crescita o semplicemente non sono responsabili della lamentata crisi coniugale.

Di tale delicata questione, si è occupato un recentissimo decreto del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere n. 1054/2017, il cui contenuto è stato mutuato dalla successiva giurisprudenza di merito .

Tale decreto, infatti, merita di essere citato, in quanto conferma l’ insopprimibile diritto della figura paterna alla bigenitorialità nella gestione della prole, intesa come volontà e disponibilità ad alternarsi nella cura dei figli, che non sono merce di scambio e non meritano di subire le conseguenze legate a certe separazioni. 

Sulla base della testè citata previsione, infatti, il domicilio dei figli minori viene posto presso la casa coniugale con affido condiviso ad entrambi i genitori e la necessità per questi ultimi di "alternarsi" nella casa stessa, occupandosi dei minori durante il tempo di propria esclusiva permanenza. A fronte degli impegni lavorativi di entrambi, il giudice stabilisce che dal lunedì al venerdì le minori stiano a casa con la madre con diritto di visita del padre, mentre dal venerdì sera al lunedì mattina 2 stiano a casa con il padre con diritto di visita della madre. La novità sta proprio in ciò: i minori non si spostano mai dalla casa, sono solo i genitori a spostarsi da essa, alternandosi. 

E' chiaro che si tratta di un provvedimento pregevole ed efficace perché ha risolto il problema del distacco dei figli rispetto al genitore costretto ad allontanarsi da casa. In tal modo, i minori vengono aiutati a superare la crisi familiare che li ha riguardati, abituandosi gradualmente ad un distacco verso il genitore con cui in futuro non convivranno prevalentemente.

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Divorzio.

L'app per gestire i figli senza conflitti

Il tribunale di Modena con la sentenza n. 2259 del 2017 ha accolto, per la prima volta, il ricorso congiunto per lo scioglimento del matrimonio di una coppia che ha aderito al progetto Anthea: si tratta di un sistema che intende aiutare – tramite l’app. “senza conflitti” – i genitori separati e divorziati a gestire tutti gli aspetti che riguardano i figli.

Tale progetto, presentato in Parlamento alla commissione bicamerale per l’infanzia, consiste in un’applicazione per smartphone e tablet che fornisce ai genitori una serie di servizi e permette loro di scambiarsi informazioni e accordi, i quali potranno essere anche scaricati e prodotti in giudizio. Per ogni evento (ad esempio “accompagnare il bambino in piscina”) ci potranno essere feedback di gradimento o di non adesione. Anche l’ingiustificato non utilizzo di tale strumento potrà essere oggetto di valutazione da parte del giudice nel caso di successivi conflitti. Il giudice potrà inoltre valutare in tempo reale il comportamento delle parti.

Nel caso di Modena, il giudice ha sciolto il matrimonio recependo le condizioni concordate dai genitori di adesione al progetto Anthea, prospettate «nell’interesse della prole» e «non contrarie alla legge». I due si sono impegnati ad utilizzare l’applicazione in modo esclusivo per qualsiasi comunicazione che possa riguardare i figli e ben consapevoli che tutte le notizie che «intercorreranno tra essi potranno essere oggetto di produzione documentale rappresentando prova ineludibile ed incontestabile dalle parti». Si legge ancora che il mancato impiego dell’applicazione, «non potrà essere oggetto di giustificazione alcuna e potrà essere liberamente valutato dal magistrato in caso di decisioni che derivino da atti e procedimenti attivati a seguito di insorta conflittualità tra i genitori successivamente».

È evidente che il fine consiste nel tutelare in primis gli interessi dei minori e in secundis consentire ai coniugi una gestione pacifica dei rapporti, lontano dalle aule del tribunale.

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Risarcimento del danno per illecita pubblicazione dell’immagine altrui.

Tribunale di Pordenone, sez. civile, sentenza 29 agosto 2017, n. 634


La pubblicazione su un catalogo dell’immagine altrui, avvenuta senza il consenso della parte rappresentata, a maggior ragione se raffigurante un minore di età, costituisce un illecito meritevole di ristoro. 

In particolare, essa obbliga l’autore al risarcimento dei danni non patrimoniali, sia ai sensi dell’art. 10 del Codice Civile, sia in virtù dell’art. 29, Legge n. 675/1996, ove la fattispecie configuri anche violazione del diritto alla riservatezza, e ciò per effetto della protezione costituzionale (art. 2) dei diritti inviolabili della persona. 

Tale illecito integra di per sé una ipotesi legale di risarcibilità dei danni ai sensi dell’art. 2059 del Codice Civile, al suo massimo livello di espressione. Secondo il Tribunale di Pordenone, il ristoro di un simile pregiudizio va riconosciuto anche laddove nulla nella rappresentazione possa essere considerato come diffamatorio o denigratorio.

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Donne legate da un rapporto di coppia e procedura di maternità assistita.

Cassazione civile, 30 Settembre 2016, n. 19599. Est. Lamorgese.


La procedura di maternità assistita tra due donne legate da un rapporto di coppia, con donazione dell’ovocita da parte della prima e conduzione a termine della gravidanza da parte della seconda con utilizzo di un gamete maschile di un terzo ignoto, integra un’ipotesi di genitorialità realizzata all’interno della coppia, assimilabile alla fecondazione eterologa, dalla quale si distingue per essere il feto legato biologicamente ad entrambe le donne. (massima ufficiale) Il riconoscimento e la trascrizione nei registro dello stato civile in Italia di un atto straniero, validamente formato, nel quale risulti la nascita di un figlio da due donne a seguito di procedura assimilabile alla fecondazione eterologa per aver la prima donato l’ovulo e la seconda condotto a termine la gravidanza con utilizzo di un gamete maschile di un terzo ignoto, non contrasta con l’ordine pubblico dovendosi avere riguardo al principio, di rilevanza costituzionale primaria, del superiore interesse del minore, che si sostanzia nel suo diritto alla conservazione del suo status filiationis, validamente acquisito all'estero.

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Condominio: Impugnazione della delibera di gestione di un servizio comune

Cassazione civile, sez. II, 09 Novembre 2017, n. 26557. Est. Milena Falaschi.


Il condominio è un ente di gestione sfornito di personalità distinta da quella dei suoi partecipanti, sicché l'esistenza dell'organo rappresentativo unitario non priva i singoli condomini del potere di agire a difesa di diritti connessi alla detta partecipazione, né, quindi, del potere di intervenire nel giudizio per il quale tale difesa sia stata legittimamente assunta dall'amministratore e di avvalersi dei mezzi d'impugnazione per evitare gli effetti sfavorevoli della sentenza pronunziata nei confronti dell'amministratore stesso che non l'abbia impugnata. 

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UBER deve essere considerato un 'servizio nel settore dei trasporti'.

L’articolo 56 TFUE, in combinato disposto con l’articolo 58, paragrafo 1, TFUE, nonché l’articolo 2, paragrafo 2, lettera d), della direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno, e l’articolo 1, punto 2, della direttiva 98/34/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22.06.1998, come modificata dalla direttiva 98/48/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20.07.1998, cui rinvia l’articolo 2, lettera a), della direttiva 2000/31/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’08.06.2000, devono essere interpretati nel senso che un servizio d’intermediazione avente ad oggetto la messa in contatto mediante un’applicazione per smartphone, dietro retribuzione, di conducenti non professionisti, che utilizzano il proprio veicolo, con persone che desiderano effettuare uno spostamento nell’area urbana, deve essere considerato indissolubilmente legato a un servizio di trasporto e rientrante, pertanto, nella qualificazione di «servizi nel settore dei trasporti», ai sensi dell’articolo 58, paragrafo 1, TFUE.

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Ulteriori precisazioni sui principi enunciati dalla sentenza n. 11504 del 10.05.2017 della Corte di Cassazione.

Nel giudizio diretto al riconoscimento dell'assegno divorzile, visti i principi di cui alla sentenza n. 11504 del 10.05.2017 della Corte di Cassazione, occorre - e ciò prescindendo da qualsiasi comparazione con le condizioni dell'altro coniuge e con il pregresso tenore di vita - in via preliminare accertare se il coniuge richiedente versi o meno in una condizione di obiettiva indipendenza economica, desunta da indicatori come il possesso di redditi di qualsiasi specie e/o di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari (tenuto conto di tutti gli oneri lato sensu imposti e del costo della vita nel luogo di residenza dell'ex coniuge richiedente), le capacità e possibilità effettive di lavoro personale (in relazione alla salute, all'età, al sesso e al mercato del lavoro), la stabile disponibilità di una casa di abitazione.

Una volta escluso che il coniuge, all'esito del giudizio di cui sopra, operato sulla base del principio di autoresponsabilità economica, si trovi in una simile condizione di indipendenza, ed abbia quindi in linea astratta diritto a percepire l'assegno divorzile, occorre fare riferimento, sulla base del concorrente principio della solidarietà postconiugale, ai criteri di commisurazione indicati dall'art. 5 l. div. (condizioni dei coniugi, ragioni della decisione, contributo personale ed economico offerto da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, reddito di entrambi), integrati dagli elementi in fatto emergenti dal caso concreto.

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Difesa tecnica al clandestino (anche se non è obbligatoria).

L'immigrata irregolare che fa ricorso per restare in Italia dove ha un figlio minore, ha diritto al gratuito patrocinio anche se non è necessaria la difesa tecnica. Infatti, la Cassazione (sentenza 164) accoglie il ricorso di una cittadina nigeriana irregolare, contro la decisione del Tribunale dei minorenni di revocare l'ammissione al patrocinio a spese dello Stato per due ragioni: la donna era clandestina e per la richiesta a rimanere nello Stato (articolo 31 del Dlgs 286/1998), in quanto "affare di volontaria giurisdizione" l'assistenza legale non è obbligatoria.


I giudici ricordano che il gratuito patrocinio riguarda il diritto di difesa tutelato dalla Carta e quindi il concetto di "straniero regolarmente soggiornante" va interpretato in modo estensivo e comprende anche chi ha un procedimento amministrativo o giurisdizionale in corso: la posizione dello straniero diventa irregolare solo con l'espulsione. E il diritto al difensore nel giudizio civile va riconosciuto anche quando la tutela non è obbligatoria perché il non abbiente potrebbe non conoscere i suoi diritti o non essere in grado di autorappresentarsi.

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La responsabilità del medico.

Con sentenza n. 24217 del 2017, la IV Sezione della Suprema Corte di Cassazione ha provveduto ad indicare i criteri cui il Giudice deve attenersi nella quantificazione del danno morale (nella specie si trattava di danno morale correlato al patema ed al turbamento per il sospetto di malattia futura).

Nella fattispecie concreta, la Corte di legittimità ha ritenuto che la quantificazione del danno morale ex art. 2059 c.c., lungi dal conseguire da meccanismi semplificati di liquidazione automatica, sia scaturita da un'adeguata e circostanziata "personalizzazione" del pregiudizio subito e, pertanto, sia adeguata ai criteri generalmente accolti.

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Azione revocatoria di trust e litisconsorzio necessario rispetto ai beneficiari: la prima pronunzia della Cassazione.

Visto il tenore degli artt.2901 c.c. e 66, comma 2, l. fall., se non par dubbio che l’azione in esame debba essere esperita nei confronti del disponente e del trustee ovvero, se il disponente è fallito, solo contro quest’ultimo, molto si discute se siano, altresì, legittimati passivi (e dunque litisconsorti necessari) i beneficiari.

In via preliminare, va rilevata la presenza di fattispecie in cui il problema non è stato posto né dalle parti né, d’ufficio, dal giudice adito (in certi casi, infatti, l’attore ha fin dall’inizio convenuto in giudizio anche i beneficiari senza che alcuno abbia contestato la loro legittimazione passiva. in altri casi è invece avvenuto l’opposto, cioè i beneficiari non sono stati coinvolti nel giudizio senza che alcuno affermasse la non integrità del contraddittorio).

La tesi che nega il litisconsorzio necessario

Secondo un orientamento il quesito merita risposta negativa, poiché oggetto della domanda revocatoria è l’atto dispositivo (cui i beneficiari sono estranei) e non l’atto istitutivo (che è la fonte esclusiva dei diritti dei beneficiari concernenti i beni destinati): ciò premesso, l’eventuale revoca dell’atto dispositivo, diminuendo o eliminando i beni destinati, arreca ai beneficiari un pregiudizio non già giuridico, bensì di mero fatto.
La soluzione contraria al litisconsorzio necessario è stata sostenuta anche facendo ricorso ad una diversa tesi: quella secondo il quale, essendo tale istituto posto a presidio non dei soggetti contitolari del rapporto oggetto di lite, bensì di colui che detta lite promuove, nel caso dell’azione revocatoria il coinvolgimento dei beneficiari non occorre, poiché l’inefficacia relativa del negozio sancita dalla sentenza permette al creditore di avviare l’esecuzione forzata ed essa vede, quali sue controparti, esclusivamente il debitore nonché – se il negozio ha comportato il trasferimento del bene ad un trustee – quest’ultimo soggetto ex art. 602 c.p.c. (la tesi in esame si fonda su quanto la Suprema Corte afferma - cfr Cass. SS.UU. n. 9660/2009, seguita Cass. n. 2082/2013 e da Cass.n. 26168/2014 - con riguardo alla fattispecie nella quale un soggetto coniugato in comunione legale abbia acquistato un bene dal debitore senza che il partner partecipasse all’atto e tale acquisto è poi oggetto di azione revocatoria).

La tesi che afferma il litisconsorzio necessario

La tesi in esame, ad oggi prevalente, fa leva sui seguenti argomenti:
a) i beneficiari sono in ogni caso destinati a subire gli effetti dell’eventuale sentenza di revoca del negozio destinatario;
b) la più recente giurisprudenza della Suprema Corte tende a ritenere, con riferimento alla revocatoria del fondo patrimoniale posto in essere da uno solo dei coniugi ed avviata da un creditore di costui, che anche l’altro coniuge sia legittimato passivo, appunto perché la pronunzia revocatoria è destinata ad incidere anche sulla sua posizione giuridica;
c) per ragioni di “simmetria processuale”, la legittimazione passiva dei beneficiari si impone anche ove la posizione beneficiaria di costoro sia sottoposta a condizione sospensiva, poiché l’art. 2901, comma 1, c.c. dichiara legittimati ad esperire l’azione revocatoria anche soggetti il cui credito sia sottoposto a condizione sospensiva

La tesi (ora fatta propria dalla Cassazione) che distingue a seconda del contenuto della posizione beneficiaria


Una tesi intermedia, sostenuta da parte della dottrina e della giurisprudenza di merito afferma invece che la legittimazione passiva del beneficiario sussiste solo se la sua posizione beneficiaria è certa e definitivamente acquisita) ed è, invece, da escludere se essa è sottoposta a condizione sospensiva.
Tale è l’orientamento seguito dalla prima pronunzia della Cassazione sul tema in esame (cfr Cass. n.19376/2017, la quale costituisce l'ultimo atto della vicenda iniziata con Trib.Forlì 30.5.2013, in Trust e att. fid., 2015, 80, e proseguita con App.Bologna 16/1/2015 inedita).
Detta sentenza concerne un'azione revocatoria promossa da una banca nei confronti di un fondo patrimoniale e di un trust (nel quale erano confluiti gli immobili oggetto del fondo: di quest'ultimo negozio erano beneficiarie le figlie minori dei coniugi disponenti.
In primo grado le beneficiarie non erano state coinvolte nel giudizio e la questione del litisconsorzio necessario rispetto ad esse non era stata sollevata.
In appello, invece, i coniugi soccombenti hanno sollevato la questione (all’evidente scopo di invalidare tutto il pregresso giudizio e farlo ricominciare da capo), ma il giudice l'aveva respinta.
In Cassazione la questione è stata oggetto di specifici motivi di ricorso, il quale è stato respinto tanto con riguardo alla revocatoria del fondo patrimoniale [per l'ovvia considerazione che, in tale istituto, non vi sono beneficiari in senso tecnico,]quanto con riguardo alla revocatoria del trust, perché (carenze processuali del ricorso a parte) le clausole del negozio non consentivano – osserva la Suprema Corte – di qualificare i beneficiari né come attuali beneficiari di reddito con diritti quesiti, né come beneficiari finali con diritto immediato a ricevere beni del trust. Nel caso di specie, infatti il riconoscimento della qualità di beneficiari di reddito era rimesso alla discrezionalità del trustee, mentre i beneficiari finali avrebbero potuto ricevere dal medesimo, in luogo degli immobili in trust, una somma di denaro).

 

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Responsabilità del Condominio per danni derivanti dal malfunzionamento dell'impianto di ascensore.

La responsabilità ex art. 2051 c.c. postula la sussistenza di un rapporto di custodia della cosa e una relazione di fatto tra il soggetto e la cosa stessa, tale da consentire il potere di controllarla, di eliminare le situazioni di pericolo che siano insorte e di escludere i terzi dal contatto con la cosa, tale relazione non dispensa il danneggiato dall'onere di provare il nesso causale tra cosa in custodia e danno, ossia di dimostrare che l'evento si è prodotto come conseguenza normale della particolare condizione, potenzialmente lesiva, posseduta dalla cosa, mentre resta a carico del custode offrire la prova contraria alla presunzione iuris tantum della sua responsabilità, mediante la dimostrazione positiva del caso fortuito, cioè del fatto estraneo alla sua sfera di custodia, avente impulso causale autonomo e carattere di imprevedibilità e di assoluta eccezionalità.


(Cassazione civile sez. III 29/07/2016 n. 15761)

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Accettazione della giurisdizione italiana nel procedimento di separazione personale.

Nel successivo procedimento di modifica delle condizioni della separazione, instaurato per ottenere l’affidamento dei figli minori, non produce effetto l’accettazione della giurisdizione italiana per il giudizio di separazione.

La sentenza n.18510/2017 dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, supportata altresì dall’art.12, par. 2, lett. a) del reg. CE n. 2201 del 2003 giustifica quanto testé enunciato rinvenendo nel procedimento di modifica delle condizioni della separazione un nuovo giudizio e perché il criterio di attribuzione della giurisdizione fondato sulla cd vicinanza (principio indicato dalla Corte di Giustizia della UE nell’interesse superiore del minore) assume una rilevanza tale da comportare  l’esclusione della validità del consenso del genitore alla proroga della giurisdizione.

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Fondo patrimoniale, figli minori e azione revocatoria dell'atto costitutivo del fondo patrimoniale.

Cassazione civile, sez. III, 03 Agosto 2017, n. 19376.

La costituzione del fondo patrimoniale determina soltanto un vincolo di destinazione sui beni confluiti nel fondo, affinché, con i loro frutti, sia assicurato il soddisfacimento dei bisogni della famiglia, ma non incide sulla titolarità dei beni stessi, né implica l'insorgere di una posizione di diritto soggettivo in favore dei singoli componenti del nucleo familiare, neppure con riguardo ai vincoli di disponibilità. Ne consegue che deve escludersi che i figli minori del debitore siano litisconsorti necessari nel giudizio promosso dal creditore per sentire dichiarare l'inefficacia dell'atto con il quale il primo abbia costituito alcuni immobili di sua proprietà in fondo patrimoniale. 

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Tribunale di Mantova: non si possono pubblicare foto dei propri figli se uno dei genitori non vuole.

Il Tribunale di Mantova, con sentenza depositata il 19.09.2017, ha ritenuto che l’inserimento delle foto dei figli minori sui social network - nonostante l’opposizione di uno dei genitori - integri violazione dell’art. 10 c.c., che vieta la pubblicazione di foto e immagini senza il consenso dell’avente diritto, nonché degli artt. 4, 7, 8 e 145 del Dlgs. 196/2003, riguardante la tutela della riservatezza dei dati personali, nonché della Convenzione di New York sui Diritti del Fanciullo (Conv. NY 20.11.1989, ratificata dall'Italia con l. 27.5.1991 n. 176) nel punto in cui stabilisce che "nessun fanciullo sarà oggetto di interferenze arbitrarie nella sua vita privata, nella sua famiglia, nel suo domicilio o nella sua corrispondenza e neppure di affronti illegali al suo onore e alla sua reputazione" e che "il fanciullo ha diritto alla protezione della legge contro tali interferenze o tali affronti". 

Il Tribunale sottolinea altresì che "L'inserimento di foto di minori sui social network costituisce un comportamento potenzialmente pregiudizievole per essi in quanto ciò determina la diffusione delle immagini fra un numero indeterminato di persone, conosciute e non, le quali possono essere malintenzionate e avvicinarsi ai bambini dopo averli visti più volte in foto on-line, non potendo inoltre andare sottaciuto l'ulteriore pericolo costituito dalla condotta di soggetti che taggano le foto on-line dei minori e, con procedimenti di fotomontaggio, ne traggono materiale pedopornografico da far circolare fra gli interessati, come ripetutamente evidenziato dagli organi di polizia".

Il riconoscimento del pericolo insito nella pubblicazione sui social network delle foto dei minori, conduce il Tribunale di Mantova a ritenere ammissibile la pronuncia di una inibitoria con la quale sia ordinata la rimozione delle foto già postate e ribadito il divieto di pubblicare nuove foto.

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Ricadute della sentenza De Tommaso della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sull’informativa prefettizia antimafia ex art. 84 d. lgs.159/11.

La sentenza della CEDU De Tommaso c. Italia depositata nel febbraio 2017 ha enunciato l’incompatibilità del rapporto di presupposizione tra la pericolosità generica e l’irroganda misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale.

In altri termini, tale pronuncia ha segnato vigorosamente la disciplina delle misure di prevenzione personali di cui al Codice antimafia, giudicando contrastanti con l’art. 2 Prot. 4 add. CEDU le fattispecie di pericolosità generica in ragione della loro assoluta indeterminatezza.

Sulla base di tale autorevole sentenza, potrebbe essere sollevata questione di legittimità costituzionale della informativa prefettizia antimafia generica di cui all’art. 84 comma 4 lett. d) ed e)  per violazione dell’art. 117 Cost. in relazione al parametro interposto di cui all’art. 1 Protocollo 1 add. CEDU.

Come noto, l’informativa prefettizia costituisce uno dei principali strumenti di contrasto di tipo preventivo al coinvolgimento di organizzazioni criminali mafiose nell’ambito dei rapporti economici tra pubblica amministrazione e privati, determinandone l’interruzione in caso di tentativi di infiltrazione.

I presupposti applicativi della informativa di cui all’art. 84 comma 4 lett. d) ed e) non sono definiti, bensì vaghi e imprecisati , posto che essi legittimano la limitazione del diritto di proprietà  a fronte dell’espletamento di “accertamenti disposti  dal Prefetto”.

Pertanto, l’assoluta indeterminatezza delle condizioni che possono consentire al Prefetto di emettere un’informativa antimafia generica appare davvero poco sostenibile in un ordinamento democratico che rifugga da antichi spettri di diritto di polizia e che voglia ancorare qualsiasi provvedimento restrittivo dei diritti fondamentali a basi legali precise e predeterminate.

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Improcedibilità del reclamo ex art. 708 co. IV cpc in pendenza del procedimento di revoca/modifica innanzi al Giudice Istruttore.

Il controllo esercitato in sede di reclamo è volto a consentire la riforma dei provvedimenti che risultino manifestamente ingiusti ed erronei, senza possibilità di approfondimenti istruttori, che porterebbero il giudice del reclamo a sostituirsi al giudice naturale di primo grado nell'indagine processuale a lui riservata. Pertanto, la rivisitazione del provvedimento presidenziale dovrà essere condotta dalla Corte d'Appello alla luce delle sole emergenze processuali già sottoposte al vaglio del primo giudice, restando invece riservata al Giudice Istruttore - oltre al potere di riesaminare i provvedimenti presidenziali anche in assenza di mutamenti nelle circostanze - la possibilità di revocare, modificare o integrare le determinazioni interinali al fine di meglio adeguare la regolamentazione dei rapporti economici e personali alle risultanze acquisite nella successiva fase a cognizione piena. Pertanto, proprio in considerazione della maggiore ampiezza dell'ambito cognitivo del Giudice Istruttore, non è possibile la contemporanea presenza del procedimento di reclamo ex art. 708 co. IV c.p.c. alla Corte d'Appello e del procedimento di revoca/modifica innanzi al Giudice Istruttore. Infatti, qualora l'istanza di modifica al Giudice Istruttore sia stata presentata prima della proposizione del reclamo alla Corte d'Appello, quest'ultimo deve essere dichiarato inammissibile, avendo la parte esaurito il proprio potere d'impugnativa.

Qualora invece, proposto reclamo alla Corte d'Appello e prima che questi si pronunci venga altresì presentata al Giudice Istruttore istanza di modifica/revoca ai sensi dell'art. 709 co. IV c.p.c., la scelta della parte di adire un organo il cui ambito cognitivo è maggiore, evidenzia la volontà implicita di rinunciare al rimedio di minore portata (il reclamo ex art. 708 co. IV c.p.c.), che pertanto diviene improcedibile e ciò a prescindere dai provvedimenti in concreto assunti dal Giudice Istruttore.

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Stalking con il falso pretesto della cura dei figli.

La Corte di Cassazione, quinta sezione penale, con sentenza n. 49216/2017 ha confermato la condanna per reato di atti persecutori nei confronti della ex moglie.

La questione, ed in particolare gli appostamenti e le telefonate moleste, erano state presentata dai difensori dell’uomo come tentativi di convincere la donna a curarsi del figlio con problemi.

Pertanto tale ingerenza ossessiva era finalizzata al solo sollecito alla madre con lo scopo di renderla edotta e partecipe delle necessità che questo figlio, rimasto con l’uomo dopo il di lei abbandono dell’abitazione coniugale, presenta.

La Corte si è espressa invertendo la lettura, in chiave persecutoria delle azioni poste in essere dal padre.

Difatti attribuisce la ratio dei suddetti comportamenti nel di lui risentimento verso la donna che lo aveva abbandonato e si era costruita un’altra vita con un’altra persona.

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Mancato riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio: diritto al risarcimento del danno.

In materia di mantenimento del figlio nato fuori dal matrimonio, il diritto al rimborso "pro quota" delle spese sostenute dalla nascita del figlio, spettante al genitore che lo ha allevato, e il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale non è utilmente azionabile se non dal momento della sentenza di accertamento della filiazione, che conseguentemente costituisce il "dies a quo" della decorrenza ordinaria della prescrizione. Contrariamente, ammettere la decorrenza della prescrizione prima della pronuncia accertativa dello status filiationis imporrebbe ammettere la possibilità di azionare la relativa domanda di risarcimento del danno anche prescindendo da pregressa sentenza di accertamento giudiziale della filiazione, con conseguente possibilità per il giudice, eventualmente investito dell'istanza di risarcimento del danno prima dell'accertamento della filiazione, di compiere tale accertamento in via incidentale, mentre per consolidata giurisprudenza: "L'accertamento incidentale relativo ad una questione di stato delle persone non è consentita dal nostro ordinamento giuridico, ostandovi nel quadro normativo attuale l'art. 3 cod. proc. pen. e l'art. 8 d. lgs. 2 luglio 2010 n. 104" (Cass. n. 3934/2012).

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Le Sezioni Unite sull'ammissibilità dei danni punitivi: dalla natura compensativa a quella polifunzionale della responsabilità civile

Con la sentenza 5 luglio 2017 n. 16601, le Sezioni Unite della Suprema Corte pongono fine all’annosa questione relativa all’ammissibilità e al conseguente riconoscimento dei danni punitivi all’interno dell’ordinamento nazionale, previa individuazione della natura della responsabilità civile.

Innanzitutto, occorre muovere dalla esposizione dei filoni giurisprudenziali formatisi in merito alla questione de qua.

L’orientamento prevalso in seno alla Suprema Corte di Cassazione era granitico nel ritenere con fermezza l’incompatibilità della responsabilità civile con la funzione sanzionatoria, essendo demandata a tale responsabilità la sola funzione di restaurare la sfera del soggetto danneggiante.

In altri termini, alla luce della suddetta tesi, la finalità punitiva era pura prerogativa esclusiva della responsabilità penale,  il cui paradigma è da rinvenirsi nel principio di legalità e nei suoi corollari, di cui costituiscono espressione gli artt. 25 co. 2 Cost. (divieto di retroattività della legge penale), 27 co. 1 (principio di personalità della responsabilità penale e divieto di responsabilità per fatto altrui) e 27 co. 3 (nella misura in cui esprime lo scopo di rieducazione insito nella pena inflitta).

Il filone giurisprudenziale testè richiamato ha costituito oggetto di profonda revisione critica ad opera della dottrina; revisione critica mutuata dagli orientamenti giurisprudenziali successivi e posta alla base delle motivazioni della sentenza delle Sezioni Unite oggetto del presente commento.

Invero, con la pronuncia in esame il Supremo Consesso ha messo in evidenza che la funzione sanzionatoria del risarcimento del danno non è incompatibile con il sistema della responsabilità civile, pur necessitando di un’apposita previsione legislativa che esprima in modo chiaro lo scopo punitivo della disposizione medesima.

D’altronde, come efficacemente esposto ed argomentato dai Giudici di legittimità, il panorama normativo offre numerosi esempi paradigmatici dell’abbandono della esclusiva funzione compensativo-riparatoria della responsabilità civile, in favore dell’accoglimento altresì della finalità punitivo-sanzionatoria impressa dalla stessa.

Si pensi, ad esempio, al novellato art. 96 co. 3 c.p.c., che consente la condanna della parte soccombente al pagamento di una somma “equitativamente determinata” in funzione sanzionatoria dell’abuso del processo (diposizione, tra l’altro, mutuata anche dall’art. 26 del Codice del processo amministrativo, introdotto dal d. lgs.n. 104/2010). Occorre precisare che sulla natura dell’art. 96 co. 3 c.p.c. si è di recente espressa la Corte costituzionale, interrogata circa la questione di legittimità costituzionale della previsione de qua. Ebbene, la Corte - con la pronuncia n. 152/2016 - ha sancito con granitica certezza la natura altresì sanzionatoria con finalità deflattiva della suddetta disposizione.

Costituisce ulteriore esempio chiarificatore della funzione sanzionatoria della responsabilità civile il decreto legislativo di nuovo conio n. 7/2016, i cui artt. 3-5 hanno abrogato le fattispecie di reato previste a tutela della fede pubblica, onore e patrimonio, prevedendo altresì - in caso di natura dolosa del reato - una sanzione afflittiva pecuniaria da cumulare al risarcimento del danno in favore del danneggiato.

I due esempi appena fatti, che si incardinano in un ben più ampio novero di fattispecie espressive della suesposta finalità della responsabilità civile e che non si intendono qui oggetto di elencazione per chiare finalità di sintesi, confermano il riscontro della cittadinanza nel nostro ordinamento della natura polifunzionale della responsabilità civile.

Pertanto, superato positivamente l’ostacolo dell’ammissibilità della funzione sanzionatoria della responsabilità civile, occorre ora comprendere in che misura possa essere importata nell’ordinamento nazionale una sentenza di condanna per danni punitivi emessa da uno Stato estero, previa verifica della compatibilità di tale trasposizione con l’ordine pubblico.

Preso atto che la nozione di “ordine pubblico” include un ampio sistema di tutele in favore dei cives approntate a livello sovraordinato rispetto alla legislazione primaria, le Sezioni Unite chiariscono che il principio di legalità vigente nell’odierno ordinamento postula che la sentenza straniera di condanna sia emessa nel rispetto di adeguate basi normative, che garantiscano i principi di tipicità e prevedibilità della sanzione.

Alla luce delle suddette argomentazioni, i Giudici di legittimità hanno concluso che alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, essendo interne al sistema sia la funzione di deterrenza che quella sanzionatoria del responsabile civile.

Pertanto, non è ontologicamente incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto di origine statunitense del risarcimento di danni di natura punitiva.

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Verso la stabilizzazione del nuovo orientamento della Cassazione in tema di assegno divorzile.

Trib. Roma Sez. I, Sent., 23/06/2017
SEPARAZIONE DEI CONIUGI 
Alimenti e mantenimento 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE DI ROMA

PRIMA SEZIONE CIVILE

così composto:

dott.ssa Franca Mangano - Presidente

dott.ssa Luciana Sangiovanni - Giudice

dott.ssa Stefania Ciani - Giudice, relatore

riunito nella camera di consiglio ha emesso la seguente

SENTENZA

nella causa civile in primo grado iscritta al n. 74536 del Ruolo Generale degli Affari Contenziosi dell'anno 20P3 vertente

TRA

(...), elettivamente domiciliata in Roma presso lo studio degli avv.ti CI.No. e EI.Ba. che la rappresentano e difendono giusta procura speciale in atti;

ricorrente

(...), elettivamente domiciliato in Roma presso lo studio dell'avv. An.Sp. che lo rappresenta e difende giusta procura speciale in atti;

Con l'intervento del Pubblico Ministero.

OGGETTO: scioglimento del matrimonio.

Svolgimento del processo - Motivi della decisione

Con ricorso ritualmente e tempestivamente notificato unitamente al pedissequo decreto di fissazione d'udienza, (...), premesso che in data 3 settembre 1998 contraeva in Roma matrimonio civile con (...)

che dall'unione nascevano i figli (...), esponeva che con decreti del 5 aprile 2005 il Tribunale di Roma omologava la separazione consensuale dei coniugi alle condizioni ivi indicate, successivamente modificate a seguito di procedimento ex art. 710 c.p.c. , in forza delle quali i figli minori sono affidati alla madre e collocati presso il suo domicilio con possibilità del padre di vederli e tenerli con sé due volte a settimana, per due finesettimana al mese, e per quattro settimane durante le vacanze scolastiche estive, nonché obbligo del padre medesimo di corrispondere per il loro mantenimento la somma mensile di Euro 900,00, oltre al 50% delle spese straordinarie; che da allora non era ripresa la convivenza né si era mai ricostituita la comunione materiale e spirituale, di talché ricorrevano i presupposti per dichiarare lo scioglimento del matrimonio contratto dalle parti aumentando ad Euro 1000,00 mensili la misura del contributo al mantenimento per i figli e ponendo a carico del resistente l'obbligo di corrispondere al coniuge un assegno divorzile pari ad Euro 300,00 mensili o alla diversa somma ritenuta di giustizia.

Si costituiva in giudizio (...) che aderiva alla domanda di scioglimento del matrimonio contratto con la ricorrente, ma contestava le ulteriori istanze chiedendo il rigetto della domanda della ricorrente volta al riconoscimento dell'assegno divorzile in suo favore e la riduzione dell'assegno di mantenimento per i figli posto a suo carico essendo stato nelle more licenziato ed essendo ancora privo di occupazione.

All'udienza presidenziale comparivano personalmente le parti e il Presidente, esperito senza esito positivo il tentativo di conciliazione, preso atto che ambo i coniugi erano, all'epoca disoccupati e che la ricorrente pagava un canone di locazione pari ad Euro 1650,00 mensili, riduceva la misura del contributo per il mantenimento dei figli posto a carico dell'(...) ad Euro 400,00 mensili a far data dall'ottobre 2013, fermo l'obbligo di entrambi i coniugi di contribuire in eguale misura al pagamento delle spese straordinarie e confermava per il resto le condizioni separative.

Acquisita la documentazione complessivamente prodotta dalle parti, all'udienza dell'8 febbraio 2017 il g.i. rimetteva la causa al collegio per la decisione con assegnazione dei termini di cui all'art. 190 c.p.c.

Preliminarmente deve essere disposto lo stralcio della documentazione prodotta dal resistente unitamente alla comparsa conclusionale in quanto tardiva e irrituale.

Nel merito ritiene il Tribunale che ricorrano i presupposti per dichiarare lo scioglimento del matrimonio civile contratto dalle parti in data 3 settembre 1998 atteso che è decorso il termine di legge dal momento in cui i coniugi comparvero dinanzi al Presidente del Tribunale in sede di separazione personale (art. 3 n. 2 lett. b) della L. n. 898 del 1970 e successive modifiche) e non vi è contestazione alcuna in ordine all'impossibilità di ricostituire il consorzio familiare.

Nelle more del giudizio la figlia primogenita delle parti, (...), è divenuta maggiorenne; la stessa, economicamente "non autonoma, vive unitamente al fratello minore presso la madre che nel corso del presente procedimento si è trasferita a Caserta nell'abitazione della di lei madre.

Deve, pertanto, essere disciplinato solo l'affidamento del figlio ancora minore (...) e devono essere rimodulati i tempi di permanenza dello stesso presso il padre in considerazione dell'avvenuto trasferimento della madre, presso cui lo stesso è collocato, da Roma a Caserta.

In argomento il Collegio ritiene che non sussistano ragioni ostative a disporre l'affidamento condiviso di (...) ad entrambi i genitori, come peraltro dagli stessi richiesto, con stabile e prevalente collocamento presso la madre e con possibilità per il padre di vederlo e tenerlo con sé due finesettimana al mese, dal sabato alla domenica, con la precisazione che un finesettimana al mese il padre si recherà a Caserta e un altro finesettimana al mese la madre avrà cura di accompagnare il figlio minore a Roma con oneri di viaggio del minore, in questo secondo caso, a carico del padre il quale, entro la fine di ciascun mese, dovrà comunicare per iscritto alla madre i finesettimana in cui vedrà il minore il mese successivo.

Il padre, inoltre, potrà vedere e tenere con sé il figlio (...) per metà delle vacanze scolastiche natalizie, in modo tale da alternare negli anni le principali festività, per l'intera durata delle vacanze scolastiche pasquali ad anni alterni e per quattro settimane, anche non consecutive, durante le vacanze scolastiche estive, da concordare con la madre entro il mese di maggio di ciascun anno.

Relativamente alla misura del contributo per il mantenimento dei due figli dovuto dal padre, il Collegio rileva che successivamente all'udienza presidenziale, a decorrere dal 7 luglio 2014, (...) è stato assunto con contratti di collaborazione autonoma a progetto successivamente rinnovati anche per il corrente anno 2017, dalla società (...) s.p.a. dietro un corrispettivo lordo mensile di Euro 2916,00 "comprensivo di ogni onere e spesa ... per l'esecuzione dell'incarico", giusta contratto in atti (doc. all n. 1 alla comparsa di costituitone per la fase di merito) da svolgersi nella regione Emilia.

Dagli estratti conto allegati dallo stesso resistente emerge che lo stesso percepisce una retribuzione netta mensile pari, in media, a circa Euro 1900,00/2000,00.

Pertanto, tenuto conto degli oneri economici che lo stesso (...) deve sostenere sia per espletare l'incarico lavorativo che per vedere ed incontrare il figlio in conseguenza della unilaterale decisione della madre di trasferirsi a Caserta, il Tribunale reputa equo porre a carico del medesimo l'obbligo di contribuire al mantenimento dei due figli mediante la corresponsione alla madre, entro il giorno 5 di ogni mese, della somma di Euro 600.00 (Euro 300,00 per ciascun figlio), a decorrere dalla pubblicazione della presente sentenza, fermi restando per il periodo pregresso i provvedimenti presidenziali, con la precisazione che, secondo il Protocollo d'intesa con il Foro sottoscritto il 17 dicembre 2014, sono comprese nell'assegno di mantenimento le seguenti spese: vitto, abbigliamento, contributo per spese dell'abitazione, spese per tasse scolastiche (eccetto quelle universitarie) e materiale scolastico di cancelleria, mensa, medicinali da banco (comprensivi anche di antibiotici, antipiretici e comunque di medicinali necessari alla cura di patologie ordinarie e/o stagionali) spese di trasporto urbano (tessera autobus e metro), carburante, ricarica cellulare, uscite didattiche organizzate dalla scuola in ambito giornaliero, prescuola, dopo scuola e baby sitter se già presenti nell'organizzazione familiare prima della separazione, trattamenti estetici (parrucchiere, estetista, ecc.).

Devono, inoltre, essere poste a carico di entrambe le parti in eguale misura le spese straordinarie mediche scolastiche ed extrascolastiche afferenti i figli (...) con le specificazioni di cui al ridetto Protocollo d'intesa che di seguito si trascrivono: spese straordinarie subordinate al consenso di entrambi i genitori, suddivise nelle seguenti categorie: a) scolastiche: iscrizioni e rette di scuole private e iscrizioni, rette ed eventuali spese alloggiative, ove fuori sede, di università pubbliche e private, ripetizioni, viaggi di istruzione organizzati dalla scuola, prescuola, doposcuola e baby sitter se l'esigenza nasce con la separazione e deve coprire l'orario di lavoro del genitore che li utilizza; b) spese di natura ludica o parascolastica: corsi di lingua o attività artistiche (musica, disegno, pittura), corsi di informatica, centri estivi, viaggi di istruzione, vacanze trascorse autonomamente senza i genitori, spese di acquisto e manutenzione straordinaria di mezzi di trasporto (mini-car, macchina, motorino, moto); c) spese sportive: attività sportiva comprensiva dell'attrezzatura e di quanto necessario per lo svolgimento dell'eventuale attività agonistica; d) spese medico-sanitarie: spese per interventi chirurgici, spese odontoiatriche, oculistiche e sanitarie non effettuate tramite SSN, spese mediche e di degenza per interventi presso strutture pubbliche o private convenzionate, esami diagnostici, analisi cliniche, visite specialistiche, cicli di psicoterapia e logopedia;

spese straordinarie "obbligatorie" per le quali non è richiesta la previa concertazione:

libri scolastici, spese sanitarie urgenti, acquisto di farmaci prescritti ad eccezione di quelli da banco, spese per interventi chirurgici indifferibili sia presso strutture pubbliche che private, spese ortodontiche, oculistiche e sanitarie effettuate tramite il SSN in difetto di accordo sulla terapia con specialista privato, spese di bollo e di assicurazione per il mezzo di trasporto.

Con riguardo alle spese straordinarie da concordare il genitore, a fronte di una richiesta scritta dell'altro, dovrà manifestare un motivato dissenso per iscritto nell'immediatezza della richiesta (massimo 10 giorni) ovvero in un termine all'uopo fissato; in difetto il silenzio sarà inteso come consenso alla richiesta.

Relativamente alla domanda della ricorrente volta al riconoscimento in suo favore e a carico dell'(...) di un assegno divorzile, mette conto evidenziare che a norma dell' art. 5 comma 6 della L. n. 898 del 1970 e successive modificazioni "Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto dalle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l'obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell'altro un assegno quando quest'ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non possa procurarseli per ragioni oggettive".

Al fine di esaminare compiutamente tale domanda è opportuno ripercorrere le principali tappe dell'evoluzione giurisprudenziale in argomento.

La Cassazione, infatti, con orientamento granitico in parte superato dalla recente pronuncia n. 11504 del 2017, ha chiarità che "L'accertamento del diritto all'assegno divorzile si articola in due fasi nella prima delle quali il giudice verifica l'esistenza del diritto in astratto, in relazione all'inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio e che sarebbe presumibilmente proseguito di continuazione dello stesso o quale poteva legittimamente e ragionevolmente configurarsi sulla base di aspettative maturate nel corso del rapporto, mentre nella seconda procede alla determinazione in concreto dell'ammontare dell'assegno, che va compiuta tenendo conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione e del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ognuno e di quello comune, nonché del reddito di entrambi, valutandosi tali elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio. Nell'ambito di questo duplice accertamento assumono rilievo, sotto il profilo dell'onere probatorio, le risorse reddituali e patrimoniali di ciascuno dei coniugi, quelle effettivamente destinate al soddisfacimento dei bisogni personali e familiari, nonché le rispettive potenzialità economiche" (Cass. n. 11870/2015).

Analogamente, secondo Cass. n. 11686/2013, accertamento del diritto all'assegno divorzile va effettuato verificando l'inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso o quale poteva legittimamente e ragionevolmente configurarsi sulla base di aspettative maturate nel corso del rapporto. A tal fine, il tenore di vita precedente deve desumersi dalle potenzialità economiche dei coniugi, dall'ammontare complessivo dei loro redditi e dalle loro disponibilità patrimoniali, laddove anche l'assetto economico relativo alla separazione può rappresentare un valido indice di riferimento nella misura in cui appaia idoneo a fornire utili elementi di valutazione relativi al lettore di vita goduto durante il matrimonio e alle condizioni economiche dei coniugi" (nello stesso senso v. anche: Cass. n. 15610/2007; Cass. n. 4764/2007).

Una svolta e una battuta d'arresto importante è stata segnata dalla Suprema Corte con la sentenza n. 11504 del 2017 con cui la stessa ha affermato i seguenti principi di diritto: "Il giudice del divorzio, richiesto dell'assegno di cui all' art. 5, comma 6, della L. n. 898 del 1970, come sostituito dall' art. 10 della L. n. 74 del 1987, nel rispetto della distinzione del relativo giudizio in due fasi e dell'ordine progressivo tra le stesse stabilito da tale norma: a) deve verificare, nella fase dell'"an debeatur" - informata al principio dell'"autoresponsabilità economica" di ciascuno degli ex coniugi quale "persone singole" ed il cui oggetto è costituito esclusivamente dall'accertamento volto al riconoscimento o n. del diritto all'assegno di divorzio fatto valere dall'ex coniuge richiedente - se la domanda di quest'ultimo soddisfa le relative condizioni di legge (mancanza di "mezzi adeguati" o, comunque, impossibilità "di procurarseli per ragioni oggettive"), con esclusivo riferimento all'"indipendenza o autosufficienza economica "dello stesso, desunta dai principali "indici" -salvo altri rilevanti nelle singole fattispecie - del possesso di redditi di qualsiasi specie e/o di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari (tenuto conto di tutti gli oneri lato sensu "imposti" e del costo della vita nel luogo di residenza dell'ex coniuge richiedente), delle capacità e possibilità effettive di lavoro personale (in relazione alla salute, all'età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo), della stabile disponibilità di una casa di abitazione; ciò sulla base delle pertinenti allegazioni, deduzioni e prove offerte dal richiedente medesimo; sul quale incombe il corrispondente onere probatorio, fermo il diritto all'eccezione ed alla prova contraria dell'altro ex coniuge; b) deve tener conto, nella fase del "quantum debeatur" informata al principio della "solidarietà economica" dell'ex coniuge obbligato alla prestazione dell'assegno nei confronti dell'altro in quanto "persona" economicamente più debole ( artt. 2 e 23 Cost. ), il cui oggetto è costituito esclusivamente dalla determinazione dell'assegno ed alla quale può accedersi soltanto all'esito positivo della prima fase, conclusasi con il riconoscimento del diritto - di tutti gli elementi indicati dalla norma ("(....) condizioni dei coniugi, (...) ragioni della decisione, (...) contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, (...) reddito di entrambi") e valutare "tutti i suddetti elementi anche in apporto alla durata del matrimonio" al fine di determinare in concreto la misura dell'assegno di divorzio; ciò sulla base delle pertinenti allegazioni, deduzioni e prove offerte, secondo i normali canoni che disciplinano la distribuzione dell'onere della prova".

Si legge nella motivazione di tale importante pronuncia che "Una volta sciolto il matrimonio civile o cessati gli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio religioso .... Il rapporto matrimoniale si estingue definitivamente sul piano sia dello status personale dei coniugi, i quali devono perciò considerarsi da allora in poi "persone singole" sia sul piano dei loro rapporti economico-patrimoniali ( art. 191 comma 1 cod. civ. ) e, in particolare, del reciproco dovere di assistenza morale e materiale (art. 143, comma 2 cod. civ. ), fermo, ovviamente, in presenza di figli, l'esercizio della responsabilità genitoriale, con i relativi doveri e diritti, da parte di entrambi gli ex coniugi (...).

Perfezionatasi tale fattispecie estintiva del rapporto matrimoniale, il diritto all'assegno di divorzio condizionato dal previo riconoscimento di esso in base all'accertamento giudiziale della mancanza di "mezzi adeguati" dell'ex coniuge richiedente l'assegno o, comunque, dell'impossibilità dello stesso "di procurarseli per ragioni oggettive".

La piana lettura di tale comma 6 dell'art. 5 - ... - mostra con evidenza che la sua stessa "struttura" prefigura un giudizio nitidamente e rigorosamente distinto in due fasi, il cui oggetto è costituito, rispettivamente, dall'eventuale riconoscimento del diritto (fase dell'an debeatur) e - solo all'esito positivo di tale prima fase - dalla determinazione quantitativa dell'assegno (fase del quantum debeatur).

La complessiva ratio dell'art. 5, comma 6. della L. n. 898 del 1970 .... ha fondamento costituzionale nel dovere inderogabile di "solidarietà economica" (art. 2 in relazione all'art. 23 Cost. ), il cui adempimento è richiesto ad entrambi gli ex coniugi, quali "persone singole", a tutela della "persona" economicamente più debole (cosiddetta "solidarietà postconiugale"): sta precisamente in questo duplice fondamento costituzionale sia la qualificazione della natura dell'assegno di divorzio come esclusivamente "assistenziale" in favore dell'ex coniuge economicamente più debole ( art. 2 Cost.)...sia la giustificazione della doverosità deità sua "prestazione " ( art. 23 Cost.).

Sicché se il diritto all'assegno di divorzio: riconosciuto alla "persona" dell'ex coniuge nella fase dell'an debeatur, l'assegno è "determinato" esclusivamente nella successiva frase dei quantum debeatur, non già "in ragione" del rapporto matrimoniale ormai definitivamente estinto, bensì "in considerazione" di esso nel corso di tale seconda fase ..., avendo lo stesso rapporto ancorché estinto pure nella sua dimensione economico-patrimoniale, caratterizzato, anche sul piano giuridico, per un periodo più o meno lungo della vita in comune ("la comunione spirituale e materiale degli ex coniugi.

.... Il carattere condizionato del diritto all'assegno di divorzio -comportando ovviamente la sua negazione in presenza di "mezzi adeguati" dell'ex coniuge richiedente o delle effettive possibilità "di procurarseli", vale a dire della "indipendenza o autosufficienza economica" dello stesso - comporta, altresì, che, in carenza di ragioni di "solidarietà economica", l'eventuale riconoscimento del diritto si risolverebbe in una locupletazione, illegittima, in quanto fondata esclusivamente sul fatto della "mera preesistenza" di un rapporto matrimoniale ormai estinto ed inoltre di durata tendenziale sine die: il discrimine tra "solidarietà economica" ed illegittima locupletazione sta, perciò, proprio nel giudizio sull'esistenza, o no, delle condizioni del diritto all'assegno, nella fase dell'an debeatur".

Fatte queste premesse, i giudici di legittimità si diffondono sull'interpretazione del sintagma normativo "mezzi adeguati" e "impossibilità di procurarsi mezzi adeguati per ragioni oggettive" al fine di individuare l'indispensabile parametro di riferimento cui rapportare l'adeguatezza-inadeguatezza dei mezzi del richiedente l'assegno e la possibilità-impossibilità dello stesso di procurarseli, ponendo in evidenza che dopo le pronunce delle Sezioni unite nn. 11490 e 11492 del 1990 il parametro di riferimento cui rapportare l'adeguatezza-inadeguatezza dei mezzi il richiedente l'assegno è stato costantemente individuato nel "tenore di vita analogo a quelle avuto in costanza di matrimonio o che poteva legittimamente e ragionevolmente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio stesso; fissate al momento del divorzio".

Tale orientamento è stato, tuttavia, ritenuto dai supremi giudici non più attuale.

Si legge, infatti, nella motivazione della più volte citata pronuncia:

"A) il parametro del "tenore di vita" - se applicato anche nella fase dell'an debeatur - collide radicalmente con la natura stessa dell'istituto del divorzio e i suoi effetti giuridici: ... con la sentenza di divorzio il rapporto matrimoniale si estingue sul piano non solo personale ma anche economico-patrimoniale - a differenza di quanto accade con la separazione personale che lascia in vigore, seppure in forma attenuata, gli obblighi coniugali di cui all'art. 143 cod. civ. - sicché ogni riferimento a tale rapporto finisce illegittimamente con il ripristinarlo - sia pure limitatamente alla dimensione economica del "tenore di vita matrimoniale " ivi condotto - in una indebita prospettiva ... di "ultrattività" del vincolo

matrimoniale.

B) La scelta di detto parametro implica l'omessa considerazione che il diritto all'assegno di divorzio è eventualmente riconosciuto all'ex coniuge richiedente, nella fase dell'an debeatur, esclusivamente come "persona singola" e non già come (ancora) "parte" di un rapporto matrimoniale ormai estinto anche sul piano economico-patrimoniale, avendo il legislatore della riforma del 1987 informato la disciplina dell'assegno di divorzio, sia pure per implicito, ma in modo inequivoco, al principio di "autoresponsabilità" economica pronuncia di divorzio.

C) la "necessaria considerazione" da parte del giudice del divorzio, del preesistente rapporto matrimoniale anche nella sua dimensione economico-patrimoniale (...) è normativamente ed esplicitamente prevista soltanto per l'eventuale fase del giudizio avente ad oggetto la determinazione dell'assegno (quantum debeatur), vale a dire ... soltanto dopo l'esito positivo della fase precedente (an debeatur) conclusasi cioè con il riconoscimento del diritto all'assegno.

D) il parametro del "tenore di vita" induce inevitabilmente ma inammissibilmente ... una indebita commistione tra due fasi del giudizio e tra i relativi accertamenti.

E) Le menzionate sentenze delle Sezioni Unite del 1990 si fecero carico della necessità di contemperamento dell'esigenza di superare la concezione patrimonialistica del matrimonio "inteso come sistemazione definitiva perché il divorzio è stato assorbito dal costume sociale" ... con l'esigenza di non turbare un costume sociale ancora caratterizzato dalla "attuale esistenza di modelli di matrimonio più tradizionali, anche perché sorti in epoca molto anteriore alla riforma" .... Questa esigenza, tuttavia, si è molto attenuata nel corso degli anni, essendo ormai generalmente condiviso nel costume sociale il significato di matrimonio come atto di libertà e di autoresponsabilità, nonché come luogo degli effetti e di effettiva comunione di vita, in quanto tale dissolubile. Non (è) configurabile un interesse giuridicamente o protetto dell'ex coniuge a conservare il tenore di vita matrimoniale. L'interesse tutelato con l'attribuzione dell'assegno divorzile ... non è il riequilibrio delle condizioni economiche degli ex coniugi, ma il raggiungimento della indipendenza economica, in tal senso dovendo intendersi la funzione - esclusivamente - assistenziale dell'assegno

F) Al di là delle diverse opinioni che si possono avere sulla rilevanza ermeneutica dei lavori preparatori della L. n. 74 del 1987(che inserì nell'art. 5 il fondamentale riferimento alla mancanza di "mezzi adeguati" e alla "impossibilità di procurarseli") .... non v'è dubbio che chiara era la volontà del legislatore del 1987 di evitare che il giudizio sulla "adeguatezza dei mezzi" fosse riferito "alle condizioni del soggetto pagante" anziché "alle necessità del soggetto creditore" .... Nel giudizio sull'an debeatur, infatti, non possono rientrare valutazioni di tipo comparativo tra le condizioni economiche degli ex coniugi, dovendosi avere riguardo esclusivamente alle condizioni del soggetto richiedente l'assegno successivamente al divorzio".

Evidenziata la criticità del parametro del tenore di vita e preso atto della necessità di individuare un parametro diverso, i giudici di legittimità affermano che tale parametro cui rapportare il giudizio di adeguatezza-inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente l'assegno e la possibilità-impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, "vada individuato nel raggiungimento dell'"indipendenza economica" del richiedente: se è accertato che quest'ultimo è "economicamente indipendente" è effettivamente in grado di esserlo, non deve essergli riconosciutoci relativo diritto", in forza del principio dell'autoresponsabilità economica valevole anche per i figli.

In coerenza con tali premesse e con la nozione di indipendenza economica, prosegue la Corte, "a) il relativo accertamento nella fase dell'an debeatur attiene esclusivamente, alla persona dell'ex coniuge richiedente l'assegno come singolo individuo cioè senza alcun riferimento al preesistente rapporto matrimoniale; b) soltanto nella fase del quantum debeatur è legittimo procedere ad un "giudizio comparativo" tra le rispettive "posizioni" (lato sensu intese) personali ed economico-patrimoniali degli ex coniugi, secondo gli specifici criteri dettati dall' art. 5 comma 6, della L. n. 898 del 1970 per tale fase di giudizio.

Ciò premesso, il Collegio ritiene che i principali "indici" - salvo ovviamente altri elementi che potranno eventualmente rilevare nelle singole fattispecie - per accertare, nella fase di giudizio sull'an debeatur, la sussistenza, o no, dell'"indipendenza economica" dell'ex coniuge richiedente l'assegno di divorzio - e, quindi, l'"adeguatezza", o no, dei "mezzi", nonché la possibilità o n. "per ragioni oggettive", dello stesso di procurarseli - possono essere così individuati:

1) il possesso di redditi di qualsiasi specie;

2) il possesso di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari, tenuto conto di tutti gli oneri lato sensu "imposti" e del costo della vita nel luogo di residenza ("dimora abituale": art. 43, secondo comma, cod. civ. ) della persona che richiede l'assegno;

3) le capacità e le possibilità effettive di lavoro personale, in relazione alla salute, all'età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo;

4) la stabile disponibilità di tino casa di abitazione.

Quanto al regime della prova della non "indipendenza economica" dell'ex coniuge che fa valere il diritto dell'assegno; non v'è dubbio che, secondo la stessa formulazione della disposizione in esame e secondo i normali canoni che disciplinano la distribuzione del relativo onere, allo stesso spetta di allegare, dedurre e dimostrare di "non avere mezzi adeguati" e di "non poterseli procurare per ragioni oggettive". Tale onere probatorio ha ad oggetto i predetti indici principali, costitutivi del parametro dell'"indipendenza economica " e presuppone tempestive, rituali e pertinenti allegazioni e deduzioni da parte del medesimo coniuge, restando fermo, ovviamente, il diritto all'eccezione e alla prova contraria dell'altro (cfr. art. 4, comma 10, della L. n. 898 del 1970).

In particolare, mentre il possesso di redditi e di cespiti patrimoniali formerà normalmente oggetto di prove documentali soprattutto "le capacità e le possibilità effettive di lavoro personale" formeranno oggetto di prova che può essere data con ogni mezzo idoneo, anche di natura presuntiva, fermo restando l'onere del richiedente l'assegno di allegare specificamente (e provare in caso di contestazione) le concrete iniziative assunte per il raggiungimento dell'indipendenza economica, secondo le proprie attitudini e le eventuali esperienze lavorative".

L'applicazione del canone normativo sopra ricordato unitamente a quanto da ultimo affermato dalla Suprema Corte di Cassazione nella più volte menzionata pronuncia n. 11504 del 2017 induce questo Collegio a ritenere non sussistenti nel caso di specie i presupposti per il riconoscimento dell'assegno divorzile in favore della (...).

Invero costei, laureata in scienze politiche, all'epoca della separazione "libero professionista" con un reddito netto mensile, di circa Euro 2000,00 e nessuna proprietà immobiliare, come dichiarato all'udienza del 29 marzo 2005 dinanzi all'allora Presidente ff nel ricorso introduttivo del presente giudizio ha chiesto il riconoscimento dell'assegno di divorzio "a causa delle mutate - peggiorate - condizioni economiche", sebbene in sede separativa e successivamente fosse previsto che ciascun coniuge avrebbe provveduto autonomamente al proprio mantenimento.

All'udienza presidenziale del presente giudizio divorzile la (...) ha dichiarato di non lavorare, di svolgere saltuariamente docenze e traduzioni per "(...)" e "Ministeri" e di corrispondere un canone di locazione per la casa di Roma ove ella abitava unitamente ai due figli di Euro 1650,00 mensili, oltre spese condominiali, di essere stata aiutata dalla sua famiglia, di aver usato tutti i suoi "fondi", di aver venduto la casa di Roma perché non riusciva più a pagare il mutuo e di aver deciso di vivere nel predetto appartamento in affitto perché vicino alla scuola dei figli e priva dell'automobile, di essere costretta a lasciare Roma e andare a Caserta dalla madre.

Nel corso del giudizio la ricorrente sì è effettivamente trasferita a Caserta unitamente ai due figli presso l'abitazione della di lei madre, come dalla stessa dedotto nella memoria integrativa depositata il 20 ottobre 2014, in cui ha dato atto di essere ancora disoccupata, sebbene impegnata nella ricerca di un'occupazione lavorativa.

Dalla documentazione dalla stessa prodotta emerge, inoltre, che: attualmente la (...) non ha disponibilità economiche o altri fondi accantonati (v. estratti conto in atti); alla fine del 2014 (29 dicembre 2014) ha chiuso la partita IVA, aperta in quanto libero professionista; nel 2011 ha dichiarato un reddito complessivo, afferente il 2010, di Euro 2205,00; nel 2012 ha dichiarato un reddito negativo (-937,00 Euro, afferente il 2011); nel 2013 ha dichiarato un reddito complessivo di Euro 1695,00 (afferente il 2012) e nel 2014 un reddito complessivo negativo di Euro - 5507,00 a (afferente il 2013).

La stessa ricorrente in data 15 novembre 2010 ha alienato l'appartamento site in R. Via (...) composto da cinque camere e servizi, al prezzo complessivo di Euro 570.000,00, giusta atto di compravendita prodotto dal resistente, e, tenuto conto del mutuo gravante sul ridetto immobile ed estinto successivamente alla vendita, ha realizzato una plusvalenza pari ad Euro 200.000,00, circostanza dedotta dall'(...) non contestata ex adverso, di cui non è dato conoscere la destinazione.

Per completezza mette conto evidenziare, inoltre, che pur disponendo di entrate assai esigue, come comprovato dalle dichiarazioni fiscali sopra richiamate, la ricorrente conduceva in locazione un immobile in Roma per cui corrispondeva un elevato canone di locazione, pari ad Euro 1650,00 mensili oltre oneri condominiali, come dalla stessa dichiarato all'udienza presidenziale, ciò che induce fondatamente il Collegio a ritenere che la (...) disponesse di ulteriori entrate.

Nello stesso periodo, inoltre, la (...) riceva dal coniuge un assegno di mantenimento per i due figli delle parti pari ad Euro 900,00 mensili, così rideterminato dalla Corte d'appello di Roma con decreto del 29 dicembre 2009 , dopo aver percepito per circa quattro anni un assegno di mantenimento, per lo stesso titolo, di Euro 1200,00 mensili secondo quanto concordato in sede separativa.

Allo stato e sin dal 2014 la ricorrente unitamente ai figli si è trasferita a Caserta dove vive presso l'abitazione materna secondo la sua prospettazione, è ancora disoccupata.

Sul punto, tuttavia, devesi evidenziare che la stessa non ha dedotto né, a fortiori, provato di essersi attivata per reperire un'occupazione lavorativa consona all'esperienza professionale maturata e al titolo di studi conseguito avendo svolto allegazioni alquanto generiche e non circostanziate sul punto ed avendo articolato un capitoli di prova testimoniale privo di qualsivoglia riferimento temporale e fattuale che correttamente e condivisibilmente il giudice istruttore non ha ammesso.

La ricorrente, inoltre, neppure ha dedotto di essere nell'impossibilità, per impedimento fisico o altro, di svolgere qualsivoglia attività lavorativa, avendo anzi dichiarato ai l'udienza presidenziale di espletare saltuariamente incarichi di docenza e interprete presso l'Università (...) e alcuni Ministeri.

Peraltro la scelta unilaterale di trasferirsi da Roma a Caserta ha consentito alla (...) di usufruire gratuitamente di un'abitazione, quella della madre, nonché di vivere in una città ove il costo della vita è notoriamente meno caro di quello della Capitale, sebbene, per altro verso, il contesto sociale ed economico offra minori possibilità di lavoro, circostanza quest'ultima che non può che ricadere sulla stessa (...) che ha fatto tale scelta di vita.

Per tutte le ragioni sopra esposte, tenuto conto del più recente orientamento della giurisprudenza di legittimità sopra ampiamente illustrato, degli indici, enucleati dalla Suprema Corte, costitutivi del parametro dell'indipendenza economica, indici che operano in via concorrenziale e non già alternativa, e, soprattutto, del mancato assolvimento da parte della (...) dell'onere probatorio della non indipendenza economica nel senso sopra precisato, il Collegio ritiene che la domanda di assegno divorzile dalla stessa spiegata non possa trovare accoglimento.

Le ragioni della decisione, in una con la peculiarità della natura e dell'oggetto della presente controversia e il mutamento, almeno parziale, della giurisprudenza di legittimità in ordine all'assegno divorzile, giustificano l'integrale compensazione delle spese di lite tra le parti.

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando nella causa civile in primo grado iscritta al n. 74536/2013 R.G.A.C., disattesa ogni contraria istanza, deduzione ed eccezione, così decide:

dichiara lo scioglimento del matrimonio contratto in Roma in data 3 settembre 1998 da (...) e (...), trascritto nel registro degli atti di matrimonio di Roma Capitale al n. 1771, parte I, anno 1998, alle seguenti condizioni:

il figlio minore (...) è affidato in modo condiviso ad entrambi i genitori e stabilmente collocato presso la madre ove è fissata la sua residenza;

i genitori eserciteranno la responsabilità genitoriale separatamente limitatamente alle decisioni su questioni di ordinaria amministrazione durante i tempi di permanenza del minore presso ciascuno di loro;

le decisioni di maggior interesse per il figlio afferenti l'educazione, l'istruzione, la salute e la scelta della residenza abituale saranno assunte di comune accordo da entrambi i genitori tenuto conto delle capacità, delle aspirazioni e dell'inclinazione naturale del minore in caso di disaccordo, dal giudice;

salvo diverso accordo tra le parti, il padre vedrà e terrà con sé (...): a) due finesettimana al mése, dal sabato alla domenica, con la precisazione che un finesettimana al mese il padre si recherà a Caserta per incontrare il figlio e uri altro finesettimana al mese la madre avrà cura di accompagnare il figlio minore a Roma con oneri di viaggio riguardanti (...) a carico del padre e con l'ulteriore precisazione per cui il padre entro la fine di ciascun mese comunicherà alla madre i due finesettimana in cui incontrerà e terrà con sé il figlio secondo le modalità descritte; b) per metà della durata delle vacanze scolastiche natalizie, in modo tale da alternare negli anni le principali festività; c) per l'intera durata delle vacanze scolastiche pasquali ad anni alterni; d) per quattro settimane anche non consecutive durante le vacanze scolastiche estive da concordare con la madre entro il mese di maggio di ciascun anno;

il padre corrisponderà alla madre, a titolo di contributo per il mantenimento di (...) e di (...), a far data dalla pubblicazione della presente sentenza ed entro il giorno 5 di ogni mese, la somma mensile di Euro 600,00 da rivalutare annualmente secondo gli indici Istat, fermi restando per il periodo pregresso i provvedimenti presidenziali, con le specificazioni di cui in parte motiva;

pone a carico di ambo le parti in eguale misura le spese straordinarie afferenti i figli con le precisazioni di cui in parte motivaci

rigetta la domanda della (...) volta al riconoscimento dell'assegno divorzile in suo favore.

Dichiara integralmente compensate le spese di lite tra le parti.

Ordina al competente Ufficiale dello Stato Civile di procedere all'annotazione della presente sentenza negli appositi registri e al cancelliere di provvedere agli adempimenti di cui all' art. 10 della L. 1 dicembre 1970, n. 898.

Così deciso in Roma, il 9 giugno 2017.

Depositata in Cancelleria il 23 giugno 2017.

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I principali "indici" per accertare la sussistenza dell'indipendenza economica dell'ex coniuge richiedente l'assegno divorzile.

Cass. civ. Sez. I, 10-05-2017, n. 11504

L.L.C. c. G.V.

MATRIMONIO E DIVORZIODivorzio(assegno di divorzio)

I principali "indici" - salvo ovviamente altri elementi, che potranno eventualmente rilevare nelle singole fattispecie - per accertare, nella fase di giudizio sull'an debeatur, la sussistenza, o no, dell'indipendenza economica" dell'ex coniuge richiedente l'assegno di divorzio - e, quindi, l'adeguatezza", o no, dei "mezzi", nonché la possibilità, o no "per ragioni oggettive", dello stesso di procurarseli possono essere così individuati nel possesso di redditi di qualsiasi specie; nel possesso di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari, tenuto conto di tutti gli oneri lato sensu "imposti" e del costo della vita nel luogo di residenza ("dimora abituale": art. 43 c.c. , comma 2) della persona che richiede l'assegno; nelle capacità e nelle possibilità effettive di lavoro personale, in relazione alla salute, all'età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo; nella stabile disponibilità di una casa di abitazione.


FONTI
Massima redazionale, 2017

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Sull' "adeguatezza-inadeguatezza" dei mezzi dell'ex coniuge richiedente l'assegno di divorzio.

Cass. civ. Sez. I, 10-05-2017, n. 11504

L.L.C. c. G.V.

MATRIMONIO E DIVORZIODivorzio(assegno di divorzio)

Il parametro di riferimento cui rapportare il giudizio sull'"adeguatezza-inadeguatezza" dei mezzi dell'ex coniuge richiedente l'assegno di divorzio e sulla possibilità-impossibilità per ragioni oggettive dello stesso di procurarseli va individuato non più nel "tenore di vita avuto in costanza di matrimonio", ma nel raggiungimento dell' "indipendenza economica" del richiedente: se è accertato che quest'ultimo è economicamente indipendente o è effettivamente in grado di esserlo non deve essergli riconosciuto il relativo diritto.


FONTI 
Quotidiano Giuridico, 2017 

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I recenti approdi della giurisprudenza in tema di divorzio: la sentenza della Cassazione.



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI PALMA Salvatore - Presidente -

Dott. BISOGNI Giacinto - Consigliere -

Dott. ACIERNO Maria - Consigliere -

Dott. DI MARZIO Mauro - Consigliere -

Dott. LAMORGESE Antonio - rel. Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 20724/2014 proposto da:

L.L.C., elettivamente domiciliata in Roma, Via Donizetti n.9, presso l'avvocato Maggio Assunta, rappresentata e difesa dall'avvocato Santagata Salvatore, giusta procura in calce al ricorso;

- ricorrente -

contro

G.V., elettivamente domiciliato in Roma, Via di Portonaccio n.200, presso l'avvocato Mariotti Daniele, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato Favero Ida, giusta procura in calce al controricorso;

- controricorrente -

avverso la sentenza n. 1670/2014 della CORTE D'APPELLO di MILANO, depositata il 27/03/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/02/2017 dal cons. LAMORGESE ANTONIO PIETRO;

udito, per la ricorrente, l'Avvocato SALVATORE SANTAGATA che ha chiesto l'accoglimento del ricorso;

udito, per il controricorrente, l'Avvocato IDA FAVERO che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale CERONI Francesca, che ha concluso per l'accoglimento dl ricorso.

Svolgimento del processo

1. - Il Tribunale di Milano ha dichiarato lo scioglimento del matrimonio, contratto nel (OMISSIS), tra G.V. e L.L.C. ed ha respinto la domanda di assegno divorzile proposta da quest'ultima.

2. - Il gravame della L. è stato rigettato dalla Corte d'appello di Milano, con sentenza 27 marzo 2014.

2.1. - La Corte, avendo ritenuto che il luogo di residenza della L. (convenuta nel giudizio) fosse a (OMISSIS), ha rigettato l'eccezione di incompetenza territoriale del Tribunale di Milano, a favore del Tribunale di Roma, ove era la residenza o il domicilio del ricorrente G., da essa sollevata sul presupposto della propria residenza all'estero, a norma della L. 1 dicembre 1970, n. 898,art. 4, comma 1; ha ritenuto poi non dovuto l'assegno divorzile in favore della L., non avendo questa dimostrato l'inadeguatezza dei propri redditi ai fini della conservazione del tenore di vita matrimoniale, stante l'incompletezza della documentazione reddituale da essa prodotta, in una situazione di fatto in cui l'altro coniuge aveva subito una contrazione reddituale successivamente allo scioglimento del matrimonio.

3. - Avverso questa sentenza la L. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi, cui si è opposto il G. con controricorso. Le parti hanno presentato memorie ex art. 378 cod. proc. civ..

Motivi della decisione

1. - Con il primo motivo la ricorrente ha denunciato la violazione della L. n. 898 del 1970, art. 4, comma 1, per avere la Corte d'appello affermato la competenza per territorio del Tribunale di Milano, essendo invece competente il Tribunale di Roma, ove era la residenza o il domicilio del ricorrente G., essendo la convenuta residente all'estero.

1.1. - Il motivo è infondato.

Premesso che, contrariamente a quanto sostenuto dal G., la questione della competenza è stata riproposta in appello e che su di essa, quindi, non si è formato il giudicato, la sentenza impugnata ha ragionevolmente valorizzato quanto dichiarato dalla L. (convenuta nel giudizio) nell'atto di appello, e in altri atti giudiziari, circa la sua residenza a (OMISSIS), che corrispondeva a quanto risultava dalle certificazioni anagrafiche, giudicando irrilevante la diversa indicazione, resa all'udienza presidenziale, di essere residente a (OMISSIS), luogo quest'ultimo rientrante pur sempre nella competenza del Tribunale di Milano; inoltre, ha adeguatamente argomentato in ordine a(la mancanza di prova della residenza all'estero della L., ritenendo inidonea a tal fine la mera disponibilità da parte della medesima di un'abitazione negli Stati Uniti.

La decisione impugnata è, pertanto, conforme al principio enunciato da questa Corte - che va ribadito -, secondo cui la domanda di scioglimento del matrimonio civile o di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario va proposta, ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 4, comma 1, (nel testo introdotto dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35, art. 2, comma 3-bis, convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 14 maggio 2005, n. 80, art. 1, comma 1), quale risultante a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale (sentenza n. 169 del 2008), al tribunale del luogo di residenza o domicilio del coniuge convenuto, salva l'applicazione degli ulteriori criteri previsti in via subordinata dalla medesima norma (Cass. ord. n. 15186 del 2014).

2. - Con il secondo motivo la L. ha denunciato la violazione e falsa applicazione della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, per avere la Corte milanese negato il suo diritto all'assegno sulla base della circostanza che lo stesso G. non avesse mezzi adeguati per conservare l'alto tenore di vita matrimoniale, dando rilievo decisivo alla riduzione dei suoi redditi rispetto all'epoca della separazione, mentre avrebbe dovuto prima verificare la indisponibilità, da parte dell'ex coniuge richiedente, di mezzi adeguati a conservare il tenore di vita matrimoniale o la sua impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive.

Con il terzo motivo la L. ha denunciato vizio di motivazione, per avere omesso di considerare elementi probatori rilevanti al fine di dimostrare la sussistenza del diritto all'assegno.

Con il quarto motivo la ricorrente ha denunciato la violazione degli artt. 112 e 132 c.p.c. , per avere i giudici di merito escluso il diritto all'assegno, disconoscendo la rilevanza della sperequazione tra le situazioni reddituali e patrimoniali degli ex coniugi e dando erroneamente rilievo agli accordi raggiunti in sede di separazione che, al contrario, indicavano la disparità economica tra le parti e la mancanza di autosufficienza economica della L..

2.1. - Tali motivi sono infondati.

Si rende, tuttavia, necessaria, ai sensi dell'art. 384 c.p.c. , comma 4, la correzione della motivazione in diritto della sentenza impugnata, il cui dispositivo - come si vedrà (cfr. infra, sub n. 2.6) - è conforme a diritto, in base alle considerazioni che seguono.

Una volta sciolto il matrimonio civile o cessati gli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio religioso - sulla base dell'accertamento giudiziale, passato in giudicato, che "la comunione spirituale e materiale tra i coniugi non può essere mantenuta o ricostituita per l'esistenza di una delle cause previste dall'art. 3" (cfr. artt. 1 e 2, mai modificati, nonchè la L. n. 898 del 1970, art. 4, commi 12 e 16) -, il rapporto matrimoniale si estingue definitivamente sul piano sia dello status personale dei coniugi, i quali devono perciò considerarsi da allora in poi "persone singole", sia dei loro rapporti economico-patrimoniali ( art. 191 c.c. , comma 1) e, in particolare, del reciproco dovere di assistenza morale e materiale ( art. 143 c.c. , comma 2), fermo ovviamente, in presenza di figli, l'esercizio della responsabilità genitoriale, con i relativi doveri e diritti, da parte di entrambi gli ex coniugi (cfr. art. 317 c.c. , comma 2, e da artt. 337-bis a 337-octies c.c.).

Perfezionatasi tale fattispecie estintiva del rapporto matrimoniale, il diritto all'assegno di divorzio - previsto dalla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, nel testo sostituito dalla L. n. 74 del 1987, art. 10 - è condizionato dal previo riconoscimento di esso in base all'accertamento giudiziale della mancanza di "mezzi adeguati" dell'ex coniuge richiedente l'assegno o, comunque, dell'impossibilità dello stesso "di procurarseli per ragioni oggettive".

La piana lettura di tale comma 6 dell'art. 5 - "Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio dispone l'obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell'altro un assegno quando quest'ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive" - mostra con evidenza che la sua stessa "struttura" prefigura un giudizio nitidamente e rigorosamente distinto in due fasi, il cui oggetto è costituito, rispettivamente, dall'eventuale riconoscimento del diritto (fase dell'an debeatur) e - solo all'esito positivo di tale prima fase - dalla determinazione quantitativa dell'assegno (fase del quantum debeatur).

La complessiva ratio della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, (diritto condizionato all'assegno di divorzio e - riconosciuto tale diritto determinazione e prestazione dell'assegno) ha fondamento costituzionale nel dovere inderogabile di "solidarietà economica" (art. 2, in relazione all'art. 23, Cost. ), il cui adempimento è richiesto ad entrambi gli ex coniugi, quali "persone singole", a tutela della "persona" economicamente più debole (cosiddetta "solidarietà post-coniugale"): sta precisamente in questo duplice fondamento costituzionale sia la qualificazione della natura dell'assegno di divorzio come esclusivamente "assistenziale" in favore dell'ex coniuge economicamente più debole ( art. 2 Cost. ) - natura che in questa sede va ribadita -, sia la giustificazione della doverosità della sua "prestazione" ( art. 23 Cost.).

Sicchè, se il diritto all'assegno di divorzio è riconosciuto alla "persona" dell'ex coniuge nella fase dell'an debeatur, l'assegno è "determinato" esclusivamente nella successiva fase del quantum debeatur, non già "in ragione" del rapporto matrimoniale ormai definitivamente estinto, bensì "in considerazione" di esso nel corso di tale seconda fase (cfr. l'incipit del comma 6 dell'art. 5 cit.: "(....) il tribunale, tenuto conto (....)"), avendo lo stesso rapporto, ancorchè estinto pure nella sua dimensione economico-patrimoniale, caratterizzato, anche sul piano giuridico, un periodo più o meno lungo della vita in comune ("la comunione spirituale e materiale") degli ex coniugi.

Deve, peraltro, sottolinearsi che il carattere condizionato del diritto all'assegno di divorzio - comportando ovviamente la sua negazione in presenza di "mezzi adeguati" dell'ex coniuge richiedente o delle effettive possibilità "di procurarseli", vale a dire della "indipendenza o autosufficienza economica" dello stesso - comporta altresì che, in carenza di ragioni di "solidarietà economica", l'eventuale riconoscimento del diritto si risolverebbe in una locupletazione illegittima, in quanto fondata esclusivamente sul fatto della "mera preesistenza" di un rapporto matrimoniale ormai estinto, ed inoltre di durata tendenzialmente sine die: il discrimine tra "solidarietà economica" ed illegittima locupletazione sta, perciò, proprio nel giudizio sull'esistenza, o no, delle condizioni del diritto all'assegno, nella fase dell'an debeatur.

Tali precisazioni preliminari si rendono necessarie, perchè non di rado è dato rilevare nei provvedimenti giurisdizionali aventi ad oggetto l'assegno di divorzio una indebita commistione tra le due "fasi" del giudizio e tra i relativi accertamenti che, essendo invece pertinenti esclusivamente all'una o all'altra fase, debbono per ciò stesso essere effettuati secondo l'ordine progressivo normativamente stabilito.

2.2. - Tanto premesso, decisiva è, pertanto - ai fini del riconoscimento, o no, del diritto all'assegno di divorzio all'ex coniuge richiedente -, l'interpretazione del sintagma normativo "mezzi adeguati" e della disposizione "impossibilità di procurarsi mezzi adeguati per ragioni oggettive" nonchè, in particolare e soprattutto, l'individuazione dell'indispensabile "parametro di riferimento", al quale rapportare l'"adeguatezza-inadeguatezza" dei "mezzi" del richiedente l'assegno e, inoltre, la "possibilità-impossibilità" dello stesso di procurarseli.

Ribadito, in via generale - salve le successive precisazioni (v., infra, n. 2.4) -, che grava su quest'ultimo l'onere di dimostrare la sussistenza delle condizioni cui è subordinato il riconoscimento del relativo diritto, è del tutto evidente che il concreto accertamento, nelle singole fattispecie, dell'adeguatezza-inadeguatezza" di "mezzi" e della "possibilità-impossibilità" di procurarseli può dar luogo a due ipotesi: 1) se l'ex coniuge richiedente l'assegno possiede "mezzi adeguati" o è effettivamente in grado di procurarseli, il diritto deve essergli negato tout court; 2) se, invece, lo stesso dimostra di non possedere "mezzi adeguati" e prova anche che "non può procurarseli per ragioni oggettive", il diritto deve essergli riconosciuto.

E' noto che, sia prima sia dopo le fondamentali sentenze delle Sezioni Unite nn. 11490 e 11492 del 29 novembre 1990 (cfr. ex plurimis, rispettivamente, le sentenze nn. 3341 del 1978 e 4955 del 1989, e nn. 11686 del 2013 e 11870 del 2015), il parametro di riferimento - al quale rapportare l'"adeguatezza-inadeguatezza" dei "mezzi" del richiedente - è stato costantemente individuato da questa Corte nel "tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, o che poteva legittimamente e ragionevolmente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio stesso, fissate al momento del divorzio" (così la sentenza delle S.U. n. 11490 del 1990, pag. 24).

Sull'attuale rilevanza del "tenore di vita matrimoniale", come parametro "condizionante" e decisivo nel giudizio sul riconoscimento del diritto all'assegno, non incide - come risulterà chiaramente alla luce delle successive osservazioni - la mera possibilità di operarne in concreto un bilanciamento con altri criteri, intesi come fattori di moderazione e diminuzione di una somma predeterminata in astratto sulla base di quel parametro.

A distanza di quasi ventisette anni, il Collegio ritiene tale orientamento, per le molteplici ragioni che seguono, non più attuale, e ciò lo esime dall'osservanza dell'art. 374 c.p.c. , comma 3.

A) Il parametro del "tenore di vita" - se applicato anche nella fase dell'an debeatur - collide radicalmente con la natura stessa dell'istituto del divorzio e con i suoi effetti giuridici: infatti, come già osservato (supra, sub n. 2.1), con la sentenza di divorzio il rapporto matrimoniale si estingue sul piano non solo personale ma anche economico-patrimoniale - a differenza di quanto accade con la separazione personale, che lascia in vigore, seppure in forma attenuata, gli obblighi coniugali di cui all'art. 143 cod. civ. -, sicchè ogni riferimento a tale rapporto finisce illegittimamente con il ripristinarlo sia pure limitatamente alla dimensione economica del "tenore di vita matrimoniale" ivi condotto - in una indebita prospettiva, per così dire, di "ultrattività" del vincolo matrimoniale.

Sono oltremodo significativi al riguardo: 1) il brano della citata sentenza delle Sezioni Unite n. 11490 del 1990, secondo cui "(....) è utile sottolineare che tutto il sistema della legge riformata (....) privilegia le conseguenze di una perdurante (....) efficacia sul piano economico di un vincolo che sul piano personale è stato disciolto (....)" (pag. 38); 2) l'affermazione della "funzione di riequilibrio" delle condizioni economiche degli ex coniugi attribuita da tale sentenza all'assegno di divorzio: "(....) poichè il giudizio sull'an del diritto all'assegno è basato sulla determinazione di un quantum idoneo ad eliminare l'apprezzabile deterioramento delle condizioni economiche del coniuge che, in via di massima, devono essere ripristinate, in modo da ristabilire un certo equilibrio (....), è necessaria una determinazione quantitativa (sempre in via di massima) delle somme sufficienti a superare l'inadeguatezza dei mezzi dell'avente diritto, che costituiscono il limite o tetto massimo della misura dell'assegno" (pagg. 24-25: si noti l'evidente commistione tra gli oggetti delle due fasi del giudizio).

B) La scelta di detto parametro implica l'omessa considerazione che il diritto all'assegno di divorzio è eventualmente riconosciuto all'ex coniuge richiedente, nella fase dell'an debeatur, esclusivamente come "persona singola" e non già come (ancora) "parte" di un rapporto matrimoniale ormai estinto anche sul piano economico-patrimoniale, avendo il legislatore della riforma del 1987 informato la disciplina dell'assegno di divorzio, sia pure per implicito ma in modo inequivoco, al principio di "autoresponsabilità" economica degli ex coniugi dopo la pronuncia di divorzio.

C) La "necessaria considerazione", da parte del giudice del divorzio, del preesistente rapporto matrimoniale anche nella sua dimensione economico-patrimoniale ("(....) il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio (....)") è normativamente ed esplicitamente prevista soltanto per l'eventuale fase del giudizio avente ad oggetto la determinazione dell'assegno (quantum debeatur), vale a dire - come già sottolineato - soltanto dopo l'esito positivo della fase precedente (an debeatur), conclusasi cioè con il riconoscimento del diritto all'assegno.

D) Il parametro del "tenore di vita" induce inevitabilmente ma inammissibilmente, come già rilevato (cfr., supra, sub n. 2.1), una indebita commistione tra le predette due "fasi" del giudizio e tra i relativi accertamenti.

E' significativo, al riguardo, quanto affermato dalle Sezioni Unite, sempre nella sentenza n. 11490 del 1990: "(....) lo scopo di evitare rendite parassitarie ed ingiustificate proiezioni patrimoniali di un rapporto personale sciolto può essere raggiunto utilizzando in maniera prudente, in una visione ponderata e globale, tutti i criteri di quantificazione supra descritti, che sono idonei ad evitare siffatte rendite ingiustificate, nonchè a responsabilizzare il coniuge che pretende l'assegno, imponendogli di attivarsi per realizzare la propria personalità, nella nuova autonomia di vita, alla stregua di un criterio di dignità sociale (...)".

E) Le menzionate sentenze delle Sezioni Unite del 1990 si fecero carico della necessità di contemperamento dell'esigenza di superare la concezione patrimonialistica del matrimonio "inteso come "sistemazione definitiva", perchè il divorzio è stato assorbito dal costume sociale" (così la sentenza n. 11490 del 1990) con l'esigenza di non turbare un costume sociale ancora caratterizzato dalla "attuale esistenza di modelli di matrimonio più tradizionali, anche perchè sorti in epoca molto anteriore alla riforma", con ciò spiegando la preferenza accordata ad un indirizzo interpretativo che "meno traumaticamente rompe(sse) con la passata tradizione" (così ancora la sentenza n. 11490 del 1990). Questa esigenza, tuttavia, si è molto attenuata nel corso degli anni, essendo ormai generalmente condiviso nel costume sociale il significato del matrimonio come atto di libertà e di autoresponsabilità, nonchè come luogo degli affetti e di effettiva comunione di vita, in quanto tale dissolubile (matrimonio che - oggi - è possibile "sciogliere", previo accordo, con una semplice dichiarazione delle parti all'ufficiale dello stato civile, a norma delD.L. 12 settembre 2014, n. 132, art. 12, convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 10 novembre 2014, n. 162, art. 1, comma 1).

Ed è coerente con questo approdo sociale e legislativo l'orientamento di questa Corte, secondo cui la formazione di una famiglia di fatto da parte del coniuge beneficiario dell'assegno divorzile è espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole, che si caratterizza per l'assunzione piena del rischio di una eventuale cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua solidarietà postmatrimoniale da parte dell'altro coniuge, il quale non può che confidare nell'esonero definitivo da ogni obbligo (cfr. le sentenze nn. 6855 del 2015 e 2466 del 2016). In proposito, un'interpretazione delle norme sull'assegno divorzile che producano l'effetto di procrastinare a tempo indeterminato il momento della recisione degli effetti economico-patrimoniali del vincolo coniugale, può tradursi in un ostacolo alla costituzione di una nuova famiglia successivamente alla disgregazione del primo gruppo familiare, in violazione di un diritto fondamentale dell'individuo (cfr. Cass. n. 6289/2014) che è ricompreso tra quelli riconosciuti dalla Cedu (art. 12) e dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea (art. 9). Si deve quindi ritenere che non sia configurabile un interesse giuridicamente rilevante o protetto dell'ex coniuge a conservare il tenore di vita matrimoniale. L'interesse tutelato con l'attribuzione dell'assegno divorzile come detto - non è il riequilibrio delle condizioni economiche degli ex coniugi, ma il raggiungimento della indipendenza economica, in tal senso dovendo intendersi la funzione - esclusivamente - assistenziale dell'assegno divorzile.

F) Al di là delle diverse opinioni che si possono avere sulla rilevanza ermeneutica dei lavori preparatori della L. n. 74 del 1987(che inserì nell'art. 5 il fondamentale riferimento alla mancanza di "mezzi adeguati" e alla "impossibilità di procurarseli") in senso innovativo (come sosteneva una parte della dottrina che imputava alla giurisprudenza precedente di avere favorito una concezione patrimonialistica della condizione coniugale) o sostanzialmente conservativo del precedente assetto (si legga in tal senso il brano della sentenza delle Sezioni Unite n. 11490/1990 che considerava non giustificato "l'abbandono di quella parte dei criteri interpretativi adottati in passato per il giudizio sull'esistenza del diritto all'assegno"), non v'è dubbio che chiara era la volontà del legislatore del 1987 di evitare che il giudizio sulla "adeguatezza dei mezzi" fosse riferito "alle condizioni del soggetto pagante" anzichè "alle necessità del soggetto creditore": ciò costituiva "un profilo sul quale, al di là di quelle che possono essere le convinzioni personali del relatore, qui irrilevanti, si è realizzata la convergenza della Commissione" (cfr. intervento del relatore, sen. N. Lipari, in Assemblea del Senato, 17 febbraio 1987, 561a sed. pom., resoconto stenografico, pag. 23). Nel giudizio sull'an debeatur, infatti, non possono rientrare valutazioni di tipo comparativo tra le condizioni economiche degli ex coniugi, dovendosi avere riguardo esclusivamente alle condizioni del soggetto richiedente l'assegno successivamente al divorzio.

Le osservazioni critiche sinora esposte non sono scalfite: a) nè dalla sentenza della Corte costituzionale n. 11 del 2015, che ha sostanzialmente recepito l'orientamento in questa sede non condiviso, senza peraltro prendere posizione sulla sostanza delle censure formulate dal giudice rimettente, riducendo quella sollevata ad una mera questione di "erronea interpretazione" della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, e omettendo di considerare che, in una precedente occasione, nell'escludere la completa equiparabilità del trattamento economico del coniuge divorziato a quello del coniuge separato, aveva affermato che "(....) basterebbe rilevare che per il divorziato l'assegno di mantenimento non è correlato al tenore di vita matrimoniale" (sentenza n. 472 del 1989, n. 3 del Considerato in diritto); b) e neppure dalle disposizioni di cui al comma 9 dello stesso art. 5 - secondo cui: "I coniugi devono presentare all'udienza di comparizione avanti al presidente del tribunale la dichiarazione personale dei redditi e ogni documentazione relativa ai loro redditi e al loro patrimonio personale e comune. In caso di contestazioni il tribunale dispone indagini sui redditi, sui patrimoni e sull'effettivo tenore di vita, valendosi, se del caso, anche della polizia tributaria" -, in quanto il parametro dell'"effettivo tenore di vita" è richiamato esclusivamente al fine dell'accertamento dell'effettiva consistenza reddituale e patrimoniale dei coniugi: infatti - se il primo periodo è dettato al solo fine di consentire al presidente del tribunale, nell'udienza di comparizione dei coniugi, di dare su base documentale "i provvedimenti temporanei e urgenti (anche d'ordine economico) che reputa opportuni nell'interesse dei coniugi e della prole" (art. 4, comma 8) -, il secondo periodo invece, che presuppone la "contestazione" dei documenti prodotti (concernenti i rispettivi redditi e patrimoni), nell'affidare al "tribunale" le relative "indagini", cioè l'accertamento di tali componenti economico-fiscali, richiama il parametro dell'"effettivo tenore di vita" al fine, non già del riconoscimento del diritto all'assegno di divorzio al "singolo" ex coniuge che lo fa valere ma, appunto, dell'accertamento circa l'attendibilità di detti documenti e dell'effettiva consistenza dei rispettivi redditi e patrimoni e, quindi, del "giudizio comparativo" da effettuare nella fase del quantum debeatur. E' significativo, al riguardo, che il riferimento agli elementi del "reddito" e del "patrimonio" degli ex coniugi è contenuto proprio nella prima parte del comma 6 dell'art. 5 relativa a tale fase del giudizio.

2.3. - Le precedenti osservazioni critiche verso il parametro del "tenore di vita" richiedono, pertanto, l'individuazione di un parametro diverso, che sia coerente con le premesse.

Il Collegio ritiene che un parametro di riferimento siffatto - cui rapportare il giudizio sull'"adeguatezza-inadeguatezza" dei "mezzi" dell'ex coniuge richiedente l'assegno di divorzio e sulla "possibilità-impossibilità "per ragioni oggettive"" dello stesso di procurarseli - vada individuato nel raggiungimento dell'"indipendenza economica" del richiedente: se è accertato che quest'ultimo è "economicamente indipendente" o è effettivamente in grado di esserlo, non deve essergli riconosciuto il relativo diritto.

Tale parametro ha, innanzitutto, una espressa base normativa: infatti, esso è tratto dal vigente art. 337-septies, primo comma, cod. civ. - ma era già previsto dall'art. 155-quinquies, comma 1, inserito dalla L. 8 febbraio 2006, n. 54, art. 1, comma 2, - il quale, recante "Disposizioni in favore dei figli maggiorenni", stabilisce, nel primo periodo: "Il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico".

La legittimità del richiamo di questo parametro - e della sua applicazione alla fattispecie in esame - sta, innanzitutto, nell'analogia legis (art. 12, comma 2, primo periodo, delle disposizioni sulla legge in generale) tra tale disciplina e quella dell'assegno di divorzio, in assenza di uno specifico contenuto normativo della nozione di "adeguatezza dei mezzi", a norma dellaL. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, trattandosi in entrambi i casi, mutatis mutandis, di prestazioni economiche regolate nell'ambito del diritto di famiglia e dei relativi rapporti.

In secondo luogo, il parametro della "indipendenza economica" - se condiziona negativamente il diritto del figlio maggiorenne alla prestazione ("assegno periodico") dovuta dai genitori, nonostante le garanzie di uno status filiationis tendenzialmente stabile e permanente ( art. 238 cod. civ. ) e di una specifica previsione costituzionale (art. 30, comma 1) che riconosce anche allo stesso figlio maggiorenne il diritto al mantenimento, all'istruzione ed alla educazione -, a maggior ragione può essere richiamato ed applicato, quale condizione negativa del diritto all'assegno di divorzio, in una situazione giuridica che, invece, è connotata dalla perdita definitiva dello status di coniuge - quindi, dalla piena riacquisizione dello status individuale di "persona singola" - e dalla mancanza di una garanzia costituzionale specifica volta all'assistenza dell'ex coniuge come tale. Nè varrebbe obiettare chel'art. 337-ter c.c. , comma 4, n. 2, (corrispondente all'art. 155 c.c. , comma 4, n. 2, nel testo sostituito dalla citata L. n. 54 del 2006, art. 1, comma 1) fa riferimento al "tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori": tale parametro si riferisce esclusivamente al figlio minorenne e ai criteri per la determinazione ("quantificazione") del contributo di "mantenimento", inteso lato sensu, a garanzia della stabilità e della continuità dello status filiationis, indipendentemente dalle vicende matrimoniali dei genitori.

In terzo luogo, a ben vedere, anche la ratio dell'art. 337-septies c.c. , comma 1, - come pure quella della L. n. 898 del 1970, art.5, comma 6, alla luce di quanto già osservato (cfr., supra, sub n. 2.2) - è ispirata al principio dell'"autoresponsabilità economica". A tale riguardo, è estremamente significativo quanto affermato da questa Corte con la sentenza n. 18076 del 2014, che ha escluso l'esistenza di un obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente (nella specie, entrambi ultraquarantenni), ovvero di un diritto all'assegnazione della casa coniugale di proprietà del marito, sul mero presupposto dello stato di disoccupazione dei figli, pur nell'ambito di un contesto di crisi economica e sociale: "(....) La situazione soggettiva fatta valere dal figlio che, rifiutando ingiustificatamente in età avanzata di acquisire l'autonomia economica tramite l'impegno lavorativo, chieda il prolungamento del diritto al mantenimento da parte dei genitori, non è tutelabile perchè contrastante con il principio di autoresponsabilità che è legato alla libertà delle scelte esistenziali della persona (....)".

Tale principio di "autoresponsabilità" vale certamente anche per l'istituto del divorzio, in quanto il divorzio segue normalmente la separazione personale ed è frutto di scelte definitive che ineriscono alla dimensione della libertà della persona ed implicano per ciò stesso l'accettazione da parte di ciascuno degli ex coniugi - irrilevante, sul piano giuridico, se consapevole o no - delle relative conseguenze anche economiche.

Questo principio, inoltre, appartiene al contesto giuridico Europeo, essendo presente da tempo in molte legislazioni dei Paesi dell'Unione, ove è declinato talora in termini rigorosi e radicali che prevedono, come regola generale, la piena autoresponsabilità economica degli ex coniugi, salve limitate - anche nel tempo - eccezioni di ausilio economico, in presenza di specifiche e dimostrate ragioni di solidarietà.

In questa prospettiva, il parametro della "indipendenza economica" è normativamente equivalente a quello di "autosufficienza economica", come è dimostrato - tenuto conto della derivazione di tale parametro dall'art. 337-septies c.c. , comma 1 - dal citato D.L. n. 132 del 2014, art. 12, comma 2, laddove non consente la formalizzazione della separazione consensuale o del divorzio congiunto dinanzi all'ufficiale dello stato civile "in presenza (....) di figli maggiorenni (....) economicamente non autosufficienti".

2.4. - E' necessario soffermarsi sul parametro dell'"indipendenza economica", al quale rapportare l'"adeguatezza-inadeguatezza" dei "mezzi" dell'ex coniuge richiedente l'assegno di divorzio, nonchè la "possibilità-impossibilità "per ragioni oggettive"" dello stesso di procurarseli.

Va preliminarmente osservato al riguardo, in coerenza con le premesse e con la stessa nozione di "indipendenza" economica, che: a) il relativo accertamento nella fase dell'an debeatur attiene esclusivamente alla persona dell'ex coniuge richiedente l'assegno come singolo individuo, cioè senza alcun riferimento al preesistente rapporto matrimoniale; b) soltanto nella fase del quantum debeatur è legittimo procedere ad un "giudizio comparativo" tra le rispettive "posizioni" (lato sensu intese) personali ed economico-patrimoniali degli ex coniugi, secondo gli specifici criteri dettati dalla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, per tale fase del giudizio.

Ciò premesso, il Collegio ritiene che i principali "indici" - salvo ovviamente altri elementi, che potranno eventualmente rilevare nelle singole fattispecie - per accertare, nella fase di giudizio sull'an debeatur, la sussistenza, o no, dell'indipendenza economica" dell'ex coniuge richiedente l'assegno di divorzio - e, quindi, l'adeguatezza", o no, dei "mezzi", nonchè la possibilità, o no "per ragioni oggettive", dello stesso di procurarseli possono essere così individuati:

1) il possesso di redditi di qualsiasi specie; 2) il possesso di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari, tenuto conto di tutti gli oneri lato sensu "imposti" e del costo della vita nel luogo di residenza ("dimora abituale": art. 43 c.c. , comma 2) della persona che richiede l'assegno; 3) le capacità e le possibilità effettive di lavoro personale, in relazione alla salute, all'età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo; 4) la stabile disponibilità di una casa di abitazione.

Quanto al regime della prova della non "indipendenza economica" dell'ex coniuge che fa valere il diritto all'assegno di divorzio, non v'è dubbio che, secondo la stessa formulazione della disposizione in esame e secondo i normali canoni che disciplinano la distribuzione del relativo onere, allo stesso spetta allegare, dedurre e dimostrare di "non avere mezzi adeguati" e di "non poterseli procurare per ragioni oggettive". Tale onere probatorio ha ad oggetto i predetti indici principali, costitutivi del parametro dell'indipendenza economica", e presuppone tempestive, rituali e pertinenti allegazioni e deduzioni da parte del medesimo coniuge, restando fermo, ovviamente, il diritto all'eccezione e alla prova contraria dell'altro (cfr. L. n. 898 del 1970,art. 4, comma 10).

In particolare, mentre il possesso di redditi e di cespiti patrimoniali formerà normalmente oggetto di prove documentali - salva comunque, in caso di contestazione, la facoltà del giudice di disporre al riguardo indagini officiose, con l'eventuale ausilio della polizia tributaria ( L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 9) -, soprattutto "le capacità e le possibilità effettive di lavoro personale" formeranno oggetto di prova che può essere data con ogni mezzo idoneo, anche di natura presuntiva, fermo restando l'onere del richiedente l'assegno di allegare specificamente (e provare in caso di contestazione) le concrete iniziative assunte per il raggiungimento dell'indipendenza economica, secondo le proprie attitudini e le eventuali esperienze lavorative.

2.5. - Pertanto, devono essere enunciati i seguenti principi di diritto.

Il giudice del divorzio, richiesto dell'assegno di cui alla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, come sostituito dalla L. n. 74 del 1987, art. 10, nel rispetto della distinzione del relativo giudizio in due fasi e dell'ordine progressivo tra le stesse stabilito da tale norma:

A) deve verificare, nella fase dell'an debeatur - informata al principio dell'"autoresponsabilità economica" di ciascuno degli ex coniugi quali "persone singole", ed il cui oggetto è costituito esclusivamente dall'accertamento volto al riconoscimento, o no, del diritto all'assegno di divorzio fatto valere dall'ex coniuge richiedente -, se la domanda di quest'ultimo soddisfa le relative condizioni di legge (mancanza di "mezzi adeguati" o, comunque, impossibilità "di procurarseli per ragioni oggettive"), con esclusivo riferimento all'"indipendenza o autosufficienza economica" dello stesso, desunta dai principali "indici" - salvo altri, rilevanti nelle singole fattispecie - del possesso di redditi di qualsiasi specie e/o di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari (tenuto conto di tutti gli oneri lato sensu "imposti" e del costo della vita nel luogo di residenza dell'ex coniuge richiedente), delle capacità e possibilità effettive di lavoro personale (in relazione alla salute, all'età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo), della stabile disponibilità di una casa di abitazione; ciò, sulla base delle pertinenti allegazioni, deduzioni e prove offerte dal richiedente medesimo, sul quale incombe il corrispondente onere probatorio, fermo il diritto all'eccezione ed alla prova contraria dell'altro ex coniuge;

B) deve "tener conto", nella fase del quantum debeatur - informata al principio della "solidarietà economica" dell'ex coniuge obbligato alla prestazione dell'assegno nei confronti dell'altro in quanto "persona" economicamente più debole ( artt. 2 e 23 Cost. ), il cui oggetto è costituito esclusivamente dalla determinazione dell'assegno, ed alla quale può accedersi soltanto all'esito positivo della prima fase, conclusasi con il riconoscimento del diritto -, di tutti gli elementi indicati dalla norma ("(....) condizioni dei coniugi, (....) ragioni della decisione, (....) contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, (....) reddito di entrambi (....)"), e "valutare" "tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio", al fine di determinare in concreto la misura dell'assegno di divorzio; ciò sulla base delle pertinenti allegazioni, deduzioni e prove offerte, secondo i normali canoni che disciplinano la distribuzione dell'onere della prova ( art. 2697 cod. civ.).

2.6. - Venendo ai motivi del ricorso, da esaminare congiuntamente alla luce dei principi di diritto poc'anzi enunciati, essi sono infondati.

La sentenza impugnata, nell'escludere il diritto, invocato dalla L., all'attribuzione dell'assegno divorzile, non ha avuto riguardo, in concreto, al criterio della conservazione del tenore di vita matrimoniale, che pure ha genericamente richiamato ma sul quale non ha indagato.

In tal modo, la Corte di merito si è sostanzialmente discostata dall'orientamento giurisprudenziale in questa sede criticato, come rilevato dal P.G., e tuttavia è pervenuta a una conclusione conforme a diritto, avendo ritenuto - in definitiva - che l'attrice non avesse assolto l'onere di provare la sua non indipendenza economica, all'esito di un giudizio di fatto - ad essa riservato - adeguatamente argomentato, dal quale emerge che la L. è imprenditrice, ha un'elevata qualificazione culturale, possiede titoli di alta specializzazione e importanti esperienze professionali anche all'estero e che, in sede di separazione, i coniugi avevano pattuito che nessun assegno di mantenimento fosse dovuto dal G..

La motivazione in diritto della sentenza impugnata dev'essere quindi corretta (come si è detto sub n. 2.1), coerentemente con i principi sopra enunciati (sub n. 2.5, lett. A).

3. - In conclusione, il ricorso è rigettato.

Le spese del presente giudizio devono essere compensate, in considerazione del mutamento di giurisprudenza su questione dirimente per la decisione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio.

Doppio contributo a carico della ricorrente, come per legge.

In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi.

Così deciso in Roma, il 10 febbraio 2017.

Depositato in Cancelleria il 10 maggio 2017

 

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La Corte europea dei diritti umani condanna la Germania.

Con la decisione Mitzinger v. Germany (ricorso n. 29762/10) del 9 febbraio 2017, la Corte di Strasburgo ha condannato...

Con la decisione Mitzinger v. Germany (ricorso n. 29762/10) del 9 febbraio 2017, la Corte di Strasburgo ha condannato la Germania per la violazione dell'art. 14 CEDU (principio di non discriminazione) in combinato disposto con l'art. 8 CEDU (protezione della vita privata e familiare) perché non ha garantito uguaglianza di trattamento tra i figli legittimi e quelli naturali nati prima del 1 gennaio 1949, perché prima di allora i figli naturali erano esclusi dal riconoscimento della qualità di erede e di una compensazione economica dei loro diritti ereditari.

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Sentenza n. 4822/2012 mediazione

Diritto alla provvigione nella intermediazione immobiliare.

Anche la semplice attività consistente nel reperimento e nell’indicazione dell’altro contraente, o nella segnalazione dell’affare, legittima il diritto alla provvigione, sempre che la descritta attività costituisca il risultato utile di una ricerca fatta dal mediatore e poi valorizzata dalle parti. Una volta concluso l’affare - qualora il contratto sia intervenuto tra le stese parti che il mediatore aveva messo in relazione - è irrilevante e non consente di escludere il nesso causale tra l’attività del mediatore e la conclusione dell’affare la circostanza che la trattativa si sia conclusa a condizioni diverse (nella specie a un prezzo inferiore, rispetto a quello inizialmente richiesto dal venditore), con l’intervento di altro mediatore e successivamente alla scadenza dell’incarico.

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Accesso alle origini. L'intervento delle Sezioni Unite.

In tema di parto anonimo (...) sussiste la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio desideroso di conoscere le proprie origini e di accedere alla propria storia parentale, di interpellare la madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata...

Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 25/01/2017, n. 1946. 


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RORDORF Renato - Primo Presidente f.f. -

Dott. SCHIRO' Stefano - Presidente di Sez. -

Dott. AMOROSO Giovanni - Presidente di Sez. -

Dott. DIDONE Antonio - Presidente di Sez. -

Dott. DI IASI Camilla - Presidente di Sez. -

Dott. PETITTI Stefano - Presidente di Sez. -

Dott. RAGONESI Vittorio - Consigliere -

Dott. D'ANTONIO Enrica - Consigliere -

Dott. GIUSTI Alberto - rel. Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 7475/2016 proposto da:

PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE;

- ricorrente -

in relazione al decreto della Corte d'appello di Milano in data 10 marzo 2015 (R.G. 649-2014 V.G.);

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 20 dicembre 2016 dal Consigliere Alberto Giusti;

udito il Pubblico Ministero, in persona dell'Avvocato generale Dott. FUZIO Riccardo.

Svolgimento del processo

1. - Il Procuratore generale presso la Corte di cassazione, con atto in data 30 marzo 2016, ha chiesto a questa Corte, ai sensi dell'art. 363 c.p.c. , comma 1, l'enunciazione nell'interesse della legge del principio di diritto al quale la Corte d'appello di Milano, sezione delle persone, dei minori e della famiglia, avrebbe dovuto attenersi nel decidere, con il decreto in data 10 marzo 2015, il reclamo proposto dal figlio maggiorenne nato da parto anonimo, il quale aveva fatto istanza al giudice di verificare, attraverso un interpello riservato, la persistenza della volontà della madre di non essere nominata.

2. - La richiesta scaturisce da una nota del Presidente dell'Associazione italiana dei magistrati per i minorenni e per la famiglia che ha sottoposto alla valutazione dell'Ufficio del pubblico ministero presso la Corte di cassazione il contrasto esistente nella giurisprudenza di merito in materia di parto anonimo e ricerca delle proprie origini da parte dell'adottato a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 278 del 2013.

Con tale sentenza è stata dichiarata "l'illegittimità costituzionale della L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 28, comma 7, (Diritto del minore ad una famiglia), come sostituito dal D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 177, comma 2, (Codice in materia di protezione dei dati personali), nella parte in cui non prevede - attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza - la possibilità per il giudice di interpellare la madre - che abbia dichiarato di non voler essere nominata ai sensi del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, art. 30, comma 1, (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell'ordinamento dello stato civile, a norma della L. 15 maggio 1997, n. 127, art. 2, comma 12) - su richiesta del figlio, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione".

3. - Riferisce il Pubblico ministero requirente che, rigettando il reclamo del figlio, la Corte d'appello di Milano ha aderito all'orientamento (seguito anche dai Tribunali per i minorenni di Milano, di Catania, di Bologna, di Brescia e di Salerno) che ritiene necessario attendere l'intervento del legislatore per dare corso alla richiesta del figlio a che il giudice interpelli in via riservata la madre naturale circa la persistenza della sua volontà di non essere nominata.

Secondo questo indirizzo, in mancanza di intervento da parte del Parlamento, l'interpello della madre non potrebbe avvenire con modalità direttamente individuate dal giudice, in quanto la Corte costituzionale - con l'inciso, che compare nel dispositivo della pronuncia, "attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza" - avrebbe istituito una esplicita riserva di legge per non vanificare la garanzia di segretezza sul parto riconosciuta dall'ordinamento alla donna.

L'impossibilità di un'attuazione per via giudiziaria della sentenza della Corte costituzionale dipenderebbe dalla sua natura di pronuncia additiva di principio, con contestuale rinvio alla legge per la necessaria disciplina di dettaglio. L'intervento del giudice si appaleserebbe indebito ed invasivo degli altri poteri dello Stato, perchè creativo ex novo di un procedimento, tra l'altro di per sè non risolutivo in caso di indisponibilità, da parte della struttura che conserva i documenti, a comunicare le informazioni che consentano di risalire alla identità della madre. Il punto di equilibrio tra i due diritti in gioco - quello del figlio a conoscere le proprie origini e quello della madre di mantenere l'anonimato - si realizzerebbe proprio attraverso la disciplina del procedimento di interpello, in considerazione della pluralità di soluzioni idonee a ristabilire la legittimità costituzionale, tra loro fungibili poichè compatibili con il principio che si tratta di attuare attraverso l'esercizio della discrezionalità legislativa.

Sarebbero configurabili anche ostacoli di carattere processuale, perchè la piena attuazione del contraddittorio assicurata alle parti (anche) nei procedimenti in camera di consiglio, con il diritto di accedere liberamente a tutte le risultanze istruttorie, confliggerebbe con la necessità della massima riservatezza di questo procedimento.

4. - Il Procuratore generale osserva che vi è un'altra parte dei giudici di merito (il Tribunale per i minorenni di Trieste; il Tribunale per i minorenni per il Piemonte e la Valle d'Aosta; la Corte d'appello di Catania, sezione della famiglia, della persona e dei minori) che, in forza dei principi enunciati dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo (nella sentenza 25 settembre 2012 Godelli c. Italia) e per effetto della sentenza di illegittimità costituzionale del 2013, ammette la possibilità di interpello riservato anche senza legge.

Secondo questo orientamento, la norma dichiarata incostituzionale non potrebbe più essere applicata.

Nell'individuare la regola per il caso concreto, il giudice, al fine di conoscere la volontà attuale della madre se intenda mantenere ferma o meno la scelta originaria per l'anonimato, dovrebbe utilizzare come parametri di riferimento la disciplina generale sul tema (rinvenibile nella L. n. 184 del 1983, art. 28) e la normativa in materia di procedimenti in camera di consiglio e di protezione dei dati personali.

Pur nel perdurante silenzio del legislatore sulle modalità di interpello della madre biologica anonima, il giudice non potrebbe sottrarsi dal dare concreta attuazione al diritto fondamentale del figlio a conoscere la propria identità, nel rispetto del contrapposto diritto all'anonimato della madre.

5. - Il Procuratore generale rileva che, in presenza di questi due diversi e contrastanti approdi interpretativi emersi nella giurisprudenza di merito, talora all'interno della stessa sede giudiziaria, è configurabile un oggettivo interesse alla enunciazione di un principio di diritto nell'interesse della legge, per la indubbia rilevanza generale e sociale del tema che ne è alla base; e segnala l'opportunità che, su una questione di diritto così delicata, anche la Corte di cassazione (nella composizione ordinaria o a sezioni unite) aggiunga la propria voce nel dialogo che si è instaurato tra le Corti.

In particolare, ad avviso del pubblico ministero, gli aspetti della questione di diritto sottesa alla richiesta ai sensi dell'art. 363 c.p.c. , comma 1, sarebbero due.

Il primo riguarda il rapporto tra il diritto di ogni persona a conoscere le proprie origini ed il "contrapposto" diritto all'oblio della donna che ha partorito avvalendosi dell'anonimato, e la consequenziale tutela che agli stessi è riconosciuta nell'ordinamento italiano dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 278 del 2013.

Il secondo investe l'interpretazione della pronuncia della Corte costituzionale ed il suo inquadramento nell'ambito delle diverse tipologie decisorie, al fine di tracciare gli spazi ed i limiti di intervento del giudice comune nell'esercizio concreto del suo potere giurisdizionale e nel rispetto delle prerogative del Parlamento.

6. - Il Procuratore generale ha concluso chiedendo che la Corte di cassazione enunci, in una prospettiva di orientamento del giudice, il seguente principio di diritto: "Per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 278 del 2013, va affermata l'esistenza del diritto dell'adottato (e comunque del) nato da parto anonimo a conoscere le proprie origini con il limite dell'accertata persistenza della volontà della madre biologica di mantenere il segreto; l'esercizio del diritto trova attuazione mediante istanza dell'adottato rivolta al giudice, che dovrà procedere all'interpello della madre con modalità idonee a preservare la massima riservatezza nell'assunzione delle informazioni in ordine alla volontà della donna di mantenere ferma la dichiarazione di anonimato o di revocarla".

6.1. - A tale conclusione il pubblico ministero perviene sul rilievo che la sentenza n. 278 del 2013 è di accoglimento ed il suo contenuto non si risolve soltanto nella addizione di un principio, ma anche nella indicazione di una regola chiara circa la possibilità di interpello della madre da parte del giudice su richiesta del figlio. La perdurante inerzia del legislatore non potrebbe oltremodo giustificare la violazione di un diritto del figlio, il cui riconoscimento e la cui tutela non trovano più alcun ostacolo normativo nella L. n. 184 del 1983, art. 28, comma 7, ormai espunto dall'ordinamento.

7. - Data la particolare rilevanza della questione, il Primo Presidente ha disposto che, sulla richiesta del Procuratore generale, la Corte si pronunci a sezioni unite.

8. - In prossimità dell'udienza pubblica del 20 dicembre 2016, il pubblico ministero ha depositato note illustrative.

Premesso che l'anonimato è una scelta di sistema che vuole favorire la genitorialità naturale ed impedisce l'insorgenza di una genitorialità giuridica, ma che la irreversibilità di questa scelta è stata riconosciuta contrastante con il diritto del figlio a conoscere le proprie origini in quanto diritto coessenziale ad ogni persona umana anche se nata da madre legittimata a rimanere anonima, il Procuratore generale requirente individua i referenti normativi per le modalità di interpello nell'art. 93 del codice in materia di protezione dei dati personali e nella stessa L. n. 184 del 1983, art. 28.

Inoltre, l'Ufficio del pubblico ministero osserva che "l'applicazione diretta" della sentenza di incostituzionalità è già intervenuta con due recenti pronunce della 1 Sezione civile della Corte di cassazione, le quali hanno statuito che l'anonimato vale solo per la madre in vita e che, pertanto, dopo la morte della genitrice biologica che aveva scelto il segreto, il figlio adottato può conoscerne l'identità (sentenza 21 luglio 2016, n. 15024; sentenza 9 novembre 2016, n. 22838).

Motivi della decisione

1. - La richiesta sottoposta all'esame di queste Sezioni Unite concerne la materia del parto anonimo e del diritto del figlio non riconosciuto alla nascita, e adottato da terzi, ad accedere alle informazioni che riguardano la sua origine naturale.

In particolare, essa pone la questione se la sentenza della Corte costituzionale n. 278 del 2013 - che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale, in parte qua, della L. n. 184 del 1983, art. 28, comma 7, - rimetta la sua stessa efficacia ad un successivo intervento del legislatore recante la disciplina del procedimento di interpello riservato, in assenza della quale il tribunale per i minorenni, sollecitato dal figlio interessato a conoscere i suoi veri natali, non potrebbe procedere a contattare la madre per verificare se intenda tornare sopra la scelta per l'anonimato fatta al momento del parto; o se, al contrario, il principio somministrato dalla Corte con la citata pronuncia, in attesa della organica e compiuta normazione da parte del Parlamento, si presti ad essere per l'intanto tradotto dal giudice comune in regole sussidiariamente individuate dal sistema, ancorchè solo a titolo precario.

2. - La Corte d'appello di Milano, sezione delle persone, dei minori e della famiglia, con il decreto in data 10 marzo 2015 da cui ha preso avvio la richiesta del Procuratore generale di enunciazione del principio nell'interesse della legge, ha ritenuto che la mancanza di disciplina legislativa volta a regolamentare l'interpello della madre naturale circa la perdurante attualità della sua scelta di non voler essere nominata, precluda di dare corso alla istanza del figlio.

Secondo i giudici del merito, la Corte costituzionale, con la sentenza additiva di principio, ha affidato la concreta soluzione adeguatrice al legislatore, chiamato a stabilire quali siano le modalità per colmare il rilevato vuoto normativo. Il rinvio al legislatore, compenetrato nella stessa dichiarazione di incostituzionalità, troverebbe spiegazione nel variegato panorama di scelte in concreto praticabili per dare attuazione al principio dell'interpello riservato della madre anonima. In mancanza nel nostro ordinamento di una disciplina immediatamente estensibile al caso di specie e in presenza della espressa previsione, da parte della Corte costituzionale, di una riserva di legge sul procedimento di interpello riservato della madre anonima, il tribunale per i minorenni non potrebbe muoversi, non essendo consentita, in attesa dell'intervento legislativo, un'attività giurisdizionale surrogatoria rivolta a dare immediata attuazione ai diritti costituzionali dei soggetti coinvolti. Il dictum della Corte potrebbe trovare applicazione da parte degli organi della giurisdizione ordinaria solo quando si sarà trasformato in diritto positivo ad opera di una conforme regola legislativa.

3. - Il pubblico ministero presso la Corte di cassazione ritiene che il giudice del merito, adito in sede di reclamo, avrebbe dovuto invece legittimare l'inoltro riservato della richiesta alla madre naturale per accertarsi se ella volesse o meno mantenere il riserbo dell'anonimato di fronte al desiderio del figlio di conoscere la sua identità naturale. E chiede che la Corte enunci, nell'interesse della legge, il corrispondente principio di diritto di cui il giudice del reclamo avrebbe dovuto fare applicazione.

4. - La richiesta del Procuratore generale è ammissibile, sussistendo i presupposti alla presenza dei quali l'art. 363 cod. proc. civ. , secondo la lettura datane dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass., Sez. U., 18 novembre 2016, n. 23469), condiziona l'enunciazione del principio di diritto:

a) l'avvenuta pronuncia di almeno uno specifico provvedimento non impugnato o non impugnabile;

b) la reputata illegittimità del provvedimento stesso, quale indefettibile momento di collegamento con una concreta fattispecie;

c) l'interesse della legge, quale interesse generale o trascendente quello delle parti, all'affermazione di un principio di diritto per l'importanza di una sua formulazione espressa.

In primo luogo, infatti, le parti del giudizio a quo non hanno proposto ricorso nei termini di legge avverso la statuizione di rigetto del reclamo resa dalla Corte d'appello di Milano con il decreto depositato il 10 marzo 2015. E tanto basta a ritenere sussistente il requisito di legge, giacchè l'art. 363 c.p.c. , comma 1 richiede che le parti non abbiano proposto ricorso o vi abbiano rinunciato, ovvero che il provvedimento non sia ricorribile per cassazione e non sia altrimenti impugnabile; essendo così ultroneo verificare, altresì, se quel provvedimento - in concreto non impugnato - avrebbe potuto esserlo dinanzi a questa Corte o se si tratti di un provvedimento non ricorribile per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost. per la mancanza dei requisiti della decisorietà e della definitività.

Sussiste anche il requisito sub b). Nella sua richiesta di enunciazione del principio di diritto, invero, il Procuratore generale specifica di averla formulata, non in via astratta o esplorativa, ma con riferimento ad un ben preciso e pertinente caso della vita venuto all'esame della Corte d'appello di Milano e risolto con l'adesione ad una interpretazione della disciplina di riferimento opposta a quella seguita da altri giudici di merito e qui sollecitata dallo stesso requirente con la denuncia dell'errore e con l'istanza a questa Corte di ristabilire l'ordine del sistema (cfr. Cass., Sez. U., 11 gennaio 2011, n. 404).

Infine, l'opportunità di intervenire con l'enunciazione di un principio di diritto è positivamente ed effettivamente riscontrabile nella fattispecie in esame: sia per il ravvisato contrasto di tesi tra i giudici di merito e per la mancanza di pronunce di questa Corte che abbiano affrontato espressamente la questione della possibilità o meno per il figlio nato da parto anonimo di attivare, nel contesto scaturito dalla pronuncia della Corte costituzionale, un procedimento di interpello riservato diretto a verificare la persistenza della volontà della madre di non essere nominata; sia perchè il tema - che investe valori costituzionali di primario rilievo reciprocamente connessi nei modi di concretizzazione - presenta un'oggettiva rilevanza generale, anche per le implicazioni relative al ruolo di garanzia che la giurisdizione comune è chiamata a svolgere nel dare seguito, nella decisione dei casi concreti, alla pronuncia di incostituzionalità, in difetto dell'intervento di regolamentazione legislativa.

5. - La richiesta del Procuratore generale è fondata.

6. - Nel quadro di una disciplina, dettata dalla L. n. 184 del 1983, art. 28, commi 5, 6 e 8, nel testo sostituito dalla L. n. 149 del 2001 , che attribuisce al figlio adottivo che abbia raggiunto l'età di venticinque anni il diritto potestativo di accedere a informazioni che riguardano la sua origine e l'identità dei suoi genitori biologici (ferma ovviamente l'identità acquistata con la relazione di genitorialità esclusiva con il padre e la madre adottivi), e che consente l'esercizio di questo diritto, funzionale alla costruzione della propria identità, anche prima dei venticinque anni, al figlio che abbia raggiunto la maggiore età, se sussistono gravi e comprovati motivi attinenti alla sua salute psico-fisica (prevedendosi che l'istanza di autorizzazione - non richiesta quando i genitori adottivi sono deceduti o divenuti irreperibili - deve essere presentata al tribunale per i minorenni del luogo di residenza), il comma 7 della medesima disposizione stabiliva, come norma di chiusura di tale sistema, una regola invalicabile per il figlio nato da parto anonimo: "(l')accesso alle informazioni non è consentito nei confronti della madre che abbia dichiarato alla nascita di non volere essere nominata ai sensi del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, art. 30, comma 1".

Il citato art. 28, comma 7, andava letto in collegamento, appunto, con l'art. 30 del regolamento per la revisione e la semplificazione dell'ordinamento dello stato civile, in tema di dichiarazione di nascita, ove è prevista la necessità di rispettare "l'eventuale volontà della madre di non essere nominata"; e con l'art. 93 del codice in materia di protezione dei dati personali, che non permette all'interessato l'accesso al certificato di assistenza al parto o alla cartella clinica, contenenti le informazioni identificative della madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata al momento della nascita, se non trascorsi cento anni dalla formazione di quei documenti.

La scelta compiuta dalla madre al momento del parto si connotava così per l'assolutezza e l'irreversibilità, proiettandosi su di un arco di tempo eccedente la durata normale della vita umana: in presenza dell'ostacolo dell'anonimato, il giudice non poteva fornire alcuna informazione identificativa al figlio.

7. - La disciplina dell'art. 28, comma 7, aveva superato indenne, nel 2005, il vaglio di legittimità costituzionale.

Investita, in riferimento agli artt. 2, 3 e 32 Cost. , di una questione sollevata nella parte in cui la norma escludeva la possibilità di autorizzare l'adottato all'accesso alle informazioni sulle origini senza la previa verifica, da parte del giudice, della persistenza della volontà della madre biologica di non essere nominata, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 425 del 2005, la giudicò infondata.

Ritenne la Corte che l'assolutezza del diritto all'anonimato era "espressione di una ragionevole valutazione comparativa dei diritti inviolabili dei soggetti della vicenda", rappresentando la garanzia che il legislatore ha ritenuto necessaria per assicurare che il parto avvenga "in condizioni ottimali, sia per la madre che per il figlio", e per "distogliere la donna da decisioni irreparabili, per quest'ultimo ben più gravi". "L'esigenza di perseguire efficacemente questa duplice finalità" scrisse in quell'occasione il giudice delle leggi - "spiega perchè la norma non preveda per la tutela dell'anonimato della madre nessun tipo di limitazione, neanche temporale. Invero, la scelta della gestante in difficoltà che la legge vuole favorire - per proteggere tanto lei quanto il nascituro - sarebbe resa oltremodo difficile se la decisione di partorire in una struttura medica adeguata, rimanendo anonima, potesse comportare per la donna, in base alla stessa norma, il rischio di essere, in un imprecisato futuro e su richiesta di un figlio mai conosciuto e già adulto, interpellata dall'autorità giudiziaria per decidere se confermare o revocare quella lontana dichiarazione di volontà".

7.1. - Nuovamente investita della questione, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 278 del 2013, ha ribaltato la precedente decisione e dichiarato l'illegittimità costituzionale, in parte qua, della L. n. 184 del 1983, art. 28, comma 7.

La Corte ha riaffermato il fondamento costituzionale del diritto all'anonimato della madre, il quale riposa "sull'esigenza di salvaguardare madre e neonato da qualsiasi perturbamento, connesso alla più eterogenea gamma di situazioni, personali, ambientali, culturali, sociali, tale da generare l'emergenza di pericoli per la salute psico-fisica e la stessa incolumità di entrambi e da creare, al tempo stesso, le premesse perchè la nascita possa avvenire nelle condizioni migliori possibili"; e ha ribadito che "la salvaguardia della vita e della salute sono... i beni di primario rilievo presenti sullo sfondo di una scelta di sistema improntata nel senso di favorire, per sè stessa, la genitorialità naturale". Ma ha riconosciuto che "anche il diritto del figlio a conoscere le proprie origini - e ad accedere alla propria storia parentale costituisce un elemento significativo nel sistema costituzionale di tutela della persona", e che "il relativo bisogno di conoscenza rappresenta uno di quegli aspetti della personalità che possono condizionare l'intimo atteggiamento e la stessa vita di relazione di una persona in quanto tale".

Così inquadrati i valori costituzionali in gioco, la Corte ha censurato la disciplina legislativa in esame, in precedenza assolta, "per la sua eccessiva rigidità", dichiarando in contrasto con gli artt. 2 e 3 Cost. l'"irreversibilità del segreto". L'art. 28, comma 7, infatti, prefigura una sorta di "cristallizzazione" o di "immobilizzazione" nelle modalità di esercizio del diritto all'anonimato della madre: una volta intervenuta la scelta per l'anonimato, "la relativa manifestazione di volontà assume connotati di irreversibilità destinati, sostanzialmente, ad espropriare la persona titolare del diritto da qualsiasi ulteriore opzione; trasformandosi, in definitiva, quel diritto in una sorta di vincolo obbligatorio, che finisce per avere un'efficacia espansiva esterna al suo stesso titolare e, dunque, per proiettare l'impedimento alla eventuale relativa rimozione proprio sul figlio, alla posizione del quale si è inteso, ab origine, collegare il vincolo del segreto su chi lo abbia generato".

La Corte ha giudicato irragionevole che la scelta per l'anonimato "risulti necessariamente e definitivamente preclusiva anche sul versante dei rapporti relativi alla genitorialità naturale", non essendo legittimo che la volontà espressa in un dato momento non sia "eventualmente revocabile (in seguito alla iniziativa del figlio)".

L'"eccessiva rigidità" sta nella mancata previsione - "attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza" - della possibilità per il giudice di interpellare la madre anonima, su richiesta del figlio, ai fini di un'eventuale revoca di tale dichiarazione.

Al legislatore, in conclusione, è fatto carico di "introdurre apposite disposizioni volte a consentire la verifica della perdurante attualità della scelta della madre naturale di non volere essere nominata" e, nel contempo, "a cautelare in termini rigorosi il suo diritto all'anonimato, secondo scelte procedimentali che circoscrivano adeguatamente le modalità di accesso, anche da parte degli uffici competenti, ai dati di tipo identificativo".

7.2. - Tra la prima e la seconda pronuncia della Corte costituzionale è intervenuta, sulla stessa materia, la Corte Europea dei diritti dell'uomo, con la sentenza 25 settembre 2012 Godelli c. Italia.

Esaminando il caso della signora G., la quale, nata da parto anonimo, si era vista opporre dai giudici italiani un rifiuto assoluto e definitivo di accedere alle proprie origini personali in applicazione della disposizione della L. n. 184 del 1983, art. 28, comma 7, la Corte di Strasburgo ha ricordato che, nel perimetro della tutela offerta dall'art. 8 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, rientra anche la possibilità di disporre dei dettagli sulla propria identità di essere umano, essendo protetto dalla Convenzione "l'interesse vitale... a ottenere delle informazioni necessarie alla scoperta della verità concernente un aspetto importante della propria identità personale, ad esempio l'identità dei propri genitori".

La Corte Europea ha quindi affermato che "la normativa italiana non tenta di mantenere alcun equilibrio tra i diritti e gli interessi concorrenti in causa", ma - in assenza di meccanismi destinati a bilanciare il diritto del figlio "a conoscere le proprie origini con i diritti e gli interessi della madre a mantenere l'anonimato" - dà "una preferenza incondizionata a questi ultimi"; e ciò a differenza di quanto previsto nel sistema francese (esaminato nella sentenza della Grande Camera 13 febbraio 2003 Odievre c. Francia e ritenuto compatibile con la Convenzione), dove è previsto che, su impulso del figlio dato in adozione, volto a conoscere l'identità della madre biologica anonima, si possa almeno chiedere a lei se, davanti a quella richiesta, abbia intenzione di derogare all'anonimato oppure di mantenerlo.

8. - Il Collegio ritiene di dovere innanzitutto sottolineare che la sentenza n. 278 del 2013 della Corte costituzionale è una pronuncia di accoglimento: non si tratta nè di una sentenza di inammissibilità per discrezionalità del legislatore o per mancanza di "rime obbligate", nè di pronuncia di incostituzionalità accertata ma non dichiarata, ossia di una sentenza di inammissibilità o di rigetto accompagnata da un'esortazione o da un monito nei confronti del legislatore affinchè provveda ad una congrua riforma della disciplina.

Trattandosi di una sentenza di illegittimità costituzionale, essa produce gli effetti di cui all'art. 136 Cost. e L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 30, comma 3, sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale: la norma dichiarata costituzionalmente illegittima - nella specie, l'implicita esclusione di qualsiasi possibilità per il figlio nato da parto anonimo di attivare, dinanzi al giudice, un procedimento atto a raccogliere l'eventuale revoca, da parte della madre naturale, della dichiarazione originaria - "cessa di avere efficacia" e "non (può) avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione".

Poichè la norma che escludeva l'interpello della madre ai fini dell'eventuale revoca è stata rimossa dall'ordinamento fin dalla pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale, il giudice non può negare tout court al figlio l'accesso alle informazioni sulle origini per il solo fatto che la madre naturale aveva dichiarato, al momento della nascita, di voler essere celata dietro l'anonimato.

Se lo facesse, senza avere previamente verificato, beninteso con le modalità più discrete e meno invasive possibili, la volontà della donna di mantenere l'anonimato, egli in realtà continuerebbe a dare applicazione al testo della L. n. 184 del 1983, art. 28, comma 7, preesistente alla pronuncia della Corte costituzionale, negando tutela al diritto del figlio in nome di una assolutezza senza eccezione: esito, questo, non consentito, giacchè l'ordinamento collega alla declaratoria di incostituzionalità l'effetto della rimozione della norma giudicata illegittima.

La perdurante applicazione della norma dichiarata incostituzionale si risolverebbe, in definitiva, nel mantenimento del vulnus recato agli artt. 2 e 3 Cost. da una disposizione - il citato art. 28, comma 7 che trasformava il diritto all'anonimato della madre naturale in un vincolo assoluto e immodificabile, indisponibile alla volontà della stessa donna di ritrattarlo, e, non consentendo di guardare, in una prospettiva diacronica, ad uno scenario temporale e di vita proiettato oltre la nascita, sacrificava totalmente il diritto del figlio a conoscere le proprie origini, che "costituisce un elemento significativo nel sistema costituzionale di tutela della persona", senza che ciò fosse strettamente necessario per tutelare il diritto all'anonimato della madre. Un vulnus che la Corte costituzionale non si è limitata ad accertare, ma ha sanato e rimosso, introducendo in via di addizione il principio che il figlio possa chiedere al giudice di interpellare la madre ai fini della revoca della dichiarazione, a suo tempo fatta, di non volere essere menzionata come madre nell'atto di nascita.

8.1. - Si tratta, dunque, di una sentenza additiva di principio, o di meccanismo, che dichiara l'illegittimità costituzionale del citato art. 28, comma 7, "nella parte in cui non prevede" il diritto del figlio a provocare la possibile revoca della scelta dell'anonimato: l'addizione normativa ha ad oggetto, appunto, un principio (opposto a quello che si desumeva dalla disposizione preesistente, dichiarata incostituzionale) di "possibilità per il giudice di interpellare la madre - che abbia dichiarato di non voler essere nominata... - su richiesta del figlio, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione".

Per effetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale, la disposizione dell'art. 28, comma 7, non è rimasta invariata, ma vive nell'ordinamento con l'aggiunta di questo principio ordinatore, capace di esprimere e di fissare un punto di equilibrio tra la posizione del figlio adottato e i diritti della madre. Tale punto di equilibrio si compendia nella riconosciuta possibilità per il giudice di interpellare in via riservata la madre biologica per raccogliere la sua volontà attuale quando c'è un figlio interessato a conoscere la sua vera origine, ma anche nella preferenza da accordare alla scelta della donna, perchè il figlio non ha un diritto incondizionato a conoscere la propria origine e ad accedere alla propria storia parentale, non potendo ottenere le informazioni richieste ove persista il diniego della madre di svelare la propria identità.

E' esatto che la sentenza n. 278 del 2013 non solo lascia impregiudicate le movenze del procedimento di interpello riservato, ma anche specifica, nel dispositivo, che la possibilità per il giudice di interpellare la madre si deve esplicare "attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza"; e ciò, dopo avere affermato, in motivazione, che "(s)arà compito del legislatore introdurre apposite disposizioni volte a consentire la verifica della perdurante attualità della scelta della madre naturale di non voler essere nominata e, nello stesso tempo, a cautelare in termini rigorosi il suo diritto all'anonimato, secondo scelte procedimentali che circoscrivano adeguatamente le modalità di accesso, anche da parte degli uffici competenti, ai dati di tipo identificativo, agli effetti della verifica di cui innanzi si è detto".

E tuttavia, la circostanza che tale pronuncia di incostituzionalità consegni l'addizione ad un principio, senza introdurre regole di dettaglio self-executing quanto al procedimento di appello riservato, e si indirizzi espressamente al legislatore affinchè, previe le necessarie ponderazioni e opzioni politiche, ripiani la lacuna incostituzionale e concretizzi le modalità del meccanismo procedimentale aggiunto, non esonera gli organi giurisdizionali, in attesa che il legislatore adempia al suo compito, dall'applicazione diretta di quel principio, nè implica un divieto di reperimento dal sistema delle regole più idonee per la decisione dei casi loro sottoposti.

Per un verso, infatti, l'affermazione di principio contenuta nel dispositivo di incostituzionalità non è semplice espressione di orientamento di politica del diritto, destinata a trovare realizzazione a condizione di un futuro intervento del legislatore che trasformi la pronuncia della Corte costituzionale in regole di diritto positivo. Essa è, invece, diritto vigente, capace di valere per forza propria, in quanto derivante dalla Costituzione: la legge alla quale il giudice è soggetto per il principio di legalità nella giurisdizione ( art. 101 Cost. , comma 2) è quella che risulta dalla addizione del principio ad opera della sentenza di illegittimità costituzionale.

Per l'altro verso, il dialogo privilegiato che, con la citata sentenza, la Corte costituzionale instaura con il legislatore riguarda la introduzione, da parte di quest'ultimo, della disciplina generale e astratta attraverso l'esercizio della discrezionalità politica.

La riserva espressa della competenza del legislatore si riferisce, evidentemente, al piano della normazione primaria, al livello cioè delle fonti del diritto: come tale, essa non estromette il giudice comune, nel ruolo - costituzionalmente diverso da quello affidato al legislatore - di organo chiamato, non a produrre un quid novi sulla base di una libera scelta o a stabilire una disciplina di carattere generale, ma a individuare e dedurre la regola del caso singolo bisognoso di definizione dai testi normativi e dal sistema, di cui è parte anche il principio vincolante dichiarato dalla Corte costituzionale con la sentenza additiva, e così a ricercare, in chiave di effettività, nel momento applicativo, un punto di saldatura tra quel principio, i diritti dei soggetti coinvolti e le regole preesistenti.

Agli organi della giurisdizione il principio dichiarato dalla Corte nel dispositivo di accoglimento si rivolge, anche con la carica di specificazioni contenute nei criteri-guida in esso delineate, riguardanti il tipo di attività (interpello della madre ai fini di una eventuale libera revoca da parte della stessa della dichiarazione, a suo tempo resa, di voler restare anonima), chi la debba svolgere (il giudice), quando (su sollecitazione del figlio) e con quali modalità (rispettando l'assoluta riservatezza della donna); e ne orienta la necessaria opera di integrazione nella definizione del caso concreto sottoposto al loro esame.

Si tratta di una provvista di indicazioni che consente al giudice di assicurare, anche per il periodo transitorio, una situazione adeguata alla legalità costituzionale, dando ai soggetti coinvolti la possibilità concreta di esercitare i loro diritti fondamentali: alla madre, di eventualmente ritrattare, sul versante dei rapporti relativi alla genitorialità naturale, la scelta per l'anonimato, se è messa in condizione di cambiarla allorchè il figlio si dichiari interessato a conoscere le sue origini; al figlio, di accedere alle informazioni sulle sue origini e di definire così la sua identità naturale, con tutto ciò che sul piano personale questo può significare, sempre che la portatrice dell'interesse all'anonimato intenda revocare, per effetto di una scelta rimessa alla sua valutazione e alla sua coscienza, la dichiarazione iniziale.

8.2. - La soluzione che ritiene possibile, pur nel perdurante silenzio del legislatore, l'applicazione in sede giurisdizionale dell'interpello riservato della madre biologica anonima, trova sostegno nei principi elaborati dalla giurisprudenza costituzionale con riguardo alle sentenze additive a dispositivo generico.

La Corte costituzionale ha infatti chiarito, con la sentenza n. 295 del 1991, e ha successivamente ribadito, con la sentenza n. 74 del 1996, che "la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una omissione legislativa - com'è quella ravvisata nell'ipotesi di mancata previsione, da parte della norma di legge regolatrice di un diritto costituzionalmente garantito, di un meccanismo idoneo ad assicurare l'effettività di questo - mentre lascia al legislatore, riconoscendone l'innegabile competenza, di introdurre e di disciplinare anche tale meccanismo in via di normazione astratta, somministra essa stessa un principio cui il giudice comune è abilitato a fare riferimento per porre frattanto rimedio all'omissione in via di individuazione della regola del caso concreto".

Le additive di principio, infatti, sono pronunce tendenzialmente caratterizzate da una duplice funzione: da un lato, di orientamento del legislatore, nella necessaria attività consequenziale alla pronuncia, diretta a rimediare all'omissione incostituzionale; dall'altro, di guida del giudice nell'individuare, ove possibile, soluzioni applicative utilizzabili medio tempore, estraendo da quel principio, e dal quadro normativo generale esistente, la regola buona per il caso.

9. - L'immediata applicabilità della sentenza n. 278 del 2013 non trova neppure ostacoli nell'impossibilità concreta per il giudice di mutuare dall'ordinamento, in attesa dell'interpositio legislatoris, un meccanismo utile a garantire la tutela dei diritti nascenti dalla declaratoria di illegittimità costituzionale.

Il procedimento utilizzabile al fine di rendere l'additiva di principio suscettibile di seguito giurisdizionale conforme è quello "base", di volontaria giurisdizione, previsto dalla L. n. 184 del 1983, art. 2, commi 5 e 6, nel corso del quale è stata sollevata dal giudice a quo la questione di costituzionalità accolta dalla Corte costituzionale. Si tratta di un procedimento in camera di consiglio, che si svolge dinanzi al tribunale per i minorenni del luogo di residenza, dettato per la ricerca delle origini del figlio adottato, una volta che questi abbia raggiunto la maggiore età, nel caso in cui la madre non ha fatto la dichiarazione di anonimato. Questo procedimento camerale - previi i necessari adattamenti, necessari ad assicurare in termini rigorosi la riservatezza della madre, che si impongono in virtù delle indicazioni contenute nel principio esplicitato dalla sentenza di illegittimità costituzionale - ben può adattarsi al caso del figlio che richiede al giudice di autorizzare le ricerche e il successivo interpello della madre biologica circa la sua volontà di mantenere ancora fermo l'anonimato, e così rappresentare il "contenitore neutro" (cfr. Cass., Sez. U., 19 giugno 1996, n. 5629) di un'interrogazione riservata, esperibile una sola volta, con modalità pratiche nel concreto individuate dal giudice nel rispetto dei limiti imposti dalla natura dei diritti in gioco, reciprocamente implicati nei loro modi di realizzazione.

Le modalità del procedimento trovano un parametro di riferimento anche nell'art. 93 del codice in materia di protezione dei dati personali. Tale disposizione - consentendo in ogni tempo la comunicabilità delle informazioni "non identificative" ricavabili dal certificato di assistenza al parto o dalla cartella clinica, tuttavia ancorandola all'osservanza, ai fini della tutela della riservatezza della madre, delle relative "opportune cautele per evitare che quest'ultima sia identificabile" - detta un criterio utile per il giudice che, nel procedere all'interpello della madre, dovrà seguire modalità idonee a preservare la massima riservatezza e segretezza nel contattare la madre per verificare se intenda mantenere ferma la dichiarazione di anonimato o revocarla.

Un altro referente normativo utile ai fini della individuazione della regola del caso concreto è desumibile dal comma 6 del citato art. 28, il quale prevede che l'accesso per l'adottato alle notizie sulla sua origine e l'identità dei genitori biologici avvenga con modalità tali da evitare "turbamento all'equilibrio psico-fisico del richiedente". Si tratta di un'indicazione normativa che necessariamente vale per tutte le posizioni coinvolte nella vicenda, non solo per il figlio ma anche per la madre: il che impone che la ricerca e il contatto ai fini dell'interpello riservato siano gestiti con la massima prudenza ed il massimo rispetto, oltre che della libertà di autodeterminazione, della dignità della donna, tenendo conto della sua età, del suo stato di salute e della sua condizione personale e familiare.

10. - Il reperimento, in via giurisprudenziale, dal quadro normativo generale esistente e dal principio somministrato dalla Corte costituzionale, della regola del caso suscettibile di permettere un seguito integrativo dell'ordinamento lacunoso in attesa dell'intervento legislativo, deriva anche dalla necessità di ricercare una coerenza con la piena attuazione dei diritti di matrice convenzionale e di interpretare, in quest'ambito, il diritto interno in senso conforme alla CEDU e alle pronunce della Corte Europea.

Invero, il rispetto degli obblighi internazionali è uno strumento efficace della tutela dei diritti fondamentali nella singola fattispecie, e questa richiede una combinazione virtuosa di esperienze e di attribuzioni, di cui è parte l'obbligo che incombe sui giudici comuni di dare alle norme interne una lettura conforme ai precetti convenzionali (Corte cost., sentenze n. 311 e n. 317 del 2009), fermo il predominio assiologico della Costituzione sulla Convenzione Europea (Corte cost., sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 e n. 49 del 2015).

Ora, come si è ricordato retro, sub 7.2., proprio con riguardo alla disciplina della irreversibilità del segreto, con la sentenza Godelli la Corte Europea dei diritti dell'uomo ha condannato l'Italia per violazione dell'art. 8 della Convenzione, evidenziando che la nostra legislazione non stabiliva un bilanciamento fra il diritto della madre biologica all'anonimato e quello a conoscere la propria identità da parte del figlio adottato, caratterizzandosi per la mancanza assoluta di un equilibrio tra gli interessi in gioco, e in tal modo eccedeva dal margine di valutazione riconosciuto alla stregua del parametro convenzionale.

In questa prospettiva, il mancato sforzo ermeneutico diretto a cogliere nell'ordinamento, nell'attesa dell'intervento del legislatore, le condizioni di effettività e di operatività del principio formulato dalla sentenza additiva della Corte costituzionale, determinerebbe anche un deficit di tutela riguardo ad un diritto fondamentale riconosciuto dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo, risolvendosi nel mantenimento di una situazione di violazione analoga a quella constatata dalla CEDU, situazione che invece il giudice nazionale deve prevenire.

D'altra parte, diversamente opinando, e continuandosi a negare, in attesa di un meccanismo procedimentale stabilito per legge, la possibilità per il figlio di chiedere al giudice di interpellare riservatamente la madre anonima, si finirebbe con il non valorizzare, negli esiti applicativi, la spinta propulsiva che deriva dalla convergenza di fondo, pur nel diverso percorso argomentativo, tra il precedente della Corte di Strasburgo e l'esito dell'incidente di costituzionalità.

Infatti, quantunque la dichiarata illegittimità costituzionale sia dipesa dall'accertato contrasto con gli artt. 2 e 3 Cost. , con assorbimento del motivo di censura formulato in riferimento all'art. 117 Cost. , comma 1, dalla stessa motivazione della sentenza di incostituzionalità si ricava l'espresso riconoscimento non solo che la sentenza di Strasburgo "invita a riflettere" sul profilo "diacronico" della tutela assicurata al diritto all'anonimato della madre", ma anche che "l'eccessiva rigidità" della disciplina nazionale è censurata "sulla base degli stessi rilievi, in sostanza, formulati dalla Corte EDU".

11. - I protocolli in concreto seguiti da quei Tribunali per i minorenni che, dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 278 del 2013, hanno correttamente ritenuto di dare corso alla istanza del figlio di interpello della madre naturale per un'eventuale revoca della scelta di rimanere anonima fatta al momento del parto, dimostrano come le norme di riferimento, arricchite delle indicazioni contenute nell'addizione del principio, siano suscettibili di essere declinate in direzioni pratiche dell'attività e del procedimento, capaci di consentire che, nel terminale del momento applicativo, il contatto con la madre, rivolto a raccogliere un'insindacabile dichiarazione di volontà, avvenga con modalità non invasive e rispettose della sua dignità e, nello stesso tempo, cautelando in termini rigorosi il suo diritto alla riservatezza.

Così, un Tribunale per i minorenni, una volta ricevuto il ricorso del figlio, forma il relativo fascicolo, secretato sino alla conclusione del procedimento e anche oltre; alla luce della visione del fascicolo della vicenda che portò all'adozione, incarica la polizia giudiziaria di acquisire, presso l'ospedale di nascita, notizie utili alla individuazione della madre del ricorrente; ove la madre risulti in vita, incarica il servizio sociale del luogo di residenza di questa (per via consolare, in caso di residenza all'estero) di recapitare, esclusivamente a mani proprie dell'interessata, una lettera di convocazione per comunicazioni orali, indicando diverse date possibili nelle quali le comunicazioni verranno effettuate, presso la sede del servizio o, ove preferito, al domicilio di quest'ultima. Le linee guida di quel Tribunale prevedono inoltre che: ove la madre biologica, in sede di notificazione, chieda il motivo della convocazione, l'operatore del servizio sociale dovrà rispondere "non ne sono a conoscenza", osservando in ogni caso il più stretto segreto d'ufficio; il servizio notificante informa il giudice delle condizioni psico-fisiche della persona, in modo da consentire le cautele imposte dalla fattispecie; il colloquio avviene nel giorno e nel luogo scelto dall'interessata, tra quest'ultima - da sola, senza eventuali accompagnatori - e il giudice onorario minorile delegato dal giudice togato. A questo punto, secondo le direzioni pratiche, l'interessata viene messa al corrente dal giudice che il figlio che mise alla luce quel certo giorno ha espresso il desiderio di accedere ai propri dati di origine, e viene informata che ella può o meno disvelare la sua identità e può anche richiedere un termine di riflessione. Se la donna non dà il suo consenso al disvelamento, il giudice ne dà semplice riferimento scritto al Tribunale, senza formare alcun verbale e senza comunicare il nome del richiedente; se invece la persona dà il suo consenso, il giudice redige verbale, facendolo sottoscrivere alla persona interessata, solo allora rivelando a quest'ultima il nome del ricorrente.

Le linee guida di altri Tribunali per i minorenni prevedono la convocazione, da parte del giudice, del rappresentante dell'Ufficio provinciale della pubblica tutela, che consegna la busta chiusa contenente il nominativo della madre: il rappresentante dell'Ufficio della pubblica tutela viene fatto uscire dalla stanza; il giudice apre la busta e annota i dati della madre, inserendoli in altra busta, che chiude e sigilla, redigendo un verbale dell'operazione; la prima busta viene nuovamente sigillata e, siglata dal giudice con annotazione dell'operazione compiuta, viene riconsegnata al rappresentante dell'Ufficio, a questo punto fatto rientrare e congedato. Tramite l'Ufficio dell'anagrafe, il giudice verifica la permanenza in vita della madre e individua il luogo di residenza. Il fascicolo rimane nell'esclusiva disponibilità del giudice ed è indisponibile per il ricorrente, che non potrà compulsarlo, essendo abilitato soltanto a estrarre copia del suo ricorso. Ove la madre sia individuata, il giudice, avuta nozione delle caratteristiche del suo luogo di residenza, considerando le caratteristiche personali, sociali, cognitive della donna, prende contatto telefonico con il soggetto ritenuto più idoneo nel caso concreto (responsabile del servizio sociale o comandante della stazione dei carabinieri), senza comunicare il motivo del contatto e chiedendo solo di verificare la possibilità di un colloquio con la madre in termini di assoluto riserbo. Solo ove sia concretamente possibile l'interpello in termini di assoluta riservatezza, viene delegato il responsabile del servizio sociale (ovvero un giudice perchè si rechi in loco) al contatto della madre e alla manifestazione a questa della pendenza del ricorso da parte del figlio. Il responsabile del servizio o il giudice raccolgono a verbale la determinazione della madre, di conferma ovvero di revoca dell'anonimato; solo ove la madre revochi la originaria opzione per l'anonimato, il ricorso, sussistendo le altre condizioni di cui alla L. n. 184 del 1983, art. 28, viene accolto, e il ricorrente accede al nominativo materno.

12. - L'ammissibilità dello sviluppo di un seguito giurisprudenziale conforme al principio formulato nell'addizione e l'esclusione di qualsiasi carattere "infungibile" dell'intervento del legislatore sono confermate - come correttamente rilevato dal Procuratore generale nella memoria depositata in prossimità dell'udienza - dall'orientamento nel frattempo formatasi nella 1 Sezione civile di questa Corte.

Occupandosi del caso della morte della genitrice biologica che aveva scelto il segreto al momento della nascita, questa Corte ha infatti affermato, con la sentenza 21 luglio 2016, n. 15024, che sussiste il diritto del figlio, dopo la morte della madre, di conoscere le proprie origini biologiche mediante accesso alle informazioni relative all'identità personale della stessa, non potendosi considerare operativo, oltre il limite della vita della madre che ha partorito in anonimo, il termine di cento anni, dalla formazione del documento, per il rilascio della copia integrale del certificato di assistenza al parto o della cartella clinica, comprensivi dei dati personali che rendono identificabile la madre, sul rilievo che ciò determinerebbe la cristallizzazione di tale scelta anche dopo la sua morte e la definitiva perdita del diritto fondamentale del figlio, in evidente contrasto con la necessaria reversibilità del segreto e l'affievolimento, se non la scomparsa, di quelle ragioni di protezione che l'ordinamento ha ritenuto meritevoli di tutela per tutto il corso della vita della madre, proprio in ragione della revocabilità di tale scelta.

E, con la successiva sentenza 9 novembre 2016, n. 22838, ha ribadito che il diritto dell'adottato, nato da donna che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ad accedere alle informazioni concernenti la propria origine e l'identità della madre biologica, sussiste e può essere concretamente esercitato anche se la stessa sia morta e non sia possibile procedere alla verifica della perdurante attualità della scelta di conservare il segreto, non rilevando in senso ostativo il mancato decorso del termine di cento anni dalla formazione del certificato di assistenza al parto o della cartella clinica, di cui all'art. 93 del codice in materia di protezione dei dati personali, salvo il trattamento lecito e non lesivo dei diritti dei terzi dei dati personali conosciuti.

Nel riconoscere il diritto dell'adottato ad accedere a informazioni sulle proprie origini anche nel caso in cui non sia più possibile procedere all'interpello della madre naturale per morte della stessa, entrambe le pronunce mostrano di ritenere che già adesso il figlio nato da parto anonimo possa chiedere l'interpello della madre sulla reversibilità della scelta, e che la sentenza di costituzionalità abbia prodotto l'ulteriore effetto di sistema di rendere flessibile il rigore dello sbarramento temporale contenuto nel citato art. 93.

13. - In conclusione, sulla richiesta del Procuratore generale ai sensi dell'art. 363 c.p.c. , comma 1, le Sezioni Unite deliberano di enunciare il seguente principio di diritto nell'interesse della legge: "In tema di parto anonimo, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 278 del 2013, ancorchè il legislatore non abbia ancora introdotto la disciplina procedimentale attuativa, sussiste la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio desideroso di conoscere le proprie origini e di accedere alla propria storia parentale, di interpellare la madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione, e ciò con modalità procedimentali, tratte dal quadro normativo e dal principio somministrato dalla Corte costituzionale, idonee ad assicurare la massima riservatezza e il massimo rispetto della dignità della donna; fermo restando che il diritto del figlio trova un limite insuperabile allorchè la dichiarazione iniziale per l'anonimato non sia rimossa in seguito all'interpello e persista il diniego della madre di svelare la propria identità".

P.Q.M.

La Corte enuncia, ai sensi dell'art. 363 c.p.c. , comma 1, il seguente principio di diritto nell'interesse della legge: "In tema di parto anonimo, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 278 del 2013, ancorchè il legislatore non abbia ancora introdotto la disciplina procedimentale attuativa, sussiste la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio desideroso di conoscere le proprie origini e di accedere alla propria storia parentale, di interpellare la madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione, e ciò con modalità procedimentali, tratte dal quadro normativo e dal principio somministrato dalla Corte costituzionale, idonee ad assicurare la massima riservatezza e il massimo rispetto della dignità della donna; fermo restando che il diritto del figlio trova un limite insuperabile allorchè la dichiarazione iniziale per l'anonimato non sia rimossa in seguito all'interpello e persista il diniego della madre di svelare la propria identità".

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 20 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 25 gennaio 2017

 

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